CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ATHANASIOS RANTOS

presentate il 25 febbraio 2021 ( 1 )

Cause riunite C‑804/18 e C‑341/19

IX

contro

WABE eV

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo, Germania)]

e

MH Müller Handels GmbH

contro

MJ

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro, Germania)]

«Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Articolo 2, paragrafo 2 – Discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali – Norme interne di imprese che vietano ai lavoratori di indossare segni visibili, o vistosi e di grandi dimensioni, di natura politica, ideologica o religiosa sul luogo di lavoro – Discriminazione diretta – Insussistenza – Discriminazione indiretta – Divieto imposto a una lavoratrice di indossare un velo islamico – Desiderio dei clienti che l’impresa persegua una politica di neutralità – Ammissibilità dell’uso di segni visibili di piccole dimensioni – Articolo 8, paragrafo 1 – Disposizioni nazionali più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento – Libertà di religione ai sensi dell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione»

I. Introduzione

1.

Negli ultimi tempi la Corte è adita con questioni pregiudiziali relative alla religione o alle convinzioni personali, in riferimento al rispetto dei riti religiosi ( 2 ), in materia di sanità ( 3 ) o nel settore della protezione internazionale ( 4 ).

2.

Tali questioni riguardano anche l’applicazione del principio di non discriminazione per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, che forma oggetto della direttiva 2000/78/CE ( 5 ). In particolare, la Corte si è pronunciata, nelle sentenze G4S Secure Solutions ( 6 ) e Bougnaoui e ADDH ( 7 ), sulla sussistenza di una discriminazione fondata sulla religione ( 8 ), ai sensi di detta direttiva, nel caso del divieto imposto a dipendenti di un’impresa privata di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro.

3.

Le presenti cause riunite si inseriscono direttamente nel solco delle due sentenze suddette e hanno ad oggetto, in particolare, la nozione di «discriminazione indiretta», ai sensi della menzionata direttiva, nonché l’articolazione tra il diritto dell’Unione europea e il diritto degli Stati membri per quanto concerne la tutela della libertà di religione.

4.

A tale proposito, ritengo che la Corte debba cercare un equilibrio tra un’interpretazione uniforme del principio di non discriminazione, nel contesto dell’applicazione della direttiva 2000/78, e l’esigenza di lasciare un margine di discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità dei loro approcci al ruolo della religione in una società democratica.

II. Contesto normativo

A.   Diritto dell’Unione

5.

Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2000/78, intitolato «Obiettivo»:

«La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

6.

L’articolo 2 di detta direttiva, intitolato «Nozione di discriminazione», enuncia quanto segue:

«1.   Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2.   Ai fini del paragrafo 1:

a)

sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b)

sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i)

tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (...)

(...)».

7.

L’articolo 3 della suddetta direttiva, intitolato «Campo d’applicazione», prevede, al paragrafo 1, quanto segue:

«Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

(...)

c)

all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

(...)».

8.

L’articolo 4 della medesima direttiva, intitolato «Requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa», dispone, al paragrafo 1, quanto segue:

«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

9.

L’articolo 8 della direttiva 2000/78, intitolato «Requisiti minimi», così recita al paragrafo 1:

«Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente direttiva».

B.   Diritto tedesco

1. Il GG

10.

Ai sensi dell’articolo 4 del Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland (legge fondamentale della Repubblica federale di Germania) del 23 maggio 1949 (BGBl. 1949 I, pag. 1), nel testo applicabile ai fatti del procedimento principale (in prosieguo: il «GG»):

«1.   La libertà di fede e di coscienza e la libertà di confessione religiosa e ideologica sono inviolabili.

2.   È garantito il libero esercizio del culto.

(...)».

11.

L’articolo 6, paragrafo 2, del GG enuncia quanto segue:

«La cura e l’educazione dei figli sono un diritto naturale dei genitori e il primo dovere che su di loro incombe. La comunità statale vigila sulla loro attuazione».

12.

L’articolo 7 del GG così prevede:

«1.   L’intero sistema scolastico è soggetto al controllo statale.

2.   I titolari della responsabilità genitoriale hanno diritto di decidere sulla partecipazione del figlio alle lezioni di religione.

3.   Nelle scuole pubbliche, ad eccezione delle scuole laiche, la religione è materia ordinaria di insegnamento. Salvo il diritto di controllo dello Stato, le lezioni di religione sono impartite in conformità ai principi delle comunità religiose. Nessun insegnante può essere costretto a impartire le lezioni di religione contro la sua volontà.

(...)».

13.

L’articolo 12, paragrafo 1, del GG dispone quanto segue:

«Tutti i tedeschi hanno il diritto di scegliere liberamente la professione, il luogo e le sedi di lavoro e la formazione. L’esercizio della professione può essere regolato per legge o in base a una legge».

2. L’AGG

14.

Ai sensi dell’articolo 1 dell’Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz (legge generale sulla parità di trattamento), del 14 agosto 2006 (BGBl. I, pag. 1897; in prosieguo: l’«AGG»), che è inteso a trasporre nel diritto tedesco la direttiva 2000/78:

«L’obiettivo della presente legge è la prevenzione o l’eliminazione di qualsiasi discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, il sesso, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».

15.

L’articolo 3 dell’AGG enuncia quanto segue:

«1.   Sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Con riferimento alle ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 1, numeri da 1 a 4, sussiste discriminazione diretta fondata sul sesso anche quando una donna è trattata meno favorevolmente a causa della gravidanza o della maternità.

2.   Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio alcune persone rispetto ad altre, sulla base di uno dei motivi indicati all’articolo 1, a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

(...)».

16.

L’articolo 7 dell’AGG prevede quanto segue:

«1.   I lavoratori non devono essere soggetti a discriminazione per alcuno dei motivi elencati all’articolo 1; ciò vale anche quando l’autore della discriminazione si limiti a supporre la presenza di uno dei motivi di cui all’articolo 1 nell’ambito del fatto discriminatorio.

2.   Le disposizioni degli accordi che violano il divieto di discriminazione ai sensi del paragrafo 1 sono inefficaci.

3.   Una discriminazione ai sensi del paragrafo 1 da parte del datore di lavoro o del lavoratore costituisce violazione dei doveri contrattuali».

3. Gewerbeordnung

17.

L’articolo 106 del Gewerbeordnung (codice tedesco relativo all’esercizio delle professioni industriali, commerciali e artigianali), nel testo applicabile ai fatti del procedimento principale, dispone quanto segue:

«Il datore di lavoro può precisare il contenuto, il luogo e l’orario della prestazione lavorativa, a sua ragionevole discrezione, nei limiti in cui tali condizioni di lavoro non siano definite dal contratto di lavoro, dalle disposizioni di un accordo aziendale o di un contratto collettivo oppure dalla legge. Ciò trova applicazione anche per quanto riguarda la disciplina e il comportamento dei lavoratori durante il servizio. Nell’esercizio di tale discrezione il datore di lavoro deve tenere in considerazione anche eventuali handicap del lavoratore».

III. Procedimenti principali, questioni pregiudiziali e procedimenti dinanzi alla Corte

A.   Causa C‑804/18

18.

La WABE, un’associazione di pubblica utilità, gestisce centri giornalieri per l’infanzia con oltre 600 addetti e circa 3500 bambini seguiti. Essa è apartitica e aconfessionale. Sul suo sito Internet, la WABE ha indicato quanto segue in tema di «diversità e fiducia»:

«Che si tratti di sesso, origine, cultura, religione o necessità specifiche, siamo convinti che la diversità arricchisca. Con apertura e curiosità impariamo a comprenderci l’un l’altro e a rispettare le differenze. Poiché da noi tutti i bambini e tutti i genitori sono i benvenuti, creiamo un’atmosfera in cui si sviluppano intimità, appartenenza e fiducia, ossia il fondamento di un sano sviluppo individuale e di una socialità serena».

19.

