CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ELEANOR SHARPSTON

presentate il 23 aprile 2015 ( 1 )

Causa C‑95/14

Unione nazionale industria conciaria (UNIC)

Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (UNI.CO.PEL)

contro

FS Retail

Luna srl

Gatsby srl

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Milano (Italia)]

«Obbligo di etichettatura che indichi la provenienza dei beni — Normativa nazionale che impone che il paese di provenienza sia indicato sull’etichetta relativa a prodotti fabbricati all’estero utilizzando i termini italiani “cuoio”, “pelle” o “pelliccia” — Inosservanza dell’obbligo di osservare un termine di differimento in relazione ad una misura notificata ai sensi della direttiva 98/34/CE — Inopponibilità di una regola tecnica in una controversia tra singoli — Libera circolazione delle merci — Articolo 34 TFUE — Misure di effetto equivalente — Interpretazione della direttiva 94/11/CE»

1. 

Le autorità italiane hanno introdotto l’obbligo di apporre un’etichetta che indichi il paese di provenienza del cuoio risultante da processi (quali la conciatura) ( 2 ) effettuati in paesi stranieri ove i termini italiani «cuoio», «pelle» o «pelliccia» (o quelli da essi derivanti o loro sinonimi) sono utilizzati in relazione a prodotti in cuoio, in particolare calzature, prodotte con tale cuoio. Due associazioni hanno proposto dinanzi al Tribunale di Milano un ricorso diretto ad impedire agli operatori economici in Italia di commercializzare calzature che non osservano tali requisiti di etichettatura. Nella presente domanda di pronuncia pregiudiziale, alla Corte viene chiesto se una siffatta norma sull’etichettatura sia contraria agli articoli da 34 a 36 TFUE relativi alla libera circolazione delle merci e/o alla direttiva 94/11/CE ( 3 ) (in prosieguo: la «direttiva sull’etichettatura delle calzature») e/o al codice doganale aggiornato ( 4 ). Tuttavia, un’altra questione rilevante, non espressamente sollevata dal giudice del rinvio, è se già le disposizioni della direttiva 98/34/CE ( 5 ) possano rendere inapplicabile la norma nazionale sull’etichettatura.

Diritto dell’Unione

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea

2.

L’articolo 34 TFUE vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente. L’articolo 35 contiene una disposizione analoga in relazione all’esportazione. L’articolo 36 dispone che gli Stati membri possono imporre restrizioni proporzionate sulla circolazione delle merci se giustificate sulla base di taluni motivi consentiti ( 6 ).

Il codice doganale

3.

L’articolo 36 del codice doganale aggiornato ( 7 ) è tra le disposizioni che stabiliscono le norme per determinare l’origine non preferenziale delle merci ai fini dell’applicazione della tariffa doganale comune, delle misure (diverse da quelle tariffarie) stabilite da disposizioni comunitarie specifiche nel quadro degli scambi di merci o delle altre misure comunitarie relative all’origine delle merci ( 8 ). Ai sensi dell’articolo 36 le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio ( 9 ). Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale ( 10 ).

4.

Nella sua ordinanza di rinvio, il Tribunale di Milano cita l’articolo 60 del regolamento (UE) n. 952/2013 ( 11 ). L’articolo 60, paragrafo 1, è formulato negli stessi termini dell’articolo 36, paragrafo 1, del regolamento n. 450/2008. L’articolo 60, paragrafo 2, dispone che «le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione». Tuttavia, nel periodo rilevante tale disposizione non era ancora in vigore ( 12 ). Pertanto tratterò la domanda di pronuncia pregiudiziale come se facesse riferimento all’articolo 36 del regolamento n. 450/2008 ( 13 ).

La direttiva sull’etichettatura delle calzature

5.

Tale direttiva è stata adottata per affrontare i problemi relativi agli scambi intracomunitari di calzature. Gli Stati membri avevano requisiti di etichettatura differenti che comportavano l’aumento dei costi per gli operatori economici e ostacolavano la libera circolazione ( 14 ). Si è ritenuto che tali problemi potessero essere risolti nel modo più efficace tramite un’azione a livello dell’Unione. Il legislatore ha pertanto adottato una misura di armonizzazione che stabilisce soltanto i requisiti ritenuti indispensabili alla libera circolazione delle calzature ( 15 ).

6.

La direttiva sull’etichettatura delle calzature trova applicazione all’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore e definisce le «calzature» come «prodotti dotati di suole intesi a proteggere o coprire il piede (...)» (articolo 1, paragrafo 1) ( 16 ). L’etichetta deve fornire informazioni sulle tre parti della calzatura interessate quali definite nell’allegato I ( 17 ), vale a dire la tomaia, il rivestimento della tomaia e suola interna e la suola esterna (articolo 1, paragrafo 2). La composizione delle calzature deve essere indicata mediante simboli o informazioni scritte per i materiali indicati nell’allegato I ( 18 ). Tale informazione deve anche soddisfare i requisiti di etichettatura di cui all’articolo 4.

7.

Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, gli Stati membri devono adottare tutte le misure necessarie per assicurare che solo le calzature conformi ai requisiti di etichettatura della direttiva sull’etichettatura delle calzature possano avere accesso al mercato, fatte salve altre disposizioni di diritto dell’Unione in materia.

8.

L’articolo 3 dispone: «Fatti salvi altri obblighi contenuti nella normativa comunitaria, gli Stati membri non possono vietare o impedire la commercializzazione sul loro territorio di calzature conformi ai requisiti di etichettatura della presente direttiva, applicando disposizioni nazionali non armonizzate che disciplinano l’etichettatura di determinate calzature o di calzature in generale».

9.

