CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

NILS WAHL

presentate il 23 ottobre 2014 ( 1 )

Causa C‑388/13

UPC Magyarország kft

contro

Nemzeti Fogyasztóvédelmi Hatóság

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Kúria (Ungheria)]

«Pratiche commerciali sleali — Informazione erronea fornita da un’impresa di telecomunicazioni ad un abbonato che ha causato costi aggiuntivi a quest’ultimo — Concetto di “pratica commerciale” — Ruolo del diritto contrattuale»

1. 

Che cosa costituisce una «pratica commerciale» ai fini della direttiva 2005/29/CE (in prosieguo: la «direttiva PCS»)? ( 2 ) O, più specificamente, può la comunicazione di un’informazione erronea ad un solo consumatore essere considerata come una «pratica commerciale» per detti fini? Tale è, sostanzialmente, la questione di cui al caso di specie, in merito alla quale il giudice del rinvio chiede indicazioni. Nelle considerazioni che seguono illustrerò perché a tale questione debba essere data una risposta di segno negativo.

I – Contesto normativo

2.

Il considerando 6 del preambolo della direttiva PCS menziona il principio di proporzionalità. Secondo tale principio, la direttiva tutela i consumatori dalle conseguenze di pratiche commerciali sleali allorché queste sono rilevanti, ma riconosce che in alcuni casi l’impatto sui consumatori può essere trascurabile.

3.

Il considerando 7 della direttiva PCS stabilisce che:

«La presente direttiva riguarda le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti (…)».

4.

Il considerando 9 della medesima direttiva precisa:

«La presente direttiva non pregiudica i ricorsi individuali proposti da soggetti che sono stati lesi da una pratica commerciale sleale. Non pregiudica neppure l’applicazione delle disposizioni [UE] e nazionali relative al diritto contrattuale (…)».

5.

L’articolo 1 della direttiva di cui trattasi prevede:

«La presente direttiva intende contribuire al corretto funzionamento del mercato interno e al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori mediante l’armonizzazione delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di pratiche commerciali sleali lesive degli interessi economici dei consumatori».

6.

Ai sensi dell’articolo 2 della direttiva PCS:

«Ai fini della presente direttiva si intende per:

(…)

d)

“pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori” (in seguito denominate “pratiche commerciali”): qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori;

(…)».

7.

L’articolo 3 della stessa direttiva PCS prevede:

«1.   La presente direttiva si applica alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, come stabilite all’articolo 5, poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

2.   La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto.

(…)».

8.

Ai sensi dell’articolo 5 della direttiva PCS («Divieto delle pratiche commerciali sleali»):

«1.   Le pratiche commerciali sleali sono vietate.

2.   Una pratica commerciale è sleale se:

a)

è contraria alle norme di diligenza professionale,

e

b)

è falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo, qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.

(…)

4.   In particolare, sono sleali le pratiche commerciali:

a)

ingannevoli di cui agli articoli 6 e 7

o

b)

aggressive di cui agli articoli 8 e 9.

5.   L’allegato I riporta l’elenco di quelle pratiche commerciali che sono considerate in ogni caso sleali. Detto elenco si applica in tutti gli Stati membri e può essere modificato solo mediante revisione della presente direttiva».

II – Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

9.

Nell’aprile del 2010 il sig. S ha inviato all’UPC Magyarorzág (in prosieguo: l’«UPC»), un fornitore di servizi televisivi via cavo, una richiesta di informazioni circa il periodo di pagamento cui si riferiva precisamente la fattura annuale emessa nel 2010, poiché ciò non risulta con chiarezza dalla fattura.

10.

Successivamente il sig. S è stato informato che l’ultima fattura annuale si riferiva al periodo compreso tra l’11 gennaio 2010 e il 10 febbraio 2011. Al fine di assicurarsi che la fine del contratto coincidesse con l’ultimo giorno di servizio per il quale aveva pagato il corrispettivo, il sig. S ha chiesto lo scioglimento del contratto a far data del 10 febbraio 2011. Tuttavia, il servizio non è stato disconnesso che quattro giorni dopo, il 14 febbraio 2011. Il 12 marzo 2011 è stato emesso un ordine di pagamento riguardante arretrati pari a HUF 5243 (circa EUR 18) dovuti per tali quattro giorni, vale a dire dall’11 al 14 febbraio 2011.

