CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MICHAL BOBEK

presentate il 5 dicembre 2019 ( 1 )

(Causa C‑564/18)

LH

contro

Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria)]

«Domanda pregiudiziale – Politica comune in materia di asilo e di protezione sussidiaria – Procedure comuni ai fini del riconoscimento della protezione internazionale – Direttiva 2013/32/UE – Articolo 33 – Motivi di inammissibilità – Natura tassativa – Articolo 46, paragrafo 3 – Articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Diritto a un ricorso effettivo – Termine di otto giorni entro il quale il giudice deve pronunciarsi»

I. Introduzione

1.

La direttiva 2013/32/UE ( 2 ) specifica cinque situazioni in cui una domanda di protezione internazionale può essere considerata inammissibile. Due di queste situazioni sono rilevanti nel caso di specie: quando, relativamente al richiedente interessato, un paese terzo può essere considerato «paese di primo asilo» o «paese terzo sicuro».

2.

Uno Stato membro può adottare una norma che consenta alle proprie autorità di ritenere inammissibili le domande presentate dai richiedenti che arrivano in detto Stato membro attraverso un paese terzo considerato «paese di transito sicuro», aggiungendo così di fatto un’altra categoria all’elenco di cui all’articolo 33 della direttiva 2013/32?

3.

L’esame giurisdizionale delle decisioni amministrative che giudichi le domande inammissibili può essere subordinato a un termine di otto giorni?

II. Contesto normativo

A.   Diritto dell’Unione

4.

Ai sensi del considerando 43 della direttiva 2013/32, «[g]li Stati membri dovrebbero esaminare tutte le domande nel merito, valutare cioè se al richiedente di cui trattasi è attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE, salvo se altrimenti previsto dalla presente direttiva, in particolare se si può ragionevolmente presumere che un altro paese proceda all’esame o fornisca sufficiente protezione. In particolare, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a valutare il merito della domanda di protezione internazionale se il paese di primo asilo ha concesso al richiedente lo status di rifugiato o ha altrimenti concesso sufficiente protezione e il richiedente sarà riammesso in detto paese».

5.

Il considerando 44 della direttiva 2013/32 afferma che «[g]li Stati membri non dovrebbero essere tenuti a valutare il merito della domanda di protezione internazionale se si può ragionevolmente prevedere che il richiedente, per un legame sufficiente con un paese terzo definito nel diritto nazionale, chieda protezione in detto paese terzo e vi è motivo di ritenere che il richiedente sarà ammesso o riammesso in quel paese. Gli Stati membri dovrebbero procedere in tal modo solo nel caso in cui il richiedente in questione possa essere sicuro nel paese terzo interessato. Per evitare movimenti secondari di richiedenti, si dovrebbero definire principi comuni per la presa in considerazione o la designazione, da parte degli Stati membri, di paesi terzi quali paesi sicuri».

6.

L’articolo 33 della direttiva 2013/32 riguarda le «domande inammissibili». Esso recita come segue:

«1.   Oltre ai casi in cui una domanda non è esaminata a norma del regolamento (UE) n. 604/2013, gli Stati membri non sono tenuti ad esaminare se al richiedente sia attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE, qualora la domanda sia giudicata inammissibile a norma del presente articolo.

2.   Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se:

a)

un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale;

b)

un paese che non è uno Stato membro è considerato paese di primo asilo del richiedente a norma dell’articolo 35;

c)

un paese che non è uno Stato membro è considerato paese terzo sicuro per il richiedente a norma dell’articolo 38;

d)

la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE; o

e)

una persona a carico del richiedente presenta una domanda, dopo aver acconsentito, a norma dell’articolo 7, paragrafo 2, a che il suo caso faccia parte di una domanda presentata a suo nome e non vi siano elementi relativi alla situazione della persona a carico che giustifichino una domanda separata».

7.

L’articolo 35 della direttiva 2013/32 riguarda il «[c]oncetto di paese di primo asilo». Vi si afferma che:

«Un paese può essere considerato paese di primo asilo di un particolare richiedente, qualora:

a)

quest’ultimo sia stato riconosciuto in detto paese quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione; ovvero

b)

goda altrimenti di protezione sufficiente in detto paese, tra cui il fatto di beneficiare del principio di “non-refoulement”,

purché sia riammesso nel paese stesso.

Nell’applicare il concetto di paese di primo asilo alle circostanze particolari di un richiedente gli Stati membri possono tener conto dell’articolo 38, paragrafo 1. Il richiedente è autorizzato a impugnare l’applicazione del concetto di paese di primo asilo relativamente alle sue condizioni specifiche».

8.

L’articolo 38 riguarda il «[c]oncetto di paese terzo sicuro». Stabilisce quanto segue:

«1.   Gli Stati membri possono applicare il concetto di paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:

a)

non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;

b)

non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;

c)

è rispettato il principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra;

d)

è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e

e)

esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra.

2.   L’applicazione del concetto di paese terzo sicuro è subordinata alle norme stabilite dal diritto nazionale, comprese:

a)

norme che richiedono un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese;

b)

norme sul metodo mediante il quale le autorità competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Tale metodo comprende l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un determinato richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi che possono essere considerati generalmente sicuri;

c)

norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a).

(…)».

9.

L’articolo 46 tratta il «[d]iritto ad un ricorso effettivo». Esso ha il seguente tenore:

«1.   Gli Stati membri dispongono che il richiedente abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso i seguenti casi:

a)

la decisione sulla sua domanda di protezione internazionale, compresa la decisione:

(…)

ii)

di considerare la domanda inammissibile a norma dell’articolo 33, paragrafo 2;

(…)

(…)

3.   Per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado.

(…)

10.   Gli Stati membri possono stabilire i termini entro i quali il giudice di cui al paragrafo 1 esamina la decisione dell’autorità accertante.

(…)».

B.   Diritto nazionale

10.

Ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della menedékjogról szóló 2007. évi LXXX törvény (legge LXXX del 2007 sul diritto di asilo) (in prosieguo: la «legge sul diritto di asilo») la domanda è inammissibile qualora «il richiedente sia arrivato in Ungheria, attraversando un paese in cui egli non è esposto a persecuzioni ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, o al rischio di danno grave, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione».