I requisiti di etichettatura indicati nell’articolo 4, paragrafo 1, sono i seguenti: «(…) informazioni sul materiale determinato ai sensi dell’allegato I che costituisce almeno l’80% della superficie della tomaia, del rivestimento della tomaia e suola interna della calzatura e almeno l’80% del volume della suola esterna. Se nessun materiale raggiunge almeno l’80% è opportuno fornire informazioni sulle due componenti principali». L’articolo 4, paragrafo 2, specifica che le informazioni sono fornite sulle calzature tramite «simboli o informazioni scritte almeno nella (nelle) lingua (lingue) che può (possono) essere determinata (determinate) dallo Stato membro di consumo in conformità del trattato, definiti e illustrati nell’allegato I». Gli Stati membri devono fare in modo che i consumatori siano correttamente informati del significato dei simboli, ma tali misure non devono creare ostacoli agli scambi. L’etichettatura deve essere apposta su almeno uno degli articoli di ciascun paio di calzature; deve essere visibile, saldamente applicata alle calzature e accessibile; e non deve poter indurre in errore il consumatore (articolo 4, paragrafi 3 e 4).

10.

L’articolo 5 dispone: «Informazioni scritte supplementari apposte se del caso sull’etichetta potranno accompagnare le indicazioni richieste ai sensi della presente direttiva. Gli Stati membri tuttavia non possono vietare od ostacolare l’immissione sul mercato di calzature conformi al disposto della presente direttiva, come previsto all’articolo 3».

La Direttiva 98/34

11.

Lo scopo della direttiva 98/34 è quello di aiutare a evitare la creazione di nuovi ostacoli agli scambi nell’ambito del mercato interno. Essa introduce un meccanismo di trasparenza e di controllo preventivo imponendo agli Stati membri di notificare le regolamentazioni tecniche in progetto prima dell’adozione e quindi, in generale, di osservare un termine di differimento di almeno 3 mesi (v. paragrafo 14 infra) prima di adottare la regolamentazione in questione, al fine di dare agli altri Stati membri e alla Commissione l’opportunità di esprimere le loro preoccupazioni in relazione a possibili ostacoli agli scambi ( 19 ).

12.

Sono rilevanti le seguenti definizioni di cui all’articolo 1:

«1)   “prodotto”: i prodotti di fabbricazione industriale e i prodotti agricoli (…)

(...)

3)   “specificazione tecnica”: una specificazione che figura in un documento che definisce le caratteristiche richieste di un prodotto, quali i livelli di qualità (…) comprese le prescrizioni applicabili al prodotto per quanto riguarda (…) l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura (…)

(...)

11)   “regola tecnica”: una specificazione tecnica (...) la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto (…) intes[a] a vietare la fabbricazione, la commercializzazione o l’utilizzazione di un prodotto (…)

(…)».

13.

Ai sensi dell’articolo 8, gli Stati membri devono immediatamente comunicare alla Commissione ogni progetto di regola tecnica che intendono adottare. Essi le devono comunicare brevemente anche i motivi che rendono necessario adottare tale regola tecnica a meno che non risultino già dal progetto. La Commissione deve comunicare senza indugio agli altri Stati membri il progetto di regola tecnica e tutti i documenti che le sono stati trasmessi. L’articolo 8, paragrafo 2, dispone che la Commissione e gli Stati membri possono inviare osservazioni allo Stato membro notificant,. di cui lo Stato membro terrà conto, per quanto possibile, nella stesura definitiva della regola tecnica. Ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, gli Stati membri devono comunicare senza indugio alla Commissione il testo definitivo della regola tecnica.

14.

L’articolo 9, paragrafo 1, stabilisce che l’adozione di un progetto di regola tecnica notificato ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, deve essere rinviata di tre mesi (in prosieguo: il «termine di differimento»). Tale termine è esteso a sei mesi se la Commissione o un altro Stato membro emette un parere circostanziato secondo il quale la misura proposta presenta degli aspetti che possono eventualmente creare ostacoli alla libera circolazione delle merci nell’ambito del mercato interno (articolo 9, paragrafo 2). Il termine di differimento è esteso a dodici mesi se entro tre mesi dalla notifica ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, la Commissione comunica la sua intenzione di proporre o adottare una normativa relativa alla materia oggetto del progetto di regola tecnica (articolo 9, paragrafo 3) ( 20 ).

Diritto nazionale

15.

La legge n. 8/2013 del 14 gennaio 2013 che stabilisce nuove disposizioni in materia di utilizzo dei termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» e di quelli da essi derivanti o loro sinonimi è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30 gennaio 2013 ed è entrata in vigore il 14 febbraio 2013. L’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 introduce l’obbligo di etichettatura, con l’indicazione dello Stato di provenienza, per i prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana dei termini apposti sul cuoio prodotto. Nell’ordinanza di rinvio, il Tribunale di Milano indica che la legge n. 8/2013 è stata notificata alla Commissione il 21 dicembre 2012 con il numero di riferimento 2012/667/1 ( 21 ). Essa era pertanto soggetta almeno ad un periodo di differimento iniziale di tre mesi, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34 ( 22 ).

Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

16.

La FS Retail srl, la Luna srl e la Gatsby srl, resistenti nel procedimento principale, sono operatori economici che commercializzano calzature in Italia. Le calzature di cui trattasi recano la dicitura italiana «pelle» o «vera pelle» sulla suola interna. Talune delle calzature interessate vengono prodotte nella Repubblica popolare cinese. La provenienza di tali calzature è indicata da un’etichetta di plastica apposta sulla suola esterna. Dal procedimento principale non emerge chiaramente se le altre calzature di cui trattasi (che non recano un’etichetta che ne indichi la provenienza cinese) provengano da altri Stati membri o da paesi terzi.

17.

Il 27 settembre 2013 l’Unione nazionale industria conciaria (in prosieguo: l’«UNIC»), un’associazione di categoria che rappresenta il settore della concia, e l’Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (in prosieguo: l’«UNI.CO.PEL»), un’organizzazione che promuove gli interessi dei consumatori in Italia (in prosieguo: le «ricorrenti») hanno proposto ricorso contro le resistenti dinanzi al Tribunale di Milano chiedendo misure cautelari perché avrebbero violato l’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013. Le ricorrenti ritengono che l’uso di termini italiani per descrivere la suola interna di cuoio senza indicazione della sua provenienza trarrebbe in inganno i consumatori perché farebbe intendere che la pelle usata e/o l’intero prodotto siano di provenienza italiana. Inoltre, la prassi di usare termini italiani per simili prodotti concreterebbe un’ipotesi di concorrenza sleale dei produttori stranieri a danno della pelle italiana e del settore delle calzature, in quanto la provenienza italiana della pelle usata sarebbe un pregio che solo le calzature prodotte utilizzando pelle italiana potrebbero vantare.