11.

Il sig. S ha presentato un reclamo al Budapest Főváros Kormányhivatala Fogyastóvédelmi Felügyelősége (Autorità di vigilanza per la tutela dei consumatori presso i servizi governativi di Budapest; in prosieguo: l’«autorità di primo grado») adducendo di aver ricevuto un’informazione erronea. Di conseguenza, non è stato possibile per il sig. S assicurarsi che la fine del contratto coincidesse con l’ultimo giorno dell’effettivo periodo di fatturazione, così da poter utilizzare i servizi di un’altra società a far data dallo scioglimento del contratto. Pertanto, durante il periodo transitorio il sig. S ha dovuto pagare entrambe le società.

12.

L’autorità di primo grado, con una decisione dell’11 luglio 2011, ha condannato l’UPC ad una sanzione di HUF 25000 (circa EUR 85). Il Nemzeti Fogyastóvédelmi Hatóság (Ufficio Nazionale per la tutela dei consumatori), nella sua qualità di autorità di secondo grado, ha confermato, con provvedimento del 10 ottobre 2011, la decisione dell’autorità di primo grado giudicandola fondata.

13.

In esito al controllo giurisdizionale intrapreso dall’UPC, Il Fővárosi Törvényszék (Tribunale di Budapest) ha modificato la decisione dell’Ufficio Nazionale per la tutela dei consumatori e ha respinto la domanda presentata dal sig. S. Nello specifico, secondo tale sentenza, la condotta dell’UPC non costituisce un comportamento continuato. Un isolato errore di gestione a carattere amministrativo, riguardante un singolo cliente, non può essere considerato come pratica.

14.

Nutrendo dubbi in ordine alla corretta interpretazione della direttiva PCS, la Kúria, adita in appello, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)

Se l’articolo 5 della [direttiva PCS] debba essere interpretato nel senso che, in caso di pratiche ingannevoli ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, di tale direttiva, non è possibile procedere a uno specifico esame dei criteri previsti dall’articolo 5, paragrafo 2, lettera a).

2)

Se la comunicazione di un’informazione non veritiera ad un solo consumatore debba essere considerata come una pratica commerciale ai sensi della summenzionata direttiva».

15.

Osservazioni scritte sono state depositate nel presente procedimento dall’UPC, dal governo ungherese e dalla Commissione, e ognuno di tali soggetti ha anche presentato osservazioni orali all’udienza dell’11 settembre 2014.

III – Analisi

A – Osservazioni preliminari

16.

Il caso di specie è strettamente collegato alla sentenza della Corte nella causa CHS Tour Services ( 3 ) . Tale decisione fornisce una risposta alla prima delle due questioni poste dal giudice del rinvio nella fattispecie considerata. Più specificamente, la Corte ha ritenuto che la direttiva PCS debba essere interpretata nel senso che, nell’ipotesi in cui una pratica commerciale soddisfi tutti i criteri enunciati all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva per poter essere qualificata come pratica ingannevole nei confronti del consumatore, non occorre verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima perché essa possa essere legittimamente ritenuta sleale e, pertanto, essere vietata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della stessa direttiva ( 4 ).

17.

Nella presente analisi, mi concentrerò sulla seconda questione (la quale da un punto di vista logico precede la prima), ossia se la comunicazione di un’informazione erronea ad un singolo consumatore possa essere considerata come pratica commerciale ai sensi della direttiva PCS. Si tratta di una nuova questione che la Corte non ha ancora avuto modo di affrontare. Il presente caso offre a tale Corte l’opportunità di chiarire la portata della direttiva.

B – Il concetto di «pratica commerciale » comprende anche un atto isolato che lede un solo consumatore?

18.

Il governo ungherese e la Commissione affermano che la nozione di «pratiche commerciali» ai sensi della direttiva PCS ricomprende anche un atto che lede un solo consumatore, come ad esempio quello di cui trattasi nel procedimento dinanzi al giudice del rinvio, ossia la comunicazione di un’informazione erronea ad un unico consumatore. Il governo ungherese, in particolare, giustifica il proprio punto di vista relativo all’esigenza di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori. Tale scopo è specificamente menzionato nell’articolo 1 della direttiva PCS e costituisce uno degli obiettivi principali della stessa.

19.

