CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MELCHIOR WATHELET

presentate il 21 giugno 2018 ( 1 )

Cause riunite C‑391/16, C‑77/17 e C‑78/17

M

contro

Ministerstvo vnitra

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa, Repubblica ceca)]

e

X (C‑77/17)

X (C‑78/17)

contro

Commissaire général aux réfugiés e aux apatrides

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri, Belgio)]

«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Politica d’asilo – Direttiva 2011/95/UE – Diniego di concessione o revoca dello status di rifugiato – Condanna per un reato particolarmente grave – Articolo 14, paragrafi da 4 a 6 – Interpretazione e validità – Articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 78, paragrafo 1, TFUE – Convenzione sullo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951»

I. Introduzione

1.

Le domande di pronuncia pregiudiziale presentate dal Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri, Belgio) nelle cause C‑77/17 e C‑78/17 vertono sull’interpretazione dell’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95/UE ( 2 ), nonché sulla sua validità in relazione all’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

2.

Nella causa C‑391/16, il Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa, Repubblica ceca) interroga la Corte in merito alla validità dell’articolo 14, paragrafi 4 e 6, della direttiva 2011/95 in relazione alle medesime disposizioni nonché in relazione all’articolo 6, paragrafo 3, TUE.

3.

Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie concernenti la validità delle decisioni con cui le autorità nazionali competenti in materia di diritto di asilo hanno negato il riconoscimento dello status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria a X (causa C‑77/17) in applicazione della normativa belga di recepimento dell’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95, revocando lo status di rifugiato precedentemente concesso a X (causa C‑78/17) e a M (causa C‑391/16) ai sensi delle disposizioni di diritto nazionale (belga e ceco, rispettivamente) di trasposizione del paragrafo 4 dell’articolo medesimo.

4.

I paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 consentono, in sostanza, a uno Stato membro di revocare lo status concesso a un rifugiato e di negare la concessione dello status di rifugiato quando il rifugiato di cui trattasi costituisce un pericolo per la sicurezza o la comunità di tale Stato membro. Il paragrafo 6 di tale articolo precisa i diritti minimi il cui godimento deve comunque essere garantito al rifugiato fintantoché egli rimanga in tale Stato membro.

5.

Con le questioni pregiudiziali, i giudici del rinvio intendono, in sostanza, chiedere se tali disposizioni violino la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati ( 3 ) (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra») e, di conseguenza, siano illegittime alla luce dell’articolo 18 della Carta e dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, ai sensi dei quali la politica comune di asilo deve rispettare tale convenzione.

II. Contesto normativo

A.   Diritto internazionale

6.

Ai sensi dell’articolo 1, lettera A), paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra, il termine «rifugiato» indica chiunque, «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure (...) chiunque, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale (...), non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra» ( 4 ).

7.

A termini della successiva lettera C) del medesimo articolo 1:

«Una persona, cui sono applicabili le disposizioni della sezione A), non fruisce più della presente Convenzione:

1)

se ha volontariamente ridomandato la protezione dello Stato di cui possiede la cittadinanza; o

2)

se ha volontariamente riacquistato la cittadinanza persa; o

3)

se ha acquistato una nuova cittadinanza e fruisce della protezione dello Stato di cui ha acquistato la cittadinanza; o

4)

se è volontariamente ritornata e si è domiciliata nel paese che aveva lasciato o in cui non si era più recata per timore d’essere perseguitata; o

5)

se, cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza. (...)

6)

trattandosi di un apolide, se, cessate le circostanze in base alle quali è stato riconosciuto come apolide, egli è in grado di ritornare nello Stato del suo domicilio precedente.

(...)».

8.

La successiva lettera F) dello stesso articolo prevede quanto segue:

«Le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili alle persone, di cui vi sia serio motivo di sospettare che:

a)

hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, nel senso degli strumenti internazionali contenenti disposizioni relative a siffatti crimini;

b)

hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati;

c)

si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi e ai principi della Nazioni Unite».

9.

L’articolo 33 della Convenzione medesima così recita:

«1.   Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

2.   La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese».

10.

Ai sensi del successivo articolo 42, paragrafo 1, «[a]ll’atto della firma, della ratificazione o dell’accessione, ciascuno Stato può fare riserve circa gli articoli della presente Convenzione, eccettuati gli articoli 1, 3, 4, 16 (1), 33, 36 a 44 compreso».

B.   Diritto dell’Unione

11.

L’articolo 2 della direttiva 2011/95 così recita:

«Ai fini della presente direttiva si intende per:

(…)

d)

“rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12;

e)

“status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato;

(…)».

12.

L’articolo 11 della stessa direttiva, intitolato «Cessazione», al paragrafo 1 così dispone:

«Un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di essere un rifugiato qualora:

a)

si sia volontariamente avvalso di nuovo della protezione del paese di cui ha la cittadinanza; o

b)

avendo perso la cittadinanza, l’abbia volontariamente riacquistata; o

c)

abbia acquistato una nuova cittadinanza e goda della protezione del paese di cui ha acquistato la cittadinanza; o

d)

si sia volontariamente ristabilito nel paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di essere perseguitato; o

e)

non possa più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato; o

f)

se trattasi di un apolide, sia in grado di tornare nel paese nel quale aveva la dimora abituale, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato».

13.

Il successivo articolo 12, intitolato «Esclusione», dispone, al paragrafo 2, quanto segue:

«Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato ove sussistano fondati motivi per ritenere che:

a)

abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

b)

abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato (...);

c)

si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite».

14.

Ai sensi dell’articolo 13 della medesima direttiva, «[g]li Stati membri riconoscono lo status di rifugiato al cittadino di un paese terzo o apolide che soddisfa le condizioni per essere considerato quale rifugiato in conformità dei capi II e III».

15.

Il successivo articolo 14 dispone quanto segue:

«1.   Per quanto riguarda le domande di protezione internazionale presentate successivamente all’entrata in vigore della direttiva 2004/83/CE ( 5 ) gli Stati membri revocano lo status di rifugiato riconosciuto da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario ad un cittadino di un paese terzo o a un apolide o si sono rifiutate di rinnovarlo quando il rifugiato ha cessato di beneficiare di tale status in virtù dell’articolo 11.

(…)

3.   Gli Stati membri revocano, cessano o rifiutano di rinnovare lo status di rifugiato di un cittadino di un paese terzo o di un apolide qualora, successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, lo Stato membro interessato abbia stabilito che:

a)

la persona in questione avrebbe dovuto essere esclusa o è esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 12;

b)

il fatto di aver presentato i fatti in modo erroneo o di averli omessi, compreso il ricorso a documenti falsi, ha costituito un fattore determinante per l’ottenimento dello status di rifugiato.

4.   Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto a un rifugiato da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario quando:

a)

vi sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova;

b)

quando, essendo stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro.

5.   Nelle situazioni previste al paragrafo 4, gli Stati membri possono decidere di non riconoscere lo status a un rifugiato quando la decisione non è ancora stata presa.

6.   Le persone cui si applicano i paragrafi 4 o 5 godono dei diritti analoghi conferiti dagli articoli 3, 4, 16, 22, 31 e 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, o di diritti analoghi, purché siano presenti nello Stato membro».

16.

L’articolo 20, paragrafo 1, della direttiva medesima, contenuto nel capo VII, intitolato «Contenuto della protezione internazionale», prevede che «[tale] capo non pregiudi[ca] i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra».

17.

Ai sensi del successivo articolo 21:

«1.   Gli Stati membri rispettano il principio di “non refoulement” in conformità dei propri obblighi internazionali.

2.   Qualora non sia vietato dagli obblighi internazionali previsti dal paragrafo 1, gli Stati membri possono respingere un rifugiato, formalmente riconosciuto o meno:

a)

quando vi siano ragionevoli motivi per considerare che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato membro nel quale si trova; o

b)

quando, essendo stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro.

3.   Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare il rinnovo o il rilascio di un permesso di soggiorno di un (o a un) rifugiato al quale si applichi il paragrafo 2».

C.   Le normative nazionali

1. Diritto belga

18.

La legge del 15 dicembre 1980 sull’accesso al territorio, il soggiorno, lo stabilimento e l’allontanamento degli stranieri (in prosieguo: la «legge belga sugli stranieri») ( 6 ), nel testo applicabile ai fatti del procedimento principale nelle cause C‑77/17 e C‑78/17, all’articolo 48/3, paragrafo 1, dispone che «[i]l riconoscimento dello status di rifugiato è concesso allo straniero che soddisfa le condizioni previste dall’articolo 1 della [Convenzione di Ginevra]».

19.

L’articolo 48/4, paragrafo 1, della legge medesima stabilisce le condizioni ai fini della concessione dello status di protezione sussidiaria.

20.

A termini del successivo articolo 52/4, secondo comma, «[i]l Commissariato generale per i rifugiati e gli apolidi [in prosieguo: il «CGRA»] può negare il riconoscimento dello status di rifugiato se lo straniero costituisce un pericolo per la società, essendo condannato in via definitiva per un reato particolarmente grave, o quando sussistono ragionevoli motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza nazionale. In questo caso il [CGRA] esprime un parere in merito alla compatibilità di una misura di allontanamento con gli articoli 48/3 e 48/4».

21.

Il successivo articolo 55/3/1 così dispone:

«§ 1.   Il [CGRA] può revocare lo status di rifugiato quando lo straniero costituisce, essendo stato definitivamente condannato per un reato particolarmente grave, un pericolo per la società o quando vi sono ragionevoli motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza nazionale.

(…)

§ 3.   Il [CGRA], quando revoca lo status di rifugiato ai sensi del paragrafo 1 (...), emana, nell’ambito della propria decisione, un parere in merito alla compatibilità di una misura di allontanamento con gli articoli 48/3 e 48/4».

22.

I motivi di cui all’articolo 55/3/1, paragrafo 1, della legge belga sugli stranieri riguardano anche, ai sensi dell’articolo 55/4, paragrafo 2, della legge medesima, l’esclusione dello status di protezione sussidiaria.

2. Diritto ceco

23.

L’articolo 2, paragrafo 6, del zákon č. 325/1999 Sb., o azylu (legge n. 325/1999 sull’asilo; in prosieguo: la «legge ceca sull’asilo»), nel testo vigente alla data dei fatti della causa C‑391/16, definisce il rifugiato ai sensi della legge stessa (azylant) come «lo straniero al quale è stato concesso, ai sensi della presente legge, il diritto d’asilo durante il periodo di validità della decisione di concessione del diritto di asilo».

24.

Ai sensi dell’articolo 12, lettera b), della legge medesima, il diritto di asilo è riconosciuto agli stranieri quando viene accertato che essi hanno il timore fondato di essere perseguitati per uno dei motivi di cui all’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra.

25.

Ai sensi del successivo articolo 17, paragrafo 1, lettera i), il diritto d’asilo è revocato «se sussistono motivi legittimi per considerare il rifugiato un pericolo per la sicurezza dello Stato». A termini del paragrafo 1, lettera j), dello stesso articolo 17, il diritto di asilo è revocato «se il rifugiato, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato particolarmente grave, costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato». Tali medesimi motivi implicano, ai sensi dell’articolo 15a della legge ceca sull’asilo, l’impossibilità di concedere la protezione sussidiaria.

26.

Secondo le indicazioni del Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa), un azylant beneficia di vantaggi qualitativamente superiori rispetto a un «mero» rifugiato rispondente ai requisiti di cui all’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra. Un rifugiato il cui status è revocato cessa di essere un azylant e, pertanto, di beneficiare di tali vantaggi.

III. Le controversie nei procedimenti principali, le questioni pregiudiziali e il procedimento dinanzi alla Corte

A.   Causa C‑77/17

27.

X ha dichiarato di essere un cittadino ivoriano di appartenenza etnica bété. Egli giungeva in Belgio, nel luglio 2003, all’età di 12 anni. X accompagnava il padre che, all’epoca, era vicino all’ex presidente Laurent Gbagbo e diplomatico dell’ambasciata della Costa d’Avorio a Bruxelles.

28.

Nel 2010, X veniva condannato dal Tribunal de première instance de Bruxelles (Tribunale di primo grado di Bruxelles, Belgio) ad una pena detentiva di trenta mesi per percosse e lesioni dolose gravi, possesso di arma bianca senza legittimo motivo e possesso di un’arma proibita. Nel 2011 la Cour d’appel de Bruxelles (Corte d’appello di Bruxelles, Belgio) l’ha condannato a una pena detentiva di quattro anni per stupro di minore di età compresa tra 14 anni e 16 anni.

29.

Nel 2013, X presentava una prima richiesta di asilo, alla quale poi rinunciava. Nel 2015 presentava una seconda domanda di asilo a sostegno della quale faceva valere il timore di persecuzioni dovute al fatto che il padre e i familiari erano strettamente legati al precedente regime della Costa d’Avorio e all’ex presidente Laurent Gbagbo.

30.