18.

Ciascuna delle tre resistenti ha fatto opposizione al ricorso cautelare sulla base di motivi differenti: i) le calzature di cui trattasi soddisfano i requisiti di cui alla direttiva sull’etichettatura delle calzature, e ii) taluni elementi delle calzature, poiché recano l’etichetta che indica la provenienza dalla Cina, osservano la legge n. 8/2013 e i consumatori italiani sono adeguatamente informati quanto alla provenienza dei prodotti di cui trattasi, cosicché deve essere consentita la commercializzazione di tali prodotti in Italia (la Gatsby); iii) la legge n. 8/2013 è stata notificata alla Commissione come regolamentazione tecnica ai sensi della direttiva 98/34 ma è stata adottata prima della scadenza del termine di differimento iniziale stabilito dall’articolo 9 di tale direttiva, il che la rende inopponibile nel procedimento principale (la Luna); e iv) la legge n. 8/2013 è sproporzionata in quanto i produttori sono liberi di indicare di propria iniziativa se i prodotti sono di provenienza italiana (la FS Retail).

19.

In tale contesto il Tribunale di Milano chiede alla Corte una pronuncia pregiudiziale su sei questioni interconnesse che sono forse più comprensibili riprodotte in sintesi.

20.

Tali questioni riguardano molti modi con cui il diritto dell’Unione potrebbe impedire l’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 a prodotti in pelle

legalmente lavorata o commercializzata in altri Stati membri o

ottenuta da lavorazioni in paesi non membri dell’Unione Europea e non già legalmente commercializzata nell’Unione.

21.

In entrambe tali situazioni, il giudice del rinvio rileva che l’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 rende obbligatoria l’etichettatura con l’indicazione dello Stato di provenienza qualora (come qui) il prodotto rechi il termine italiano «pelle». Esso si chiede se un siffatto requisito possa essere precluso:

dagli articoli da 34 a 36 TFUE, in quanto misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative agli scambi tra Stati membri non giustificate sulla base di alcun motivo consentito (questioni 1 e 2);

dagli articoli 3 e 5 della direttiva sull’etichettatura delle calzature (ai sensi dei quali gli Stati membri non possono vietare o impedire la commercializzazione di calzature conformi ai requisiti di etichettatura di tale direttiva) (questioni 3 e 4); o

dall’articolo 60 del regolamento n. 952/2013 (il successore normativo dell’articolo 36 del regolamento n. 450/2008, che definisce il paese di provenienza) (questioni 5 e 6).

22.

Hanno presentato osservazioni scritte l’UNIC e l’UNI.CO.PEL, la Gatsby, i governi tedesco, dei Paesi Bassi, e svedese, nonché la Commissione. Il 15 gennaio 2015 si è tenuta un’udienza a seguito della richiesta della Corte che le parti affrontassero la questione, sollevata dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, se la legge n. 8/2013 fosse inopponibile perché adottata in violazione del termine di differimento di cui all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34. Le altre parti che hanno depositato osservazioni scritte non hanno affrontato tale punto e la questione non è stata sollevata dal giudice del rinvio. All’udienza, l’UNIC e l’UNI.CO.PEL, la Repubblica ceca, la Germania e la Commissione hanno presentato osservazioni orali.

Valutazione

Osservazioni preliminari

23.

All’udienza, prima di affrontare i quesiti della Corte, l’UNIC e l’UNI.CO.PEL hanno sostenuto che la Corte deve prima esaminare se la domanda di pronuncia pregiudiziale debba essere ritirata, poiché il contesto normativo nazionale descritto nell’ordinanza di rinvio è nel frattempo cambiato. Esse hanno osservato che la legge n. 8/2013 è stata abrogata dal 10 novembre 2014 ed è stato notificato alla Commissione, ai sensi della direttiva 98/34, un nuovo decreto legislativo relativo ai prodotti in pelle ( 23 ).

24.

Il ritiro di una domanda di pronuncia pregiudiziale è una prerogativa del giudice del rinvio piuttosto che una questione per la Corte. In ogni caso non ritengo che il presente rinvio debba essere trattato su questa base.

25.

Il giudice del rinvio spiega che il ricorso cautelare delle ricorrenti si fonda sulla legge n. 8/2013, che, a giudizio di detto giudice, fornisce il quadro normativo di riferimento nel periodo rilevante. Le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza ( 24 ). Questo perché il procedimento istituito dall’articolo 267 TFUE si basa su una netta separazione delle funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, ove quest’ultima è autorizzata a pronunciarsi soltanto sull’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione cui si riferisce detta disposizione. Non spetta alla Corte né pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto nazionale né stabilire se l’interpretazione datane dal giudice del rinvio sia corretta. La Corte deve prendere in considerazione il contesto fattuale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali come definito dal giudice del rinvio. L’individuazione della normativa nazionale applicabile costituisce una questione di interpretazione del diritto nazionale che non ricade, quindi, nella sfera di competenza della Corte ( 25 ).

26.

Pertanto, per quanto riguarda l’applicazione della normativa nazionale pertinente, la Corte deve attenersi alla situazione che il giudice del rinvio ritiene accertata ( 26 ). Ne consegue che la Corte dovrebbe rispondere alle questioni pregiudiziali proposte.

Tematiche generali relative alle questioni pregiudiziali

27.

In sostanza il giudice del rinvio chiede se il diritto dell’Unione, in particolare gli articoli da 34 a 36 TFUE e/o la direttiva sull’etichettatura delle calzature e/o il codice doganale aggiornato, precludano l’applicazione della legge n. 8/2013 nel procedimento principale. Non chiede indicazioni sull’applicabilità della direttiva 98/34.