11.

L’articolo 53, paragrafo 4, della legge relativa al diritto di asilo del 2007 impone una durata massima di otto giorni per la fase giurisdizionale della procedura di asilo in caso di domande dichiarate inammissibili.

III. Fatti, procedimento nazionale e questioni pregiudiziali

12.

Il ricorrente nel procedimento principale è un cittadino siriano di etnia curda che ha presentato domanda di protezione internazionale il 19 luglio 2018.

13.

L’autorità competente in materia di asilo, il Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal (Ufficio per l’immigrazione e l’asilo, Ungheria) (in prosieguo: l’«Ufficio immigrazione»), ha dichiarato la domanda inammissibile e ha dichiarato il principio di non respingimento inapplicabile al caso del ricorrente. Essa ha disposto l’allontanamento del ricorrente dal territorio dell’Unione europea nel territorio della Repubblica di Serbia e altresì l’esecuzione di detta decisione mediante espulsione. La suddetta autorità ha corredato la sua decisione con un divieto di ingresso e di soggiorno per un periodo di due anni, a carico del ricorrente.

14.

Il ricorrente ha proposto ricorso avverso tale decisione dinanzi al Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria), il giudice del rinvio.

15.

Il ricorrente sostiene che la decisione dell’Ufficio immigrazione è illegittima e deve essere annullata. Egli sostiene inoltre che occorre pronunciarsi sul merito della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, poiché l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, in forza del quale l’Ufficio immigrazione ha qualificato la sua domanda come inammissibile, viola il diritto dell’Unione. Questo perché costituisce un nuovo motivo di inammissibilità basato sul concetto di «paese di transito sicuro», che non è previsto dall’articolo 33 della direttiva 2013/32.

16.

L’Ufficio immigrazione sostiene, in pratica, che l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo deve essere valutato nel suo contesto storico: il legislatore ha cercato di elaborare norme che, tra l’altro, rispondessero alle difficoltà derivanti dall’elevato numero di richiedenti.

17.

Inoltre, il giudice del rinvio nutre dubbi sull’adeguatezza del termine di otto giorni entro il quale è tenuto a completare il riesame della decisione dell’Ufficio immigrazione che dichiara inammissibile la domanda del richiedente.

18.

In tali circostanze, il Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest) ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.

Se le disposizioni relative alle domande inammissibili contenute all’articolo 33 della [direttiva 2013/32] possano essere interpretate nel senso che non ostano alla normativa di uno Stato membro in forza della quale una domanda è inammissibile nell’ambito della procedura di asilo qualora il richiedente sia arrivato in tale Stato membro, l’Ungheria, attraversando un paese in cui non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

2.

Se l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali e l’articolo 31 della [direttiva 2013/32] – in considerazione altresì delle disposizioni contenute agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – possano essere interpretati nel senso che la normativa di uno Stato membro è conforme a tali disposizioni qualora preveda un termine imperativo di otto giorni per il procedimento giurisdizionale amministrativo per quanto riguarda le domande dichiarate inammissibili nel contesto dei procedimenti di asilo».

19.

Il giudice del rinvio ha chiesto di sottoporre la presente domanda di pronuncia pregiudiziale al procedimento pregiudiziale d’urgenza previsto all’articolo 107 del regolamento di procedura della Corte. Con decisione del 19 settembre 2018, la sezione designata del Tribunale ha deciso di non accogliere tale richiesta.

20.

Hanno presentato osservazioni scritte il ricorrente, i governi tedesco, francese e ungherese e la Commissione europea. Ad eccezione del governo francese, le suddette parti erano presenti all’udienza che si è tenuta l’11 settembre 2019.

IV. Analisi

21.

Nella prima parte delle presenti conclusioni suggerisco che l’elenco dei motivi (sostanziali) di inammissibilità di cui all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 ha natura tassativa. Dal momento che il motivo aggiuntivo di «paese di transito sicuro» non può essere sussunto nei concetti esistenti di «paese di primo asilo» o «paese terzo sicuro», devo concludere che agli Stati membri è effettivamente preclusa la possibilità di adottare tale motivo aggiuntivo di inammissibilità (A).

22.

Per quanto riguarda la seconda questione, in analogia con le conclusioni parallele presentate nella causa nella causa PG/Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal (C‑406/18, in prosieguo: la «causa PG»), nel caso di specie suggerisco che l’adeguatezza del termine stabilito di otto giorni dipende dalla possibilità di garantire i diritti processuali del ricorrente. Ciò deve essere valutato dal giudice nazionale alla luce delle circostanze specifiche del caso di specie, tenuto conto del suo obbligo di effettuare un esame completo ed ex nunc, nonché delle circostanze e delle condizioni generali in cui tale giudice è chiamato a svolgere le sue funzioni giurisdizionali. Qualora il giudice nazionale concluda che, alla luce di tali considerazioni, il termine di cui trattasi non può essere rispettato, egli deve disapplicare il termine pertinente e concludere l’esame il più rapidamente possibile dopo la scadenza di tale termine (B).

A.   Prima questione: motivi di inammissibilità

23.

Ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo, introdotta a partire dal 1o luglio 2018, una domanda è considerata inammissibile quando il richiedente arriva in Ungheria attraverso un paese terzo in cui non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave o in cui «è garantito un adeguato livello di protezione» ( 3 ). Nel corso delle presenti conclusioni, mi riferirò a ciò come il motivo «paese di transito sicuro», in analogia con la forma breve utilizzata dal giudice del rinvio, dal richiedente e dalle parti interessate.

24.

Il governo ungherese ritiene che questo motivo sia compatibile con il concetto di «paese terzo sicuro» di cui all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), e all’articolo 38 della direttiva 2013/32. Sottolinea la discrezionalità degli Stati membri nel recepire una direttiva e rileva che, nella sua versione precedente, la legislazione nazionale ha seguito strettamente il testo della direttiva 2013/32, il che, tuttavia, si è rivelato insoddisfacente, soprattutto durante la crisi migratoria. Il governo ungherese afferma inoltre che l’attuale legislazione mira a prevenire il «forum shopping» in materia di asilo. Secondo detto governo, un richiedente asilo deve presentare domanda di asilo nel primo paese che per lui sia sicuro e non necessariamente nel paese che egli considera per sé come il migliore. Il nuovo motivo in questione implica che il richiedente asilo non può scegliere di non presentare domanda di protezione internazionale in un paese terzo in cui ha soggiornato.