Nel suo lavoro quotidiano la WABE indica di condividere totalmente le raccomandazioni della città di Amburgo (Germania) per la formazione e l’educazione dei bambini nelle strutture giornaliere, pubblicate a marzo 2012. Secondo tali raccomandazioni:

«Tutti i centri giornalieri per l’infanzia hanno il compito di affrontare e rendere comprensibili le questioni etiche fondamentali nonché le convinzioni religiose e di altro tipo, quali elementi della vita. Gli asili danno, dunque, la possibilità ai bambini di confrontarsi con le questioni esistenziali relative alla gioia e al dolore, alla salute e alla malattia, alla giustizia e all’ingiustizia, alla colpa e all’insuccesso, alla pace e al conflitto, così come con la questione di Dio. Essi aiutano i bambini a esternare sensibilità e convinzioni su tali questioni. La possibilità di affrontare dette questioni con curiosità e spirito di ricerca conduce a confrontarsi con i contenuti e le tradizioni degli orientamenti religiosi e culturali presenti nel gruppo dei bambini. In questo modo si sviluppano considerazione e rispetto per le altre religioni, culture e convinzioni personali. Tale confronto rafforza l’auto‑consapevolezza del bambino e la sua esperienza di una società funzionale. È parte di ciò anche far conoscere ai bambini, nel corso dell’anno, le feste di origine religiosa e far sì che essi le organizzino in modo attivo. Nell’incontro con altre religioni i bambini imparano a conoscere diverse forme di raccoglimento, di fede e di spiritualità».

20.

IX è educatrice specializzata e dal 1o luglio 2014 lavora presso la WABE. Dal 15 ottobre 2016 al 30 maggio 2018 ha usufruito di un congedo parentale. Essendo di fede musulmana, all’inizio del 2016 IX decideva di indossare il velo islamico.

21.

Il 12 marzo 2018, durante il congedo parentale di IX, la WABE emanava l’«Istruzione di servizio per il rispetto del principio di neutralità» (in prosieguo: l’«istruzione di servizio»), che veniva resa nota a IX il 31 maggio 2018. Tale istruzione prevedeva, in particolare, quanto segue:

«WABE è aconfessionale e accoglie espressamente con favore la pluralità religiosa e culturale. Al fine di garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini per quanto riguarda la religione, le convinzioni personali e la politica, i collaboratori di WABE sono esortati a rispettare rigorosamente l’obbligo di neutralità vigente nei confronti di genitori, bambini e altri terzi. Rispetto a essi WABE persegue una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa. In tale contesto le regole che seguono devono intendersi come principi per il concreto rispetto dell’obbligo di neutralità sul luogo di lavoro.

Sul luogo di lavoro i collaboratori non possono fare nessuna esternazione di tipo politico, ideologico o religioso nei confronti di genitori, bambini o terzi.

Sul luogo di lavoro, alla presenza di genitori, bambini o terzi, i collaboratori non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni politiche, personali o religiose.

Sul luogo di lavoro i collaboratori non possono compiere nessun rito derivante da dette convinzioni alla presenza di genitori, bambini o terzi.

(…)».

22.

Nella «Scheda informativa sull’obbligo di neutralità» redatta dalla WABE si legge quanto segue in risposta alla questione se possano essere indossati il crocifisso cristiano, il velo musulmano o la kippah ebraica:

«No, non è permesso perché i bambini non devono essere influenzati dagli educatori per quanto riguarda la religione. La scelta volontaria di un abbigliamento determinato dalla religione o dalle convinzioni personali è contraria all’obbligo di neutralità».

23.

Le istruzioni in tema di obbligo di neutralità non sono applicabili agli addetti della WABE che lavorano nella sede centrale, con l’eccezione dell’ambito della consulenza pedagogica, ove questi ultimi non hanno contatti con i clienti.

24.

Il 1o giugno 2018, giorno in cui aveva ripreso il lavoro dopo il congedo parentale, veniva chiesto a IX di togliere il velo, che copriva completamente i capelli. Ella rifiutava di farlo. A seguito di tale episodio veniva temporaneamente sospesa dal lavoro dalla direttrice dell’asilo. Il 4 giugno 2018 IX si presentava di nuovo al lavoro indossando il velo. Le veniva quindi consegnato un avvertimento scritto di stessa data, con cui le veniva contestato il fatto di avere indossato il velo il 1o giugno 2018 ed ella veniva esortata, facendo riferimento all’obbligo di neutralità, a svolgere in futuro il proprio lavoro senza velo. Dal momento che anche il 4 giugno 2018 IX aveva rifiutato di togliere il velo, veniva di nuovo rimandata a casa e temporaneamente sospesa dal lavoro. Ella riceveva un ulteriore avvertimento scritto alla medesima data. Successivamente, la WABE riusciva a far togliere il crocifisso a una lavoratrice che lo indossava come ciondolo.

25.

IX impugnava dinanzi all’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo, Germania) la decisione della WABE di emettere gli avvertimenti del 4 giugno 2018.

26.

Il giudice del rinvio rileva che, nella sentenza G4S Secure Solutions, la Corte ha stabilito che una norma interna, come l’istruzione di servizio, non istituisce una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, poiché la norma viene applicata in modo uguale a tutti i lavoratori. Il giudice del rinvio ritiene, nondimeno, che sussista una discriminazione diretta ogni qualvolta una regola sia direttamente connessa a una determinata caratteristica tutelata dall’articolo 1 di tale direttiva. Decisivo per la sussistenza di una siffatta discriminazione diretta sarebbe, dunque, il fatto che la persona interessata abbia subito un pregiudizio in collegamento diretto con la caratteristica protetta costituita dalla religione.

27.

Il ricorso di IX dovrebbe pertanto essere accolto in quanto la sua attività di educatrice non impone, quale requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, di non indossare il velo sul lavoro. Il giudice del rinvio ritiene, tuttavia, che osti a una sua decisione di accoglimento la motivazione della sentenza G4S Secure Solutions, la quale è variamente interpretabile.

28.

Inoltre, il Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale, Germania) richiederebbe, ai fini della limitazione del diritto fondamentale di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del GG, oltre alla sussistenza di una finalità legittima, che dall’esternazione religiosa derivi un pericolo sufficientemente concreto per beni giuridici di rango costituzionale. Il giudice del rinvio indica che, a suo avviso, in considerazione dell’importanza del diritto fondamentale alla libertà di religione e al principio di proporzionalità di cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), non è sufficiente che il datore di lavoro manifesti la volontà di presentarsi ai suoi clienti in modo neutro, senza che debba subire un danno economico in ragione dell’assenza di neutralità, perché il suo diritto derivante dall’articolo 16 della Carta, relativo alla libertà di impresa, prevalga rispetto alla libertà di religione. Detto giudice afferma che tale interpretazione è confermata dalla sentenza Bougnaoui e ADDH, in cui la Corte ha statuito che la volontà di un datore di lavoro di tenere conto del desiderio di un cliente che i servizi di detto datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossi il velo islamico non può essere considerato un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

29.

Il giudice del rinvio ritiene tuttavia che l’interpretazione dell’articolo 16 della Carta fornita dalla Corte nelle sentenze G4S Secure Solutions e Bougnaoui e ADDH, secondo cui la volontà del datore di lavoro relativa alla neutralità religiosa dei suoi dipendenti sarebbe, di per sé, sufficiente a giustificare oggettivamente una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione, nei limiti in cui tale differenza di trattamento sia appropriata e necessaria, gli impedisca di accogliere il ricorso di IX. Secondo detto giudice, la WABE non ha dimostrato in maniera sufficiente la sussistenza di perdite economiche o di una concreta messa in pericolo di beni giuridici di terzi che potrebbero giustificare una decisione di rigetto del ricorso di IX anche ai sensi dell’articolo 4 del GG.

30.

In tali circostanze, l’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)

Se un’istruzione unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini i lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi di coprirsi, in modo diretto e a causa della loro religione, ai sensi dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, lettera a), della direttiva [2000/78].

2)

Se un’istruzione unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini una lavoratrice che indossa il velo in ragione della sua fede musulmana, in modo indiretto e a causa della religione e/o del sesso, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.

In particolare:

a)

Se, ai sensi della direttiva 2000/78, una discriminazione [indiretta] fondata sulla religione e/o sul sesso possa essere giustificata anche dalla volontà soggettiva del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa, qualora in tal modo il datore di lavoro intenda tener conto dei desideri dei suoi clienti e delle sue clienti.

b)

Se la direttiva 2000/78 e/o il diritto fondamentale di libertà d’impresa ai sensi dell’articolo 16 della [Carta] ostino, alla luce dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, a una disciplina nazionale secondo la quale, a tutela del diritto fondamentale di libertà di religione, il divieto di indumenti religiosi possa essere giustificato non già in base all’idoneità astratta a mettere a rischio la neutralità del datore di lavoro, bensì solo in ragione di un pericolo sufficientemente concreto, e in particolare di una minaccia concreta di un danno economico per il datore di lavoro o un terzo interessato».

31.

Hanno presentato osservazioni scritte IX, la WABE, i governi polacco e svedese nonché la Commissione europea.

B.   Causa C‑341/19

32.