Con decisione del 19 agosto 2016, il CGRA gli negava il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 52/4, secondo comma, della legge belga sugli stranieri. Il CGRA riteneva, in considerazione della natura particolarmente grave dei reati commessi e della loro reiterazione, che X costituisse un pericolo per la società ai sensi di tale disposizione. Per gli stessi motivi, escludeva X dalla protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 55/4, paragrafo 2, della legge de qua. Inoltre, il CGRA emanava un parere ai sensi dell’articolo 52/4 della legge medesima, secondo cui X, a fronte dei suoi timori di persecuzione, non poteva essere espulso verso la Costa d’Avorio, essendo una misura del genere incompatibile con gli articoli 48/3 e 48/4 della legge stessa.

31.

Avverso tale decisione X proponeva ricorso dinanzi al giudice del rinvio, il quale rileva che l’articolo 52/4, secondo comma, della legge sugli stranieri, ha trasposto nell’ordinamento belga l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95, interrogandosi sulla validità di dette disposizioni rispetto all’articolo 18 della Carta e all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

32.

Il giudice medesimo sottolinea, in sostanza, che l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 prevede, quale motivo di diniego di riconoscimento dello status di rifugiato, il pericolo per la sicurezza o la comunità di uno Stato membro. Orbene, tale motivo non sarebbe previsto né tra le cause di esclusione tassativamente elencate all’articolo 1, lettera F), della Convenzione di Ginevra, né da alcun’altra sua disposizione. Lo stesso articolo 14, paragrafo 5, farebbe assurgere a motivi di diniego le fattispecie contemplate agli articoli 32 e 33 di tale convenzione, mentre detti articoli disciplinano non la determinazione dello status di rifugiato, bensì l’espulsione dei rifugiati. Si porrebbe pertanto la questione se l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva non istituisca, in violazione della Convenzione di Ginevra, una nuova forma di esclusione dallo status di rifugiato non prevista da tale convenzione.

33.

Il giudice del rinvio osserva che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR o UNHCR) ha formulato un parere particolarmente critico nei confronti dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva 2004/83/CE ( 7 ) (che ha preceduto la direttiva 2011/95). Il passo pertinente di tale parere così recita ( 8 ):

«L’articolo [14, paragrafo 4] della direttiva [2004/83] rischia di introdurre modifiche sostanziali alle clausole di esclusione della [Convenzione di Ginevra], aggiungendo la disposizione dell’articolo [33, paragrafo 2] di [tale convenzione] (eccezioni al principio del non respingimento) quale motivo di esclusione dallo status di rifugiato. Ai sensi di [detta convenzione], le clausole di esclusione e l’eccezione al principio del non respingimento hanno obiettivi diversi. La logica dell’articolo 1, [lettera] F), che elenca in modo tassativo i motivi di esclusione basati sul comportamento del richiedente, è duplice. In primo luogo, taluni atti sono così gravi da rendere i loro autori indegni della protezione internazionale. In secondo luogo, il regime dell’asilo non deve ostacolare il perseguimento dei grandi criminali. Al contrario, l’articolo [33, paragrafo 2] riguarda il trattamento dei rifugiati e definisce le circostanze in cui questi potrebbero comunque essere respinti. Esso mira alla protezione della sicurezza del paese ospitante o della comunità dello stesso paese. La disposizione si basa sulla valutazione della questione se la persona interessata costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o se, essendo stata condannata con sentenza definitiva per un reato particolarmente grave, costituisca un pericolo per la comunità. L’articolo [33, paragrafo 2] non è stato tuttavia concepito come un motivo per porre fine allo status di rifugiato (...). Assimilare le eccezioni al principio di non respingimento consentite ai sensi dell’articolo [33, paragrafo 2] alle clausole di esclusione di cui all’articolo 1, [lettera] F) sarebbe quindi incompatibile con la [Convenzione di Ginevra]. Inoltre, ciò potrebbe condurre a un’errata interpretazione di queste due disposizioni di [tale convenzione].

L’espressione “status di rifugiato” è quindi intesa come riferita all’asilo (“status”) riconosciuto dallo Stato anziché allo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1, [lettera A), paragrafo 2], della [Convenzione di Ginevra] (...). Pertanto, gli Stati sono comunque tenuti a riconoscere i diritti di [tale convenzione] che non richiedono un soggiorno regolare e che non prevedono eccezioni finché il rifugiato rimanga sotto la giurisdizione dello Stato interessato».

34.

Ciò premesso, il Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)

Se l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che introduca una nuova clausola di esclusione dello status di rifugiato previsto dall’articolo 13 della medesima direttiva e, pertanto, dall’articolo 1, [lettera] A), della Convenzione di Ginevra.

2)

In caso di risposta affermativa alla prima questione, se l’articolo 14, paragrafo 5, così interpretato, sia compatibile con l’articolo 18 della [Carta] e con l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, segnatamente, la conformità del diritto derivato [dell’Unione] alla Convenzione di Ginevra, la cui clausola di esclusione, prevista all’articolo 1, [lettera] F), è formulata in termini esaustivi e va interpretata in modo restrittivo.

3)

In caso di risposta negativa alla prima questione, se occorra interpretare l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95/UE nel senso che introduce un motivo di diniego dello status di rifugiato non previsto nella Convenzione di Ginevra, il cui rispetto è imposto dall’articolo 18 della [Carta] e dall’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

4)

In caso di risposta affermativa alla terza questione, se l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva [2011/95], sia compatibile con l’articolo 18 della [Carta] e con l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, segnatamente, la conformità del diritto derivato [dell’Unione] alla Convenzione di Ginevra, dal momento che esso introduce un motivo di rifiuto dello status di rifugiato senza alcun esame del timore di persecuzione, come impone l’articolo 1, [lettera] A), della Convenzione di Ginevra.

5)

In caso di risposta negativa alle questioni prime e terza, come si debba interpretare l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 in senso conforme all’articolo 18 della [Carta] e all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, segnatamente, la conformità del diritto europeo derivato alla Convenzione di Ginevra».

B.   Causa C‑78/17

35.

In base alle dichiarazioni di X, questi è cittadino della Repubblica democratica del Congo la cui data di nascita è compresa tra il 1986 e il 1990. Nel 1997, veniva sottratto alla madre, portato all’accampamento militare di Kokolo (Congo) e, successivamente, addestrato a Goma (Congo), dove veniva drogato, maltrattato e inviato a partecipare a operazioni militari. Nel 2000, X raggiungeva il padre in Belgio, dove presentava nel 2006 richiesta di asilo. Con decisione del 21 febbraio 2007, il CGRA gli riconosceva la qualità di rifugiato.

36.

Nel 2010, X veniva condannato dalla Cour d’assises de Bruxelles (Corte d’assise di Bruxelles, Belgio) ad una pena detentiva di venticinque anni per rapine durante le quali veniva commesso un omicidio doloso. X aveva, inoltre, commesso diversi reati di rapina e di aggressione in Belgio prima del riconoscimento della sua qualità di rifugiato.

37.

Con decisione del 4 maggio 2016, il CGRA gli negava il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 55/3, secondo comma, della legge belga sugli stranieri. Il CGRA riteneva che, in considerazione della natura particolarmente grave dei reati accertati dalla Cour d’assises (Corte d’assise) di Bruxelles, nonché della sua carriera criminale, X costituisse un pericolo per la comunità ai sensi di tale disposizione, recante trasposizione dell’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95. Inoltre, il CGRA emanava un parere secondo cui l’allontanamento di X sarebbe stato compatibile con gli articoli 48/3 e 48/4 di detta legge in quanto i timori di essere perseguitato a causa della sua diserzione dall’esercito congolese, dedotti nel 2007, non sarebbero stati più attuali.

38.

X impugnava tale decisione dinanzi al giudice del rinvio. Per gli stessi motivi dedotti nella causa C‑77/17, detto giudice s’interroga sulla validità dell’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95 alla luce dell’articolo 18 della Carta e dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

39.

In tale contesto il Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)

Se l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95/UE debba essere interpretato nel senso che istituisca una nuova clausola di esclusione dello status di rifugiato previsto all’articolo 13 della stessa direttiva e, di conseguenza, dell’articolo 1, [lettera] A), della Convenzione di Ginevra.

2)

In caso di risposta affermativa alla prima questione, se l’articolo 14, paragrafo 4, così interpretato, sia compatibile con l’articolo 18 della [Carta] e con l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, in particolare, la conformità del diritto derivato [dell’Unione] alla Convenzione di Ginevra, la cui clausola di esclusione, prevista all’articolo 1, [lettera] F), è formulata in termini esaustivi e va interpretata in modo restrittivo.

3)

In caso di risposta negativa alla prima questione, se l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che introduca un motivo di revoca dello status di rifugiato non previsto nella Convenzione di Ginevra, il cui rispetto sia imposto dall’articolo 18 della [Carta] e dall’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

4)

In caso di risposta affermativa alla terza questione, se l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva [2011/95], sia compatibile con l’articolo 18 della [Carta] e con l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, segnatamente, la conformità del diritto derivato [dell’Unione] alla Convenzione di Ginevra, dal momento che esso introduce un motivo di revoca dello status di rifugiato che, non solo non è previsto dalla Convenzione di Ginevra, ma non trova nemmeno ivi fondamento.

5)

In caso di risposta negativa alle questioni prima e terza, come debba essere interpretato l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva [2011/95] in senso conforme all’articolo 18 della [Carta] e all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, i quali prevedono, segnatamente, la conformità del diritto derivato [dell’Unione] alla Convenzione di Ginevra».

C.   Causa C‑391/16

40.

M, in base a quanto dal medesimo dichiarato, è nato a Grozny nella Repubblica Cecena e ha combattuto a fianco dell’ex presidente ceceno durante la prima guerra cecena. Dopo la guerra, lasciava l’esercito senza combattere nel corso della seconda guerra cecena. M dichiarava di temere i russi e i sostenitori di Ramzan Kadyrov, che avrebbero tentato di ucciderlo e l’avrebbero internato in un «campo di filtraggio» in cui sarebbe stato mutilato e percosso. Molti membri della sua famiglia sarebbero stati uccisi.

41.

Ritenendo tali timori fondati, il Ministerstvo vnitra (Ministero dell’interno, Repubblica ceca), con decisione del 21 aprile 2006, concedeva il diritto di asilo a M.

42.

Nel 2004, M veniva riconosciuto colpevole di furto aggravato e condannato a una pena detentiva di tre anni con sentenza del Městský soud v Brně (Corte municipale di Brno, Repubblica ceca). Dopo aver beneficiato della sospensione condizionale della pena, M commetteva reati di furto aggravato e di estorsione, considerati costitutivi di una recidiva particolarmente pericolosa. Nel 2007, il giudice medesimo lo condannava per tali motivi a una pena detentiva di nove anni, da scontare in un carcere di massima sicurezza.

43.

Alla luce di tali circostanze, il Ministero dell’Interno, con decisione del 29 aprile 2014, rilevava che M, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato particolarmente grave, costituiva un pericolo per la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini. Per tale motivo, l’autorità medesima, in applicazione dell’articolo 17, paragrafo 1, lettera j), della legge ceca sull’asilo, revocava il diritto di asilo a M dichiarando, ai sensi dell’articolo 15a della legge stessa, che non era possibile concedergli protezione sussidiaria

44.

M impugnava tale decisione dinanzi al Městký soud v Praze (Corte municipale di Praga, Repubblica ceca). Nel proprio ricorso, M sosteneva, in particolare, che l’articolo 17, paragrafo 1, lettere i) e j), della legge ceca sull’asilo – recante trasposizione dell’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95 – violerebbe gli impegni internazionali della Repubblica ceca. Ciò in quanto tale disposizione introdurrebbe dei motivi di revoca della protezione internazionale non previsti nell’elenco tassativo dei motivi stessi elencati nell’articolo 1, lettera C), della Convenzione di Ginevra. Orbene, l’articolo 42, paragrafo 1, di detta convenzione non consente la formulazione di riserve a tale disposizione.

45.

A seguito del rigetto dell’impugnazione, M proponeva ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio.

46.

In tale contesto, detto giudice si interroga, in particolare, sulla conformità dei paragrafi 4 e 6 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 alla Convenzione di Ginevra, fermo restando che la violazione di tale convenzione comporterebbe l’invalidità delle disposizioni di cui trattasi in relazione all’articolo 18 della Carta, all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, nonché ai principi generali del diritto dell’Unione, sanciti all’articolo 6, paragrafo 3, TUE.

47.

In particolare, il Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa) fa riferimento a un documento in cui l’UNHCR ha commentato la proposta della Commissione europea che ha portato all’adozione della direttiva 2011/95 ( 9 ). L’UNCHR, in particolare, ha ribadito i dubbi già espresso in relazione alla conformità dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva 2004/83 con l’articolo 1, lettera F), della Convenzione di Ginevra ( 10 ). Il giudice del rinvio sottolinea che tali dubbi sono condivisi dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati (CERE) ( 11 ), dall’Associazione Internazionale dei Giudici del Diritto del Rifugiato ( 12 ), nonché dal difensore civico della Repubblica ceca.

48.