25.

Tutte le altre parti interessate (nonché il giudice del rinvio) sottolineano che tra i motivi di inammissibilità di cui all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 non è contemplato quello del «paese di transito sicuro». Essi sostengono che l’elenco contenuto in tale articolo è chiaramente tassativo e non consente agli Stati membri di aggiungere ulteriori categorie.

26.

Concordo con tale posizione. È tuttavia importante chiarire fin dall’inizio che la nozione di «inammissibilità» di cui all’articolo 33 della direttiva 2013/32, discussa nel caso di specie, fa riferimento a quella che potrebbe essere meglio definita inammissibilità «sostanziale» piuttosto che «procedurale».

27.

L’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 prevede che gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile (e quindi non esaminarla nel merito) in determinate circostanze. Gli scenari di cui alle lettere da a) a e) di detto articolo riguardano tutti situazioni in cui non è necessaria alcuna valutazione del merito della domanda (ovvero non è necessaria alcuna nuova valutazione del merito della domanda) ( 4 ). Tale inammissibilità «sostanziale» differisce tuttavia da questioni di inammissibilità procedurale generale, che possono sorgere in varie circostanze. In altre parole, il fatto che i motivi di inammissibilità «sostanziale» siano stati armonizzati dalla direttiva 2013/32 non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre norme relative a diversi aspetti della (in)ammissibilità procedurale, come quelle relative ai termini applicabili per il deposito di un ricorso, alle condizioni per presentarlo, alla capacità delle persone di agire e così via.

28.

Per quanto riguarda specificamente i motivi di inammissibilità sostanziale, non posso far altro che concludere che l’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 rappresenta, sotto questo profilo, un elenco di carattere tassativo. Tale conclusione discende chiaramente non solo dal testo di tale disposizione [«Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se (…)»], ma anche dalla ratio e dal sistema della direttiva ( 5 ), ed è stata recentemente confermata dalla Corte, anche se in un contesto leggermente diverso ( 6 ).

29.

Pertanto, la questione che resta da considerare è se il motivo del «paese di transito sicuro» possa essere sussunto in uno dei motivi di inammissibilità già elencati all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32. Dei cinque motivi previsti, solo i seguenti due potrebbero eventualmente essere presi in considerazione nel presente contesto: «paese di primo asilo» e «paese terzo sicuro», come meglio definiti agli articoli 35 e 38 della direttiva 2013/32, rispettivamente.

30.

Passo ora a esaminare in successione ciascuno dei due motivi.

1. Paese di primo asilo

31.

La nozione di «paese di primo asilo» è definita all’articolo 35 della direttiva 2013/32. Si applica a due situazioni.

32.

In primo luogo, ai sensi dell’articolo 35, lettera a), della direttiva 2013/32, esso riguarda un paese in cui un particolare richiedente è stato riconosciuto come rifugiato e può ancora avvalersi di tale protezione. Tale situazione, relativa allo status di rifugiato già concesso e di cui il richiedente può ancora fruire, non si applica chiaramente al territorio del paese di transito sicuro e, sulla base delle informazioni disponibili, non è rilevante per la situazione del richiedente.

33.

In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 35, lettera b), della direttiva 2013/32, il concetto di paese di primo asilo può riguardare un paese in cui il particolare richiedente «goda (…) di protezione sufficiente», «tra cui il fatto di beneficiare del principio di “non-refoulement”, purché sia riammesso nel paese stesso».

34.

La direttiva 2013/32 non specifica cosa debba intendersi per «protezione sufficiente». La sentenza della Corte nella causa Alheto fornisce tuttavia alcune indicazioni al riguardo. In tale causa, la nozione di «protezione sufficiente» ai sensi dell’articolo 35, lettera b), della direttiva 2013/32 è stata applicata dalla Corte alla situazione di una ricorrente palestinese, registrata presso l’UNRWA ( 7 ), che aveva lasciato la sua residenza abituale nella Striscia di Gaza per il Regno hascemita di Giordania. Vi ha soggiornato per un breve periodo ( 8 ) prima di recarsi in uno Stato membro e presentare in detto paese una domanda di protezione internazionale. L’UNRWA opera ed è riconosciuta sul territorio della Giordania e la questione era essenzialmente se la Giordania potesse essere considerata come il paese di primo asilo della ricorrente.

35.

In tale specifico contesto, la Corte ha ritenuto che «una protezione sufficiente» ai sensi dell’articolo 35, lettera b), della direttiva 2013/32 può essere considerata come fornita a una persona che beneficia di una protezione o assistenza effettiva da parte dell’UNRWA qualora il paese in questione «si impegni a riammettere l’interessato dopo che questi ha lasciato il suo territorio per chiedere protezione internazionale nell’Unione» e il paese medesimo «riconosca tale protezione o assistenza dell’UNRWA e aderisca al principio di non respingimento, consentendo in tal modo all’interessato di soggiornare nel suo territorio in sicurezza, in condizioni di vita dignitose e finché i rischi cui è esposto nel territorio della residenza abituale lo rendono necessario» ( 9 ).

36.

Pertanto, analogamente alla situazione di cui all’articolo 35, lettera a), della direttiva 2013/32, la situazione di cui alla lettera b) della stessa disposizione si basa sulla premessa che il richiedente in questione possa già beneficiare di un certo grado di protezione, che può ancora essere messo a sua disposizione ( 10 ).

37.

Questa dimensione in qualche modo «retroattiva» della protezione internazionale già fornita al richiedente (e ancora disponibile) ai sensi dell’articolo 35, lettera b), è ulteriormente confermata dal titolo dell’intera disposizione (paese di primo asilo) e dalle precisazioni presenti al riguardo nel considerando 43 della direttiva 2013/32.

38.

Tali elementi chiariscono che il concetto di «paese di primo asilo» di cui all’articolo 35, lettera b), della direttiva 2013/32 sottende a qualcosa di molto diverso dal concetto di «paese di transito sicuro».

39.

