SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione)

15 dicembre 2011 (*)

«Politica commerciale comune – Regime preferenziale per l’importazione dei prodotti originari degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) – Irregolarità emerse nel corso di un’indagine condotta dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) nello Stato ACP di esportazione – Recupero dei dazi all’importazione»

Nel procedimento C‑409/10,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Bundesfinanzhof (Germania), con decisione 29 giugno 2010, pervenuta in cancelleria il 16 agosto 2010, nella causa

Hauptzollamt Hamburg‑Hafen

contro

Afasia Knits Deutschland GmbH,

LA CORTE (Prima Sezione),

composta dal sig. A. Tizzano, presidente di sezione, dai sigg. M. Safjan, M. Ilešič (relatore), E. Levits e dalla sig.ra M. Berger, giudici,

avvocato generale: sig. J. Mazák

cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 7 luglio 2011,

considerate le osservazioni presentate:

–        per l’Afasia Knits Deutschland GmbH, dagli avv.ti H. von Zanthier e M. Stawska‑Höbel, Rechtsanwälte,

–        per il governo ceco, dal sig. M. Smolek, in qualità di agente,

–        per il governo italiano, dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agente, assistita dal sig. G. Albenzio, avvocato dello Stato,

–        per la Commissione europea, dai sigg. A. Bordes e B.‑R. Killmann, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 15 settembre 2011,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale in esame riguarda l’interpretazione dell’art. 32 del protocollo n. 1 dell’allegato V dell’accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000 (GU 2000 L 317, pag. 3), e approvato a nome della Comunità con la decisione del Consiglio 19 dicembre 2002, 2003/159/CE (GU 2003, L 65, pag. 27; in prosieguo: l’«Accordo di Cotonou»), nonché dell’art. 220 del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700 (GU L 311, pag. 17; in prosieguo: il «codice doganale»).

2        Tale domanda è stata presentata nel contesto di una controversia tra l’Hauptzollamt Hamburg‑Hafen (Ufficio principale delle dogane del porto di Amburgo; in prosieguo: l’«Hauptzollamt») e l’Afasia Knits Deutschland GmbH (in prosieguo: l’«Afasia») in merito ai dazi all’importazione pagati a posteriori da detta società sulla base dell’importazione nell’Unione europea di tessuti.

 Contesto normativo

 L’accordo di Cotonou

3        L’accordo di Cotonou è entrato in vigore il 1° aprile 2003. Tuttavia, in applicazione della decisione del Consiglio dei ministri ACP‑CE 27 luglio 2000, n. 1, relativa alle misure transitorie applicabili dal 2 agosto 2000 fino all’entrata in vigore dell’accordo di partenariato ACP‑CE (GU L 195, pag. 46), come prorogata dalla decisione del Consiglio dei ministri ACP‑CE 31 maggio 2002, n. 1 (GU L 150, pag. 55), tale accordo è stato oggetto di applicazione anticipata a decorrere dal 2 agosto 2000.

4        Un accordo di modifica è stato firmato a Lussemburgo il 25 giugno 2005 ed è entrato in vigore il 1° luglio 2008. Il 14 giugno 2010 è stata adottata la decisione del Consiglio 2010/648/UE, relativa alla firma, a nome dell’Unione europea, dell’accordo che modifica per la seconda volta l’accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri dall’altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000, modificato per la prima volta a Lussemburgo il 25 giugno 2005 (GU L 287, pag. 1). Tuttavia, tenuto conto della data dei fatti della controversia principale, quest’ultima permane disciplinata dalle disposizioni esposte nella versione iniziale dell’accordo di Cotonou.

5        Ai sensi dell’art. 100 dell’accordo di Cotonou, «i protocolli e gli allegati al presente accordo ne costituiscono parte integrante. (…)».

6        L’allegato V dell’accordo di Cotonou, intitolato «Regime commerciale applicabile durante il periodo preparatorio previsto all’articolo 37, paragrafo 1», enunciava al suo art. 1 che «i prodotti originari degli Stati ACP sono ammessi all’importazione nella Comunità in esenzione da dazi doganali e tasse d’effetto equivalente».