La MH Müller Handels gestisce una catena di drogherie in Germania. MJ, di fede musulmana, è alle dipendenze di tale impresa dal 2002 in qualità di consulente di vendita e cassiera. Al suo ritorno dal congedo parentale nel 2014, diversamente da quanto accaduto in precedenza, ella indossava un velo islamico e rifiutava di dare seguito alla richiesta del suo datore di lavoro di rimuoverlo sul posto di lavoro. Non le veniva assegnata alcuna occupazione. Successivamente le veniva affidato un incarico diverso, per il quale non doveva rimuovere il velo. Il 21 giugno 2016 le veniva chiesto di rimuovere il velo. In seguito al suo rifiuto, veniva lasciata a casa. Nel luglio 2016 riceveva un’istruzione con cui le si chiedeva di presentarsi al lavoro priva di segni vistosi e di grandi dimensioni di natura politica, religiosa e di altre convinzioni ideologiche (in prosieguo: l’«istruzione controversa»).

33.

MJ tentava di far dichiarare inefficace l’istruzione controversa e chiedeva, inoltre, una remunerazione. Ella affermava di indossare il velo islamico unicamente per adempiere un precetto religioso e di ritenere che l’obbligo islamico di indossare un velo fosse imperativo. Contestava l’applicabilità dell’istruzione controversa all’interno dell’impresa, ritenendo di poter invocare la libertà di religione tutelata dal diritto costituzionale tedesco. A suo avviso, la politica di neutralità, basata sulla libertà d’impresa, non avrebbe una priorità assoluta sulla libertà di religione e si dovrebbe effettuare un esame di proporzionalità. A tale proposito, il diritto dell’Unione fisserebbe solo requisiti minimi.

34.

La MH Müller Handels ha sostenuto che l’istruzione controversa è legittima, affermando di avere sempre applicato un codice di abbigliamento in base al quale, tra l’altro, non poteva essere indossato sul posto di lavoro alcun tipo di copricapo. A partire dal luglio 2016, tutti i suoi negozi sarebbero soggetti alla norma che vieta di indossare sul posto di lavoro segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, ideologiche o religiose. L’obiettivo della MH Müller Handels sarebbe quello di preservare la neutralità all’interno dell’impresa, in particolare al fine di evitare conflitti tra i dipendenti. Vi sarebbero già stati in passato casi di conflitto derivanti da differenze di religione e di cultura. La MH Müller Handels sostiene che non è necessario, affinché un’impresa possa vietare ai propri dipendenti di dimostrare la loro fede sul posto di lavoro, la sussistenza di svantaggi economici e la mancanza di clientela.

35.

I giudici nazionali aditi hanno accolto il ricorso proposto da MJ contro l’istruzione controversa. Con la sua impugnazione in Revision dinanzi al Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro, Germania), che è stata autorizzata, la MH Müller Handels ha concluso per il rigetto del suddetto ricorso.

36.

Il giudice del rinvio rileva che, alla luce delle sentenze G4S Secure Solutions e Bougnaoui e ADDH, la disparità di trattamento lamentata da MJ non può costituire una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 e che, nella fattispecie, si tratta di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva. Detto giudice afferma di muovere dal principio secondo cui la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa riconosciuta dall’articolo 16 della Carta e costituisce quindi un obiettivo legittimo. Esso nutre dubbi riguardo alla questione se solo un divieto assoluto che includa qualsiasi forma visibile di manifestazione religiosa sia idoneo ad assicurare l’obiettivo di una politica di neutralità dell’impresa o se sia sufficiente a tal fine un divieto limitato a segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, ideologiche e religiose sul luogo di lavoro, a condizione che tale politica sia applicata in modo coerente e sistematico.

37.

Inoltre, il giudice del rinvio si chiede se, nel valutare il carattere appropriato dei mezzi per conseguire l’obiettivo della neutralità, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78, possa effettuare una ponderazione degli interessi contrapposti, vale a dire, da un lato, l’articolo 16 della Carta e, dall’altro, l’articolo 10 della Carta nonché l’articolo 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), relativi alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, o se quest’ultima debba applicarsi solo quando la norma interna viene applicata nel caso singolo, ad esempio nell’ipotesi di un’istruzione a un lavoratore o di un avviso di licenziamento.

38.

Il giudice del rinvio si interroga inoltre sulla questione se il diritto costituzionale nazionale, in particolare la libertà di religione e di credo tutelata dall’articolo 4, paragrafi 1 e 2, del GG, possa costituire una normativa più favorevole ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

39.

Infine, detto giudice chiede se il diritto dell’Unione, nella fattispecie l’articolo 16 della Carta, osti all’inclusione di diritti fondamentali nazionali nella determinazione della validità o meno di un’istruzione adottata dal datore di lavoro al fine di perseguire una politica di neutralità.

40.

In tali circostanze, il Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)

Se un’accertata disparità di trattamento indiretta fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78], derivante da una norma interna di un’impresa privata, possa essere considerata ragionevolmente giustificata solo qualora tale norma vieti di indossare qualsiasi segno visibile e non solo segni vistosi e ampi di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.

2)

In caso di soluzione negativa della prima questione:

a)

Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78] debba essere interpretato nel senso che i diritti di cui all’articolo 10 della [Carta] e all’articolo 9 della CEDU possano essere tenuti in considerazione per stabilire se un’accertata disparità di trattamento indiretta, fondata sulla religione, sia ragionevolmente giustificata sulla base di una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare segni vistosi e ampi di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.

b)

Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78] debba essere interpretato nel senso che le norme nazionali di rango costituzionale che tutelano la libertà di religione possano essere considerate disposizioni più favorevoli ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva [2000/78], per stabilire se un’accertata disparità di trattamento indiretta, fondata sulla religione, sia ragionevolmente giustificata sulla base di una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare segni vistosi e ampi di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.

3)

In caso di soluzione negativa della seconda questione, sub a) e b):

Se, quando si esamina un’istruzione basata su una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare segni vistosi e ampi di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico, le disposizioni nazionali di rango costituzionale che tutelano la libertà di religione debbano essere disapplicate a causa del diritto primario dell’Unione, anche se quest’ultimo, ad esempio l’articolo 16 della Carta, riconosce le leggi e le prassi nazionali».

41.

Hanno presentato osservazioni scritte la MH Müller Handels, MJ, i governi ellenico, polacco e svedese, nonché Commissione.

42.

All’udienza congiunta per le cause C‑804/18 e C‑341/19 tenutasi il 24 novembre 2020 hanno presentato osservazioni orali IX, la WABE, la MH Müller Handels, MJ, nonché la Commissione.

IV. Analisi

A.   Sulla prima questione nella causa C‑804/18

43.

Con la prima questione nella causa C‑804/18, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, ideologiche o religiose, che deriva da una norma interna di un’impresa privata, costituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta disposizione, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi che impongono di coprirsi.

44.

A termini dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 di tale direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), di quest’ultima precisa che, ai fini del paragrafo 1, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 di detta direttiva, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia un’altra in una situazione analoga.

45.

Il giudice del rinvio, pur richiamando la sentenza G4S Secure Solutions, ritiene che il procedimento principale verta su una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, in quanto il trattamento sfavorevole subito da IX, attraverso un avvertimento scritto per avere indossato un velo islamico sul posto di lavoro, riguarda una caratteristica specifica di cui all’articolo 1 di tale direttiva, nella fattispecie la religione.

46.

Comprendo perfettamente che si possano sviluppare approcci diversi riguardo all’esistenza e alla qualificazione di una discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali per quanto riguarda l’uso di simboli religiosi sul luogo di lavoro. Ad esempio, l’avvocato generale Kokott, nelle conclusioni relative alla causa G4S Secure Solutions ( 9 ), e l’avvocato generale Sharpston, nelle conclusioni relative alla causa Bougnaoui e ADDH ( 10 ), hanno espresso punti di vista diversi sul divieto imposto a una lavoratrice di indossare un velo islamico.

47.

Tuttavia, rilevo che, nella causa che ha dato luogo alla sentenza G4S Secure Solutions, la Corte è stata espressamente interrogata in merito alla sussistenza di una discriminazione diretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, nel caso del divieto di indossare sul posto di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

48.

A tale proposito, ai punti da 30 a 32 di tale sentenza, la Corte ha dichiarato che la norma interna di cui si trattava in detta causa ( 11 ) si riferiva al fatto di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose e riguardava quindi qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna; che, pertanto, detta norma trattava in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che ostava al fatto di indossare tali segni e che, a tale riguardo, dagli elementi del fascicolo di cui disponeva la Corte non risultava che l’applicazione della norma interna in questione fosse stata diversa dall’applicazione della medesima norma a qualsiasi altro dipendente. La Corte ne ha tratto la conclusione che una norma interna come quella di cui si trattava in detta causa non istituiva una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

49.