In primo luogo, è vero che l’espressione piuttosto generica «protezione sufficiente», che è uno degli elementi che definiscono un «paese di primo asilo» ai sensi dell’articolo 35, lettera b), della direttiva 2013/32, è menzionata anche nella definizione di «paese di transito sicuro» ai sensi della disposizione nazionale in questione. Detto questo, l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo non richiede esplicitamente che nel paese terzo in questione sia garantito il principio di non respingimento.

40.

In secondo luogo, e cosa più importante, trovo difficile capire come il semplice fatto di poter transitare attraverso un paese conferisca al richiedente un’effettiva protezione, sulla quale il richiedente possa fare nuovamente affidamento quando (e se) riammesso. La semplice possibilità che il richiedente in questione presenti in futuro una domanda di protezione internazionale in tale paese è molto diversa dalla protezione già fornita e che può ancora essere resa disponibile, inerente al concetto di paese di primo asilo.

41.

Alla luce di quanto precede, concludo che non si può ritenere che la nozione di «paese di transito sicuro» rientri o sia conforme alla nozione di «paese di primo asilo» ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera b), e dell’articolo 35 della direttiva 2013/32.

2. Paese terzo sicuro

42.

L’applicazione del concetto di «paese terzo sicuro» ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), e dell’articolo 38 della direttiva 2013/32 è soggetta a tre categorie generali di condizioni che possono essere descritte essenzialmente come principi, norme e garanzie.

43.

In primo luogo, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 1, lettere da a) a e), della direttiva 2013/32, lo Stato membro deve accertarsi che nei confronti del richiedente in questione siano rispettati i principi espressamente indicati. Secondo tali principi, non devono sussistere minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale; non deve sussistere il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE ( 11 ); deve essere rispettato il principio di «non refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra ( 12 ); deve essere osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; deve inoltre esistere la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, di ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra.

44.

In secondo luogo, gli Stati membri devono prevedere norme che, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), richiedano un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese. Ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2013/32, tali norme devono anche specificare il metodo mediante il quale le autorità competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Infine, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera c), devono essere poste in essere norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente.

45.

In terzo luogo, per quanto riguarda le garanzie, l’articolo 38, paragrafo 2, lettera c), stabilisce che le norme in vigore devono consentire «almeno» al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente va altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo. Inoltre, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 3, qualora uno Stato membro adotti una decisione basata esclusivamente sul concetto di paese terzo sicuro, deve informarne il richiedente e fornirgli un documento che informi le autorità del paese terzo, nella lingua di quest’ultimo, che la domanda non è stata esaminata nel merito. Infine, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 4, se il paese terzo non concede al richiedente l’ingresso nel suo territorio, gli Stati membri devono assicurare il ricorso a una procedura conformemente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti al capo II della direttiva 2013/32.

46.

Nel corso dell’udienza si è discusso se il fatto di transitare attraverso un determinato paese possa essere considerato «un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo [cui] sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese» ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a).

47.

Non ritengo che ciò sia possibile.

48.

Ammetto che il testo dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2013/32 non fornisce molte indicazioni sul significato dell’espressione «legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo [cui] sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese». Il considerando 44 fa riferimento ad una definizione che deve essere adottata dal diritto nazionale.

49.

Tuttavia, esaminando il contesto immediato del suddetto concetto di «legame», rilevo che l’articolo 38, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2013/32 impone agli Stati membri l’obbligo di adottare norme che richiedano l’esistenza di tale legame e di stabilire un metodo per valutare la situazione di un determinato richiedente. Ove il mero fatto di un semplice transito fosse sufficiente per instaurare un siffatto legame, quale sarebbe la funzione dei complessi requisiti in materia di principi, norme o garanzie?

50.

Per quanto riguarda il più ampio contesto dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), noto che la nozione di «paese terzo sicuro» indica una delle tre categorie di paesi (insieme a «un altro Stato membro» e «paese di primo asilo») verso cui un richiedente può essere indirizzato per ottenere l’esame della propria domanda di protezione internazionale. In altre parole, tali nozioni consentono alle autorità degli Stati membri che hanno ricevuto una domanda di protezione internazionale di trasferire ad un altro paese la responsabilità dell’esame delle esigenze di protezione internazionale del richiedente.

51.

In primo luogo, si tratta di un’eccezione alla regola generale secondo la quale, in linea di principio, tutte le domande dovrebbero essere esaminate ( 13 ). Come ogni altra eccezione, dovrebbe essere interpretata in modo restrittivo ( 14 ).

52.

In secondo luogo, le tre categorie di paesi non sono altri paesi, ma paesi che offrono garanzie specifiche, la cui esistenza è presunta (per quanto riguarda gli Stati membri) ( 15 ) ovvero accertata secondo le norme specificate. Considerando il regime procedurale piuttosto dettagliato che è stato istituito dall’articolo 38, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, sono del parere che se il legislatore avesse voluto definire il legame come un elemento chiave del concetto di «paese terzo sicuro» con riferimento al semplice transito, tale intenzione sarebbe stata espressa chiaramente. Anche in questo caso, il dettagliato regime procedurale attualmente in vigore sarebbe del tutto superfluo.

53.

In terzo luogo, l’ultima frase dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera c), prevede che il richiedente deve poter «contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo». Perché detto diritto abbia un senso, il legame in questione deve essere qualcosa di più dell’atto di transitare, altrimenti la discussione si limiterebbe probabilmente a quale sia il tipo di transito determinante, se a piedi, in automobile, in autobus o in aereo e se, ad esempio, una sosta di venti minuti nel corso della quale il potenziale richiedente avrebbe potuto rivolgersi ai funzionari del paese in questione sia sufficiente a creare il legame in questione.

54.

Vi è un altro aspetto del concetto di «paese di transito sicuro» di cui all’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo, e cioè il requisito della «protezione sufficiente».

55.

Come già menzionato, a differenza dei concetti di paese di primo asilo e di paese terzo sicuro, l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo non richiede esplicitamente che i «paesi di transito sicuro» garantiscano il principio di non respingimento, il cui rispetto è richiesto dalla Convenzione di Ginevra e quindi logicamente anche dal diritto dell’Unione ( 16 ).