Tuttavia, il giudice medesimo rileva che anche la validità dell’articolo 14, paragrafi 4 e 6, della direttiva 2011/95 è oggetto di pareri contrastanti. Tali pareri si basano sulla considerazione che la direttiva è volta a garantire norme di protezione più elevate in relazione tanto ai motivi quanto al contenuto della protezione internazionale, che garantiscano la piena e completa applicazione della Convenzione di Ginevra e il pieno rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»). L’articolo 14, paragrafi 4 e 6, della direttiva 2011/95 conferirebbe alle persone ricomprese nella sua sfera di applicazione una protezione più elevata rispetto a quella prevista dalla Convenzione di Ginevra. Tali persone, in applicazione dell’articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione, potrebbero essere respinte verso un paese in cui rischiano di subire persecuzioni. Dopo aver lasciato il paese di asilo, esse non beneficerebbero più dei vantaggi derivanti dalla convenzione stessa. Per contro, l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95, in combinato disposto con il successivo paragrafo 6, non consentirebbe di respingere gli interessati né di privarli del livello minimo di diritti stabiliti nella Convenzione di Ginevra.

49.

In tale contesto, il Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se l’articolo 14, paragrafi 4 e 6, della direttiva [2011/95] sia invalido per violazione dell’articolo 18 della [Carta], l’articolo 78, paragrafo 1, del [TFUE] e dei principi generali del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, del [TUE]».

D.   Procedimento dinanzi alla Corte

50.

Con ordinanza del presidente della Corte del 17 marzo 2017, le cause C‑77/17 e C‑78/17 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento nonché della sentenza.

51.

In tali cause, i ricorrenti nella causa principale, i governi belga, ceco, tedesco, francese, ungherese e del Regno Unito, nonché il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione europea hanno depositato osservazioni scritte dinanzi alla Corte.

52.

Nella causa C‑391/16, i governi, ceco, belga, francese, dei Paesi Bassi e del Regno Unito, nonché il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno depositato osservazioni scritte dinanzi alla Corte.

53.

Con ordinanza del presidente della Corte del 17 gennaio 2018, le cause C‑77/17, C‑78/17 e C‑391/16 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento nonché della sentenza.

54.

X (nella causa C‑77/17), X (nella causa C‑78/17), M, i governi belga, ceco e del Regno Unito, nonché il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno partecipato all’udienza del 6 marzo 2018.

IV. Analisi

A.   Considerazioni preliminari

55.

Le facoltà di revoca e di diniego di riconoscimento dello status di rifugiato previste ai paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 possono essere esercitate «quando (...) vi sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova; [o] la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro».

56.

Tali circostanze corrispondono a quelle in cui si applica l’eccezione al principio di non respingimento di cui all’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 ( 13 ), il cui tenore letterale ricalca, in sostanza, quello dell’articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra ( 14 ). In base a tali disposizioni, gli Stati membri possono, quando tali circostanze si verificano, derogare al principio secondo cui un rifugiato non può essere respinto verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

57.

Tuttavia, come precisato dall’articolo 21, paragrafo 2, di detta direttiva, gli Stati membri possono avvalersi di tale facoltà solo «qualora non sia vietat[a dai loro] obblighi internazionali». Orbene, gli sviluppi registrati nel settore della tutela dei diritti umani fin dall’adozione della Convenzione di Ginevra implicano che gli obblighi degli Stati membri a norma del diritto dell’Unione e del diritto internazionale neutralizzano ormai ampiamente l’eccezione al principio di non respingimento.

58.

A tal riguardo, l’articolo 19, paragrafo 2, della Carta prevede che «[n]essuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». Tale disposizione, così come l’articolo 4 della Carta, che vieta la tortura nonché la sottoposizione a tali pene o trattamenti ( 15 ), non ammette alcuna deroga.

59.

Infatti, come emerge dalle spiegazioni relative alla Carta ( 16 ), l’articolo 19, paragrafo 2, della medesima è stato inserito al fine di incorporare la giurisprudenza sviluppata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») sul divieto assoluto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti sancito dall’articolo 3 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 4 della Carta ( 17 ). Secondo una costante giurisprudenza della Corte EDU, l’articolo 3 della CEDU osta, senza possibilità di deroghe, all’allontanamento, all’espulsione o all’estradizione da parte degli Stati contraenti di uno straniero quando vi sono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di destinazione, correrebbe un rischio concreto di subire trattamenti vietati da tale norma ( 18 ).

60.

Questo stesso divieto discende, inoltre, dagli obblighi internazionali degli Stati membri ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici ( 19 ) e della Convenzione contro la tortura e altre pene o i trattamenti crudeli, inumani o degradanti ( 20 ), adottati sotto l’egida delle Nazioni Unite.

61.

Dalle suesposte considerazioni risulta che, laddove il respingimento esponga il rifugiato al rischio effettivo di subire la pena di morte o trattamenti vietati dall’articolo 4 della Carta, dall’articolo 3 della CEDU, nonché dagli altri obblighi internazionali menzionati al paragrafo precedente, la facoltà di derogare al principio di non respingimento prevista dall’articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra e all’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 rappresenta solo una possibilità teorica in capo agli Stati membri, la cui attuazione concreta è ormai vietata in nome della tutela dei diritti fondamentali ( 21 ).

62.

Come sottolineato dai governi ceco, dei Paesi Bassi, del Regno Unito e tedesco nonché dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 hanno inteso a disciplinare, in particolare, la situazione dei rifugiati che, pur rientrando in una delle fattispecie contemplate dalla deroga al principio di non respingimento, non sono respinti in base al rilievo, segnatamente, che la loro espulsione violerebbe gli obblighi gravanti sugli Stati membri ai sensi della Carta, della CEDU e di altri strumenti di diritto internazionale. Conseguentemente, gli Stati membri, qualora si avvalgano delle facoltà previste da tali disposizioni, sono tenuti, ai sensi del paragrafo 6 dello stesso articolo, a garantire ai rifugiati il godimento dei diritti sanciti da talune disposizioni della Convenzione di Ginevra.

B.   Sullo status della Convenzione di Ginevra nel diritto dell’Unione

63.

L’articolo 18 della Carta prevede che «il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra». Ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, la politica comune in materia di asilo «deve essere conforme alla Convenzione di Ginevra».

64.

Tali disposizioni del diritto primario, con le quali gli autori dei Trattati hanno inteso obbligare le istituzioni dell’Unione, nonché gli Stati membri, nell’attuazione del diritto dell’Unione, al pieno rispetto della Convenzione di Ginevra, traducono lo status specifico di tale convenzione nel diritto dell’Unione. Sebbene l’Unione non sia, a differenza dei suoi Stati membri, vincolata da tale Convenzione nei confronti degli Stati terzi che ne sono parte ( 22 ), le istituzioni dell’Unione devono rispettarla in virtù del diritto dell’Unione ( 23 ).

65.

Anche nei considerando 4, 23 e 24 della direttiva 2011/95 si afferma che la Convenzione di Ginevra costituisce la «pietra angolare» della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati e che le disposizioni di tale direttiva sono state adottate al fine di aiutare le autorità competenti degli Stati membri ad applicare la Convenzione stessa basandosi su nozioni e criteri comuni. Il considerando 3 di tale direttiva aggiunge che, ispirandosi alle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, il legislatore dell’Unione ha inteso fare in modo che il regime di asilo europeo che la direttiva medesima contribuisce a definire fosse fondato sull’applicazione, in ogni sua componente, della Convenzione di Ginevra. Inoltre, numerose disposizioni della direttiva 2011/95 rinviano alle disposizioni della Convenzione stessa ( 24 ) o ne riprendono il contenuto ( 25 ).

66.

Ciò premesso, la Corte ha ripetutamente affermato che le disposizioni della direttiva 2011/95 devono essere interpretate alla luce dell’economia generale e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della Convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Tale interpretazione dev’essere effettuata anche, come emerge dal considerando 16 della suddetta direttiva, nel rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta ( 26 ).

67.

Inoltre, secondo giurisprudenza costante, un atto dell’Unione dev’essere interpretato, nei limiti del possibile, in modo da non rimettere in discussione la sua validità e in conformità con l’insieme del diritto primario ( 27 ). Deriva da tale principio interpretativo, applicato in combinato disposto con quello esposto al paragrafo precedente, che le disposizioni della direttiva 2011/95 devono essere interpretate, per quanto possibile, in modo tale da rispettare la Convenzione di Ginevra e risultare, pertanto, in linea con l’articolo 18 della Carta e l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. È solamente nel caso in cui una tale interpretazione conforme risultasse impossibile che la Corte potrebbe rilevare l’invalidità di una disposizione della direttiva alla luce di tali disposizioni del diritto primario.

68.

Quando la Corte è chiamata ad interpretare una disposizione di diritto derivato o a esaminarne la validità alla luce dell’articolo 18 della Carta e dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, essa è tenuta, come sottolineato dal Parlamento all’udienza, ad accertare se la disposizione di diritto derivato offra ai rifugiati un livello di protezione almeno equivalente a quello loro riservato dalla Convenzione di Ginevra.

69.

In tale contesto, la Corte è inevitabilmente chiamata, nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, a determinare preliminarmente il contenuto degli obblighi discendenti dal rispetto di tale convenzione. Tale determinazione può imporle di effettuare valutazioni che vadano oltre la semplice esposizione del tenore delle disposizioni della Convenzione medesima e che la inducano, quindi, ad interpretarla in via incidentale. Tale conclusione non rimette affatto in discussione il fatto che la Corte non sia competente ad interpretare direttamente la Convenzione di Ginevra ( 28 ).

70.

É in tale ottica che la Corte è stata indotta, nelle sentenze Bolbol ( 29 ) e Abed El Karem El Kott e a. ( 30 ), ad interpretare l’articolo 1, lettera D), della Convenzione di Ginevra – cui fa espressamente rinvio l’articolo 12, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95 – ai fini dell’interpretazione di detta disposizione di diritto derivato ai sensi dell’articolo 267 TFUE. A fronte di tale rinvio, la Corte non poteva, infatti, svolgere tale compito senza previamente determinare le esigenze derivanti dall’articolo 1, lettera D), della Convenzione.

71.

Nella stessa logica, a mio parere, tutte le volte che l’esercizio della competenza della Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione o validità di una disposizione di diritto derivato implichi di precisare ciò che la Convenzione di Ginevra richieda o non richieda, la Corte può interpretare se necessario la Convenzione stessa al fine di fornire tali precisazioni ( 31 ).

72.

In tale prospettiva, l’esame delle questioni sottoposte dai giudici del rinvio comporterà, nei limiti del necessario, d’interpretare in tal senso la Convenzione di Ginevra ( 32 ). Queste saranno effettuate, conformemente ai principi enunciati all’articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ( 33 ), in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini della Convenzione di Ginevra nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Le note interpretative dell’UNHCR saranno oggetto, a tal fine, di particolare attenzione. Pur non essendo vincolanti per gli Stati contraenti, costituiscono elementi di interpretazione investiti di una particolare «forza di persuasione» ( 34 ).

73.

Nel caso di specie, ritengo, per le seguenti ragioni, che i paragrafi da 4 a 6 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 si prestino ad un’interpretazione che consenta di concludere nel senso della loro conformità all’articolo 18 della Carta e all’articolo 78, paragrafo 1, del TFUE.

C.   Interpretazione dell’articolo 14, paragrafi 4 e 5 della direttiva 2011/95

1. Sulla distinzione tra la revoca o il diniego di concessione dello status di rifugiato e la cessazione o l’esclusione della qualità di rifugiato

74.

Con le questioni prima e seconda sollevate nelle cause C‑77/17 e C‑78/17 e con la questione pregiudiziale nella causa C‑391/16, il Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri) e il Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa) chiedono, in sostanza, se i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 violino l’articolo 18 della Carta e l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE ( 35 ), in quanto introdurrebbero motivi di cessazione e di esclusione non previsti dall’articolo 1, lettere C) e F), della Convenzione di Ginevra, il cui contenuto è ripreso negli articoli 11 e 12 di tale direttiva. Come risulta dalle decisioni di rinvio, i dubbi che tali giudici nutrono al riguardo sono principalmente motivati dalle preoccupazioni espresse dall’UNHCR in merito alla compatibilità delle disposizioni stesse con la Convenzione di Ginevra ( 36 ).

75.

Suggerisco di risolvere tali questioni in senso negativo, considerato che l’applicazione, da parte di uno Stato membro, dei paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95, contrariamente all’applicazione di una causa di cessazione o di esclusione, non produce la conseguenza di privare l’interessato della qualifica di rifugiato. La rilevanza di questa distinzione risiede nel fatto che il mantenimento di tale qualità implica che tale persona abbia il diritto non solo alla protezione dell’UNHCR ( 37 ) e di qualsiasi altro Stato parte della Convenzione di Ginevra nel caso in cui lasci lo Stato membro, ma anche, fintantoché resti nello Stato membro medesimo, al godimento dei diritti che tale convenzione garantisce a qualsiasi rifugiato indipendentemente dalla regolarità del soggiorno (argomento sul quale tornerò in prosieguo) ( 38 ).

76.