28.

Tuttavia, la Commissione, nelle sue osservazioni scritte, sostiene che anche la violazione dei requisiti di differimento di cui alla direttiva 98/34 rende in ogni caso inopponibile la legge 8/2013. All’udienza, il governo tedesco ha detto di condividere tale posizione.

29.

Concordo con tale tesi. Ritengo anche che la legge n. 8/2013 sia incompatibile tanto con gli articoli da 34 a 36 TFUE quanto con la direttiva sull’etichettatura delle calzature ( 27 ).

30.

Ci si chiede se la Corte debba trattare della direttiva 98/34 nel rispondere al giudice del rinvio.

31.

In primo luogo, è evidente che il giudice del rinvio potrebbe risolvere il procedimento principale qualora la Corte risponda che la direttiva 98/34 precludeva l’applicazione della legge n. 8/2013.

32.

In secondo luogo, nell’ambito del divieto, di cui all’articolo 34 TFUE, di restrizioni quantitative all’importazione nonché di qualsiasi misura di effetto equivalente, la direttiva 98/34 è uno strumento sui generis volto a tutelare la libera circolazione delle merci e ad assicurare il buon funzionamento del mercato interno dei beni e dei servizi ( 28 ). Essa garantisce che la Commissione e gli Stati membri siano allertati prima dell’adozione di nuove disposizioni tecniche che possono creare ostacoli agli scambi. Pertanto, la direttiva 98/34 opera mediante un controllo preventivo ( 29 ). Inoltre, se è vero che la direttiva 98/34 stabilisce una procedura per la trasparenza e per lo scambio di informazioni relative a norme e regole tecniche piuttosto che stabilire essa stessa norme sostanziali, il mancato rispetto del termine di differimento è un vizio procedurale sostanziale atto a comportare l’inapplicabilità delle regole tecniche ( 30 ).

33.

Secondo giurisprudenza costante la Corte non può modificare le questioni sottoposte da un giudice nazionale ( 31 ) ma tali questioni devono essere trattate alla luce di tutte le disposizioni di diritto dell’Unione che possono essere rilevanti per la risoluzione della controversia nel procedimento principale ( 32 ). Nell’ambito di un rinvio ai sensi dell’articolo 267 TFUE in cui si chiede l’interpretazione di disposizioni di diritto dell’Unione, spetta alla Corte fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la controversia di cui è investito. La Corte ha il compito di interpretare tutte le disposizioni del diritto dell’Unione che possano essere utili ai giudici nazionali al fine di dirimere le controversie per cui sono stati aditi, anche qualora tali disposizioni non siano espressamente indicate nelle questioni ad essa sottoposte da detti giudici ( 33 ). Ciò vale, in particolare, se vi è un punto di diritto evidente che può essere rilevante per la decisione del giudice nazionale. In tal caso – come nella presente causa – la Corte può prenderlo in considerazione.

34.

La situazione è diversa ove alla Corte sia chiesto di statuire sulla validità di un atto dell’Unione. In tal caso, la Corte non può essere tenuta a prendere in considerazione un motivo che non è stato sollevato dal giudice nazionale ( 34 ).

35.

Il presente rinvio riguarda questioni relative all’interpretazione, non alla validità, del diritto dell’Unione. Fornendo un’interpretazione delle disposizioni rilevanti della direttiva 98/34, la Corte adempirebbe semplicemente al suo dovere di trattare le questioni sollevate alla luce di tutte le norme di diritto dell’Unione rilevanti per la risoluzione della controversia nel procedimento principale.

36.

Tuttavia, all’udienza la Repubblica ceca ha sollevato una diversa obiezione. Dietro alla questione se la direttiva 98/34 renda inopponibile la legge n. 8/2013 (essa sostiene), vi è prima quella se un giudice nazionale debba esaminare d’ufficio tale tematica. La Repubblica ceca afferma che i giudici nazionali non sono soggetti a tale obbligo per tre motivi: i) secondo il principio dispositivo nei procedimenti civili (norma procedurale nazionale ampiamente riconosciuta) non è possibile andare oltre l’ambito dell’azione delle parti ( 35 ); ii) l’eccezione al principio di autonomia procedurale nazionale sviluppato nella giurisprudenza della Corte relativa alla tutela del consumatore ( 36 ) non dovrebbe applicarsi per analogia alla direttiva 98/34, e iii) imporre ai giudici nazionali di determinare, in circostanze quali quelle della presente causa, se le norme nazionali costituiscano regole tecniche ai fini dell’articolo 1, paragrafo 11, di tale direttiva 98/34 comporterebbe un onere eccessivo e utopistico a loro carico.

37.

Non ritengo si possano accogliere tali obiezioni.

38.

In primo luogo, credo che il governo ceco stia chiedendo alla Corte di trattare la tematica sulla base dell’idea generale che le parti del procedimento sono i titolari del contenzioso e che esiste una generalizzata ricorrenza del principio dispositivo procedurale a livello nazionale. Ma la Corte non dispone di alcuna informazione in relazione al fatto se il diritto processuale italiano conosca un principio del genere. Pertanto, la Corte non è nella posizione di analizzare il ruolo nel procedimento principale di un siffatto principio (ammesso che esista) di come si svolga e delle sue caratteristiche specifiche, visto nel complesso ( 37 ). A mio avviso, la Corte non può fare una valutazione in astratto.

39.

In secondo luogo, risulta evidente dall’ordinanza di rinvio che il fatto che la legge n. 8/2013 sia stata notificata alla Commissione è stato sollevato nel procedimento principale ( 38 ); e il fascicolo del giudice del rinvio mostra che la Luna sostiene nella sua memoria nel procedimento principale che la legge n. 8/2013 è inopponibile in quanto adottata in violazione dei requisiti di differimento di cui all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34 ( 39 ). È pertanto evidente che, qualora nel diritto processuale italiano vi sia il principio dispositivo nel procedimento civile, il giudice del rinvio non violerebbe tale principio nel fare riferimento alla direttiva 98/34. Non verrebbe pertanto creata una nuova eccezione al principio di autonomia procedurale nazionale.