56.

Pertanto, il motivo del paese di transito sicuro come definito dalla legislazione nazionale in questione rende meno rigidi i principi applicabili sotto due aspetti: per quanto riguarda la forza del legame che deve esistere tra il richiedente e il paese terzo interessato, e per il livello di protezione che tale paese deve offrire. Sono del parere che, per entrambe le ragioni, il motivo del «paese di transito sicuro» di cui all’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo non possa essere considerato corrispondente al concetto di «paese terzo sicuro» di cui all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32.

57.

Tale conclusione non è inficiata dal fatto che la recente proposta della Commissione europea di regolamento sulla procedura di asilo ( 17 ) che sostituisce la direttiva 2013/32 suggerisce, nella bozza di articolo 45, paragrafo 3, lettera a), relativo al concetto di paese terzo sicuro, che «[l]’autorità accertante considera, previo esame individuale della domanda, che per un dato richiedente il paese terzo sia un paese terzo sicuro solo se ha appurato che gli offre condizioni di sicurezza conformi ai criteri stabiliti al paragrafo 1 e ha constatato che: a) il richiedente ha con il paese terzo un legame in virtù del quale sarebbe ragionevole che vi si recasse, tra l’altro perché vi è transitato in quanto geograficamente il paese terzo è vicino al suo paese di origine (…)» ( 18 ).

58.

In primo luogo, il testo rimane una proposta legislativa. Non si tratta (ancora) di un atto vincolante del diritto dell’Unione.

59.

In secondo luogo, tenendo conto del contenuto del progetto di testo sul concetto di paese terzo sicuro, la proposta presentata difficilmente può essere vista come un chiarimento o una codificazione dell’attuale legislazione in materia. Piuttosto, e la Commissione l’ha ammesso nel corso dell’udienza, se adottata rappresenterebbe un chiaro cambiamento del regime giuridico.

60.

In terzo luogo, il fatto che la versione proposta prevede una modifica sostanziale che va al di là di un semplice chiarimento del concetto esistente sembra aver avuto eco nell’iter legislativo, durante il quale sono stati espressi dubbi sulla compatibilità della proposta della Commissione con la logica generale che permea il concetto di paese terzo sicuro.

61.

A tale riguardo, noto che la commissione competente del Parlamento europeo ha proposto di modificare il progetto di testo sopra citato come segue: a) il richiedente ha con il paese terzo un legame sufficiente in virtù del quale sarebbe ragionevole che vi si recasse; ciò comporta l’esistenza di una residenza o di un soggiorno precedenti in detto paese per cui, considerate la durata e la natura della residenza e del soggiorno predetti, si può ragionevolmente prevedere che il richiedente presenti domanda di protezione in detto paese e vi sia motivo di ritenere che il richiedente vi sarà riammesso; (…)» ( 19 ).

62.

Analogamente, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (in prosieguo: l’«UNHCR») ritiene che il concetto di «paese terzo sicuro» non debba essere definito nel modo suggerito dalla Commissione nella proposta ( 20 ). L’UNHCR riconosce che, sebbene «il diritto internazionale non richieda l’esistenza di un legame o di un collegamento significativo, l’UNHCR ha sempre invocato l’esistenza di un collegamento tanto significativo da rendere ragionevole e sostenibile per una persona la richiesta di asilo in un altro paese» ( 21 ). Suggerisce inoltre che «tener conto della durata e della natura di un soggiorno e dei legami di tipo familiare o di altri stretti vincoli aumenta la fattibilità del ritorno o del trasferimento sia dal punto di vista dell’individuo che del paese terzo. In tale modo, riduce il rischio di prosecuzione del viaggio, previene il determinarsi di situazioni di “orbita” e promuove la cooperazione internazionale nonché la condivisione delle responsabilità» ( 22 ).

63.

L’opinione secondo cui si può ritenere esistente tale collegamento in presenza di alcuni specifici legami del richiedente, ma comunque ben oltre il mero transito, è riflessa anche nelle precedenti posizioni adottate dall’UNCHR al riguardo ( 23 ).

64.

Non spetta a questa Corte formulare pareri sui progetti di legge. Tuttavia, affinché il concetto di paese terzo sicuro acquisisca un significato autonomo, l’interpretazione dello stesso non può portare all’espulsione quasi automatica dei richiedenti verso i paesi attraverso i quali hanno viaggiato, producendo un effetto domino per cui il merito di una determinata domanda non verrebbe mai esaminato in nessun paese ( 24 ).

65.

Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, la mia prima conclusione intermedia è che l’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale una domanda è inammissibile qualora il richiedente sia arrivato in detto Stato membro attraverso un paese terzo in cui non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

B.   Seconda questione: adeguatezza del termine di otto giorni

66.

Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») ( 25 ), osti a una normativa che prevede che un organo giurisdizionale sia soggetto a un termine imperativo di otto giorni per concludere l’esame di una decisione amministrativa che dichiara inammissibile una domanda di protezione internazionale.

67.

Affronto in termini generali la questione dei termini applicabili al controllo giurisdizionale in materia di protezione internazionale nelle mie conclusioni parallele nella causa PG, presentate lo stesso giorno delle presenti conclusioni. A mio avviso, le affermazioni ivi formulate riguardo al termine di 60 giorni per l’esame nel merito delle decisioni in materia di protezione internazionale sono ugualmente applicabili, e in molti casi anche a fortiori, a un termine di otto giorni per le decisioni sull’inammissibilità.

68.

Nelle presenti conclusioni, pertanto, mi concentrerò solo sugli elementi che distinguono il caso in esame dalla causa PG, rinviando, per il resto, alla mia analisi enunciata in dette conclusioni. Evidenzierò in particolare che, anche se adottata in procedimenti specifici e accelerati, una decisione che applica uno dei motivi di inammissibilità non può comportare un livello di controllo «attenuato» (1). Tale circostanza, unitamente a considerazioni strutturali analoghe a quelle della causa PG, mi induce a concludere che, qualora il giudice del rinvio rilevi che, nel procedimento principale, il termine di otto giorni rende impossibile portare a termine un controllo completo ed ex nunc, che al contempo assicuri al richiedente i diritti derivanti in particolare dalla direttiva 2013/32, detto giudice deve disapplicare la pertinente disposizione del diritto nazionale e concludere il controllo giurisdizionale il più rapidamente possibile una volta scaduto il termine (2).