Per quanto riguarda il paragrafo 4 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95, tale conclusione risulta dal suo stesso tenore letterale. Come ha sostenuto il governo tedesco, l’impiego dei termini «status riconosciuto a un rifugiato» (il corsivo è mio) indica, infatti, che l’applicazione di tale disposizione non pregiudica la qualità di rifugiato dell’interessato. Inoltre, se la versione in lingua francese del paragrafo 5 di tale articolo utilizza l’espressione «status di rifugiato», la maggior parte delle altre versioni linguistiche ricorrono ad una formulazione corrispondente a «non riconoscere lo status a un rifugiato» ( 39 ).

77.

Secondo giurisprudenza costante, in caso di divergenza fra le varie versioni linguistiche di un testo del diritto dell’Unione, la disposizione di cui trattasi deve essere interpretata in funzione dell’economia generale e della finalità della normativa di cui essa fa parte ( 40 ). Nel caso di specie, un’interpretazione sistematica e teleologica dei paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 mi induce a ritenere che l’applicazione di tali disposizioni non equivalga alla cessazione o all’esclusione della qualità di rifugiato.

78.

In primo luogo, risulta dall’economia generale di tale direttiva che le condizioni per avere la qualità di rifugiato, da un lato, e la concessione o la revoca dello status di rifugiato, dall’altro, costituiscono due concetti distinti.

79.

Come sottolineato dal considerando 21 della direttiva 2011/95, la qualità di rifugiato deriva dal semplice fatto che il soggetto soddisfi le condizioni per essere considerato un rifugiato, indipendentemente da qualsiasi riconoscimento da parte di uno Stato membro. Tali condizioni sono oggetto del capo III della direttiva, intitolato «Requisiti per essere considerato rifugiato». Essi corrispondono a quelli di cui all’articolo 1 della Convenzione di Ginevra.

80.

Tale capo III comprende gli articoli 11 e 12 della direttiva 2011/95, relativi alla cessazione ed all’esclusione, il cui contenuto ricalca quello dell’articolo 1, lettere C) e F), della Convenzione di Ginevra. Tali disposizioni stabiliscono i casi in cui un cittadino di un paese terzo o un apolide è privato della qualifica di rifugiato e, pertanto, è escluso dall’ambito di applicazione della protezione internazionale a norma di tale direttiva e di tale convenzione ( 41 ).

81.

Tali ipotesi non ricomprendono le fattispecie, come quelle oggetto delle cause principali, in cui un rifugiato costituisca un pericolo per la comunità del paese di rifugio per aver commesso un reato particolarmente grave di diritto comune in tale paese ( 42 ). Le cause di esclusione, infatti, sono state istituite con l’obiettivo di tutelare non la sicurezza o la comunità del paese di rifugio contro il pericolo attuale che potrebbe rappresentare un rifugiato, bensì con quello di salvaguardare l’integrità del sistema di protezione internazionale dei rifugiati e di evitare che il beneficio di tale protezione non consenta agli autori di taluni gravi reati di sottrarsi alla loro responsabilità penale ( 43 ).

82.

Tali fattispecie ricadono, invece, nella sfera di applicazione dell’eccezione al principio di non respingimento, nonché dell’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95. Tale disposizione figura in un capo distinto, vale a dire il capo IV di quest’ultima, intitolato «Status di rifugiato».

83.

La distinzione tra la qualità di rifugiato e lo status concesso ad un rifugiato è ancora maggiormente messa in evidenza dai paragrafi 1 e 3 del menzionato articolo 14. Tali disposizioni prevedono l’obbligo di revocare lo status di rifugiato a coloro che non possiedano o non possiedano più la qualità di rifugiato, in particolare in presenza di una delle cause di cessazione di cui all’articolo 11 della direttiva 2011/95 o se sono o avrebbero dovuto essere esclusi ai sensi del successivo articolo 12. La cessazione o l’esclusione della qualità di rifugiato e la conseguente revoca dello status di rifugiato non possono pertanto essere ridotte ad una sola e medesima figura.

84.

In secondo luogo, la realizzazione degli obiettivi di cui all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 presuppone parimenti che, fintanto che una persona soddisfi le condizioni per essere considerato un rifugiato, continua a rivestire tale qualità, senza che su tale qualità incida la revoca dello status già riconosciutogli o dal diniego di tale riconoscimento.

85.

Infatti, le cause di cessazione e di esclusione dello status di rifugiato sono elencate in termini tassativi all’articolo 1, lettere da C) a F), della Convenzione di Ginevra ( 44 ) – disposizioni in relazione alle quali gli Stati contraenti non sono autorizzati a formulare riserve ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, della convenzione medesima. Pertanto, l’introduzione nella direttiva 2011/95 di cause di cessazione o esclusione supplementari avrebbe pregiudicato la finalità della direttiva stessa, consistente nel garantire la piena attuazione della Convenzione.

86.

È emblematico, al riguardo, che l’articolo 17 della direttiva 2011/95 consenta di «escludere» un cittadino di un paese terzo o un apolide dal beneficio della protezione sussidiaria per gli stessi motivi indicati al precedente articolo 14, paragrafi 4 e 5. Poiché la protezione sussidiaria non rientra nell’ambito di applicazione della Convenzione di Ginevra, il legislatore dell’Unione era, infatti, libero di determinarne la cerchia dei beneficiari secondo criteri autonomi. Esso ha invece optato per un diverso approccio per quanto riguarda i rifugiati al fine di garantire la compatibilità della direttiva con la Convenzione ( 45 ).

87.

Sebbene dai suesposti rilievi emerga che i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 non sono assimilabili a cause di cessazione o di esclusione dello status di rifugiato, essi non ne mettono pienamente in luce la portata e gli effetti reali. Tale problematica è, in sostanza, l’oggetto delle questioni terza, quarta e quinta sollevate nelle cause C‑77/17 e C‑78/17.

2. Sulla portata e gli effetti reali dell’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95

88.

Con le sue questioni terza, quarta e quinta, il Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri) chiede se, nell’ipotesi in cui la Corte rispondesse alle prime questioni nelle cause C‑77/17 e C‑78/17 la risposta che ho suggerito sopra, i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 debbano essere interpretati nel senso che introducano dei motivi di diniego e di revoca dello status di rifugiato non previsti dalla Convenzione di Ginevra e pertanto invalidi (questioni terza e quarta), ovvero se tali disposizioni debbano essere oggetto di diversa interpretazione che consenta di garantirne la conformità con il diritto primario dell’Unione (quinta questione). L’esame di tali questioni appare altresì necessario per pronunciarsi sulla questione posta dal Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa).

89.

Al fine di risolvere tali questioni, mi sembra necessario esaminare funditus il significato opportuno da attribuire alla locuzione «status concesso a un rifugiato» e «status di rifugiato» che figurano, rispettivamente, ai paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 ( 46 ). Se lo «status» che può essere revocato o rifiutato in applicazione di tali dispositivi non equivale alla qualità di rifugiato, quale ne è il vero significato?

90.

L’articolo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, cui non corrisponde alcuna disposizione della Convenzione di Ginevra, definisce lo «status di rifugiato» come «il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo (...) quale rifugiato». Letti alla luce del considerando 21 di tale direttiva, tali termini sembrano riferirsi all’atto di natura dichiarativa, con cui uno Stato membro riconosce lo status di rifugiato di un richiedente asilo, fermo restando che tale atto interviene all’esito di una procedura volta a verificare se detto richiedente soddisfi i requisiti per essere qualificato come rifugiato ( 47 ).

91.

Tale atto implica, in linea di principio, la concessione di tutti i diritti di cui al capo VII della direttiva 2011/95 (fatte salve le limitazioni ivi previste ( 48 )). Infatti, come sottolineato dalla Commissione all’udienza, la qualità di rifugiato e la concessione di tali diritti procedono necessariamente in parallelo al di fuori del contesto dell’applicazione dei paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 di tale direttiva. Gli Stati membri sono tenuti, ai sensi del successivo articolo 20, paragrafo 2, a riconoscere ai rifugiati il complesso di tali diritti, laddove una persona il cui status di rifugiato non sia (ancora) riconosciuto, non ne gode ( 49 ). Analogamente, l’applicazione a una persona già precedentemente riconosciuta come rifugiato di una delle cause di cessazione o di esclusione di cui agli articoli 11 e 12 della direttiva 2011/95 implica, ai sensi dell’articolo 14, paragrafi 1 e 3, della direttiva stessa, la decadenza o la nullità del riconoscimento e la perdita dei diritti che ne derivavano.

92.

Tale nesso intrinseco tra il riconoscimento della qualità di rifugiato e la concessione dei diritti de quibus potrebbe spiegare il motivo per cui la definizione di «status di rifugiato», di cui all’articolo 2, lettera e), di tale direttiva, si riferisca unicamente al riconoscimento della qualità di rifugiato, senza menzionare il conseguente conferimento dei diritti ad essa connessi.

93.

Per contro, i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 introducono una dissociazione tra la qualità di rifugiato e la concessione di tali diritti. Pur mantenendo lo status di rifugiato, le persone cui si applicano tali disposizioni non godono più dei diritti di cui al capo VII di tale direttiva.

94.

È alla luce di tali considerazioni che devono essere interpretati i termini «status riconosciuto a un rifugiato» e «status di rifugiato», utilizzati rispettivamente ai paragrafi 4 e 5 del menzionato articolo 14. A mio avviso, tali termini rivestono, in tale contesto, un significato più limitato rispetto a quello che deriva dall’articolo 2, lettera e), di tale direttiva ( 50 ). Essi designano unicamente la concessione dei diritti di cui al capo VII di tale direttiva ( 51 ), senza tuttavia pregiudicare il riconoscimento dello status di rifugiato alle persone interessate.

95.

A mio avviso, tale interpretazione è la sola che consenta di mantenere la coerenza interna della direttiva nonché l’effetto utile delle sue disposizioni.

96.

In primo luogo, l’interpretazione secondo la quale il termine «status di rifugiato» ingloberebbe il riconoscimento stesso della qualità di rifugiato mi sembra incompatibile con il tenore letterale e l’economia dell’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95. Osservo, a tal riguardo, che tale disposizione si applica ai rifugiati ai quali nessuno status è ancora stato concesso. Tuttavia, essa è pur sempre diretta ai «rifugiati», quali definiti all’articolo 2, lettera d), di tale direttiva, e non ai «richiedenti» ai sensi dell’articolo 2, lettera i), di tale direttiva. Anche l’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 si applica alle persone in relazione alle quali la qualità di rifugiato è stata verificata e riconosciuta di conseguenza dallo Stato membro ospitante del rifugiato.

97.

Ne consegue che, come sottolineato dai governi belga e francese, tale disposizione non può essere interpretata nel senso che consenta agli Stati membri di negare l’esame di una domanda di asilo presentata nel rispetto delle garanzie procedurali previste dalla direttiva 2013/32, e, se del caso, il riconoscimento della qualità di rifugiato del richiedente. Aggiungo, a questo proposito, che l’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva stessa prevede che qualsiasi decisione relativa alla domanda di asilo è comunicata per iscritto all’interessato. Come sostenuto dalla Commissione all’udienza, la persona il cui status sia revocato deve poter essere in grado di provare la sua situazione specifica in caso di controllo amministrativo, il che comporta il rilascio di un documento che attesti la sua qualità di rifugiato ( 52 ).

98.

In secondo luogo, l’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95 si applica per definitionem ai rifugiati la cui qualità sia già stata oggetto di un riconoscimento. L’applicazione di questa disposizione non comporta, come ho spiegato in precedenza, il venir meno di detta qualità. Ciò detto, risulterebbe priva di ogni logica l’interpretazione secondo cui lo «status riconosciuto a un rifugiato» ai sensi di detta disposizione designerebbe sia il riconoscimento della qualità di rifugiato sia la concessione dei diritti che ne derivano. Infatti, al pari del ricorrente nel procedimento principale nella causa C‑77/17, non comprendo quale senso avrebbe la revoca di tale riconoscimento pur non rimettendone in discussione l’oggetto – vale a dire la qualità di rifugiato dell’interessato ( 53 ).

99.

Seguendo la stessa logica, l’UNHCR ha precisato che i motivi che consentono di invalidare una decisione di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra non comprendono i motivi che comportano la perdita della protezione contro il respingimento ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, della convenzione medesima – i quali corrispondono ai motivi di revoca e diniego di concessione dello status di rifugiato di cui all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 ( 54 ).

100.

In terzo luogo, sottolineo che i rifugiati nei confronti dei quali uno Stato membro applichi i paragrafi 4 o 5 dell’articolo 14 della direttiva conservano, per via della loro qualità di rifugiato, il godimento dei diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra cui il paragrafo 6 dello stesso articolo fa riferimento. Orbene, il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, del godimento di tali diritti, in modo da consentirne l’esercizio, presuppone la qualità di rifugiato, in mancanza della quale l’interessato non sarebbe titolare di tali diritti. In altre parole, se a ogni riconoscimento della qualità di rifugiato non si accompagna la concessione di tutti i diritti enunciati al capo VII della direttiva 2011/95, ogni concessione di diritti connessi allo status di rifugiato implica il riconoscimento di tale qualità.

101.