40.

In terzo luogo, concordo, in una certa misura, con l’affermazione della Repubblica ceca secondo la quale sarebbe indebitamente gravoso per i giudici nazionali esaminare d’ufficio in ogni causa se una particolare misura nazionale costituisca una regola tecnica rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 98/34. La questione non è sempre di agevole soluzione.

41.

Quanto a tale affermazione, rilevo che in relazione ai fatti della presente causa non sussisteva un simile onere. La questione della possibile rilevanza della direttiva 98/34 era senz’altro già dinanzi al giudice del rinvio.

42.

Più in generale, non sto suggerendo che in ogni singola causa i giudici nazionali debbano necessariamente esaminare d’ufficio se una particolare misura rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 98/34.

43.

Piuttosto ritengo che l’obbligo di esaminare la direttiva 98/34 sorga in ogni caso ove i) i fatti e le circostanze consentano al giudice nazionale di avere informazioni che precisano che le norme nazionali di cui trattasi sono state notificate alla Commissione ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 98/34, o ii) una parte del procedimento affermi che la misura invocata nei suoi confronti è una misura che rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/34. Il giudice nazionale deve quindi esaminare la questione e, ove rilevante, considerare il dovere di osservare gli obblighi di differimento di cui all’articolo 9 e la conseguente inopponibilità ai singoli. Per parte mia, ritengo che tale obbligo sussista anche qualora una delle parti nel procedimento principale non invochi espressamente l’inopponibilità della norma nazionale di cui trattasi basandosi sul mancato rispetto della direttiva 98/34.

Analisi ai sensi della direttiva 98/34

44.

Le calzature sono un «prodotto» ai sensi dell’articolo 1, punto 1, della direttiva 98/34. I requisiti di etichettatura contenuti nella legge n. 8/2013 sono «specificazioni tecniche» ai sensi dell’articolo 1, punto 3, in quanto fanno riferimento all’imballaggio, alla marcatura e all’etichettatura di un prodotto – le calzature – e pertanto stabiliscono le caratteristiche richieste in relazione a tale prodotto. La legge n. 8/2013 stessa rientra chiaramente nell’ambito di applicazione dell’articolo 1, punto 11, in quanto regola tecnica. L’Italia era pertanto tenuta a notificare la legge n. 8/2013 ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, e a rispettare il termine di differimento di cui all’articolo 9.

45.

Il testo degli articoli 8 e 9 della direttiva 98/34 è chiaro, dal momento che tali disposizioni creano un procedimento di controllo, a livello dell’Unione europea, dei progetti di regolamentazioni nazionali, subordinando la data della loro entrata in vigore alla non opposizione della Commissione e/o degli altri Stati membri. La Corte ha statuito che l’efficacia di tale controllo sarà maggiore se si interpreta la direttiva nel senso che l’inadempimento dell’obbligo di notifica costituisce un vizio procedurale sostanziale atto a comportare l’inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche di cui trattasi ( 40 ). Dalla giurisprudenza costante consegue anche che una regola tecnica, se viene adottata in violazione dell’obbligo di osservanza dei requisiti di differimento di cui all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34, è parimenti inopponibile ai singoli ( 41 ).

46.

La Commissione ha ricevuto notifica della proposta legge n. 8/2013 il 29 novembre 2012 ( 42 ). In seguito a tale notifica, il governo rumeno ha presentato osservazioni circostanziate ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 98/34. I governi tedesco e spagnolo hanno entrambi espresso pareri dettagliati ai sensi del secondo trattino dell’articolo 9, paragrafo 2 ( 43 ). All’udienza la Commissione ha informato la Corte che il termine di differimento iniziale di tre mesi era scaduto il 1o marzo 2013, ma che il termine di differimento era stato prorogato al 30 maggio 2013 in conseguenza dei pareri circostanziati. Il giudice del rinvio spiega che la legge n. 8/2013 è stata (cionondimeno) adottata il 14 febbraio 2013. La data di adozione è chiaramente in violazione del termine di differimento stabilito dall’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34.

47.

Ne consegue che la legge n. 8/2013 non può trovare applicazione in procedimenti tra singoli.

Articoli da 34 a 36 TFUE — Questioni 1 e 2

48.

Il giudice del rinvio spiega che la legge n. 8/2013 si applica ai prodotti in pelle in generale; e io intendo le questioni poste alla Corte nel senso che si riferiscono a tutti i prodotti in pelle piuttosto che solo alle calzature. Poiché la direttiva sull’etichettatura delle calzature deve essere interpretata alla luce degli articoli da 34 a 36 TFUE, in ogni caso è opportuno iniziare prendendo in considerazione tali disposizioni del Trattato.

49.

L’obbligo di apporre un’etichetta che indichi il paese di provenienza sui prodotti in pelle ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano i termini «cuoio»«pelle» o «pelliccia» (o quelli da essi derivanti o loro sinonimi) costituisce una misura di effetto equivalente alle restrizioni quantitative all’importazione, rendendo la circolazione delle merci più difficile o più costosa. È stato da tempo riconosciuto che lo scopo dell’indicazione della provenienza dei prodotti è quello di consentire ai consumatori di distinguere tra beni nazionali e beni importati e che ciò consente loro, tra l’altro, di manifestare preconcetti che possano avere nei confronti di beni stranieri. All’interno di un singolo mercato, il requisito di indicazione della provenienza non solo rende più difficile la commercializzazione in uno Stato membro di beni prodotti in altri Stati membri nei settori di cui trattasi, ma ha anche l’effetto di rallentare l’integrazione economica ostacolando la vendita di beni prodotti come conseguenza della ripartizione del lavoro tra Stati membri ( 44 ).

50.

Un requisito di etichettatura quale quello di cui all’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 presenta tali caratteristiche.

51.