1. Le caratteristiche specifiche (limitate) del riesame per motivi di inammissibilità

69.

Nell’ordinanza di rinvio, il giudice nazionale rileva che in molte occasioni il termine di otto giorni non può essere rispettato, o può esserlo soltanto con grande difficoltà. Ciò non consente al giudice di chiarire sufficientemente i fatti al livello richiesto. Ne consegue quindi una violazione dell’obbligo di effettuare un controllo esaustivo. Il completamento della procedura entro il termine di cui trattasi è particolarmente difficile nell’ambito delle domande ritenute inammissibili, dal momento che l’onere della prova grava quasi esclusivamente sui richiedenti, che già si trovano in una posizione di vulnerabilità. Il giudice del rinvio sottolinea inoltre il fatto che la sua decisione non è impugnabile.

70.

Nelle loro osservazioni scritte, le parti esprimono opinioni divergenti sull’adeguatezza del termine di otto giorni.

71.

Il ricorrente concorda con il giudice del rinvio sul fatto che nella pratica è impossibile rispettare il termine di cui trattasi. Egli sottolinea che nel procedimento principale la domanda è stata elaborata in base a norme specifiche applicabili in una situazione di crisi e che altri aspetti del procedimento rendono difficile l’attuazione dei diritti del ricorrente. Egli fa riferimento al termine di tre giorni per depositare un ricorso e al fatto che, in pratica, è impossibile essere ascoltati dal giudice perché tale audizione si deve svolgere nella zona di transito attraverso mezzi di telecomunicazione di cui il giudice non dispone. Il ricorrente sottolinea inoltre che l’impugnazione delle decisioni amministrative non ha effetto sospensivo se non dietro presentazione di una domanda, il che non è realizzabile senza assistenza legale. Egli sottolinea inoltre la necessità di concedere al richiedente tempo sufficiente per presentare i fatti nonché la circostanza che, per alcune lingue, può esservi un solo interprete in tutto il paese. Rileva inoltre che il giudice deve assicurarsi che la decisione negativa e l’espulsione del richiedente non comportino la violazione dell’articolo 3 della CEDU. Egli conclude che, sebbene il termine di cui trattasi non sia di per sé incompatibile con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva, l’incompatibilità deriva dal fatto che esso non può essere prorogato.

72.

Secondo il governo ungherese, in mancanza di norme comuni spetta agli Stati membri fissare i termini applicabili, conformemente al principio dell’autonomia procedurale. L’obiettivo generale è quello di trattare rapidamente le domande. Inoltre, un rapido trattamento di casi come quello di specie consente ai giudici di concentrarsi maggiormente su quelli esaminati nel merito. Detto governo ritiene che il termine di cui trattasi sia ragionevole perché, nei casi aventi ad oggetto l’ammissibilità, il merito non viene esaminato e le questioni trattate non richiedono la produzione di copiosi elementi di prova.

73.

La Commissione osserva che, atteso che la direttiva 2013/32 non contiene norme comuni sui termini, la questione rientra nell’autonomia procedurale degli Stati membri. In tale contesto, essa ritiene che il requisito dell’efficacia non sia rispettato in quanto il termine di cui trattasi non consente di prendere in considerazione circostanze individuali. Più specificamente, la Commissione fa riferimento al progetto di articolo 55 contenuto nella sua proposta di regolamento per sostituire l’attuale direttiva 2013/32 ( 26 ), in cui propone, per situazioni come quella di cui al procedimento principale, un termine di due mesi prorogabile di altri tre mesi. Alla luce di tale proposta, la Commissione ritiene che otto giorni non siano sufficienti.

74.

In primo luogo, sembra che il termine di otto giorni sia della medesima natura procedurale del termine di 60 giorni di cui alla causa PG ( 27 ).

75.

In secondo luogo, il termine di cui trattasi nel caso di specie è diverso e significativamente più breve del termine di 60 giorni di cui alla causa PG. Tale differenza, indipendentemente dall’esatta durata, non è di per sé un problema. In un contesto analogo, la Corte ha riconosciuto che gli Stati membri possono prevedere termini diversi entro i quali il richiedente deve proporre ricorso, a seconda che il tipo di decisione in questione sia adottato nell’ambito di una procedura ordinaria o accelerata ( 28 ).

76.

Tale osservazione può essere applicata mutatis mutandis alle differenze che potrebbero esistere tra i termini entro i quali il giudice deve concludere l’esame di una fattispecie, a seconda che esso riesamini nel merito oppure solo per motivi di inammissibilità la valutazione effettuata dall’organo amministrativo. Non tutti i casi, infatti, sono identici.

77.

In terzo luogo, e forse elemento più importante nel contesto della presente causa, la Corte ha riconosciuto che, prevedendo motivi di inammissibilità, il legislatore ha cercato di «temperare l’obbligo dello Stato membro competente di esaminare una domanda di protezione internazionale» ( 29 ). Analogamente, la Corte ha affermato che «(…) l’esame completo ed ex nunc incombente al giudice [di cui all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32] non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e può dunque riguardare l’ammissibilità della domanda di protezione internazionale, qualora il diritto nazionale lo consenta in applicazione dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32» ( 30 ).

78.

Tuttavia, un conto è convenire sul fatto che l’esame delle decisioni amministrative potrebbe non comportare un esame completo del merito quando il ricorso riguarda la questione specifica dell’ammissibilità di una domanda, altra cosa è suggerire che, in un siffatto caso, non sono più applicabili il livello di controllo e i diritti procedurali di cui godono i richiedenti ai sensi della direttiva 2013/32.

79.

Pertanto, con riferimento al diritto ad un esame giurisdizionale del proprio caso ai sensi dell’articolo 46 di tale direttiva, i richiedenti godono, in linea di principio, degli stessi diritti, tanto nel caso di riesame dell’ammissibilità, quanto nel caso di riesame nel merito ( 31 ). Fatte salve le disposizioni specifiche della direttiva 2013/32, ciò che cambia è l’oggetto del riesame, non la qualità dello stesso.