Nella sentenza Cresco Investigation ( 12 ), la Corte ha confermato questo approccio, precisando che la normativa di cui a tale causa, relativa alla concessione a taluni lavoratori di un giorno di ferie il Venerdì santo, istituiva una differenza di trattamento fondata direttamente sulla religione dei lavoratori, in quanto il criterio di differenziazione cui ricorreva detta normativa derivava direttamente dall’appartenenza dei lavoratori a una determinata religione.

50.

Da tale giurisprudenza risulta che sussiste una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 quando una normativa nazionale stabilisca che un lavoratore sia trattato meno favorevolmente a seconda che appartenga ad una religione piuttosto che a un’altra. Una norma interna che si applichi a qualsiasi manifestazione di convinzioni politiche, ideologiche o religiose dei lavoratori, in modo generale e indifferenziato, non determina una discriminazione diretta ai sensi della menzionata disposizione.

51.

Nel caso di specie, l’istruzione di servizio, riprodotta supra al paragrafo 21, enuncia, tra l’altro, che sul luogo di lavoro, alla presenza di genitori, bambini o terzi, i collaboratori della WABE non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni politiche, ideologiche o religiose.

52.

Tale istruzione si applica quindi indistintamente a qualsiasi manifestazione di convinzioni politiche, ideologiche o religiose dei lavoratori nei rapporti con i clienti dell’impresa. Esse non costituiscono una misura specificamente diretta contro le lavoratrici di religione musulmana che intendano indossare un velo islamico, anche se, evidentemente, queste ultime sono interessate dal divieto di qualsiasi segno visibile delle loro convinzioni politiche, ideologiche o religiose, allo stesso modo dei lavoratori di un’altra confessione, non religiosi o atei ( 13 ). Pertanto, detta istruzione non sembra determinare nei confronti di un lavoratore un trattamento meno favorevole direttamente e specificamente connesso alla sua religione o alle sue convinzioni personali.

53.

Spetta al giudice del rinvio verificare se l’istruzione di servizio sia attuata nel modo in cui è formulata, vale a dire se la sua applicazione alla lavoratrice interessata non sia diversa dall’applicazione a qualsiasi altro lavoratore ( 14 ). In caso affermativo, ritengo che la giurisprudenza della Corte risultante dalle sentenze G4S Secure Solutions e Cresco Investigation ( 15 ) induca a considerare che una norma interna di un’impresa privata quale l’istruzione di servizio non instauri una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78. Non ravviso alcun motivo per cui la Corte dovrebbe modificare la sua interpretazione, resa recentemente dalla Grande Sezione, sebbene tale interpretazione abbia suscitato critiche ( 16 ), come quelle espresse dal giudice del rinvio, secondo cui l’istruzione di servizio stabilisce una discriminazione diretta ai sensi della suddetta disposizione.

54.

Inoltre, ritengo che la circostanza, evocata nella prima questione pregiudiziale, che i lavoratori interessati osservino determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi che impongono di coprirsi, non sia tale da condurre ad una conclusione diversa riguardo all’assenza di discriminazione diretta. Infatti, la sussistenza di una discriminazione siffatta deve essere esaminata con una valutazione oggettiva, consistente nel verificare se i dipendenti dell’impresa siano trattati allo stesso modo, e non sulla base di considerazioni soggettive proprie a ognuno di essi.

55.

Aggiungo che condivido pienamente l’interpretazione adottata dalla Corte nella sentenza G4S Secure Solutions. Infatti, a mio avviso, una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 non può verificarsi quando tutte le religioni o convinzioni personali siano considerate allo stesso modo dalla norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, ideologiche o religiose.

56.

Tale giurisprudenza non implica che una discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali non possa essere constatata in una situazione, come quella del procedimento principale, in cui è fatto divieto a una lavoratrice di indossare un velo islamico. Tuttavia, occorre ulteriormente esaminare se sussista o meno una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, esame che sarà svolto nel prosieguo in risposta alle altre questioni pregiudiziali.

57.

Pertanto, propongo di rispondere alla prima questione posta nella causa C‑804/18 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile relativo alle convinzioni politiche, ideologiche o religiose, derivante da una norma interna di un’impresa privata, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta disposizione, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi che impongono di coprirsi.

B.   Sulla seconda questione, sub a), nella causa C‑804/18

58.

Con la seconda questione, sub a), nella causa C‑804/18, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale disposizione, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa sul luogo di lavoro, al fine di tenere conto dei desideri dei suoi clienti.

59.

In via preliminare, rilevo che, nella seconda questione, il giudice del rinvio ha menzionato la discriminazione indiretta fondata sul sesso. Tuttavia, da un lato, siffatta discriminazione non forma oggetto della direttiva 2000/78 ( 17 ), che è l’unico atto giuridico richiamato in tale questione. Dall’altro, sono dell’avviso che la decisione di rinvio non contenga elementi di fatto sufficienti per esaminare se sussista o meno una discriminazione fondata sul sesso in un procedimento come quello principale. Di conseguenza, nel prosieguo esaminerò detta questione solo nella misura in cui riguarda la discriminazione indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.

60.

Per quanto riguarda l’applicazione di tale disposizione, ritengo utile ricordare che, nella sentenza G4S Secure Solutions, la Corte ha dichiarato che una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro può costituire una discriminazione diretta, ai sensi di detta disposizione, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

61.

Alla luce di tali considerazioni, spetta al giudice del rinvio verificare se l’obbligo apparentemente neutro previsto dall’istruzione di servizio comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, nella fattispecie la religione musulmana. In tal caso, dalla decisione di rinvio risulta che la WABE persegue, nei rapporti con i clienti, una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa, il che costituisce un obiettivo legittimo ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, come indicato al punto precedente delle presenti conclusioni.

62.

Quanto ai mezzi per conseguire tale obiettivo legittimo, dalla decisione di rinvio emerge che il divieto di indossare in modo visibile qualsiasi segno o indumento che possa essere associato a un credo religioso o ad una convinzione politica o ideologica riguarda unicamente i collaboratori della WABE che hanno rapporti con i clienti ( 18 ). Pertanto, sembra che tale divieto debba essere considerato, fatte salve le verifiche che spettano al giudice del rinvio, non solo appropriato ma altresì strettamente necessario per raggiungere lo scopo perseguito ( 19 ).

63.

Inoltre, per quanto riguarda il rifiuto di una lavoratrice di rinunciare ad indossare il velo islamico nello svolgimento delle proprie attività professionali a contatto con i clienti, spetta al giudice del rinvio verificare se, tenendo conto dei vincoli inerenti all’impresa, e senza che quest’ultima debba sostenere un onere aggiuntivo, sarebbe stato possibile per il datore di lavoro, a fronte di siffatto rifiuto, offrirle un posto di lavoro che non comportasse un contatto visivo con tali clienti. Spetta al giudice del rinvio, alla luce di tutti gli elementi del fascicolo, tenere conto degli interessi in gioco e limitare allo stretto necessario le restrizioni alle libertà in questione ( 20 ).

64.

Con riguardo all’interrogativo sollevato dal giudice del rinvio nell’ambito della seconda questione, sub a), occorre rilevare che, in assenza di una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa da parte dell’impresa, la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più prestati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata un requisito professionale essenziale e determinante ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 ( 21 ). In una simile situazione, tali desideri dei clienti non possono quindi costituire una giustificazione dell’esistenza di una disparità di trattamento ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di detta direttiva.

65.

D’altro canto, quando un datore di lavoro persegue una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa, quest’ultima può avere motivazioni diverse. Una politica siffatta può quindi trarre origine dalla volontà dei clienti che l’azienda agisca in tal modo. Nel caso di specie, come indicato dall’istruzione di servizio, la WABE intende «garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini per quanto riguarda la religione» ( 22 ). I genitori dei bambini possono volere che gli educatori di questi ultimi non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali sul luogo di lavoro. A tale proposito, si deve ricordare che, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3, della Carta, il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche sono rispettati secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.

66.

Oltre a ciò, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, sancita dall’articolo 16 della Carta ( 23 ), ai sensi del quale è riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.

67.