Inoltre, l’interpretazione da me proposta consente di porre rimedio alle preoccupazioni espresse dall’UNHCR, aderendo peraltro a quella dal medesimo raccomandata a più riprese. Secondo l’UNHCR, per evitare che le facoltà previste all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 siano interpretate negli Stati membri al fine di introdurre nuove cause di cessazione e di esclusione in violazione della Convenzione di Ginevra, «l’espressione “status riconosciuto a un rifugiato” è quindi intesa come riferita all’asilo (“status”) concesso dallo Stato anziché allo status [che designa in questo contesto la qualità] di rifugiato ai sensi dell’articolo [1, lettera A), di tale Convenzione] (...) ( 55 )».

102.

Pertanto, ritengo che le locuzioni «status riconosciuto a un rifugiato» e «status [di] rifugiato» ai sensi dei paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95, indichino soltanto il godimento dei diritti che tale direttiva prevede, al suo capitolo VII ( 56 ), fatti salvi i diritti che devono essere concessi ai rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra ( 57 ).

103.

Passo ora ad esaminare la questione della validità di tali disposizioni, come interpretate e in combinato disposto con il paragrafo 6 del medesimo articolo – il quale dovrà preliminarmente formare oggetto di un’interpretazione al fine di rispondere a tale questione –, alla luce dell’articolo 18 della Carta e dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

D.   Interpretazione dell’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 ed esame della validità dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6 della direttiva medesima

104.

Come dedotto dal governo belga e dal Parlamento, la direttiva 2011/95 costituisce uno strumento autonomo dell’ordinamento giuridico dell’Unione che non è volto a trasporre formalmente la Convenzione di Ginevra. In questa prospettiva, il capo VII della direttiva, pur precisando che le disposizioni contenute nel capo medesimo non pregiudicano i diritti garantiti dalla Convenzione ( 58 ), enuncia una serie di diritti alcuni dei quali non sono garantiti dalla Convenzione stessa, mentre altri corrispondono a quelli ivi previsti.

105.

Così, da un lato, come rilevato dal governo del Regno Unito, talune disposizioni del capo VII della direttiva 2011/95 impongono agli Stati membri di concedere ai rifugiati diritti che non hanno equivalenti nella Convenzione di Ginevra, quali il diritto ad un permesso di soggiorno, al riconoscimento delle qualifiche, all’assistenza sanitaria e all’accesso agli strumenti d’integrazione ( 59 ).

106.

Non vi è dubbio, a mio avviso, che, nella misura in cui le disposizioni del capo VII della direttiva 2011/95 garantiscono diritti distinti e autonomi rispetto alla Convenzione di Ginevra, il legislatore dell’Unione potesse parimenti stabilire, mediante altre disposizioni autonome, senza con ciò violare i requisiti di conformità alla Convenzione, le circostanze in cui un rifugiato può essere privato dei diritti medesimi.

107.

Dall’altro, il capo VII di tale direttiva comprende diritti contenuti anche nella Convenzione di Ginevra. Si tratta, in particolare, dei diritti al rilascio di documenti di viaggio ( 60 ), alla libertà di circolazione ( 61 ) e all’accesso all’occupazione ( 62 ), all’alloggio ( 63 ) e all’assistenza sociale ( 64 ).

108.

A mio avviso, i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 non violano nemmeno l’articolo 18 della Carta e l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, nella parte in cui consentono di privare un rifugiato dei diritti enunciati al punto precedente qualora egli costituisca una minaccia per la sicurezza o la comunità dello Stato membro, mentre la Convenzione di Ginevra non prevede espressamente tale possibilità.

109.

Sottolineo, a tal riguardo, che tali diritti devono essere garantiti, a norma della Convenzione di Ginevra, soltanto ai rifugiati residenti regolarmente nel territorio di uno Stato contraente – a differenza di altri diritti previsti da tale convenzione, che devono essere concessi a tutti i rifugiati che si trovano su tale territorio ( 65 ). La Convenzione non definisce la nozione di residenza regolare. L’UNHCR, in una nota interpretativa, ha ritenuto che il criterio di regolarità enucleato in tale nozione rinvii normalmente al rispetto delle norme del diritto nazionale degli Stati contraenti relative alle condizioni di ingresso e di soggiorno, considerato che la Convenzione di Ginevra non disciplina tali condizioni ( 66 ).

110.

Nel caso di specie, l’applicazione, da parte di uno Stato membro, dell’articolo 14, paragrafi 4 o 5, della direttiva 2011/95 produce, segnatamente, la conseguenza di privare il rifugiato de quo del permesso di soggiorno cui ha diritto in forza dell’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva stessa. A mio avviso, tale Stato membro può, senza violare i propri obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra, considerare che il rifugiato non risiede, o non risiede più, regolarmente sul suo territorio ai sensi di tale convenzione privandolo, conseguentemente, dei diritti previsti dalla Convenzione il cui godimento dipende dalla regolarità della residenza ( 67 ).

111.

Come rilevato dai governi e dalle istituzioni che hanno presentato osservazioni alla Corte, tale approccio appare conforme all’economia e agli obiettivi della Convenzione di Ginevra, i cui articoli 32 e 33 autorizzano, infatti, a determinate condizioni, l’espulsione e il respingimento di un rifugiato che rappresenti una minaccia per la sicurezza o la comunità del paese di rifugio. Se gli autori della Convenzione di Ginevra hanno in tal modo inteso tener conto degli interessi degli Stati contraenti al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblici, consentendo misure tanto drastiche, la Convenzione non potrebbe dunque essere interpretata nel senso che impedisca loro, di per sé, di ritenere che tale rifugiato non risieda o non risieda più regolarmente sul loro territorio e che, pertanto, non goda dei diritti di cui la Convenzione riserva il beneficio ai rifugiati regolarmente residenti.

112.

Tuttavia, dopo essersi avvalsi delle facoltà previste all’articolo 14, paragrafi 4 o 5, della direttiva 2011/95, gli Stati membri restano tenuti a garantire ai rifugiati in questione i diritti di cui, ai sensi della Convenzione di Ginevra, godono tutti i rifugiati indipendentemente dalla legittimità della loro residenza. Tali diritti riguardano il divieto delle discriminazioni (articolo 3), la libertà di religione (articolo 4), la protezione della proprietà mobiliare e immobiliare (articolo 13), l’accesso alla giustizia (articolo 16), il razionamento (articolo 20), l’accesso all’educazione pubblica (articolo 22), l’assistenza amministrativa (articolo 25), il rilascio di documenti di identità (articolo 27), il divieto di discriminazione in materia fiscale (articolo 29), l’esclusione di sanzioni penali per l’entrata o il soggiorno irregolare (articolo 31) nonché la protezione contro l’espulsione (articolo 32) e il respingimento (articolo 33) ( 68 ).

113.

In quest’ottica, l’UNHCR ha osservato che, quando gli Stati membri attuano tali facoltà, essi «sono comunque tenuti a riconoscere i diritti della [Convenzione di Ginevra] che non richiedono un soggiorno regolare e che non prevedono eccezioni, purché il rifugiato rimanga sotto la giurisdizione dello Stato interessato» ( 69 ). L’UNHCR ha ancora di recente ribadito, in sostanza, tale posizione nei suoi commenti relativi al progetto di regolamento diretto a sostituire la direttiva 2011/95 ( 70 ).

114.

È alla luce di tali considerazioni che dev’essere interpretato l’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95. Tale disposizione prevede che i rifugiati destinatari di una revoca o di un diniego di riconoscimento dello status di rifugiato in applicazione dei paragrafi 4 o 5 dell’articolo medesimo continuano, purché siano presenti nel territorio di uno Stato membro, a godere dei diritti «analoghi conferiti dagli articoli 3, 4, 16, 22, 31 e 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, o di diritti analoghi».

115.

I ricorrenti nelle tre cause principali hanno contestato la validità dell’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva, in quanto tale disposizione omette di menzionare, nell’elenco dei diritti ivi elencati, i diritti previsti dagli articoli 13, 20, 25, 27 e 29 della Convenzione di Ginevra.

116.

Conformemente ai principi rammentati supra ai paragrafi 66 e 67, occorre esaminare se sia possibile interpretare l’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95, nel rispetto della Convenzione di Ginevra, in modo da preservarne la validità alla luce del diritto primario nonché di garantire la realizzazione del suo obiettivo di sua piena applicazione.

117.

Tali principi implicherebbero che detta disposizione sia interpretata in modo da non pregiudicare l’obbligo degli Stati membri di garantire, ai sensi della Convenzione di Ginevra, il godimento di tutti i diritti di cui, in forza di tale convenzione, deve beneficiare ogni rifugiato che si trovi nel territorio di uno Stato membro, indipendentemente dalla regolarità del suo soggiorno.

118.

La chiave di tale interpretazione conforme risiede, a mio avviso, nei termini «o di diritti analoghi» utilizzati al paragrafo 6 del menzionato articolo 14.

119.

La portata e il significato di tali termini non sono precisati né nella direttiva 2011/95 né nei lavori preparatori che hanno preceduto la sua adozione o quella della direttiva 2004/83. Tali lavori preparatori non forniscono nemmeno alcun chiarimento sui motivi per i quali il legislatore non abbia enunciato, nell’elenco di cui all’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95, tutti i pertinenti diritti tratti dalla Convenzione di Ginevra

120.

Ciò premesso, l’esame del tenore di tale disposizione, alla luce del suo contesto e degli obiettivi perseguiti dalla normativa in cui essa si colloca, come richiede la giurisprudenza ( 71 ), mi induce a concludere che essa dev’essere interpretata nel senso che i termini «o di diritti analoghi» indichino diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra di cui gli Stati membri devono garantire il godimento ai rifugiati destinatari dell’applicazione dei paragrafi 4 o 5 del menzionato articolo 14 in aggiunta e non in alternativa rispetto a quelli espressamente elencati al successivo paragrafo 6.

121.

Per quanto riguarda la formulazione dell’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95, ricordo che, come la Corte ha già avuto modo di osservare in altri contesti, la congiunzione «o» può, dal punto di vista linguistico, avere valore sia alternativo sia cumulativo. Essa dev’essere letta, di conseguenza, nel contesto nel quale è utilizzata e alla luce delle finalità dell’atto in questione ( 72 ).

122.

Nella fattispecie, il contesto e la finalità della direttiva 2011/95, impongono, a mio parere, l’attribuzione di un significato cumulativo a tale congiunzione. Infatti, ho già rilevato che il legislatore dell’Unione ha cercato, con l’adozione di tale direttiva, di garantire la piena attuazione della convenzione negli Stati membri. Quest’ultima non è dunque, certamente, stata animata dall’intento di negare ai rifugiati di cui ai paragrafi 4 e 5 del menzionato articolo 14 il godimento di diritti che gli Stati membri sono tenuti a riconoscere loro in virtù di tale convenzione. Tale obiettivo è stato confermato nelle osservazioni presentate alla Corte dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione ( 73 ).

123.

Orbene, l’attribuzione di un significato alternativo alla congiunzione «o» di cui all’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 sarebbe inconciliabile con tale obiettivo, in quanto implicherebbe che gli Stati membri possano a loro piacimento accordare ai rifugiati in questione o i diritti di cui agli articoli 3, 4, 16, 22, 31, 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, o altri diritti di portata simile. Tale risultato violerebbe manifestamente la Convenzione, la quale richiede che siano garantiti i diritti che essa enuncia, non potendo bastare il riconoscimento di diritti «analoghi» a questi ultimi.

124.

Per quanto riguarda l’obiettivo di una piena applicazione della Convenzione di Ginevra, perseguito dalla direttiva 2011/95, i termini «o di diritti analoghi» si riferiscono piuttosto, a mio avviso, ai diritti, che si aggiungono a quelli cui l’articolo 14, paragrafo 6, di tale direttiva fa espressamente riferimento, di cui l’accordo prevede la concessione a tutti i rifugiati sul territorio di uno Stato contraente.

125.

Tale interpretazione è corroborata dalla circostanza secondo la quale tutti i governi che hanno presentato osservazioni alla Corte, fatta eccezione per il governo del Regno Unito, non hanno menzionato la necessità di privare tali persone di alcuni di questi diritti. Per contro, i governi belga e ceco hanno sostenuto, all’udienza, che il paragrafo 6 del menzionato articolo 14 aveva essenzialmente la funzione di ricordare agli Stati membri, in termini non esaustivi, i loro obblighi internazionali.

126.

A questo proposito, sottolineo, in particolare, che il diritto al rilascio di un documento d’identità, sancito dall’articolo 27 della Convenzione di Ginevra, rappresenta una condizione preliminare per l’esercizio dei diritti previsti da tale convenzione che l’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 elenca espressamente ( 74 ). Tale esercizio sarebbe ostacolato se al rifugiato interessato non fosse rilasciato un documento d’identità, il quale potrebbe, del resto, servire anche a dimostrare la sua qualità di rifugiato ( 75 ).

127.

Il mancato completamento dell’elenco di cui all’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95, non indicando gli articoli 13, 20, 25, 27 e 29 della Convenzione di Ginevra mi sembra poter essere spiegato anche con il fatto che, come sostenuto dai governi del Belgio e dei Paesi Bassi, nonché dal Parlamento e dal Consiglio, tali articoli possono essere oggetto di riserve ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, della Convenzione. Infatti, questa disposizione consente agli Stati contraenti di formulare, all’atto della firma, della ratifica o dell’adesione alla Convenzione di Ginevra, riserve alle disposizioni della Convenzione stessa, «fatta eccezione per i seguenti [articoli] 1, 3, 4, 16.1, 33,[e] dal 36 al 46 incluso».