Un requisito di tale natura ostacola la libera circolazione dei prodotti in pelle, perché quando le merci soggette a tale obbligo vengono commercializzate in Italia i) tali merci possono essere viste negativamente dai consumatori come conseguenza del requisito di etichettatura, e ii) a tali merci può essere negato l’accesso al mercato italiano ove tale requisito di etichettatura non sia soddisfatto.

52.

L’obbligo potrebbe anche rendere più costosa la circolazione dei prodotti in pelle lavorati fuori dall’Italia. Pertanto, gli operatori economici che immettono tali merci sul mercato italiano potrebbero dover sostenere maggiori costi di etichettatura rispetto ai loro concorrenti (che commercializzano prodotti in pelle lavorata in Italia), perché potrebbero dover produrre ed apporre etichette speciali o aggiuntive per il mercato italiano. Ciò avverrebbe, in particolare, se l’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 imponesse il requisito dell’etichettatura indicante la provenienza come obbligatorio anche quando l’etichetta è destinata al mercato dell’Unione nel complesso con il termine «pelle» in varie lingue o con il simbolo della pelle autorizzato dalla direttiva sull’etichettatura delle calzature (il testo non è chiaro su tale punto).

53.

La legge n. 8/2013 è, inoltre, una misura discriminatoria in quanto si applica solo ai prodotti in pelle non italiani e non fabbricati con pelle italiana. I prodotti fabbricati in Italia non sono soggetti al requisito di etichettatura ulteriore, anche se viene utilizzata pelle non italiana e vengono utilizzati termini italiani per descriverla.

54.

La legge n. 8/2013 non può essere giustificata neanche ai sensi delle limitate eccezioni di cui all’articolo 36 TFUE ( 45 ). La tutela del consumatore qui non può essere invocata – tale eccezione al principio della libera circolazione delle merci vale solo in relazione a misure indistintamente applicabili ( 46 ). Aggiungo che, come la Corte ha osservato nella sentenza Commissione/Regno Unito ( 47 ), nei casi in cui l’origine italiana della merce suggerisce ai consumatori determinate qualità desiderabili, i produttori hanno interesse ad indicare tale origine di loro iniziativa, sui prodotti o sugli imballaggi.

55.

Ne consegue che l’applicabilità della legge n. 8/2013 è chiaramente preclusa dall’articolo 34 TFUE e non può essere ammessa ai sensi dell’articolo 36 TFUE ( 48 ).

La direttiva sull’etichettatura delle calzature — Questioni 3 e 4

56.

Con le questioni 3 e 4 il giudice del rinvio chiede se la direttiva sull’etichettatura delle calzature precluda agli Stati membri di imporre un requisito di etichettatura che indichi il paese di provenienza ove il termine italiano «pelle» (o un suo sinonimo) sia utilizzato sulle etichette apposte sui prodotti in pelle di cui trattasi. Ho inteso tali questioni come relative solo alle calzature piuttosto che ai prodotti in pelle in generale ( 49 ).

57.

È giurisprudenza costante che, quando un settore abbia formato oggetto di un’armonizzazione esaustiva a livello dell’Unione, le misure nazionali ad esso applicabili devono essere valutate in rapporto alla relativa normativa di armonizzazione e non a quelle del diritto primario ( 50 ).

58.

A mio avviso, la direttiva sull’etichettatura delle calzature non disciplina in modo esaustivo tutti gli aspetti relativi all’etichettatura delle calzature. Invero, l’articolo 5 indica espressamente che informazioni scritte supplementari potranno accompagnare le indicazioni richieste ai sensi della direttiva e il considerando 7 afferma che la direttiva sull’etichettatura delle calzature «stabilisce soltanto i requisiti indispensabili alla libera circolazione dei prodotti ai quali si applica». Tuttavia, la direttiva disciplina in modo esaustivo l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature. Nell’indicare che la calzatura di cui trattasi è in cuoio, deve essere utilizzato il relativo termine («cuoio» in italiano) o il simbolo della pelle di cui all’allegato I, paragrafo 2, lettera a), punto i).

59.

Da una lettura combinata degli articoli 1 e 4, e dell’allegato I, della direttiva sull’etichettatura delle calzature si evince che la direttiva non intende stabilire requisiti minimi ma piuttosto norme esaustive. Gli Stati membri pertanto non hanno la facoltà di adottare requisiti più severi. Inoltre, l’articolo 3 vieta espressamente agli Stati membri di proibire o impedire la circolazione di calzature che soddisfano i requisiti di etichettatura della direttiva.

60.

Pertanto, ove le calzature soddisfino i requisiti di etichettatura della direttiva sull’etichettatura delle calzature, il diritto italiano non può sottoporre la loro circolazione nell’ambito del mercato interno alla condizione di indicare anche il paese di provenienza della pelle.

61.

Il giudice del rinvio chiede in particolare se agli Stati membri sia precluso imporre un requisito di etichettatura quale quello di cui trattasi nel procedimento principale su prodotti fabbricati al di fuori dell’Italia fatti con pelle proveniente da altri Stati membri o da paesi terzi che sia stata legalmente immessa nel mercato interno (questione 3) o che non sia stata prima legalmente immessa nel mercato interno (questione 4).

62.

Ritengo che l’articolo 3 della direttiva sull’etichettatura delle calzature impedisca chiaramente ad una misura nazionale quale la legge n. 8/2013 di imporre requisiti di etichettatura ulteriori sulle calzature in pelle lavorata in altri Stati membri o legalmente immessa nel mercato in tali Stati. (Un siffatto obbligo è incompatibile anche con l’articolo 34 TFUE per le ragioni esposte nei precedenti paragrafi da 48 a 55). È parimenti incompatibile con la direttiva sull’etichettatura delle calzature l’applicazione di una siffatta misura alle calzature, fabbricate in paesi terzi, in pelle lavorata nei paesi dove le calzature sono state successivamente legalmente importate nel mercato interno.

63.