La tutela conferita da tale articolo implica la libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libera concorrenza ( 24 ). A mio avviso, tale tutela copre la volontà di rispettare i desideri dei clienti, segnatamente per ragioni commerciali. Contrariamente a quanto accaduto nella causa che ha dato luogo alla sentenza Bougnaoui e ADDH ( 25 ), il divieto, in particolare, del velo islamico non è imposto in risposta a una richiesta in tal senso di un cliente, bensì rientra in una politica di neutralità generale e indifferenziata dell’impresa.

68.

Pertanto, propongo di rispondere alla seconda questione, sub a), nella causa C‑804/18 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale disposizione, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa sul luogo di lavoro, al fine di tenere conto dei desideri dei suoi clienti.

C.   Sulla prima questione nella causa C‑341/19

69.

Con la prima questione nella causa C‑341/19, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una norma interna di un’impresa privata che vieta unicamente, nell’ambito di una politica di neutralità, di indossare segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, religiose e di altro carattere ideologico sul luogo di lavoro possa essere giustificata ai sensi di tale disposizione.

70.

In limine, occorre rilevare che, nella sentenza G4S Secure Solutions, la Corte ha preso in considerazione il fatto di indossare in modo visibile qualsiasi segno indice di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul luogo di lavoro. A mio avviso, l’analisi della Corte non deve essere intesa nel senso che può essere giustificato, al fine di applicare una politica di neutralità, solo il divieto di qualsiasi esternazione di convinzioni politiche, ideologiche o religiose. Infatti, la risposta della Corte è scaturita dal contesto della causa che ha dato origine a detta sentenza, in cui il regolamento interno in questione vietava i segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose o la manifestazione di qualsiasi rituale che ne derivi ( 26 ).

71.

La questione se il divieto, da parte di una norma interna di un’impresa privata, di indossare segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, ideologiche o religiose possa essere giustificato, nell’ambito dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, non è quindi ancora stata risolta dalla Corte. Tale questione induce a verificare se sia appropriato indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, segni di piccole dimensioni ( 27 ) di convinzioni politiche, ideologiche o religiose ( 28 ).

72.

A tale proposito, sebbene il giudice nazionale chieda l’interpretazione della direttiva 2000/78 e non dell’articolo 10 della Carta ( 29 ), mi sembra importante fare riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU»). Nel caso di specie, la causa C‑341/19 riguarda un’impresa privata che gestisce una catena di drogherie. Orbene, esiste una sentenza della Corte EDU direttamente pertinente alla questione dell’uso di abbigliamento religioso in un’impresa privata, vale a dire la sentenza Eweida e a. c. Regno Unito ( 30 ).

73.

Nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, la sig.ra Nadia Eweida, cristiana copta praticante, aveva lavorato come addetta al check‑in presso la British Airways Plc. Sebbene intendesse indossare un crocifisso sul posto di lavoro per testimoniare la propria fede, il suo datore di lavoro le aveva negato il permesso di rimanere in servizio indossandolo in modo visibile. Secondo la Corte EDU, il crocifisso della sig.ra Eweida era discreto e non poteva nuocere al suo aspetto professionale ( 31 ). Essa ha concluso per la violazione dell’articolo 9 della CEDU, relativo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, nei confronti della sig.ra Eweida.

74.

Alla luce di tale sentenza, ritengo che una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa da parte di un datore di lavoro, nei rapporti con la clientela, non sia incompatibile con l’uso, da parte dei suoi dipendenti, di segni, visibili o meno, ma di piccole dimensioni, in altre parole discreti, di convinzioni politiche, ideologiche o religiose sul luogo di lavoro, che non si notino a prima vista. È vero che anche segni di piccole dimensioni, come una spilla o un orecchino, possono rivelare a un osservatore attento e interessato le convinzioni politiche, ideologiche o religiose di un lavoratore. Tuttavia, tali segni discreti e non vistosi non possono, a mio avviso, offendere i clienti dell’impresa che non condividono la religione o le convinzioni del(la) dipendente interessato(a).

75.

Occorre applicare il principio di proporzionalità, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78, secondo cui i mezzi impiegati per conseguire la finalità legittima di perseguire una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa devono essere appropriati e necessari. Orbene, se il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose è ammissibile, come risulta dalla sentenza G4S Secure Solutions, ritengo che il datore di lavoro sia anche libero, nel contesto della libertà d’impresa, di vietare unicamente l’uso di segni vistosi e di grandi dimensioni di tali convinzioni ( 32 ).

76.

È vero che la discussione si sposta allora sulla nozione di «segno di convinzioni politiche, ideologiche o religiose visibile e di “piccole dimensioni”». A mio avviso, non spetta alla Corte dare una definizione precisa di questa espressione, poiché può assumere rilevanza il contesto in cui è indossato il segno. Il giudice nazionale adito deve pertanto esaminare la situazione caso per caso. Nondimeno, ritengo che un velo islamico non costituisca comunque un segno religioso di piccole dimensioni ( 33 ). Nello stesso senso, l’avvocato generale Kokott, nelle conclusioni relative alla causa G4S Secure Solutions ( 34 ), ha considerato che un «simbolo religioso piccolo e indossato in maniera decente – ad esempio in forma di orecchino, collana o spilla – sarà nel dubbio più facilmente ammissibile rispetto ad un copricapo vistoso come un cappello, un turbante o un velo» ( 35 ).

77.

Come la Corte ha rilevato nella sentenza G4S Secure Solutions, il fatto di vietare ai lavoratori di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul luogo di lavoro è idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico ( 36 ). Orbene, a mio avviso, una politica di neutralità che vieti unicamente di indossare segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non esclude che tale divieto sia perseguito in modo coerente e sistematico, vale a dire che esso rientri in una politica generale e indifferenziata, circostanza la cui verifica spetta al giudice nazionale.

78.

Nelle loro osservazioni scritte, MJ nonché i governi ellenico e svedese sottolineano che una norma interna di un’impresa che vieta unicamente i segni vistosi e di grandi dimensioni avrà un effetto sfavorevole su alcuni gruppi che indossano simboli religiosi particolarmente visibili. I dipendenti appartenenti a tali gruppi correrebbero maggiori rischi di essere discriminati sul posto di lavoro a causa della loro religione o delle loro convinzioni personali.

79.

A tale proposito, riconosco che i segni religiosi possono essere più o meno visibili a seconda della religione. Tuttavia, seguire questo argomento significherebbe necessariamente vietare, al fine di applicare una politica di neutralità, l’uso di qualsiasi segno di convinzioni politiche, ideologiche o religiose, il che risulterebbe paradossale alla luce dell’obiettivo della direttiva 2000/78, che mira a contrastare la discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Come rilevato dalla Corte, il divieto di tali segni deve essere limitato allo stretto necessario ( 37 ). Diversamente, un divieto totale, senza eccezioni, di indossare in modo visibile qualsiasi segno di convinzioni politiche, ideologiche o religiose andrebbe oltre quanto necessario e avrebbe, nei confronti di chi abbia scelto di indossare un segno di piccole dimensioni, un carattere punitivo, per la sola ragione che altre persone hanno scelto di portare segni vistosi.

80.

In altri termini, mi sembra che esista una soluzione intermedia tra, da un lato, la libertà totale accordata ai lavoratori di indossare segni di convinzioni politiche, ideologiche o religiose sul luogo di lavoro, che un datore di lavoro può scegliere di applicare, nell’ambito della sua libertà d’impresa ai sensi dell’articolo 16 della Carta ( 38 ), e, dall’altro, il divieto di qualsiasi segno visibile di natura politica, ideologica o religiosa, al fine di applicare una politica di neutralità, che il datore di lavoro può parimenti decidere di attuare ( 39 ). La politica di neutralità può quindi manifestarsi in varie forme, a condizione che sia perseguita in modo coerente e sistematico.

81.

Alla luce di quanto precede, propongo di rispondere alla prima questione nella causa C‑341/19 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una norma interna di un’impresa privata che vieta, nell’ambito di una politica di neutralità, unicamente di indossare sul luogo di lavoro segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, religiose o di altro carattere ideologico può essere giustificata ai sensi della menzionata disposizione. Un divieto siffatto deve essere perseguito in modo coerente e sistematico, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio.

D.   Sulla seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18 e la seconda questione, sub b), nella causa C‑341/19

82.

Con la seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18 e la seconda questione, sub b), nella causa C‑341/19, che è opportuno esaminare congiuntamente ( 40 ), i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione in quanto disposizioni più favorevoli ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva nell’ambito dell’esame della giustificazione di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

83.