128.

Il legislatore dell’Unione avrebbe così inteso ricordare agli Stati membri i loro pertinenti obblighi, previsti dalla Convenzione di Ginevra, ai quali non può essere apposta alcuna riserva, ossia gli articoli 3, 4, 16 e 33 ( 76 ) – obbligandoli al contempo a riconoscere ai rifugiati interessati i diritti di cui agli articoli 22 e 31 della Convenzione alla luce della particolare importanza che l’ordinamento giuridico dell’Unione conferisce a tali diritti ( 77 ). Gli articoli 13, 20, 25, 27 e 29 della Convenzione non sarebbero invece stati menzionati espressamente nella misura in cui gli Stati membri potevano apporvi riserve ( 78 ), dato che la direttiva 2011/95 non incide sull’obbligo degli Stati membri di garantire i diritti previsti dagli articoli medesimi laddove non abbiano formulato tali riserve.

129.

Tale spiegazione deve essere compresa alla luce del carattere minimo del livello di protezione imposto dall’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva. Poiché i paragrafi 4 e 5 di questo articolo istituiscono semplici facoltà, è in ogni caso consentito agli Stati membri di concedere, ai rifugiati nei cui confronti esercitano tali facoltà, diritti che si estendono oltre il requisito minimo di cui al paragrafo 6 di detto articolo. Più in generale, l’articolo 3 della direttiva 2011/95, letto alla luce del suo considerando 12, consente agli Stati membri di prevedere norme più favorevoli relative, in particolare, al contenuto della protezione internazionale, purché siano compatibili con tale direttiva.

130.

Alla luce di tali considerazioni, ritengo che l’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 dev’essere interpretato nel senso che uno Stato membro che si avvalga delle facoltà di cui ai precedenti paragrafi 4 o 5, deve concedere al rifugiato interessato, oltre ai diritti di cui agli articoli 3, 4, 16, 22, 31, 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, gli altri diritti che detta convenzione garantisce a qualsiasi rifugiato che si trovi nel territorio di uno Stato contraente, vale a dire i diritti contemplati dagli articoli 13, 20, 25, 27 e 29 della Convenzione, a condizione che tale Stato membro non abbia formulato riserve ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, della Convenzione stessa.

131.

Di conseguenza, ritengo che i paragrafi da 4 a 6 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95, letti congiuntamente, interpretati come suggerito nelle presenti conclusioni, non violino l’articolo 18 della Carta e l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.

E.   Considerazioni conclusive

132.

A fini di completezza, preciso che la conclusione suesposta, istituendo la possibilità per gli Stati membri di privare alcuni rifugiati dei diritti previsti al capo VII della direttiva 2011/95, riguarda esclusivamente la validità dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva medesima, in relazione all’articolo 18 della Carta e all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. È, infatti, solo sulla validità in abstracto di tale possibilità in relazione a tali norme che la Corte è invitata a pronunciarsi nell’ambito dei presenti rinvii pregiudiziali e della quale, quindi, hanno trattato le osservazioni presentate alla Corte.

133.

Tale conclusione non pregiudica la valutazione, caso per caso, della compatibilità dell’esercizio da parte di uno Stato membro delle facoltà previste all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 con taluni diritti fondamentali garantiti dalla Carta.

134.

Mi vengono in mente a tal proposito tre esempi. In primo luogo, nell’ipotesi in cui uno Stato membro privasse, nell’esercizio di tale facoltà, un rifugiato dell’accesso all’assistenza sanitaria in determinate circostanze, tale privazione potrebbe parimenti violare l’articolo 35 della Carta (relativo al diritto alla salute), in quanto metterebbe in pericolo la vita del rifugiato o lo esporrebbe a trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 2, paragrafo 1 (relativo al diritto alla vita) o l’articolo 4 della Carta ( 79 ). In secondo luogo, nel caso in cui uno Stato membro decidesse di espellere il rifugiato de quo verso un paese terzo sicuro, disposto ad accoglierlo sul suo territorio ( 80 ), lo Stato membro medesimo dovrebbe verificare la compatibilità di una misura di tal genere con il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’articolo 7 della Carta ( 81 ). In terzo luogo, sebbene l’articolo 15 della Carta, relativo alla libertà professionale e al diritto di lavorare, si applichi unicamente ai cittadini dei paesi terzi «che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri», non si può escludere, in particolare, che il diniego di consentire a un rifugiato di inserirsi nel mercato del lavoro successivamente alla sua scarcerazione, anche quando non possa essere allontanato verso un paese terzo e debba pertanto essere considerato residente a tempo indeterminato nello Stato membro di rifugio, possa, secondo le circostanze, violare l’articolo 7 della Carta. Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, l’articolo 8 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 7 della Carta, comprende, infatti, l’identità sociale e le relazioni personali, sociali ed economiche costitutive della vita privata di ogni essere umano ( 82 ).

V. Conclusione

135.

Alla luce di tutti i suesposti rilievi, suggerisco di rispondere alle questioni sollevate dal Conseil du contentieux des étrangers (Comitato per il contenzioso sugli stranieri, Belgio) nelle cause C‑77/17 e C‑78/17 e dal Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa, Repubblica ceca) nella causa C‑391/16 nei seguenti termini:

1)

L’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, dev’essere interpretato nel senso che tale disposizione consente agli Stati membri di revocare, di far cessare o di negare il rinnovo della decisione con cui hanno concesso i diritti previsti al capo VII della direttiva medesima ai rifugiati ricompresi nella sfera di applicazione di detta disposizione, senza che a tale decisione incida sulla qualità di rifugiato di questi ultimi né comporti l’illegittimità della decisione con cui tale qualità sia stata loro riconosciuta.

2)

L’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 dev’essere interpretato nel senso che tale disposizione consente agli Stati membri di negare il riconoscimento dei diritti previsti al capo VII della direttiva medesima ai rifugiati ricompresi nella sfera di applicazione di tale disposizione, senza che tale diniego incida sulla qualità di rifugiato di questi ultimi né sull’obbligo per gli Stati membri di esaminare la loro domanda di protezione internazionale conformemente ai requisiti derivanti dalla direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.

3)

L’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 dev’essere interpretato nel senso che, qualora uno Stato membro si avvalga delle facoltà di cui ai precedenti paragrafi 4 e 5 del medesimo articolo 14, lo Stato membro medesimo resta tenuto a garantire ai rifugiati interessati, fintanto che questi ultimi si trovino sul suo territorio, non solo i diritti contemplati dagli articoli 3, 4, 16, 22, 31, 32 e 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, bensì parimenti quelli di cui agli articoli 13, 20, 25, 27 e 29 della Convenzione stessa, a condizione che detto Stato membro non abbia formulato riserve a tali norme ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, della Convenzione.

4)

L’esame dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva 2011/95 non ha evidenziato elementi tali da inficiarne la validità.


( 1 ) Lingua originale: il francese.

( 2 ) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).

( 3 ) La Convenzione sullo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 137, n. 2545 (1954)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954 ed è stata successivamente integrata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967.

( 4 ) L’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra prevede che tali timori devono essere causati da avvenimenti anteriori al 1o gennaio 1951. A norma dell’articolo 1 del protocollo di New York, gli Stati contraenti applicano le disposizioni della suddetta convenzione senza tener conto di tale data finale.

( 5 ) Direttiva del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2004, L 304, pag. 12).

( 6 ) Moniteur belge del 31 dicembre 1980, pag. 14584.

( 7 ) I paragrafi da 4 a 6 dell’articolo 14 della direttiva 2004/83 hanno contenuto identico alle corrispondenti disposizioni della direttiva 2011/95.

( 8 ) UNHCR, Commentaires annotés du HCR sur la [directive 2004/83] [Commentario annotato sulla direttiva 2004/83], 28 gennaio 2005, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/44ca0d504.html, pagg. 31 e 32.

( 9 ) UNHCR comments on the European Commission’s proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on minimum standards for the qualification and status of third country nationals or stateless persons as beneficiaries of international protection and the content of the protection granted [COM(2009) 551, del 21 ottobre 2009], disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/4c503db52.html, pagg. 13 e 14.

( 10 ) V. supra, paragrafo 33.

( 11 ) ECRE, European Legal Network on Asylum (ELENA), The Impact of the Qualification Directive on International Protection, ottobre 2008, pag. 25, disponibile all’indirizzo www.refworld.org/docid/4908758d2.html.

( 12 ) International Association of Refugee Law Judges, A Manual for Refugee Law Judges relating to European Council Qualification Directive 2004/38/EC and European Council Procedures Directive 2005/85/EC, 2007, pagg. 30 e 31.

( 13 ) Sottolineo che nella versione in lingua francese della direttiva 2011/95 figura il termine «motifs raisonnables» [«fondati motivi» nella versione italiana] all’articolo 14, paragrafo 4, lettera a), laddove al successivo articolo 21, paragrafo 2, lettera a), si parla di «raisons sérieuses» [«ragionevoli motivi» nella versione italiana]. Le versioni nelle lingue bulgara, ceca e polacca presentano anch’esse tale distinzione. Tuttavia, tutte le altre versioni linguistiche impiegano termini identici nelle due disposizioni che non riflettono tale distinzione.

( 14 ) Risulta dalla sentenza del 24 giugno 2015, H.T. (C‑373/13, EU:C:2015:413, punto 75), che l’articolo 21, paragrafo 2, e l’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 hanno una portata meno ampia rispetto a quella dell’articolo 24, paragrafo 1, di tale direttiva, il quale consente la revoca del permesso di soggiorno di un rifugiato per «imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico». Secondo la Corte, tali «imperiosi motivi» hanno una portata più ampia rispetto ai «ragionevoli motivi» di cui all’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 – e, di conseguenza, rispetto ai «fondati motivi» necessari ai fini dell’applicazione del precedente articolo 14, paragrafi 4 e 5, il cui campo di applicazione coincide con quello dell’articolo 21, paragrafo 2.

( 15 ) V. sentenze del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru (C‑404/15 e C‑659/15 PPU, EU:C:2016:198, punto 85); del 6 settembre 2016, Petruhhin (C‑182/15, EU:C:2016:630, punto 56), e del 24 aprile 2018, MP (Protezione sussidiaria di una vittima di torture) (C‑353/16, EU:C:2018:276, punto 36).

( 16 ) GU 2007, C 303, pag. 24.

( 17 ) Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali. Tale disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda agli stessi una protezione più estesa.

( 18 ) V., in particolare, sentenze della Corte EDU del 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito (CE:ECHR:1989:0707JUD001403888, §§ 90 e 91); del 15 novembre 1996, Chahal c. Regno Unito, (CE:ECHR:1996:1115JUD002241493, §§ 74 e 80), nonché del 17 dicembre 1996, Ahmed c. Austria (CE:ECHR:1996:1217JUD002596494, §§ 39 e 41).

( 19 ) Questo strumento, il cui articolo 7 vieta la tortura e le pene o i trattamenti crudeli, inumani o degradanti, è stato adottato a New York il 16 dicembre 1966 ed è entrato in vigore il 23 marzo 1976. Tutti gli Stati membri vi hanno aderito. V., l’osservazione generale n. 31 [80] del Comitato dei diritti umani relativa alla natura dell’obbligo giuridico generale imposto agli Stati parte del patto, 29 marzo 2004, punto 12, CCPR/C/21/Rev.1/Add.13.

( 20 ) Tale convenzione, il cui articolo 3 dispone il divieto de quo, è stata adottata a New York il 10 dicembre 1984 ed è entrata in vigore il 26 giugno 1987. Tutti gli Stati membri vi hanno aderito.

( 21 ) È dunque, a mio avviso, in senso restrittivo che dev’essere inteso il punto 43 della sentenza del 24 giugno 2015, H.T. (C‑373/13, EU:C:2015:413), nella quale la Corte ha riconosciuto la facoltà per gli Stati membri di respingere un rifugiato rispondente ai requisiti di cui all’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi internazionali di cui al precedente paragrafo 1 nonché i loro obblighi ai sensi della Carta.

( 22 ) V. sentenza del 17 luglio 2014, Qurbani (C‑481/13, EU:C:2014:2101, punti da 23 a 25). La Corte ha ivi dichiarato che, poiché l’Unione non ha integralmente assunto le competenze precedentemente esercitate dagli Stati membri nel settore di applicazione della Convenzione di Ginevra, le sue disposizioni non sono vincolanti per l’Unione ai sensi della giurisprudenza elaborata nelle sue sentenze del 12 dicembre 1972, International Fruit Company e a. (da 21/72 a 24/72, EU:C:1972:115, punto 18); del 3 giugno 2008, Intertanko e a. (C‑308/06, EU:C:2008:312, punto 48), nonché del 4 maggio 2010, TNT Express Nederland (C‑533/08, EU:C:2010:243, punto 62).