2. Approccio orientato ai diritti nella valutazione dell’adeguatezza del termine

80.

In linea con il suggerimento contenuto nelle conclusioni da me presentate nella causa PG ( 32 ), il termine di otto giorni dovrebbe essere esaminato nel contesto del livello di controllo richiesto e degli specifici diritti procedurali di cui i richiedenti devono poter godere ai sensi del diritto dell’Unione.

81.

Nel caso di specie il ricorrente suggerisce che il termine di cui trattasi debba essere valutato nel contesto dell’intero procedimento. Sottolinea in particolare il termine di tre giorni entro il quale i richiedenti devono adire il giudice quando si trovano in una zona di transito. Questo fatto aggiuntivo limita ulteriormente, a suo avviso, la possibilità di ottenere assistenza legale o un colloquio personale con il giudice, cosa che in pratica non avviene mai perché il giudice non è dotato dei necessari mezzi di comunicazione.

82.

Sebbene spetti al giudice del rinvio valutare questi aspetti, è chiaro che tali condizioni, in base alle quali il caso di un richiedente non è soggetto a un solo termine, bensì, a quanto sembra, a una serie di termini tassativi, incideranno necessariamente sulla qualità dell’argomentazione. Ciò, a sua volta, si ripercuote sul lavoro del giudice ( 33 ), il quale è comunque tenuto a svolgere un riesame completo ed ex nunc ( 34 ).

83.

Inoltre, il richiedente deve avere la possibilità di impugnare l’applicazione dei concetti di «paese di primo asilo» o «paese terzo sicuro» relativamente alle sue condizioni specifiche ( 35 ), il che significa che l’applicazione di tali nozioni deve sempre essere valutata caso per caso alla luce della situazione specifica del richiedente.

84.

In quarto luogo e ultimo luogo, nel caso di specie il giudice del rinvio non indica se, a causa del termine di cui trattasi, siano stati violati i diritti garantiti, in particolare ai sensi degli articoli 12, paragrafo 1, lettere da b) a e), in combinato disposto con l’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, o ai sensi degli articoli 20, 22, 24 o 25 della stessa ( 36 ).

85.

Considerando congiuntamente tutti questi elementi, la mia proposta di risposta alla seconda questione sollevata nel caso di specie è quindi simile a quella data nella causa PG: se, alla luce di tali elementi, il giudice nazionale constata che è impossibile effettuare il necessario riesame entro il termine prescritto, nel rispetto dei diritti del richiedente garantiti dal diritto dell’Unione, detto giudice deve disapplicare la pertinente disposizione del diritto nazionale e concludere il riesame il più celermente possibile dopo la scadenza di detto termine ( 37 ).

86.

Va tuttavia aggiunto che, nella causa PG, in determinate condizioni (ad esempio se il carico di lavoro del giudice in questione non è considerevole e se il giudice dispone di tutti i mezzi tecnici necessari), l’adeguatezza del termine di 60 giorni potrebbe essere oggetto di discussione ( 38 ). Per contro, un termine di otto giorni dà adito a dubbi ben più seri circa la sua adeguatezza, anche se il giudice deve «semplicemente» controllare la valutazione dell’autorità accertante con riferimento a uno dei cinque motivi di inammissibilità.

87.

In effetti, la semplice iscrizione di una causa nel ruolo di un tribunale richiede tempo, poi vi è il tempo necessario al giudice per prendere conoscenza del fascicolo e impartire le disposizioni necessarie, quali garantire all’occorrenza l’assistenza legale e il servizio di interpretazione, organizzare un colloquio, se del caso, nonché ottenere le necessarie informazioni sui paesi terzi interessati e sulle condizioni specifiche del richiedente. Pur non mettendo affatto in dubbio l’efficienza di procedure giudiziarie ben gestite, la capacità di fare tutto ciò oltre al successivo esame del caso in modo adeguato entro otto giorni, e dovendo trattare ovviamente, al contempo, una serie di altre cause, sarebbe sufficiente a generare un complesso di inferiorità persino al giudice Ercole.

88.

Alla luce di tali considerazioni, la mia seconda conclusione intermedia è che l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, deve essere interpretato nel senso che spetta al giudice nazionale valutare se il termine per il riesame previsto dalla normativa nazionale sia adeguato nella causa pendente dinanzi ad esso, tenuto conto del suo obbligo di effettuare un esame completo ed ex nunc, compreso, se del caso, un esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95, garantendo al contempo i diritti del richiedente quali definiti, in particolare, dalla direttiva 2013/32. Qualora il giudice nazionale ritenga che tali diritti non possano essere garantiti, alla luce delle circostanze specifiche della causa o delle condizioni generali nelle quali tale giudice deve svolgere i suoi compiti, come ad esempio un numero particolarmente elevato di domande presentate simultaneamente, egli deve disapplicare il relativo termine per quanto necessario e concludere l’esame il più rapidamente possibile dopo la scadenza di tale termine.

V. Conclusioni

89.

Alla luce delle considerazioni che precedono, suggerisco alla Corte di rispondere alla questione proposta dal Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria) nel modo seguente:

1.

L’articolo 33 della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale una domanda è inammissibile nell’ambito della procedura di asilo qualora il richiedente sia arrivato in detto Stato membro attraverso un paese in cui non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

2.

L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che spetta al giudice nazionale valutare se il termine per il riesame previsto dalla normativa nazionale sia adeguato nella causa pendente dinanzi ad esso, tenuto conto del suo obbligo di effettuare un esame completo ed ex nunc, compreso, se del caso, un esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, garantendo al contempo i diritti del richiedente quali definiti, in particolare, nella direttiva 2013/32. Qualora il giudice nazionale ritenga che tali diritti non possano essere garantiti, alla luce delle circostanze specifiche della causa o delle condizioni generali nelle quali tale giudice deve svolgere i suoi compiti, come ad esempio un numero particolarmente elevato di domande presentate simultaneamente, egli deve disapplicare il termine pertinente per quanto necessario e concludere l’esame il più celermente possibile dopo la scadenza di detto termine.


( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).

( 3 ) Il corsivo è mio.

( 4 ) V. supra, paragrafo 6.