A termini dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste da tale direttiva. Inoltre, il considerando 28 di detta direttiva enuncia che essa fissa requisiti minimi, lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli, e che l’attuazione della medesima direttiva non può servire da giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro.

84.

Tenuto conto delle questioni poste, occorre esaminare in quale misura disposizioni nazionali relative alla libertà di religione possano essere considerate più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento rispetto a quelle previste dalla direttiva 2000/78.

85.

A tal riguardo, rilevo che la Corte ha già interpretato l’articolo 8, paragrafo 1, di detta direttiva, sino a questo momento unicamente nell’ambito del rispetto dei diritti procedurali. Basandosi su tale disposizione, essa ha infatti statuito che l’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 ( 41 ) non osta in alcun modo a che uno Stato membro, nella sua normativa nazionale, riconosca alle associazioni che abbiano un legittimo interesse a far garantire il rispetto della detta direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile ( 42 ).

86.

Un’interpretazione siffatta mi sembra pienamente giustificata. Infatti, da un lato, l’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 definisce con precisione l’ambito di intervento di tali associazioni per avviare una procedura giurisdizionale o amministrativa, ponendo talune condizioni, vale a dire che dette associazioni agiscano per conto o a sostegno del denunciante, con il suo consenso. Dall’altro, per garantire la tutela dei diritti, l’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva consente un intervento di più grandi dimensioni di dette associazioni dinanzi ai giudici nazionali, senza che sia necessario un denunciante, il che è più favorevole alla tutela del principio della parità di trattamento.

87.

Per quanto riguarda le disposizioni nazionali relative alla libertà di religione, ritengo invece che esse non ricadano nell’ambito dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78. Infatti, pur essendo intese a tutelare i lavoratori per quanto riguarda l’espressione della loro religione, tali disposizioni nazionali non sono volte a rafforzare l’applicazione del principio della parità di trattamento, quale sancito da detto articolo 8, paragrafo 1, in quanto non sono destinate a contrastare la discriminazione.

88.

Come si illustrerà nel prosieguo, dette disposizioni nazionali possono essere applicate dagli Stati membri, ma in un ambito diverso da quello della direttiva 2000/78, la quale è intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alla discriminazione fondata, in particolare, sulla religione o sulle convinzioni personali.

89.

Pertanto, propongo di rispondere alla seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18 e alla seconda questione, sub b), nella causa C‑341/19 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione non possono essere prese in considerazione in quanto disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame del carattere giustificato di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

E.   Sulla seconda questione, sub a), nella causa C‑341/19

90.

Con la seconda questione, sub a), nella causa C‑341/19, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che i diritti di cui all’articolo 10 della Carta e all’articolo 9 della CEDU possono essere presi in considerazione nell’esame del carattere appropriato e necessario di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali e derivante da una norma interna di un’impresa privata.

91.

A tal riguardo, il giudice nazionale si chiede se, per valutare il carattere appropriato di una siffatta differenza di trattamento, si possa effettuare una ponderazione degli interessi concorrenti, vale a dire, da un lato, la libertà di impresa prevista dall’articolo 16 della Carta e, dall’altro, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione di cui all’articolo 10 della Carta e all’articolo 9 della CEDU.

92.

Ritengo che, per rispondere a tale questione, sia importante ritornare alla formulazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, che, nell’ambito della giustificazione di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, distingue tra, da un lato, l’esistenza o meno di una finalità legittima e, dall’altro, la questione se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

93.

Ai punti 38 e 39 della sentenza G4S Secure Solutions, la Corte ha statuito che la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta; che ha, in linea di principio, carattere legittimo e che l’interpretazione secondo la quale il perseguimento di tale finalità consente, entro certi limiti, di apportare una restrizione alla libertà di religione è suffragata dalla giurisprudenza della Corte EDU relativa all’articolo 9 della CEDU.

94.

La Corte ha fatto riferimento all’articolo 16 della Carta e all’articolo 9 della CEDU unicamente nell’esame della sussistenza di una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78, in relazione all’attuazione di una politica di neutralità dell’impresa nei confronti dei clienti.

95.

Seguendo tale ragionamento, ritengo che, al fine di esaminare il carattere appropriato e necessario dei mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo, dal momento che la libertà d’impresa non entra più in gioco in questa fase dell’analisi, non vi sia luogo a ponderare, da un lato, la libertà di impresa e, dall’altro, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tuttavia, si dovrebbe tenere conto del diritto a quest’ultima libertà nell’esame dei mezzi per conseguire l’obiettivo di una politica di neutralità? Ritengo di no.

96.

Infatti, in primo luogo, come ha giustamente rilevato la Commissione nelle sue osservazioni scritte, il divieto di discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali è indiscutibilmente connesso alla tutela del diritto alla libertà di religione, poiché una discriminazione siffatta lede la libertà di una persona di praticare la propria religione liberamente e apertamente. Tuttavia, il divieto di discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali di cui all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e la libertà di pensiero, di coscienza e di religione di cui all’articolo 10 della stessa costituiscono diritti fondamentali che devono essere tenuti chiaramente distinti ( 43 ).

97.

Orbene, è importante ricordare che la direttiva 2000/78 dà attuazione all’articolo 21 della Carta, il quale, tenuto conto del suo effetto imperativo, non si distingue, in linea di principio, dalle diverse disposizioni dei Trattati istitutivi che vietano le discriminazioni fondate su vari motivi, anche quando tali discriminazioni derivino da contratti conclusi tra privati ( 44 ). Detta direttiva ha quindi ad oggetto unicamente la lotta alla discriminazione fondata, in particolare, sulla religione o sulle convinzioni personali. Essa non è intesa a garantire la tutela della libertà di religione, propriamente detta, sancita dall’articolo 10 della Carta.

98.

In secondo luogo, nell’ambito della giustificazione di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78, ritengo che non entri in gioco il diritto fondamentale alla tutela della libertà di religione, in quanto detta disposizione fa riferimento a mezzi appropriati e necessari. Si tratta di un controllo di proporzionalità, che implica un esame della situazione in concreto per verificare se l’obiettivo legittimo riconosciuto, vale a dire una politica di neutralità, sia attuato in maniera adeguata.

99.

In terzo luogo, ritengo che il fatto di applicare parallelamente, al fine di interpretare la direttiva 2000/78, tutti i diritti sanciti dalla Carta possa determinare l’impossibilità di attuare pienamente e in modo uniforme le disposizioni di tale direttiva, rispettando nel contempo gli obiettivi della stessa, che riguarda unicamente il principio di non discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

100.

Pertanto, propongo di rispondere alla seconda questione, sub a), nella causa C‑341/19 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che i diritti di cui all’articolo 10 della Carta e all’articolo 9 della CEDU non possono essere tenuti in considerazione nell’esame del carattere appropriato e necessario di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali e derivante da una norma interna di un’impresa privata.

F.   Sulla terza questione nella causa C‑341/19

101.

Con la terza questione nella causa C‑341/19, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2000/78 debba essere interpretata nel senso che essa osta a che un giudice nazionale applichi disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione quando esamina un’istruzione basata su una norma interna di un’impresa privata relativa al divieto di indossare sul luogo di lavoro segni di convinzioni politiche, religiose o di altro carattere ideologico.

102.

In via preliminare, rilevo che il giudice del rinvio, con le sue questioni pregiudiziali, ha chiesto alla Corte di interpretare la direttiva 2000/78 e non l’articolo 10 della Carta. Pertanto, esaminerò la terza questione nella causa C‑341/19, che si colloca sulla scia della prima e della seconda questione, alla luce di tale direttiva, nell’ambito dell’esame di una discriminazione indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

103.

Come indicato al paragrafo 97 delle presenti conclusioni, la direttiva 2000/78 non è intesa a garantire la tutela della libertà di pensiero, di coscienza e di religione sancita dall’articolo 10 della Carta. Pertanto, tale libertà non può essere presa in considerazione nell’esame del carattere appropriato e necessario dei mezzi impiegati per raggiungere l’obiettivo della neutralità dell’impresa. La medesima interpretazione s’impone relativamente alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta, che non è un diritto fondamentale perseguito da detta direttiva.

104.

In tali circostanze, purché non sia leso il principio di non discriminazione quale sancito dalla direttiva 2000/78, che dà attuazione all’articolo 21 della Carta, ritengo che gli Stati membri rimangano liberi di applicare le norme nazionali relative alla situazione giuridica considerata.

105.