L’ordinanza di rinvio non indica se i requisiti della direttiva sull’etichettatura delle calzature siano soddisfatti dalle calzature di cui trattasi nel procedimento principale. Nello specifico, alla Corte non è stato comunicato se i termini «pelle» o «vera pelle» sulla suola interna delle calzature di cui trattasi siano aggiuntivi rispetto alle informazioni richieste dall’articolo 4 e dall’allegato I o se le calzature siano etichettate solo con tali termini e non rechino il simbolo del cuoio di cui all’allegato I, paragrafo 2, lettera a), punto i), o l’indicazione in italiano «cuoio».

64.

Ad ogni buon conto, aggiungo che, se i prodotti di cui trattasi non soddisfano i requisiti della direttiva sull’etichettatura delle calzature, allora sarebbe necessario esaminare la situazione più in generale alla luce dell’articolo 34 TFUE ( 51 ).

Il codice doganale aggiornato — Questioni 5 e 6

65.

A mio avviso non è necessario esaminare se la legge n. 8/2013 sia compatibile con le norme per determinare l’origine dei prodotti ai sensi del codice doganale aggiornato (questioni 5 e 6). L’articolo 36 del regolamento n. 450/2008 riguarda la determinazione dell’origine non preferenziale delle merci in talune circostanze stabilite dall’articolo 35 ( 52 ). Tali norme non sembrano in grado di consentire né di precludere l’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013. Inoltre, non si contesta che il cuoio usato nella fabbricazione dei prodotti in questione non è di origine italiana. Ritengo che entrambe le questioni 5 e 6 non siano pertanto rilevanti; di conseguenza non è necessario fornirvi risposta.

Conclusioni

66.

Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo che la Corte debba rispondere alla domanda di pronuncia pregiudiziale del Tribunale di Milano (Italia) come segue:

Una norma nazionale che impone l’obbligo di apporre un’etichetta che indichi il paese di origine di prodotti in pelle ottenuti da lavorazioni in paesi esteri, ove tali prodotti siano descritti utilizzando termini quali «cuoio», «pelle» o «pelliccia» (o quelli da essi derivanti o loro sinonimi) nella lingua o nelle lingue dello Stato membro interessato, è una regola tecnica ai sensi dell’articolo 1, punto 11, della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione. La sua adozione in violazione del periodo di differimento prescritto dall’articolo 9, paragrafo 1, di tale direttiva costituisce vizio procedurale sostanziale tale da comportarne l’inapplicabilità.

Una siffatta norma è in ogni caso una misura discriminatoria che ha un effetto equivalente ad una restrizione quantitativa alle importazioni, vietata dall’articolo 34 TFUE e non rientrante in alcuna eccezione elencata dall’articolo 36 TFUE. È pertanto inapplicabile in procedimenti civili tra singoli.

Infine, una norma del genere, nella misura in cui si applichi a calzature che soddisfano i requisiti di etichettatura della direttiva 94/11/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 marzo 1994, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore, è incompatibile, in particolare, con gli articoli 3 e 5 di tale direttiva.

Allegato I della direttiva 94/11/CE

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( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) Il processo di trattamento delle pelli animali per ottenere cuoio più resistente e meno soggetto a decomposizione rispetto a materiali non trattati.

( 3 ) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 marzo 1994, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore (GU L 100, pag. 37), come modificata dall’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GU L 236, pag. 33), dalla direttiva 2006/96/CE del Consiglio, del 20 novembre 2006, che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle merci, a motivo dell’adesione della Bulgaria e della Romania (GU L 363, pag. 81) e dalla direttiva 2013/15/UE del Consiglio, del 13 maggio 2013, che adegua determinate direttive in materia di libera circolazione delle merci a motivo dell’adesione della Repubblica di Croazia (GU L 158, pag. 172).

( 4 ) V. paragrafo 3 infra.

( 5 ) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU L 204, pag. 37) (in prosieguo: la «direttiva 98/34»).

( 6 ) Le deroghe all’articolo 34 elencate nell’articolo 36 comprendono motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale o di tutela della proprietà industriale e commerciale.

( 7 ) Regolamento (CE) n. 450/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, che istituisce il codice doganale comunitario (Codice doganale aggiornato) (GU L 145, pag. 1; in prosieguo: il «codice doganale aggiornato»).

( 8 ) Articolo 35.

( 9 ) Articolo 36, paragrafo 1.

( 10 ) Articolo 36, paragrafo 2.

( 11 ) Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione (GU L 269, pag. 1).

( 12 ) Esso si applica a decorrere dal 1o giugno 2016 (v. articolo 288, paragrafo 2, del regolamento n. 952/2013).

( 13 ) Nelle loro osservazioni scritte alla Corte, l’UNIC e l’UNI.CO.PEL, la Commissione europea e il governo svedese fanno riferimento all’articolo 24 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1). Tuttavia, tale regolamento è stato abrogato dal regolamento n. 450/2008 (v. articolo 186 dello stesso). Come rilevato dalla Svezia, le disposizioni di quest’ultimo sono diventate applicabili al più tardi il 24 giugno 2013 (v. articolo 188, paragrafo 2) – vale a dire prima che fosse iniziato il procedimento dinanzi al giudice del rinvio il 27 settembre 2013. Pertanto era l’articolo 36 del regolamento n. 450/2008 ad essere in vigore nel periodo rilevante.

( 14 ) V. considerando 1 della direttiva sull’etichettatura delle calzature.

( 15 ) Considerando 2, 3, 5 e 7 della direttiva sull’etichettatura delle calzature.

( 16 ) Un elenco non esaustivo dei prodotti contemplati dalla direttiva sull’etichettatura delle calzature è riportato all’allegato II.

( 17 ) L’allegato I è riprodotto come allegato alle presenti conclusioni. Il paragrafo 1 contiene definizioni delle parti di calzature e simboli o informazioni scritte corrispondenti (la tomaia, il rivestimento della tomaia e suola interna e la suola esterna). Il termine «cuoio» è definito al paragrafo 2, lettera a), i), dove è presente anche il simbolo corrispondente (una semplice rappresentazione stilizzata di pelle animale).