( 5 ) Dal punto di vista sistemico, come confermato dal considerando 43 della direttiva 2013/32, «[g]li Stati membri dovrebbero esaminare tutte le domande nel merito», il che indica che i casi in cui è possibile derogare al soddisfacimento di tale obbligo devono essere trattati come eccezioni e interpretati restrittivamente.

( 6 ) Sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a. (C‑297/17, C‑318/17, C‑319/17 e C‑438/17, EU:C:2019:219, punto 76).

( 7 ) United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nei paesi del Vicino Oriente).

( 8 ) 23 giorni. V. conclusioni presentate dall’avvocato generale Mengozzi nella causa Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:327, paragrafo 85).

( 9 ) Sentenza del 25 luglio 2018, Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 143).

( 10 ) V. anche conclusioni presentate dall’avvocato generale Mengozzi nella causa Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:327, paragrafo 84).

( 11 ) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).

( 12 ) Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Serie dei trattati delle Nazioni Unite, vol. 189, pag. 137, n. 2545 (1954)], entrata in vigore il 22 aprile 1954. Integrata e modificata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967 ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «convenzione di Ginevra»).

( 13 ) V. nota 5 supra.

( 14 ) V, altresì le conclusioni presentate dall’avvocato generale Mengozzi nella causa Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:327, paragrafo 78) con riguardo alla disciplina anteriore alla direttiva 2013/32.

( 15 ) Sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a. (C‑297/17, C‑318/17, C‑319/17 e C‑438/17, EU:C:2019:219, punto 85 e giurisprudenza ivi citata).

( 16 ) Articolo 33 della Convenzione di Ginevra. V. articolo 78, paragrafo 1, TFUE e articolo 21 della direttiva 2011/95.

( 17 ) Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE [COM(2016) 467].

( 18 ) Il corsivo è mio.

( 19 ) Relazione sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, 22 maggio 2018 [COM(2016)0467 – C8‑0321/2016 – 2016/0224(COD)].

( 20 ) UNHCR comments on the European Commission Proposal for an Asylum Procedures Regulation [COM(2016) 467], aprile 2019. Come osservato dalla Corte nel contesto della direttiva 2011/95, «i documenti emanati dall’[UNHCR] godono di una pertinenza particolare, considerato il ruolo attribuito all’UNHCR dalla Convenzione di Ginevra». Sentenza del 23 maggio 2019, Bilali (C‑720/17, EU:C:2019:448, punto 57 e giurisprudenza ivi citata). V. altresì sentenza del 30 maggio 2013, Halaf (C‑528/11, EU:C:2013:342, punto 44 e giurisprudenza ivi citata).

( 21 ) UNHCR comments on the European Commission Proposal for an Asylum Procedures Regulation [COM(2016) 467], aprile 2019, pag. 42.

( 22 ) Ibidem.

( 23 ) V., ad esempio, UNCHR «Legal Considerations regarding access to protection and a connection between the refugees and the third country in the context of return or transfer to safe countries», aprile 2018, e «Guidance note on bilateral and/or multilateral transfer agreements of asylum-seekers», maggio 2013.

( 24 ) V. anche il considerando 44 della direttiva 2013/32 che mette in guardia contro i movimenti secondari dei richiedenti (che si verificano quando i richiedenti protezione internazionale si trasferiscono dal primo paese in cui sono arrivati per cercare protezione in un altro paese).

( 25 ) Nella seconda questione la Corte fa riferimento all’articolo 31 della direttiva 2013/32, nonché agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «CEDU»). Tuttavia, alla luce dei fatti nel caso di specie (un procedimento giurisdizionale) e del fatto che l’Unione europea non è parte della CEDU, intenderò la questione come riferita all’articolo 46 della direttiva 2013/32 (che riguarda l’esame giurisdizionale) e non all’articolo 31 (che riguarda l’esame a livello amministrativo), e all’articolo 47 della Carta, letto, in virtù dell’articolo 52, paragrafo 3, alla luce delle disposizioni pertinenti della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU»).

( 26 ) COM(2016) 467. Attualmente in corso come procedimento 2016/0224/COD.

( 27 ) V. ulteriori chiarimenti nelle conclusioni da me presentate nella causa PG, paragrafi da 43 a 47.

( 28 ) La Corte ha riconosciuto che potrebbe esservi l’intenzione di trattare più rapidamente le domande di asilo inammissibili, «al fine di consentire un trattamento più efficace delle domande presentate da persone idonee a beneficiare dello status di rifugiato». Sentenza del 28 luglio 2011, Samba Diouf (C‑69/10, EU:C:2011:524, punti 6566).

( 29 ) Sentenza del 17 marzo 2016, Mirza (C‑695/15 PPU, EU:C:2016:188, punto 43).

( 30 ) Sentenza del 25 luglio 2018, Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115).

( 31 ) V., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115).

( 32 ) V. paragrafi da 59 a 63 di dette conclusioni.

( 33 ) V., in tal senso, Corte EDU, 2 febbraio 2012, I.M./Francia, (CE:CEDU:2012:0202JUD00091515209, § 155).

( 34 ) V. sentenza del 25 luglio 2018, Alheto (C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115).

( 35 ) Per quanto riguarda la nozione di «paese di primo asilo», l’ultima frase dell’articolo 35 della direttiva 2013/32 stabilisce che «[i]l richiedente è autorizzato a impugnare l’applicazione del concetto di paese di primo asilo relativamente alle sue condizioni specifiche». Per quanto riguarda il concetto di «paese di primo asilo», ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera c), gli Stati membri devono stabilire norme «conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a)».

( 36 ) V. le conclusioni da me presentate nella causa PG, paragrafo 64.

( 37 ) Naturalmente, i chiarimenti di cui al paragrafo 71 di dette conclusioni sono applicabili anche al caso di specie. Osservo che sia l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 sia l’articolo 47 della Carta hanno effetto diretto. V. sentenze del 29 luglio 2019, Torubarov (C‑556/17, EU:C:2019:626, punti 5673), o (solo quanto all’articolo 47 della Carta) sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 78), e del 19 novembre 2019, A.K. e a. (Indipendenza della Sezione disciplinare della Corte Suprema) (C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, EU:C:2019:982, punto 162).

( 38 ) V. le mie conclusioni nella causa PG, paragrafi da 65 a 69.