Può trattarsi, ad esempio, come rileva la Commissione, di una disposizione nazionale relativa alla forma in cui l’istruzione che stabilisce la politica di neutralità deve essere comunicata ai dipendenti dell’impresa. L’applicazione di una disposizione siffatta può comportare la nullità di tale istruzione anche se, nel merito, la politica di neutralità in questione soddisfa i requisiti previsti dalla direttiva 2000/78. Sebbene tale esempio sia di natura procedurale, il ragionamento vale anche per la sostanza stessa del diritto alla parità di trattamento. Esiste quindi una coesistenza tra, da un lato, le disposizioni dell’Unione relative al principio di non discriminazione e, dall’altro, le disposizioni nazionali che prevedono taluni requisiti relativi alla politica di neutralità del datore di lavoro.

106.

Il medesimo ragionamento vale per le disposizioni nazionali concernenti la tutela della libertà di religione, che possono essere prese in considerazione dai giudici dello Stato membro interessato al fine di valutare la validità di un’istruzione di un datore di lavoro relativa all’applicazione di una politica di neutralità.

107.

A tal riguardo, il giudice del rinvio afferma che, secondo la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale), la tutela di un diritto fondamentale come quello sancito dall’articolo 4, paragrafi 1 e 2, del GG si applica ai rapporti giuridici tra privati. La libertà di credo prevista da tali disposizioni, in quanto libertà civile, passerebbe in secondo piano rispetto alla libertà d’impresa, menzionata all’articolo 12, paragrafo 1, del GG, solo in presenza di una minaccia sufficientemente concreta di svantaggio economico per il datore di lavoro o per un terzo interessato. In altri termini, come ha esposto anche il giudice del rinvio nella causa C‑804/18 nella sua decisione e nella sua seconda questione, sub b), dalle disposizioni costituzionali tedesche risulta che la volontà di un datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità religiosa nei confronti della clientela è legittima, in linea di principio, solo se l’assenza di tale neutralità gli provocherebbe un danno economico.

108.

Come si è già indicato, disposizioni quali l’articolo 4, paragrafi 1 e 2, del GG, che rientrano nell’ambito della tutela della libertà di religione, perseguono un obiettivo diverso da quello della direttiva 2000/78. Pertanto, purché sia rispettato il principio di non discriminazione sancito da detta direttiva, non vedo impedimenti a che disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione siano applicate nell’esame della politica di neutralità di un’impresa ( 45 ).

109.

Tale possibilità lasciata agli Stati membri per quanto riguarda la tutela della libertà di religione è in linea con la giurisprudenza della Corte EDU secondo la quale non è possibile discernere in tutta Europa una concezione uniforme del significato della religione nella società e il senso o l’impatto degli atti corrispondenti all’espressione pubblica di una convinzione religiosa non sono gli stessi in epoche e contesti diversi. Le norme in materia possono quindi variare da un paese all’altro e la scelta riguardo alla portata e alle modalità di tali norme deve essere necessariamente lasciata in una certa misura allo Stato interessato, in quanto dipende dal contesto nazionale considerato ( 46 ).

110.

A mio parere, occorre pertanto tenere conto dei diversi approcci degli Stati membri alla tutela della libertà di religione ( 47 ), che non è messa in discussione dall’applicazione del principio di non discriminazione sancito dalla direttiva 2000/78.

111.

Nel caso di specie, mi sembra, prima facie, che le disposizioni nazionali di cui trattasi non siano in contrasto con detta direttiva. Infatti, esse non vietano una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa da parte di un datore di lavoro, ma si limitano a stabilire un requisito aggiuntivo per la sua attuazione, relativo all’esistenza di una minaccia sufficientemente concreta di svantaggio economico per il datore di lavoro o per un terzo interessato. Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale invocata violi il principio di non discriminazione sancito da tale direttiva.

112.

Di conseguenza, propongo di rispondere alla terza questione nella causa C‑341/19 dichiarando che la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta a che un giudice nazionale applichi disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione quando esamina un’istruzione basata su una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare sul luogo di lavoro segni di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico, purché tali disposizioni non ledano il principio di non discriminazione sancito da tale direttiva, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio.

V. Conclusione

113.

Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dall’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo, Germania) e dal Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro, Germania) nei termini seguenti:

1)

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile relativo alle convinzioni politiche, ideologiche o religiose, derivante da una norma interna di un’impresa privata, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta disposizione, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi che impongono di coprirsi.

2)

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale disposizione, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa sul luogo di lavoro al fine di tenere conto dei desideri dei suoi clienti.

3)

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una norma interna di un’impresa privata che vieta, nell’ambito di una politica di neutralità, unicamente di indossare sul luogo di lavoro segni vistosi e di grandi dimensioni di convinzioni politiche, religiose o di altro carattere ideologico può essere giustificata ai sensi della menzionata disposizione. Un divieto siffatto deve essere perseguito in modo coerente e sistematico, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio.

4)

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione non possono essere prese in considerazione in quanto disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame del carattere giustificato di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

5)

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che i diritti di cui all’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’articolo 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non possono essere tenuti in considerazione nell’esame del carattere appropriato e necessario di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali e derivante da una norma interna di un’impresa privata.

6)

La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta a che un giudice nazionale applichi disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione quando esamina un’istruzione basata su una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare sul luogo di lavoro segni di convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico, purché tali disposizioni non ledano il principio di non discriminazione sancito da tale direttiva, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio.


( 1 ) Lingua originale: il francese.

( 2 ) V., in particolare, sentenza del 29 maggio 2018, Liga van Moskeeën en Islamitische Organisaties Provincie Antwerpen e a. (C‑426/16, EU:C:2018:335).

( 3 ) V. sentenza del 29 ottobre 2020, Veselības ministrija (C‑243/19, EU:C:2020:872).

( 4 ) V. sentenza del 4 ottobre 2018, Fathi (C‑56/17, EU:C:2018:803).

( 5 ) Direttiva del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).

( 6 ) Sentenza del 14 marzo 2017 (C‑157/15; in prosieguo: la «sentenza G4S Secure Solutions, EU:C:2017:203).

( 7 ) Sentenza del 14 marzo 2017 (C‑188/15; in prosieguo: la «sentenza Bougnaoui e ADDH, EU:C:2017:204).

( 8 ) Nelle sentenze G4S Secure Solutions (punto 28) e Bougnaoui e ADDH (punto 30), la Corte ha dichiarato che la nozione di «religione» di cui all’articolo 1 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa.

( 9 ) C‑157/15, EU:C:2016:382. L’avvocato generale Kokott ha considerato, al paragrafo 141 delle sue conclusioni, che il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, se tale divieto si fonda su una disposizione aziendale generale intesa a vietare sul posto di lavoro segni politici, filosofici e religiosi visibili, e non poggia su stereotipi o pregiudizi nei confronti di una o più religioni determinate oppure nei confronti di convinzioni religiose in generale.

( 10 ) C‑188/15, EU:C:2016:553. L’avvocato generale Sharpston ha sostenuto, al paragrafo 135 delle sue conclusioni, che un regolamento interno di un’impresa che vieti ai dipendenti di quest’ultima di indossare simboli o indumenti religiosi in occasione dei contatti con i clienti costituisce una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali.

( 11 ) Il regolamento interno aziendale enunciava che «è fatto divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi».

( 12 ) Sentenza del 22 gennaio 2019 (C‑193/17, EU:C:2019:43, punto 40).

( 13 ) Dalla «Scheda informativa sull’obbligo di neutralità» redatta dalla WABE, citata al paragrafo 22 delle presenti conclusioni, emerge che non è consentito alle persone a contatto con i bambini indossare il crocifisso cristiano, il velo musulmano o la kippah ebraica.

( 14 ) V. sentenza G4S Secure Solutions, punto 31. A tale proposito, ricordo che, secondo la decisione di rinvio, la WABE è riuscita a far togliere la collana a una lavoratrice che indossava un crocifisso come ciondolo.

( 15 ) Sentenza del 22 gennaio 2019 (C‑193/17, EU:C:2019:43).

( 16 ) V., in particolare, Howard, E., «Islamic headscarves and the CJEU: Achbita and Bougnaoui», Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2017, vol. 24(3), pagg. da 348 a 366, in particolare pagg. da 351 a 354; Cloots, E., «Safe harbour or open sea for corporate headscarf bans? Achbita and Bougnaoui», Common Market Law Review, vol. 55, 2018, pagg. da 589 a 624. V., più in generale, Weiler, J.H.H., «Je suis Achbita: à propos d’un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne sur le hijab musulman (CJUE 14 mars 2017, aff. C‑157/15)», Revue trimestrielle de droit européen, 2019, pagg. da 85 a 104.