( 23 ) Un certo ravvicinamento può essere operato per effetto della particolare importanza che riveste la CEDU nell’ordinamento giuridico dell’Unione, nonostante l’Unione non vi abbia aderito. Come risulta dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE, «[I] diritti fondamentali, garantiti dalla [CEDU] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». La Corte è stata indotta, prima dell’adozione della Carta in quanto strumento vincolante, ad esaminare la validità di disposizioni di diritto derivato alla luce di tale articolo, letto alla luce della CEDU. V., in particolar modo, le sentenze del 12 luglio 2005, Alliance for Natural Health e a. (C‑154/04 e C‑155/04, EU:C:2005:449, punto 130) e del 26 giugno 2007, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a. (C‑305/05, EU:C:2007:383, punti 2629).

( 24 ) V. articolo 9, paragrafo 1, articolo 12, paragrafo 1, lettera a), articolo 14, paragrafo 6, e articolo 25, paragrafo 1, della direttiva 2011/95.

( 25 ) V., in particolare, articolo 2, lett. d), articolo 11, articolo 12, paragrafo 2, nonché articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95.

( 26 ) V., in particolare, sentenze del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105, punti da 51 a 54); del 17 giugno 2010, Bolbol (C‑31/09, EU:C:2010:351, punti da 36 a 38); del 9 novembre 2010, B e D (C‑57/09 e C‑101/09, EU:C:2010:661, punti da 76 a 78); del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punti 4748); del 19 dicembre 2012, Abed El Karem El Kott e a. (C‑364/11, EU:C:2012:826, punti 4243); del 1o marzo 2016, Alo e Osso (C‑443/14 e C‑444/14, EU:C:2016:127, punti da 28 a 30), e del 31 gennaio 2017, Lounani (C‑573/14, EU:C:2017:71, punti 4142).

( 27 ) V., in particolar modo, le sentenze del 10 settembre 1996, Commissione/Germania (C‑61/94, EU:C:1996:313, punto 52); del 16 settembre 2010, Chatzi (C‑149/10, EU:C:2010:534, punto 43), nonché del 31 gennaio 2013, McDonagh (C‑12/11, EU:C:2013:43, punto 44).

( 28 ) Sentenza del 17 luglio 2014, Qurbani (C‑481/13, EU:C:2014:2101, punto 24).

( 29 ) Sentenza del 17 giugno 2010 (C‑31/09, EU:C:2010:351, punti 42-52). V., altresì, le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Bolbol (C‑31/09, EU:C:2010:119, paragrafi da 36 a 90).

( 30 ) Sentenza del 19 dicembre 2012 (C‑364/11, EU:C:2012:826, punti da 46 a 65). V. anche le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Abed El Karem El Kott e a. (C‑364/11, EU:C:2012:569, paragrafi da 22 a 24).

( 31 ) Sottolineo che, se la Corte internazionale di giustizia (in prosieguo: la «CIG») è competente a interpretare la Convenzione di Ginevra in forza della clausola compromissoria di cui all’articolo 38 di detta convenzione, essa può essere adita solo nel quadro di una controversia tra Stati contraenti [v., inoltre, l’articolo 34, paragrafo 1, e articolo 36, paragrafo 2, lettera a), dello statuto della Corte internazionale di Giustizia del 26 giugno 1945 (Recueil des traités des Nations unies, vol. 1, pag. XVI)]. La CIG non ha ancora avuto occasione di pronunciarsi sulle questioni d’interpretazione della Convenzione di Ginevra sollevate nel caso di specie. In tali condizioni, il riconoscimento alla Corte di una competenza ad interpretare tale convenzione in via incidentale in occasione dell’esercizio delle sue funzioni di interpretazione e di controllo della validità degli atti di diritto derivato adottati in materia di politica comune di asilo sulla base del diritto primario dell’Unione, appare necessario per consentirle di assolvere appieno tali funzioni.

( 32 ) V., in particolar modo, infra, paragrafi da 109 a 113.

( 33 ) Conclusa il 23 maggio 1969 (Recueil des traités des Nations unies, vol. 1155, pag. 331). Sebbene la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati non vincola né l’Unione né tutti gli Stati membri, varie disposizioni di tale convenzione rispecchiano le norme del diritto internazionale consuetudinario che, in quanto tali, vincolano le istituzioni dell’Unione e fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione [sentenza del 25 febbraio 2010, Brita (C‑386/08, EU:C:2010:91, punti 4243 e giurisprudenza ivi citata)]. V., anche, sentenza del 24 novembre 2016, SECIL (C‑464/14, EU:C:2016:896, punto 94).

( 34 ) Il mandato dell’UNHCR, si estende, in particolar modo alla vigilanza sull’applicazione delle disposizioni della Convenzione di Ginevra [v., lo Statuto dell’Ufficio dell’UNHCR, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 14 dicembre 1950, A/RES/428, punto 8, lettera a), e l’articolo 35 della Convenzione di Ginevra]. Il considerando 22 della direttiva 2011/95 precisa, peraltro, che «[l]e consultazioni con l’[UNHCR] possono offrire preziose indicazioni agli Stati membri all’atto di decidere se riconoscere lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra». V., altresì, le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Bolbol (C‑31/09, EU:C:2010:119, paragrafo 16 e nota a piè di pagina 20).

( 35 ) Il Nejvyšší správní soud (Suprema Corte amministrativa) ha aggiunto l’articolo 6, paragrafo 3, TUE, fra le disposizioni del diritto primario alla luce delle quali essa mette in dubbio la validità delle disposizioni di cui trattasi. Dalla decisione di rinvio risulta che, con tale aggiunta, tale giudice ha inteso designare le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, risultanti dalla Convenzione di Ginevra, di cui tutti gli Stati membri sono parte. Nella misura in cui il rispetto di tale convenzione è inoltre sancito dall’articolo 18 della Carta e dall’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, l’esame della validità dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva 2011/95 alla luce di tali disposizioni del diritto primario implica anche la conformità delle stesse all’articolo 6, paragrafo 3, TUE.

( 36 ) V. supra, paragrafi 33 e 47.

( 37 ) V. statuto dell’Ufficio dell’UNHCR, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1950, A/RES/428, punto 6 B.

( 38 ) V. infra, paragrafi da 112 a 130.

( 39 ) Vale a dire, nella versione in lingua inglese, l’espressione «not to grant to refugee status», in quella in lingua tedesca, «einem Flüchtling eine Rechtsstellung nicht zuzuerkennen». V., anche, le versioni in lingua danese, greca, italiana, lettone, maltese, neerlandese, portoghese, slovacca, slovena e svedese.

( 40 ) V., in particolare, sentenza del 1o marzo 2016, Alo e Osso (C‑443/14 e C‑444/14, EU:C:2016:127, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

( 41 ) Come risulta dal tenore letterale dell’articolo 11 della direttiva 2011/95, la persona oggetto delle ipotesi ivi enunciate «cessa di essere un rifugiato». Se la versione in lingua francese dell’articolo 12 della direttiva stessa non è, al pari di talune altre versioni linguistiche, univoca, anche laddove fa riferimento all’esclusione «dallo status di rifugiato», la versione in lingua inglese utilizza l’espressione «excluded from being a refugee». Altre versioni linguistiche, come le versioni in lingua spagnola, portoghese e svedese utilizzano termini simili. L’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95 fa, del resto, espressamente dipendere la qualità di rifugiato dalla mancata applicazione di una causa di esclusione ai sensi dell’articolo 12 di tale direttiva.

( 42 ) Per contro, ove l’interessato abbia commesso un tale reato al di fuori del paese di rifugio, prima di esservi accolto come rifugiato, è escluso dallo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95, che corrisponde all’articolo 1, lettera F), punto b), della Convenzione di Ginevra. V. anche, in proposito, Additional UNHCR Observations on Article 33(2) of the 1951 Convention in the Context of the Draft Qualification Directive, dicembre 2002, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/437c6e874.html, punto 6.

( 43 ) V., UNHCR, Commentaires annotés du HCR sur la [directive 2004/83] [Commentario annotato sulla direttiva 2004/83], del 28 gennaio 2005, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/44ca0d504.html, pag. 32, citati supra, paragrafo 33. V., inoltre, sentenza del 9 novembre 2010, B e D (C‑57/09 e C‑101/09, EU:C:2010:661, punti 101104).

( 44 ) V., UNHCR, The Cessation Clauses: Guidelines on their Application, aprile 1999, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/pdfid/3c06138c4.pdf, punto 2; UNHCR, Principes directeurs sur la protection internationale no 5 – Application des clauses d’exclusion: article 1F de la [convention de Genève] [Principi direttivi relativi alla tutela internazionale no 5 – Applicazione delle clausole di esclusione: articolo 1F della Convenzione di Ginevra], 4 settembre 2003, HCR/GIP/03/05, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/4110bc314.html, punto 3, nonché UNHCR, Note d’information sur l’application des clauses d’exclusion: article 1F de la [convention de Genève] [Note di informazione sull’applicazione delle clausole di esclusione: articolo 1F della Convenzione di Ginevra], 4 settembre 2003, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/4110d7334.html, punto 7.

( 45 ) Un documento dell’UNHCR [Additional UNHCR Observations on Article 33(2) of the 1951 Convention in the Context of the Draft Qualification Directive, dicembre 2002, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/437c6e874.html, punto 1] indica, come rilevato anche dal governo francese, che il legislatore, nell’ambito dei lavori preparatori che hanno preceduto l’adozione della direttiva 2004/83, prevedeva di includere i motivi indicati all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva medesima tra le cause di cessazione e di esclusione dello status di rifugiato. Questa impostazione non è stata tuttavia accolta, probabilmente, tenuto conto degli obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra. V. anche, a tal fine, Hailbronner, K., e Thym, D., EU Immigration and Asylum Law: A Commentary, 2a éd., C.H. Beck – Hart – Nomos, 2016, pagg. 1202 e 1203.

( 46 ) In merito alla divergenza tra le versioni linguistiche dell’articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2011/95, v. supra, paragrafo 76.

( 47 ) Tale procedura deve svolgersi nel rispetto delle disposizioni di cui alla direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).

( 48 ) V. articolo 23, paragrafo 4, articolo 24, paragrafo 1, e articolo 25, paragrafo 1, della direttiva 2011/95.

( 49 ) La direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 96) impone tuttavia agli Stati membri di garantire certi diritti minimi ai richiedenti protezione internazionale.

( 50 ) A tal proposito, il considerando 32 della direttiva 2011/95 afferma che «[i]n linea con il riferimento di cui all’articolo 14, “status” può includere anche lo status di rifugiato». Sebbene sia difficile ricavarne un significato univoco, tale considerando attesta, a mio avviso, che il legislatore ha inteso attribuire al vocabolo «status» utilizzato all’articolo 14, paragrafi 4 e 5, di tale direttiva, un significato leggermente diverso da quello che riceve all’articolo 2, lettera e) della stessa direttiva.

( 51 ) In particolare, l’applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4 o 5, della direttiva 2011/95 comporta la perdita del diritto a un permesso di soggiorno previsto dall’articolo 24, paragrafo 1, di tale direttiva. Di conseguenza, i rifugiati interessati possono essere oggetto di una decisione di rimpatrio e, se del caso, venire espulsi verso un paese terzo in cui essi non rischiano di subire persecuzioni o danni gravi ai sensi dell’articolo 15 della direttiva 2011/95, vale a dire la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, nonché la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale [v., sentenza del 24 giugno 2015, H.T. (C‑373/13, EU:C:2015:413, punto 43)], se un paese terzo sia disposto ad accoglierli. Gli Stati membri devono quindi rispettare le garanzie previste a tal proposito all’articolo 32 della Convenzione di Ginevra (v., infra paragrafi 112 e segg.). Inoltre, i rifugiati di cui dall’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 perdono il beneficio degli altri diritti di cui al capo VII di tale direttiva. La loro situazione si differenzia in tal senso da quella dei rifugiati che si vedono solo privati di un titolo di soggiorno ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva 2011/95. Questi ultimi continuano a beneficiare di tutti gli altri diritti previsti al capo VII di detta direttiva [v. sentenza del 24 giugno 2015, H.T. (C‑373/13, EU:C:2015:413, punto 95), fermo restando gli imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico che possono giustificare la perdita di un titolo di soggiorno possono anche comportare la perdita dei benefici legati al mantenimento dell’unità familiare e al rilascio di documenti di viaggio (v., articolo 23, paragrafo 4, e articolo 25, paragrafo 1, della direttiva 2011/95).

( 52 ) V., a tal proposito, UNHCR, Pièces d’identité pour les réfugiés [Documenti d’identità per i rifugiati], EC/SCP/33, 20 luglio 1984, disponibile all’indirizzo: http://www.unhcr.org/fr/excom/scip/4b30a5862c/pieces-didentite-refugies.html. Secondo l’UNHCR, «il rifugiato, per beneficiare di un trattamento conforme alle norme riconosciute a livello internazionale, deve poter rendere dichiarazioni nei confronti dei rappresentanti dei pubblici poteri, non solo in relazione alla sua identità, ma anche alla sua condizione di rifugiato».