7        Il protocollo n. 1 di detto allegato V, relativo alla definizione della nozione di «prodotti originari» e ai metodi di cooperazione amministrativa (in prosieguo: il «protocollo n. 1») così disponeva al suo art. 2, n. 1:

«Ai fini dell’applicazione delle disposizioni dell’allegato V, (…) si considerano originari degli Stati ACP i seguenti prodotti:

a)      i prodotti interamente ottenuti negli Stati ACP ai sensi dell’articolo 3 del presente protocollo;

b)      i prodotti ottenuti negli Stati ACP in cui sono incorporati materiali non interamente ottenuti sui loro territori, a condizione che detti materiali siano stati oggetto negli Stati ACP di lavorazioni o trasformazioni sufficienti ai sensi dell’articolo 4 del presente protocollo. (…)».

8        Il titolo IV del protocollo n. 1, intitolato «Prova dell’origine», includeva in particolare l’art. 14 di detto protocollo, il cui n. 1 così prevedeva:

«Perché i prodotti originari degli Stati ACP importati nella Comunità possano beneficiare delle disposizioni dell’allegato V, si devono presentare i seguenti documenti:

a)      un certificato di circolazione EUR.1, [in prosieguo: il «certificato EUR.1»] (…)

(…)».

9        L’art. 15, n. 1, di detto protocollo precisava che il certificato EUR.1 viene rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore. Ai sensi del n. 3 dello stesso articolo, «l’esportatore che richiede il rilascio di un [certificato EUR.1] deve essere pronto a presentare in qualsiasi momento, su richiesta delle autorità doganali dello Stato ACP di esportazione in cui è rilasciato il certificato (…), tutti i documenti atti a comprovare il carattere originario dei prodotti in questione (…)».

10      Ai sensi dell’art. 28, n. 1, dello stesso protocollo, detto esportatore deve conservare per almeno tre anni i documenti previsti al detto art. 15, n. 3.

11      Il titolo V del protocollo n. 1, rubricato «Misure di cooperazione amministrativa» includeva, in particolare, gli artt. 31 e 32 di detto protocollo, recanti rispettivamente il titolo «Assistenza reciproca» e «Verifica delle prove dell’origine».

12      Detto art. 31 disponeva, ai suoi nn. 1 e 2, primo comma:

«1.      Gli Stati ACP trasmettono alla Commissione le impronte dei timbri usati e gli indirizzi delle autorità doganali competenti per il rilascio dei [certificati EUR.1] e per il controllo a posteriori dei [certificati EUR.1] e delle dichiarazioni su fattura.

I [certificati EUR.1] e le dichiarazioni su fattura sono accettati ai fini dell’applicazione del trattamento preferenziale a decorrere dalla data in cui le informazioni pervengono alla Commissione.

La Commissione trasmette queste informazioni alle autorità doganali degli Stati membri.

2.      Al fine di garantire la corretta applicazione del presente protocollo, la Comunità (…) e gli Stati ACP si prestano reciproca assistenza, mediante le amministrazioni doganali competenti, nel controllo dell’autenticità dei certificati di circolazione EUR.1, delle dichiarazioni su fattura o delle dichiarazioni dei fornitori nonché della correttezza delle informazioni riportate in tali documenti».

13      L’art. 32 del protocollo n. 1 recitava:

«1. Il controllo a posteriori delle prove dell’origine è effettuato per sondaggio o ogniqualvolta le autorità doganali del paese di importazione abbiano fondati motivi di dubitare dell’autenticità dei documenti, del carattere originario dei prodotti in questione o dell’osservanza degli altri requisiti del presente protocollo.

2. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del paragrafo 1, le autorità doganali del paese d’importazione rispediscono alle autorità doganali del paese di esportazione il certificato di circolazione EUR.1 e la fattura, se è stata presentata, nonché la dichiarazione su fattura, o una copia di questi documenti, indicando, se del caso, i motivi che giustificano un’inchiesta. A corredo della richiesta di controllo, devono essere inviati tutti i documenti e le informazioni ottenute che facciano sospettare la presenza di inesattezze nelle informazioni relative alla prova dell’origine.

3. Il controllo viene effettuato dalle autorità doganali del paese di esportazione. A tal fine, esse hanno la facoltà di richiedere qualsiasi prova e di procedere a qualsiasi controllo dei conti dell’esportatore nonché a tutte le altre verifiche che ritengano opportune.

(…)

5. I risultati del controllo devono essere comunicati al più presto alle autorità doganali che lo hanno richiesto, indicando chiaramente se i documenti sono autentici, se i prodotti in questione possono essere considerati originari degli Stati ACP (…) e se soddisfano gli altri requisiti del presente protocollo.