Vero è che la definizione di «pratiche commerciali» dell’articolo 2 della direttiva PCS è considerevolmente ampia. Tale termine è definito come «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori».

20.

Pertanto, nell’ambito della direttiva può rientrare un’ampia gamma di condotte che possono aver luogo prima della conclusione del contratto (come ad esempio il comportamento tale da influenzare la decisione del consumatore di acquisire un determinato prodotto), ma anche in fasi più avanzate del rapporto contrattuale (come nel trattamento dei reclami e nell’assistenza post-vendita). Ciò è dimostrato dalla lista nera delle pratiche sleali riportata dall’allegato I della direttiva PCS. In tal senso, sembrerebbe che non ci sia nulla nella direttiva PCS che escluda dal suo ambito di applicazione, prima facie, la comunicazione di informazioni erronee riguardo a questioni quali i periodi di pagamento, le condizioni che disciplinano lo scioglimento del contratto concluso da consumatori, o altre informazioni riguardante l’esecuzione del contratto. Indubbiamente, più l’ambito di applicazione della direttiva è ampio, più verosimilmente verrà raggiunto un alto livello di tutela dei consumatori, come richiesto dalla direttiva stessa.

21.

Tuttavia, non credo sia possibile concludere, dai rilievi sopra svolti, che la portata della direttiva PCS si estenda a condotte – per quanto sleali o ingannevoli – che siano dirette esclusivamente contro un unico e solo consumatore. Le ragioni sono molteplici.

1. I limiti di ciò che può essere inteso come «pratica»

22.

Come in precedenza osservato, la formulazione della direttiva PCS non esclude chiaramente dall’ambito di applicazione della stessa un atto isolato diretto ad un solo consumatore. Credo, tuttavia, che il termine «pratica» di per sé circoscriva i tipi di condotta che possono essere ricompresi dalla direttiva. Invero, l’evidente prerequisito affinché la direttiva possa applicarsi alla condotta del professionista in una relazione tra imprese e consumatori (relazione «business‑to‑consumer», detta anche «B2C») (come ad esempio la condotta indicata nella lista nera dell’allegato I) è che il comportamento in questione costituisca una «pratica».

23.

Se ciò è vero, credo che almeno una o entrambe delle seguenti due condizioni debbano essere soddisfatte: i) la condotta è diretta contro un gruppo indeterminato di destinatari; ii) la condotta si ripete nei confronti di più di un consumatore. Altrimenti, molto difficilmente la condotta in questione rientrerebbe nella terminologia di «pratica» impiegata in tutte le versioni linguistiche della direttiva ( 5 ).

24.

Circa la prima condizione (nel qual caso la condotta si verifica una volta sola) il comportamento in esame deve essere diretto verso un gruppo indeterminato di consumatori. L’idea conseguente in base alla quale il comportamento censurato deve avere un grado di «rilevanza commerciale» ( 6 ) può anche essere dedotto dagli articoli 5 ad 8 della direttiva PCS: tali disposizioni si riferiscono tutte a pratiche commerciali che influenzano il comportamento economico di un «consumatore medio» o di un «membro medio di un gruppo di consumatori». L’esempio paradigmatico di tale tipo di pratica è, certamente, una pubblicità in un giornale o in una rivista, o un cartello in un negozio, che spiegano una politica di resi rivolta a tutti (attuali o potenziali) i clienti. Un esempio strettamente collegato, sebbene diverso, può essere rinvenuto nella sentenza CHS Tour Services. In quel caso, la controversia verteva su informazioni non veritiere contenute in una brochure di vendita. Anche se la comunicazione di informazioni non veritiera si è verificata una volta sola, questa è stata diretta ad un indeterminato gruppo di potenziali consumatori ed è stata considerata, pertanto, come rientrante nel campo di applicazione della direttiva PCS ( 7 ).

25.

Al contrario, laddove la condotta in questione non sia diretta ad un gruppo indeterminato di consumatori ma, piuttosto, come nel caso di specie, ad un consumatore singolo, la stessa deve essere ripetuta dal professionista in modo da poter corrispondere al termine di «pratica» utilizzato dalla direttiva PCS. In altre parole, il comportamento in esame deve essere ricorrente e riguardare più di un consumatore. Il fatto che il comportamento debba essere ripetuto in relazione a più di un consumatore significa che la seconda condizione si sovrappone in parte alla prima.

26.