( 53 ) La fattispecie contemplata al paragrafo 4 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 si differenzia, in tal senso, da quella disciplinata al precedente paragrafo 3 che è stata oggetto delle due cause sfociate nella sentenza del 9 novembre 2010, B e D (C‑57/09 e C‑101/09, EU:C:2010:661, punto 60). Infatti, quest’ultima disposizione si applica alle persone cui la qualità di rifugiato non avrebbe mai dovuto essere riconosciuta, sebbene gli Stati membri siano tenuti a revocare contemporaneamente il riconoscimento di tale qualità e la concessione dei diritti che ne derivano.

( 54 ) UNHCR, Note sur l’annulation du statut de réfugié [Nota sull’annullamento dello status di rifugiato], 22 novembre 2004, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/4551f8714.html, punto 2.

( 55 ) UNHCR, Commentaires annotés du HCR sur la [directive 2004/83] [Commentario annotato sulla direttiva 2004/83], 28 gennaio 2005, disponibile all’indirizzo http://www.refworld.org/docid/44ca0d504.html, pag. 32, citato supra al paragrafo 33. V., inoltre, UNHCR comments on the European Commission’s proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on minimum standards for the qualification and status of third country nationals or stateless persons as beneficiaries of international protection and the content of the protection granted [COM(2009) 551 def., del 21 ottobre 2009), disponibile all’indirizzo: http://www.unhcr.org/protection/operations/4c5037f99/unhcr-comments-european-commissions-proposal-directive-european-parliament.html, pag. 14, nonché UNHCR, Asylum in the European Union. A Study of the Implementation of the Qualification Directive, novembre 2007, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/473050632.html, pag. 94.

( 56 ) La legge ceca in materia di asilo, quale illustrata dal giudice del rinvio nella causa C‑391/16 (v. supra, paragrafo 26) sembra rispecchiare tale interpretazione.

( 57 ) V., infra, paragrafi da 112 a 130.

( 58 ) V. articolo 20, paragrafo 1, della direttiva 2011/95.

( 59 ) V. articoli 24, 28, 30 e 34 de la direttiva 2011/95.

( 60 ) V. articolo 25 della direttiva 2011/95 e articolo 28 della Convenzione di Ginevra.

( 61 ) V. articolo 33 della direttiva 2011/95 e articolo 26 della Convenzione di Ginevra.

( 62 ) V. articolo 26 della direttiva 2011/95 e agli articoli da 17 a 19 e 24 della Convenzione di Ginevra.

( 63 ) V. articolo 32 della direttiva 2011/95 e articolo 21 della Convenzione di Ginevra.

( 64 ) Articolo 29 della direttiva 2011/95 e articolo 23 della Convenzione di Ginevra. I diritti di cui al capo VII di tale direttiva coincidenti con i diritti sanciti in tale convenzione comprendono, inoltre, il diritto alla protezione contro il respingimento (articolo 21 della direttiva e articolo 33 della Convenzione di Ginevra). Tuttavia, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva stessa, l’applicazione dei paragrafi 4 e 5 di detto articolo non comporta la perdita di tale diritto.

( 65 ) V. infra, paragrafo 112.

( 66 ) UNHCR, «Lawfully Staying» – A Note on Interpretation, 3 maggio 1988, disponibile all’indirizzo http://www.refworld.org/docid/42ad93304.html. Ciò premesso, l’UNHCR ha affermato, ai punti da 16 a 22 di tale nota, che una residenza che non è regolare ai sensi del diritto nazionale può nondimeno, secondo le circostanze, essere considerata «regolare» ai sensi della Convenzione di Ginevra. V., anche, Additional UNHCR Observations on Article 33(2) of the 1951 Convention in the Context of the Draft Qualification Directive, dicembre 2002, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/437c6e874.html, nota a piè di pagina 1.

( 67 ) Ricordo, tuttavia, che, in virtù del diritto dell’Unione, uno Stato membro che priva un rifugiato del suo permesso di soggiorno in forza dell’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 è tenuto a riconoscergli tutti gli altri diritti previsti al capo VII di tale direttiva (v. supra, nota a piè di pagina 51).

( 68 ) Ritengo utile aggiungere che, nel caso in cui un rifugiato che si trovi in soggiorno irregolare in applicazione dell’articolo 14, paragrafi 4 o 5, della direttiva 2011/95 sia destinatario di una decisione di rimpatrio che non possa essere eseguita in base al principio di non respingimento o degli obblighi degli Stati membri derivanti dalla Carta, dalla CEDU e dal diritto internazionale, la relativa fattispecie ricade comunque nell’ambito di applicazione dell’articolo 14 della direttiva n. 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU 2008, L 348, pag. 98). Tale disposizione prevede che, durante i periodi per i quali l’allontanamento è stato differito, gli Stati membri provvedono affinché, in quanto possibile, siano assicurate agli interessati garanzie per quanto riguarda, in particolare, il mantenimento dell’unità del nucleo familiare e siano assicurati le prestazioni sanitarie d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie.

( 69 ) UNHCR, Commentaires annotés du HCR sur la [directive 2004/83] [Commentario annotato dell’UNHCR alla direttiva 2004/83], 28 gennaio 2005, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/44ca0d504.html, pag. 32, cit. supra, paragrafo 33.

( 70 ) V. UNHCR Comments on the European Commission Proposal for a Qualification Regulation – COM (2016) 466, febbraio 2018, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/5a7835f24.html, pag. 23. L’UNHCR ha raccomandato che la situazione dei rifugiati che rappresentano un pericolo per l’ordine o la sicurezza pubblici sia trattata nella norma corrispondente all’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 e che tale norma sia integrata con il seguente testo: «Persons to whom points (a) and (b) [apply] shall be entitled to rights set out in or similar to those set out in Articles 3, 4, 13, 16, 20, 22, 25, 27, 29, 31 and 32 of the Geneva Convention in so far as they are present in the Member State».

( 71 ) V. in particolare, sentenza del 29 gennaio 2009, Petrosian (C‑19/08, EU:C:2009:41, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).

( 72 ) Nella sentenza del 12 luglio 2005, Commissione/Francia(C‑304/02, EU:C:2005:444, punto 83), la Corte ha attribuito un significato cumulativo alla congiunzione «o» di cui all’articolo 260, paragrafo 2, TFUE, che prevede il potere della Corte di comminare il pagamento «della somma forfettaria o della penalità» a uno Stato membro in caso di mancata esecuzione di una sentenza che constata un inadempimento. V., altresì, sentenza del 10 marzo 2005, Tempelman e van Schaijk (C‑96/03 e C‑97/03, EU:C:2005:145, punto 43) e, in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Mengozzi nella causa Georgakis (C‑391/04, EU:C:2006:669, paragrafo 62).

( 73 ) All’udienza il Parlamento e la Commissione hanno tuttavia sostenuto che il mancato riferimento agli articoli 13 e 27 della Convenzione di Ginevra nella formulazione del paragrafo 6 dell’articolo 14 della direttiva 2011/95 si spiegherebbe con la volontà di trattare i rifugiati di cui ai paragrafi 4 e 5 di tale articolo in modo meno favorevole rispetto ai rifugiati che, senza rientrare nell’ambito di applicazione di tali disposizioni, non risiedano (o non risiedano ancora) regolarmente in uno Stato membro. Nutro dubbi sulla conformità di tale interpretazione con l’articolo 18 della Carta e l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, in quanto la Convenzione di Ginevra prevede che i diritti in questione sono a vantaggio di «tutti i rifugiati» senza prevedere limitazioni, come ha altresì dichiarato l’UNHCR nelle sue posizioni esposte supra al paragrafo 113.

( 74 ) Di conseguenza, il diritto al rilascio di un documento d’identità deriva, a mio modo di vedere, già dagli altri diritti enunciati all’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95, nella misura in cui è necessario per l’effettivo esercizio di tali diritti. Un ragionamento analogo ha indotto la Corte, nella sentenza del 18 dicembre 2014, Abdida, C‑562/13, EU:C:2014:2453, punti 5960), a dichiarare che uno Stato membro è tenuto a prendere in carico, per quanto possibile, le necessità primarie di un cittadino di un paese terzo, al quale lo Stato membro stesso è tenuto a garantire l’assistenza sanitaria d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2008/115. Infatti, sebbene la direttiva non preveda esplicitamente tale obbligo, l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva sarebbe privo di effetti reali se tali necessità non fossero garantite.

( 75 ) V., UNHCR, Pièces d’identité pour les réfugiés [Documenti di identità per i rifugiati], EC/SCP/33, 20 luglio 1984, disponibile all’indirizzo: http://www.unhcr.org/fr/excom/scip/4b30a5862c/pieces-didentite-refugies.html, punto 2 e Commentaires annotés du HCR sur la [directive 2004/83] [Commentario annotato dell’UNHCR alla direttiva 2004/83], 28 gennaio 2005, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/44ca0d504.html, pag. 43. V., in relazione a tale aspetto, supra, paragrafo 97.

( 76 ) L’articolo 1 della Convenzione di Ginevra definisce il termine «rifugiato». I successivi articoli da 36 a 46 della costituiscono, da parte loro, disposizioni esecutive e transitorie. Tali articoli non riguardano, quindi, il contenuto dei diritti dei rifugiati.

( 77 ) La particolare importanza del diritto all’accesso all’educazione pubblica in materia di scuola primaria, previsto dall’articolo 22, paragrafo 1, della Convenzione di Ginevra, risulta dall’articolo 14 della direttiva 2013/33. Detta norma obbliga gli Stati membri a consentire ai figli minori di richiedenti la protezione internazionale e ai richiedenti minori di accedere al sistema educativo – quanto meno pubblico – a condizioni simili a quelle dei propri cittadini [v., altresì, l’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2008/115]. L’articolo 8 della direttiva 2013/33, secondo il quale «[g]li Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente [la protezione internazionale]», testimonia la collocazione fondamentale che occupa il divieto di imporre sanzioni penali ai rifugiati per il solo fatto del loro ingresso o soggiorno irregolari, sancito all’articolo 31 della Convenzione di Ginevra, che il considerando 15 della direttiva de qua menziona espressamente [v. altresì il considerando 20 e l’articolo 28, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31)].

( 78 ) Diversi Stati membri, fra cui la Repubblica d’Austria, la Repubblica d’Estonia, l’Irlanda, il Regno di Svezia nonché il Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord hanno formulato riserve in ordine all’articolo 25 della Convenzione di Ginevra. La Repubblica francese e l’Irlanda hanno formulato riserve relative all’articolo 29 della Convenzione stessa. V. Collection des Traités des Nations unies, disponibile all’indirizzo: https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=V-2&chapter= 5&Temp=mtdsg2&clang=_fr.

( 79 ) V., per quanto riguarda la portata dell’articolo 2, paragrafo 1, e dell’articolo 3 della CEDU (che corrispondono, rispettivamente, all’articolo 2, paragrafo 1, e all’articolo 4 della Carta), sentenza della Corte EDU del 10 aprile 2012, Panaitescu c. Romania (CE:ECHR:2012:0410JUD003090906, §§ da 27 a 30 e giurisprudenza ivi citata). Ricordo che, come risulta dall’articolo 52, paragrafo 3, della Carta che, laddove quest’ultima contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione, fatta salva la possibilità per il diritto dell’Unione di concedere ai medesimi una protezione più estesa. Nella fattispecie, la privazione dell’accesso all’assistenza sanitaria potrebbe, in determinati casi, violare l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2008/115 (v. supra, nota a piè di pagina 68).

( 80 ) V. supra, nota a piè di pagina 51.

( 81 ) Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, la CEDU non garantisce il diritto di uno straniero di entrare o di risiedere in un determinato paese e gli Stati contraenti hanno il diritto, in virtù di un principio di diritto internazionale consolidato e fatti salvi i loro impegni derivanti dai trattati (inclusa la CEDU), di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri. Tuttavia, misure che limitano il diritto di soggiorno di uno straniero possono, in taluni casi, comportare una violazione dell’articolo 8 della CEDU qualora ne risultatini ripercussioni sproporzionate sulla sua vita privata e/o familiare [v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2012, Kurić e a. c. Slovenia (CE:ECHR:2012:0626JUD002682806, § 355 e giurisprudenza ivi citata)]. Per quanto riguarda i fattori da prendere in considerazione ai fini dell’esame della proporzionalità di una misura di allontanamento, v. sentenze della Corte EDU. del 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera (CE:ECHR:2001:0802JUD005427300, § 48) e del 18 ottobre 2006, Üner c. Paesi Bassi (CE:ECHR:2006:1018JUD004641099, §§ 57 e 58). Questi principi si applicano anche quando è in questione la proporzionalità di una decisione di diniego di rilascio di un permesso di soggiorno [v., in particolare, sentenza della Corte EDU del 1o marzo 2018, Ejimson c. Germania (CE:ECHR:2018:0301JUD005868112, §§ 56 e 57)].

( 82 ) V., in particolare, le sentenze della Corte EDU del 9 ottobre 2003, Slivenko c. Lettonia (CE:ECHR:2003:1009JUD004832199, § 96) e, in tal senso, del 18 ottobre 2006, Üner c. Paesi Bassi (CE:ECHR:2006:1018JUD004641099, § 59).