(…)

7. Qualora dalla procedura di controllo o da qualsiasi altra informazione disponibile emergano indizi di violazioni delle disposizioni del presente protocollo, lo Stato ACP effettua, di propria iniziativa o su richiesta della Comunità, le inchieste necessarie o dispone affinché tali inchieste siano effettuate con la dovuta sollecitudine allo scopo di individuare e prevenire siffatte violazioni. A tal fine, lo Stato ACP può invitare la Comunità a partecipare a dette inchieste».

 Il codice doganale

14      Il codice doganale è stato abrogato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 23 aprile 2008, n. 450, che istituisce il codice doganale comunitario (Codice doganale aggiornato) (GU L 145, pag. 1), alcune disposizioni del quale sono divenute applicabili a partire dal 24 giugno 2008. Tuttavia, tenuto conto della data dei fatti della controversia principale, quest’ultima permane disciplinata dalle disposizioni enunciate nel codice doganale.

15      Nella sua versione applicabile alla causa principale, l’art. 220, n. 1, del codice doganale prevedeva che «quando l’importo dei dazi risultante da un’obbligazione doganale non sia stato contabilizzato (…) o sia stato contabilizzato ad un livello inferiore all’importo legalmente dovuto, la contabilizzazione dei dazi da riscuotere o che rimangono da riscuotere deve avvenire entro due giorni dalla data in cui l’autorità doganale si è resa conto della situazione in atto ed è in grado di calcolare l’importo legalmente dovuto e di determinarne il debitore (contabilizzazione a posteriori) (…)».

16      Tuttavia, il n. 2 di detto art. 220 prevedeva talune eccezioni alla presa in considerazione a posteriori. Esso era formulato nel modo seguente:

«(…) non si procede alla contabilizzazione a posteriori quando:

(…)

b)      l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana.

Quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo, il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce, ai sensi del primo comma, un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto.

Il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se, in particolare, è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale.

La buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale.

(…)».

 Causa principale e questioni pregiudiziali

17      L’Afasia fa parte di un gruppo di società che commercializza tessuti. Tale gruppo ha la sua sede principale a Hong Kong (Cina) ed ha costituito talune aziende segnatamente in Giamaica.

18      Nel corso del 2002, l’Afasia ha chiesto l’immissione in libera pratica nell’Unione di diverse partite di tessuti provenienti dalla società ARH Enterprises Ltd (in prosieguo: la «ARH»), che è una delle imprese giamaicane appartenenti a tale gruppo.

19      L’Afasia ha ottenuto tale immissione in libera pratica sulla base dell’indicazione che dette merci erano originarie della Giamaica, nonché in base alla presentazione di certificati EUR.1 provenienti dalle autorità doganali giamaicane ed attestanti tale origine.

20      Nel contesto di una missione effettuata in Giamaica nel corso del mese di marzo 2005 da parte della Commissione e, più precisamente, dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), su invito del Ministero degli Affari esteri e del Commercio estero giamaicano, in ragione di sospette irregolarità, i certificati EUR.1 rilasciati nel corso del periodo che va dal 2002 al 2004 sono stati sottoposti a controlli. I risultati di tale missione sono stati consegnati ad un verbale datato 23 marzo 2005, redatto su carta intestata della Commissione. Tale verbale è stato sottoscritto dalle persone che hanno partecipato alla missione nonché, per conto della Giamaica, dal Segretario permanente del Ministero degli Affari esteri e del Commercio estero.

21      Detto verbale attesta quanto segue:

–      gli esportatori giamaicani, tra i quali figura la ARH, avevano violato le disposizioni dell’accordo di Cotonou, poiché la maggior parte o la totalità dei prodotti esportati verso l’Unione venivano fabbricati a partire da elementi finiti provenienti dalla Cina o erano prodotti tessili finiti originari della Cina;

–      sarebbe possibile che talune merci esportate siano d’origine giamaicana, anche se gli esportatori interessati non sarebbero stati tuttavia in grado di fornire elementi di prova in tal senso agli ispettori;

–      gli esportatori giamaicani hanno effettuato dichiarazioni false sull’origine delle merci nella loro domanda di rilascio dei certificati EUR.1, il che, a causa delle modalità professionali con cui è stata celata l’origine delle merci, avrebbe potuto essere riconosciuto soltanto con notevole difficoltà dalle autorità doganali giamaicane. Queste ultime avrebbero, dunque, per parte loro, agito diligentemente ed in buona fede, e

–      le autorità doganali giamaicane concludono che i certificati EUR.1 rilasciati a partire dal 2002 sono inesatti e, di conseguenza, nulli.