Nella fattispecie in esame, si tratta di una comunicazione di una informazione erronea in un’occasione isolata ad un solo consumatore e non ad un gruppo di consumatori. Sebbene spetti, in ultima analisi, al giudice del rinvio verificare, nulla sembra suggerire che la comunicazione di informazioni erronee da parte degli impiegati della UPC, verificatasi in relazione al sig. S, sia un fenomeno ricorrente. In mancanza di qualsiasi indicazione che possa condurre a tale conclusione, a mio parere difficilmente un singolo caso di condotta sleale – o forse, più specificamente, ingannevole – può essere considerato come atto a costituire una «pratica commerciale» ai sensi della direttiva PCS.

2. La direttiva PCS e il diritto contrattuale

27.

A prescindere dal significato del termine «pratica», attribuisco particolare importanza anche all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva PCS. Tale disposizione stabilisce specificamente che la direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale. Ciò riflette il ragionamento del considerando 9 del preambolo della direttiva.

28.

Orbene, l’approccio propugnato dalle due parti che hanno presentato osservazioni a sostegno del sig. S nel presente caso implicherebbe che la direttiva PCS vanga applicata (in aggiunta al diritto contrattuale nazionale) ad ogni rapporto contrattuale individuale. Ciò comporterebbe rilevanti conseguenze sotto vari aspetti. Non ultimo, si offuscherebbe la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico e, in particolare, la distinzione tra le varie sanzioni applicabili.

29.

Lo scopo della direttiva PCS è di stabilire un meccanismo di controllo di vasta portata su una condotta, nell’ambito delle pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori, che possa influenzare il comportamento economico dei consumatori. Al fine di garantire l’efficacia di tale controllo, la direttiva richiede agli Stati membri di creare la necessaria struttura normativa con ingiunzioni e ammende per contrastare tali pratiche ( 8 ).

30.

Tuttavia, è importante ricordare che, ai sensi dell’articolo 13 della direttiva PCS, le sanzioni che gli Stati membri devono determinare per le condotte contrarie alla suddetta direttiva sono profondamente radicate nella sfera del diritto pubblico e interamente separate dai ricorsi contrattuali. Se l’ambito di applicazione della direttiva fosse, ciononostante, esteso a condotte isolate, come del tipo in oggetto nel procedimento principale, ciò comporterebbe, in pratica, la possibilità di imporre a un professionista una sanzione di diritto pubblico (nella forma di un’ammenda) per qualsiasi violazione contrattuale; e ciò in aggiunta a eventuali ricorsi contrattuali a disposizione del consumatore individuale. In altre parole, attenendosi al ragionamento delle parti che hanno presentato osservazioni a riguardo, ogni «pratica impropria» contrattuale comporterebbe automaticamente sanzioni di diritto pubblico.

31.

A mio avviso, ciò andrebbe chiaramente al di là di quanto è necessario per assicurare un alto livello di protezione dei consumatori ( 9 ). Di certo, non si deve dimenticare che le sanzioni di diritto pubblico sono dirette a tutelare l’interesse pubblico e, nella fattispecie, si tratterebbe dell’interesse collettivo dei consumatori.

32.

Purtroppo, la direttiva PCS non circoscrive esplicitamente il proprio ambito di applicazione alla tutela di interessi collettivi dei consumatori. Tuttavia, com’è stato rilevato da diversi commentatori, la direttiva mira a tutelare gli interessi collettivi dei consumatori e non a fornire rimedi giuridici nei singoli casi ( 10 ). Nelle fattispecie specifiche tali rimedi sono garantiti mediante i ricorsi contrattuali, in applicazione del diritto (nazionale) dei contratti. Ciò detto, forse la direttiva PCS avrà un effetto «di ricaduta» sulle richieste di natura contrattuale. Se un certo tipo di condotta è giudicato come contrario alla direttiva PCS, probabilmente ciò potrebbe avere rilevanza in una controversia tra un professionista e un consumatore individuale (per valutare, ad esempio, la validità del contratto in questione per quanto riguarda rilevanti disposizioni di diritto contrattuale) ( 11 ).

33.