( 18 ) La parola «cuoio» è il termine italiano scelto nella direttiva come informazione scritta per leather. Sembrerebbe, tuttavia, che l’uso di tale termine (approvato) comporti anche l’applicazione della legge n. 8/2013 (v. paragrafo 15 infra). Quanto all’etichettatura sulle calzature di cui trattasi nel procedimento principale, v., inoltre, paragrafi 16 e 63 infra.

( 19 ) Considerando da 2 a 6.

( 20 ) Le regole dettagliate e i termini di differimento per le regole relative ai servizi (che non rilevano qui) sono leggermente diverse da quelle relative alle merci. Vi sono anche deroghe (sempre non rilevanti qui) che consentono a misure urgenti o di emergenza che rientrano nell’ambito della direttiva 98/34, una volta notificate, di entrare immediatamente in vigore.

( 21 ) Tuttavia, la mia ricerca sul Technical Regulation Information System (in prosieguo: il «TRIS database») operato dalla Direzione Generale Mercato interno, industria, imprenditoria e PMI precisa che la proposta relativa alla legge n. 8/2013 proposta è stata ricevuta dalla Commissione il 29 novembre 2012.

( 22 ) V., inoltre, paragrafo 46 infra.

( 23 ) Le nuove misure apparentemente ristabiliscono il regime precedentemente introdotto nel 1966. Dal momento che il governo italiano non ha presentato osservazioni scritte e non ha partecipato all’udienza, la Corte non ha potuto approfondire tale tema con rappresentanti dello Stato membro in questione. La Corte non sa neppure se, nell’attuare la legge n. 8/2013, il governo italiano intendesse richiamare l’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva sull’etichettatura delle calzature, che prevede che l’etichetta non deve poter indurre in errore il consumatore (v. paragrafo 9 supra). Di conseguenza, non considererò più tale aspetto nelle presenti conclusioni.

( 24 ) Sentenza OSA (C‑351/12, EU:C:2014:110, punto 56 e giurisprudenza citata).

( 25 ) Sentenza Texdata Software, C‑418/11, EU:C:2013:588, punti 28, 29 e 41 e giurisprudenza citata.

( 26 ) Sentenza Kaba, C‑466/00, EU:C:2003:127, punto 41.

( 27 ) V. paragrafi 48 e segg. infra.

( 28 ) Sentenza Fortuna e a., C‑213/11, C‑214/11 e C‑217/11, EU:C:2012:495, punto 26 e giurisprudenza citata.

( 29 ) V. considerando da 2 a 6 della direttiva 98/34 e paragrafo 11 supra.

( 30 ) Sentenza Unilever, C‑443/98, EU:C:496, punto 44. V. paragrafo 45 infra.

( 31 ) Sentenze Dumon e Froment, C‑235/95, EU:C:1998:365, punti da 25 a 27, e RI.SAN, C‑108/98, EU:C:1999:400, punti 16 e 17.

( 32 ) Sentenza Efir, C‑19/12, EU:C:2013:148, punto 27.

( 33 ) Sentenza Fuß, C‑243/09, EU:C:2010:609, punto 39.

( 34 ) Sentenza Simon, Evers & Co., C‑21/13, EU:C:2014:2154, punti da 26 a 28.

( 35 ) È giurisprudenza costante che, in mancanza di armonizzazione delle norme procedurali, il diritto dell’Unione deve essere attuato secondo le norme procedurali stabilite dal diritto nazionale (il principio generale di autonomia procedurale nazionale). Tale principio è soggetto a due condizioni. I ricorsi fondati sul diritto dell’Unione non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai ricorsi fondati sul diritto nazionale (principio di equivalenza); e il diritto nazionale non deve rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività). V., per esempio, sentenza CA Consumer Finance, C‑449/13, EU:C:2014:2464, punto 23 e giurisprudenza citata.

( 36 ) Nell’esaminare la direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU L 95, pag. 29), la Corte ha già sostenuto che il diritto dell’Unione impone ai giudici nazionali di valutare d’ufficio l’abusività di una clausola contrattuale ove disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari. Questo perché la direttiva 93/13 parte dalla premessa che il consumatore si trova in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda il potere nelle trattative o grado di informazione. V. sentenza Kušionová, C‑34/13, EU:C:2014:2189, punto 48 e giurisprudenza citata.

( 37 ) Sentenza CA Consumer Finance, C‑449/13, EU:C:2014:2464, punto 25.

( 38 ) V. paragrafo 18 supra.

( 39 ) Confermato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte.

( 40 ) Sentenza CIA Security International, C‑194/94, EU:C:1996:172, punti 41, 44 e 54.

( 41 ) Sentenza Unilever, C‑443/98, EU:C:2000:496, punti da 40 a 44 e 49.

( 42 ) V. paragrafo 15 e nota 21 supra. Tale data è stata confermata anche dal governo tedesco e dalla Commissione nelle loro rispettive osservazioni.

( 43 ) V. il TRIS database relativamente alla notifica n. 2012/667/1.

( 44 ) Sentenza Commissione/Germania, C‑325/00, EU:C:2002:633, punto 23 e giurisprudenza citata.

( 45 ) V. paragrafo 2 e nota 6 supra.

( 46 ) Sentenza Rewe-Zentral, 120/78, EU:C:1979:42, punto 8.

( 47 ) Sentenza Commissione/Regno Unito, 207/83, EU:C:1985:161.

( 48 ) Non vi è nulla nei documenti forniti alla Corte che sembri richiamare l’articolo 35 TFUE (divieto di restrizioni quantitative all’esportazione) e di conseguenza non ho proceduto a una distinta analisi di tale disposizione.

( 49 ) V. articolo 1, paragrafo 1, della direttiva sull’etichettatura delle calzature.

( 50 ) Sentenza AGM-COS.MET, C‑470/03, EU:C:2007:213, punto 50 e giurisprudenza citata.

( 51 ) V. paragrafi da 48 a 55 supra.

( 52 ) V. paragrafo 3 supra.