22      Vista l’assenza di cooperazione durante l’indagine da parte dei proprietari del gruppo Afasia e alla luce del fatto che nessun documento ha potuto essere rinvenuto nel corso di una visita nei laboratori e negli uffici dell’ARH, i risultati dell’indagine, come menzionati al punto precedente, si sono basati, in particolare, su un esame dei documenti di trasporto e dei documenti in possesso delle autorità giamaicane relativi alle partite di merci esportate, nonché su un raffronto dei dati che compaiono in tali documenti con quelli contenuti nei documenti trasmessi agli ispettori dalle autorità doganali cinesi. Da tale esame e da tale raffronto è risultato che la maggior parte delle merci appartenenti a dette partite non poteva essere stata fabbricata in Giamaica ma è stata assemblata da filati provenienti dalla Cina, ovvero consisteva in tessuti finiti di origine cinese.

23      Il 3 maggio 2005, l’Hauptzollamt ha effettuato il recupero a posteriori dei dazi doganali sui lotti di tessuti di cui trattasi per l’importo di EUR 62 323,45.

24      L’Afasia ha contestato tale decisione affermando che era divenuto impossibile fornire prove dell’origine giamaicana delle merci, a causa della distruzione, provocata da un uragano scatenatosi nel 2004, dei laboratori di fabbricazione aventi sede in Giamaica. Peraltro, i certificati EUR.1 rilasciati inizialmente dalle autorità giamaicane sarebbero sempre validi, considerato che essi non erano stati debitamente annullati da queste ultime.

25      Poiché l’Hauptzollamt ha confermato la propria decisione, l’Afasia ha proposto ricorso dinanzi al Finanzgericht Hamburg (giudice tributario di Amburgo). Quest’ultimo ha accolto il ricorso, in quanto in contrasto con i requisiti previsti dall’accordo di Cotonou, le constatazioni sfociate nel recupero a posteriori dei dazi all’importazione si basavano non sulla domanda di controllo inviata alle autorità doganali giamaicane né su un’indagine condotta da queste ultime, bensì su un’indagine effettuata dai servizi della Commissione. Di conseguenza, i certificati EUR.1 riguardanti le partite di tessuti di cui trattasi non sarebbero stati validamente annullati. Inoltre, tale giudice ha constatato che l’Afasia era depositaria di un legittimo affidamento nella regolarità dell’importazione di tali partite di merci.

26      L’Hauptzollamt ha impugnato tale pronuncia in «Revision» dinanzi al Bundesfinanzhof (Corte federale delle finanze), il quale, trovandosi in dubbio quanto alla fondatezza delle valutazioni del Finanzgericht Hamburg, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.      Se sia conforme all’art. 32 del [Protocollo n. 1] il fatto che la Commissione europea effettui sostanzialmente in prima persona, nel paese di esportazione, seppure con l’aiuto delle autorità locali, il controllo a posteriori delle prove dell’origine fornite e se, qualora i risultati del controllo della Commissione così ottenuti risultino da un verbale controfirmato da un rappresentante del governo del paese di esportazione, questi possano essere considerati come risultati del controllo ai sensi della suddetta disposizione.

Qualora la prima questione debba essere risolta affermativamente:

2)      Se, in un caso come quello di cui alla causa principale, in cui i [certificati EUR.1] rilasciati per un determinato periodo siano stati dichiarati non validi dal paese di esportazione poiché, a seguito di un controllo a posteriori, non sia stato possibile confermare l’origine delle merci pur non potendosi escludere che talune merci da esportare fossero conformi ai requisiti relativi all’origine, il debitore dei dazi possa fare valere il legittimo affidamento richiamandosi all’art. 220, n. 2, lett. b), secondo e terzo comma, del [codice doganale], adducendo la possibilità che i [certificati EUR.1] presentati nel suo caso fossero corretti e che, pertanto, fossero basati su una situazione fattuale esatta riferita dall’esportatore».