( 17 ) Una discriminazione siffatta concerne la direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU 2006, L 204, pag. 23).

( 18 ) A tale proposito, il giudice del rinvio indica che gli obblighi relativi all’applicazione del principio di neutralità non sono imposti agli addetti della WABE che lavorano nella sede centrale, con l’eccezione dell’ambito della consulenza pedagogica, poiché questi ultimi non hanno alcun contatto con il pubblico.

( 19 ) V., in tal senso, sentenza G4S Secure Solutions, punto 42.

( 20 ) V., in tal senso, sentenza G4S Secure Solutions, punto 43.

( 21 ) V. sentenza Bougnaoui e ADDH, punto 41. Ai punti 32 e 34 di tale sentenza, la Corte ha operato una netta distinzione a seconda che esista o meno nell’impresa una norma interna che stabilisce una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa.

( 22 ) V. paragrafo 21 delle presenti conclusioni.

( 23 ) V. sentenza G4S Secure Solutions, punto 38.

( 24 ) V. sentenza del 16 luglio 2020, Adusbef e Federconsumatori (C‑686/18, EU:C:2020:567, punto 82 e giurisprudenza citata).

( 25 ) V. sentenza Bougnaoui e ADDH, punto 14.

( 26 ) V. sentenza G4S Secure Solutions, punto 15.

( 27 ) Parto dall’idea che un segno di piccole dimensioni, che non viene indossato per essere messo in evidenza, non sia di carattere vistoso (ostentatoire). Il termine «ostentation» è definito come segue dal vocabolario Larousse: «[a]ffettazione nel fare qualcosa, esibizione indiscreta di un vantaggio o di una qualità, atteggiamento di chi cerca di farsi notare». V. https://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/ostentation/56743.

( 28 ) A mio avviso, è chiaro che se il datore di lavoro intende perseguire, nei confronti della clientela, una politica di neutralità politica, ideologica o religiosa, obiettivo legittimo nel quadro dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, ha il diritto di vietare l’uso di segni vistosi e di grandi dimensioni sul posto di lavoro.

( 29 ) Secondo le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17), il diritto garantito all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta corrisponde a quello garantito dall’articolo 9 della CEDU e, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3 della Carta, ha significato e portata identici a detto articolo.

( 30 ) Corte EDU, 15 gennaio 2013 (CE:ECHR:2013:0115JUD004842010). La Corte ha peraltro fatto riferimento a tale sentenza al punto 39 della sentenza G4S Secure Solutions.

( 31 ) Corte EDU, 15 gennaio 2013, Eweida e a. c. Regno Unito (CE:ECHR:2013:0115JUD004842010, § 94). V., su tale sentenza, Mathieu, C., Gutwirth, S., e de Herth, P., «La croix et les juges de la Cour européenne des droits de l’homme: les enseignements des affaires Lautsi, Eweida et Chaplin», Journal européen des droits de l’homme, Larcier, 2013, n. 2, pagg. da 238 a 268.

( 32 ) Mi sembra che la mia posizione concordi con quella dell’avvocato generale Kokott nelle conclusioni relative alla causa G4S Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2016:382, paragrafo 141), la quale ha fatto riferimento alle «dimensioni» e alla «vistosità» del segno religioso nell’ambito della giustificazione di una discriminazione indiretta fondata sulla religione, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.

( 33 ) La sentenza della Corte EDU del 15 gennaio 2013, Eweida e a. c. Regno Unito (CE:ECHR:2013:0115JUD004842010), si distingue dalla decisione di detta Corte del 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera (CE:ECHR:2001:0215DEC004239398), in cui essa ha dichiarato «che è molto difficile valutare l’impatto che un segno esteriore forte come l’uso del velo può avere sulla libertà di coscienza e di religione di bambini molto piccoli. Infatti, la ricorrente ha insegnato in una classe di bambini di età compresa tra 4 e 8 anni e quindi ad alunni che si trovano in un’età nella quale si pongono molte domande e sono più facilmente influenzabili rispetto ad altri alunni di età più avanzata. In tali circostanze, non si può escludere in modo assoluto che l’uso del velo possa avere un effetto di proselitismo, dato che esso sembra essere imposto alle donne da un precetto coranico che, come constatato dal Tribunale federale [Svizzera], è difficilmente conciliabile con il principio della parità dei sessi. Sembra quindi difficile conciliare l’uso del velo islamico con il messaggio di tolleranza, di rispetto degli altri e soprattutto di uguaglianza e non discriminazione che tutti gli insegnanti in una società democratica devono trasmettere ai loro allievi» (il corsivo è mio). Oltre al fatto che la sentenza Eweida e a. c. Regno Unito riguardava un’impresa privata e la decisione Dahlab c. Svizzera una scuola pubblica, e che la giurisprudenza della Corte EDU può essersi evoluta, l’accento posto sul fatto che un velo islamico è un «segno esteriore forte» potrebbe spiegare perché detta Corte riconosca come conforme alla CEDU il fatto di vietare il velo islamico, in contrapposizione a un segno religioso «discreto».

( 34 ) C‑157/15, EU:C:2016:382, punto 118.

( 35 ) Alla luce della decisione della Corte EDU del 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera (CE:ECHR:2001:0215DEC004239398), il cappello, il turbante o il velo possono essere considerati «segni esteriori forti».

( 36 ) Sentenza G4S Secure Solutions, punto 40.

( 37 ) Sentenza G4S Secure Solutions, punto 42.

( 38 ) Si deve ricordare che un datore di lavoro non è assolutamente tenuto a perseguire una politica di neutralità nei confronti della clientela. Egli può infatti scegliere di mostrare un’appartenenza confessionale, che può manifestarsi con i segni religiosi propri della religione in questione, indossati dai dipendenti. Il datore di lavoro può anche non porre alcun limite all’uso di segni religiosi sul posto di lavoro, indipendentemente dalla religione e dalle dimensioni di tali segni.

( 39 ) Il giudice del rinvio indica che la politica di neutralità nell’ambito dell’impresa interessata è intesa anche ad evitare i conflitti tra i dipendenti. A tale proposito, detto obiettivo è diverso da quello di una politica di neutralità nei confronti dei clienti, che riguarda la libertà d’impresa, come la Corte ha rilevato nella sentenza G4S Secure Solutions (punto 38). Tenuto conto dei fatti del procedimento principale nella causa C‑341/19, ritengo che nel contesto delle presenti cause riunite non occorra esaminare se l’obiettivo di evitare i conflitti tra i dipendenti sia legittimo ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.

( 40 ) Infatti, la seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18 fa riferimento alla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale) che interpreta l’articolo 4, paragrafi 1 e 2, del GG.

( 41 ) Ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, «[g]li Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva». Dalla formulazione stessa di tale disposizione risulta che essa non esige che ad un’associazione venga riconosciuta negli Stati membri la legittimazione ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi scaturenti dalla suddetta direttiva, nel caso in cui non sia identificabile alcuna persona lesa (sentenza del 23 aprile 2020, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, C‑507/18, EU:C:2020:289, punto 61).

( 42 ) Sentenze del 25 aprile 2013, Asociația Accept (C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 37), e del 23 aprile 2020, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI (C‑507/18, EU:C:2020:289, punto 63).

( 43 ) La Commissione fornisce l’esempio, basato su un ragionamento ad absurdum, di un divieto totale da parte di uno Stato membro dell’esercizio della religione, che violerebbe quindi la libertà di religione, senza tuttavia essere contrario al divieto di discriminazione fondata sulla religione, in quanto tutti gli abitanti di tale Stato membro sarebbero trattati allo stesso modo.

( 44 ) V. sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 77 e giurisprudenza citata).

( 45 ) Ritengo pertanto che, poiché le disposizioni in questione del diritto dell’Unione e nazionali hanno un oggetto diverso, non vi sia luogo ad applicare il ragionamento seguito dalla Corte nella sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni (C‑399/11, EU:C:2013:107, punto 60), secondo cui, quando un atto di diritto dell’Unione richiede misure nazionali di attuazione, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione.

( 46 ) Corte EDU, 10 novembre 2005, Leyla Şahin c. Turchia (CE:ECHR:2005:1110JUD004477498, § 109), e 10 gennaio 2017, Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera (CE:ECHR:2017:0110JUD002908612, § 88).

( 47 ) V., in tal senso, Loenen, M. L. P., «In search of an EU approach to headscarf bans: where to go after Achbita and Bougnaoui?», Review of European Administrative Law, 2017, n. 2, pagg. da 47 a 73.