In tale contesto, anche l’articolo 11 della direttiva PCS è degno di nota. Quest’ultimo impone agli Stati membri, al fine di garantire l’osservanza delle disposizioni della direttiva nell’interesse dei consumatori, di dotarsi di strumenti adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali. Inoltre, l’articolo 11 della direttiva PCS fornisce a persone od organizzazioni che, secondo la legislazione nazionale, hanno un legittimo interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali la possibilità di promuovere un’azioni giudiziaria o amministrativa per contestare pratiche commerciali sleali ( 12 ).

34.

Se il legislatore avesse avuto l’intenzione di introdurre un livello supplementare di sanzioni (di diritto pubblico) per ogni singola fattispecie di «pratica impropria» contrattuale, l’inclusione di tale disposizione nella direttiva PCS sarebbe controintuitiva. Se l’esistenza di una pratica commerciale sleale fosse determinata su base individuale, non sarebbe necessario avere specifiche regole in merito a un controllo collettivo delle pratiche commerciali sleali nella direttiva. Tale punto di vista trova ulteriore sostegno nell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2009/22/CE ( 13 ), il quale rinvia alla direttiva PCS come ad uno degli strumenti predisposti per tutelare gli interessi collettivi dei consumatori.

35.

Infine, desidero sottolineare che non può essere considerato auspicabile applicare, sotto la parvenza della tutela dei consumatori, la direttiva PCS per questioni per cui non è stata chiaramente concepita. Pertanto, a mio avviso, una condotta, nell’ambito delle pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori, quale la comunicazione di informazioni erronee ad un solo consumatore, nei limiti in cui costituisce un unico evento isolato, non può essere considerata una «pratica commerciale» ai sensi della direttiva PCS.

IV – Conclusioni

36.

Alla luce delle considerazioni svolte, propongo alla Corte di rispondere ai quesiti posti dalla Kúria nel seguente modo:

La comunicazione di false informazioni ad un solo consumatore, nei limiti in cui costituisce un unico evento isolato, non può essere considerata una «pratica commerciale» ai sensi della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio.


( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU L 149, pag. 22).

( 3 ) C‑435/11, EU:C:2013:574.

( 4 ) Ibidem (punto 48 e dispositivo).

( 5 ) Per fare un esempio in inglese, il sostantivo «practice» (pratica) è definito come «the habitual doing or carrying out of something» (il fatto di «fare o portare a compimento qualcosa») nel Shorter Oxford English Dictionary, sesta edizione, volume 2, Oxford University Press, Oxford 2007, pag. 2311.

( 6 ) V. Glöckner, J., «The Scope of Application of the UCP Directive — “I know what you did last Summer”», 5(2010) International Review of Intellectual Property and Competition Law, pagg. da 570 a 592, in particolare pag. 589.

( 7 ) EU:C:2013:574, paragrafi 28 e segg.

( 8 ) Per un’analisi, v., ad esempio, Collins, H., «The Unfair Commercial Practices Directive», 4(1) 2005 European Review of Contract Law, pagg. da 417 a 441, in particolare pagg. 424 e 425.

( 9 ) V, a tale proposito, il considerando 6 del preambolo della direttiva PCS.

( 10 ) Wilhelmsson, T., «Scope of the Directive», Howells, G., Micklitz, H.W., e Wilhelmsson, T., European Fair Trading Law: The Unfair Commercial Practices Directive, pagg. da 49 a 81, in particolare pag. 72; Glöckner, op. cit., pag. 589; Keirsbilck, B., The New European Law of Unfair Commercial Practices and Competition Law, Hart Publishing, Oxford 2011, pagg. da 247 a 248.

( 11 ) V., ad esempio, Pereničová and Perenič (C‑453/10, EU:C:2012:144, punto 40), sugli effetti di pratiche commerciali sleali sulla validità del contratto. Per commenti accademici, vedi, più in dettaglio Wilhemsson, op. cit., pag. 73, e Collins, op. cit., pag. 424.

( 12 ) Vorrei anche far notare che, in più occasioni, la direttiva PCS si riferisce ai «consumatori» al plurale: «interessi economici dei consumatori», «decisioni di natura commerciale dei consumatori». Nonostante l’utilizzo della forma plurale possa essere difficilmente considerato in tale caso come un argomento decisivo, la scelta del plurale potrebbe nondimeno essere interpretata come ulteriore elemento a favore dell’idea che si tratti di protezione di interessi collettivi.

( 13 ) Direttiva del Parlamento e del Consiglio, del 23 aprile 2009, relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori (GU L 110, pag. 30).