 Sulle questioni pregiudiziali

 Sulla prima questione

27      Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’art. 32 del protocollo n. 1 debba essere interpretato nel senso che i risultati di un controllo a posteriori dei certificati EUR.1 rilasciati da uno Stato ACP vincolino le autorità dello Stato membro in cui le merci menzionate nei certificati sono state importate, qualora tale controllo sia essenzialmente consistito in una indagine condotta, in detto Stato ACP, dalla Commissione e i suddetti risultati vengano comunicati alle autorità di cui trattasi mediante un verbale sottoscritto anche da un rappresentante dello stesso Stato ACP.

28      Come la Corte ha dichiarato, il sistema di cooperazione amministrativa attuato da un protocollo che enuncia, nell’allegato di un accordo concluso tra l’Unione e uno Stato terzo, disposizioni riguardanti l’origine di prodotti, si basa su una reciproca fiducia tra le autorità degli Stati membri d’importazione e quelle dello Stato di esportazione (sentenze 9 febbraio 2006, cause riunite da C‑23/04 a C‑25/04, Sfakianakis, Racc. pag. I‑1265, punto 21, nonché 1° luglio 2010, causa C‑442/08, Commissione/Germania, Racc. pag. I‑6457, punto 70).

29      Per quanto riguarda, segnatamente, il controllo a posteriori dei certificati EUR.1 rilasciati dallo Stato di esportazione, le conclusioni alle quali sono pervenute le autorità di quest’ultimo si impongono alle autorità dello Stato membro d’importazione. Infatti, la cooperazione sancita da un protocollo relativo all’origine di prodotti può funzionare soltanto se lo Stato di importazione accetta le valutazioni legalmente effettuate al riguardo dallo Stato di esportazione (sentenze 17 luglio 1997, causa C‑97/95, Pascoal & Filhos, Racc. pag. I‑4209, punto 33; Commissione/Germania, cit., punti 72 e 73, nonché 25 febbraio 2010, causa C‑386/08, Brita, Racc. pag. I‑1289, punto 62).

30      Per quanto riguarda la questione se, in circostanze come quelle della causa principale, i risultati di un controllo effettuato a posteriori costituiscano valutazioni legalmente effettuate dallo Stato di esportazione e si impongano quindi alle autorità dello Stato membro di importazione, occorre anzitutto osservare che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Afasia, il controllo a posteriori dei certificati EUR.1 rilasciati da uno Stato ACP può essere effettuato in assenza di una domanda proveniente dalle autorità dello Stato membro di importazione.

31      Si deve, al riguardo, constatare che, oltre alle disposizioni enunciate all’art. 32, nn. 1‑6, del protocollo n. 1, il n. 7 di tale articolo prevede che lo Stato ACP di esportazione effettua, di propria iniziativa o su richiesta dell’Unione, le inchieste necessarie per individuare o prevenire le violazioni delle disposizioni di detto protocollo.

32      Ne consegue che, come hanno sottolineato nelle loro osservazioni scritte i governi ceco e italiano nonché la Commissione, e come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 23 delle sue conclusioni, un controllo a posteriori deve essere effettuato non soltanto quando lo Stato membro di importazione lo solleciti, ma anche, in via generale, qualora, secondo uno degli Stati parti all’accordo o secondo la Commissione, cui spetta, in conformità dell’art. 211 CE, vigilare sulla buona applicazione dell’accordo stesso, esistano indizi idonei a far ritenere che sussista una irregolarità per quanto riguarda l’origine delle merci importate (v., per analogia, citate sentenze Sfakianakis, punti 30 e 31, nonché Commissione/Germania, punto 82).

33      È poi necessario constatare che l’art. 32, n. 7, del protocollo n. 1 consente allo Stato ACP di esportazione di invitare l’Unione a partecipare a tali inchieste. Nella fattispecie, è pacifico che la missione di indagine condotta dall’OLAF è stata effettuata, come del resto attesta il suo verbale, su invito del Ministero degli Affari esteri e del Commercio estero giamaicano. In tali circostanze, e in contrasto con quanto asserito dall’Afasia, l’indagine condotta dall’OLAF sul territorio della Giamaica non può essere considerata un’ingerenza negli affari interni di detto Stato e non costituisce quindi una violazione della sua sovranità.

34      Si deve del pari rilevare che non viene precisato né nel protocollo n. 1 né in altri atti dell’accordo di Cotonou secondo quali modalità una partecipazione dell’Unione alle indagini dello Stato ACP di esportazione debba aver luogo. In assenza di disposizioni specifiche e alla luce degli obiettivi di corretta applicazione di tale accordo nonché di buona cooperazione amministrativa, occorre considerare che l’art. 32, n. 7, di tale protocollo consente allo Stato ACP di esportazione, qualora lo desideri o accetti una proposta dell’Unione in tal senso, di beneficiare delle risorse e della perizia dell’OLAF facendo effettuare in misura prevalente a quest’ultimo l’indagine da realizzare. Qualora lo Stato ACP di esportazione scelga di procedere in questo modo, è sufficiente che esso, per soddisfare debitamente la propria funzione di autorità responsabile del controllo a posteriori, riconosca in modo inequivocabile e per iscritto che esso fa propri i risultati dell’indagine condotta dall’OLAF.

35      Come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 25 e 29 delle sue conclusioni, tale riconoscimento dei risultati dell’indagine deve essere datato e debitamente sottoscritto per conto dello Stato ACP di esportazione, in quanto la circostanza che detti risultati siano contenuti in un documento recante l’intestazione dell’OLAF è, al riguardo, priva di rilievo.

36      Poiché l’art. 32, n. 7, del protocollo non contiene neppure disposizioni relative alla forma che i risultati delle indagini devono rivestire per essere comunicati allo Stato membro di importazione vincolandone le autorità, si deve considerare che l’invio effettuato a queste ultime del verbale dell’indagine condotta dall’OLAF, debitamente sottoscritto per conto dello Stato ACP di esportazione e contenente la constatazione priva di ambiguità che i certificati EUR.1 sono inesatti e, quindi, nulli ha l’effetto di rendere siffatti risultati opponibili alle dette autorità.

37      Infine, per quanto riguarda la questione, parimenti sollevata dall’Afasia, se la persona che ha sottoscritto il verbale di indagine per conto dello Stato ACP di esportazione ne avesse la competenza in base al diritto di quest’ultimo Stato, va constatato che, da una parte, in assenza di siffatta competenza, non si può ritenere che lo Stato ACP interessato abbia adottato come propri i risultati dell’indagine, e, dall’altra, che la reciproca fiducia che caratterizza la cooperazione tra gli Stati ACP di esportazione e gli Stati membri di importazione implica che questi ultimi non devono esaminare sistematicamente la validità delle sottoscrizioni che provengono da persone che hanno apparentemente il potere di vincolare lo Stato ACP nel settore delle esportazioni.

38      Conseguentemente, soltanto in caso di dubbi sulla competenza della persona che ha sottoscritto per conto dello Stato d’esportazione spetta alle autorità dello Stato membro di importazione verificare presso lo Stato ACP interessato se tale persona fosse in effetti competente a vincolare detto Stato in materia.

39      Spetterà nella fattispecie al giudice del rinvio valutare se, tenuto conto delle informazioni contenute nel verbale dell’indagine e degli argomenti presentati dall’Afasia con riferimento all’asserita incompetenza del Segretario permanente del Ministero degli Affari esteri e del Commercio estero a firmare tale documento per conto della Giamaica, l’Hauptzollamt avrebbe dovuto effettuare una verifica al riguardo.

40      Alla luce di quanto precede, occorre risolvere la prima questione dichiarando che l’art. 32 del protocollo n. 1 deve essere interpretato nel senso che i risultati di un controllo a posteriori relativo all’esattezza dell’origine delle merci indicata nei certificati EUR.1, rilasciati da uno Stato ACP e consistente essenzialmente in un’indagine condotta dalla Commissione, più precisamente dall’OLAF, in tale Stato e su invito di quest’ultimo, vincolano le autorità dello Stato membro in cui le merci sono state importate, alla condizione, la cui valutazione spetta al giudice del rinvio, che tali autorità abbiano ricevuto un documento che riconosce inequivocabilmente che detto Stato ACP fa propri tali risultati.

 Sulla seconda questione

41      Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale debba essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR.1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione vengono annullati in quanto il rilascio di tali certificati è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore possa opporsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione facendo valere che non si può escludere che in realtà talune tra queste merci abbiano detta origine preferenziale.

42      Detto giudice si interroga così sulle eventuali conseguenze giuridiche dell’esito delle constatazioni effettuate dagli ispettori, come menzionate al punto 21 della presente sentenza, secondo cui è possibile che talune tra dette merci siano di origine giamaicana, pur non avendo gli esportatori fornito tuttavia elementi di prova in tal senso.

43      Al riguardo si deve anzitutto ricordare che la finalità del controllo a posteriori è di verificare l’esattezza dell’origine indicata nel certificato EUR.1 (sentenza 9 marzo 2006, causa C‑293/04, Beemsterboer Coldstore Services, Racc. pag. I‑2263, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).

44      Come la Corte ha ripetutamente giudicato in tale contesto, allorché il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci indicate in un certificato EUR.1, si deve concludere che dette merci sono di origine ignota e che, pertanto, il certificato EUR.1 e la tariffa preferenziale sono stati concessi indebitamente (sentenze 7 dicembre 1993, causa C‑12/92, Huygen e a., Racc. pag. I‑6381, punti 17 e 18; 14 maggio 1996, cause riunite C‑153/94 e C‑204/94, Faroe Seafood e a., Racc. pag. I‑2465, punto 16, nonché Beemsterboer Coldstore Services, cit., punto 34).

45      Tale giurisprudenza osta a che l’importatore possa sottrarsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione, facendo valere l’origine ignota delle merci e, quindi, la circostanza che non si possa escludere che talune tra esse abbiano l’origine preferenziale indicata nei certificati EUR.1 annullati.

46      Risulta, al contrario, dalla giurisprudenza che il recupero a posteriori dei dazi doganali non versati all’atto dell’importazione costituisce una normale conseguenza del fatto che il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci come indicata nel certificato EUR.1 (citate sentenze Huygen e a., punto 19, e Faroe Seafood e a., punto 16).

47      L’importatore può utilmente invocare il legittimo affidamento ai sensi dell’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale e così beneficiare della deroga al recupero a posteriori prevista da detta disposizione solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che il rilascio irregolare dei certificati EUR.1 sia dovuto ad un errore delle autorità competenti stesse, poi, che l’errore commesso dalle medesime sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato dal debitore di buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia osservato tutte le prescrizioni della normativa in vigore (v., segnatamente, sentenze Faroe Seafood e a., cit., punto 83; 3 marzo 2005, causa C‑499/03 P, Biegi Nahrungsmittel e Commonfood/Commissione, Racc. pag. I‑1751, punto 46, nonché 18 ottobre 2007, causa C‑173/06, Agrover, Racc. pag. I‑8783, punto 30).

48      Qualora, come nella causa principale, le autorità dello Stato d’esportazione abbiano rilasciato certificati EUR.1 inesatti nel contesto di un sistema di cooperazione amministrativa, tale rilascio deve essere considerato, in forza di detto art. 220, n. 2, lett. b), secondo e terzo comma, un errore commesso da dette autorità, a meno che non risulti che siffatti certificati siano stati redatti sulla base di una presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore. Qualora tali certificati siano stati redatti sulla base di false dichiarazioni dell’esportatore, la prima delle tre condizioni cumulative suddette non è soddisfatta e il recupero a posteriori dei dazi all’importazione deve, quindi, avere luogo, a meno che, in particolare, non sia evidente che le autorità che hanno rilasciato i certificati in parola sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale.

49      Anche se, nella causa principale, il giudice del rinvio non mette in dubbio la constatazione effettuata nel verbale del controllo svolto, secondo cui le autorità giamaicane non sapevano e non potevano sapere che i tessuti esportati dalla ARH non soddisfacevano le condizioni per essere considerati d’origine giamaicana, esso, per contro, si chiede se spetti all’Hauptzollamt dimostrare che i certificati inesatti sono stati redatti sulla base di false dichiarazioni di detta società o se spetti, al contrario, all’Afasia dimostrare che la ARH ha correttamente presentato i fatti alle autorità giamaicane.

50      Detto giudice si chiede, segnatamente, in che modo si debba trasporre a circostanze come quelle della causa principale l’interpretazione dell’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale, svolta dalla Corte nella citata sentenza Beemsterboer Coldstore Services.

51      In tale sentenza, la Corte ha dichiarato che non si può esigere dalle autorità doganali dello Stato di importazione la prova che l’esportatore ha effettuato false dichiarazioni, qualora risulti che quest’ultimo non ha conservato, malgrado l’obbligo derivante dalla disciplina applicabile, i documenti relativi alle merci di cui trattasi per almeno tre anni. Infatti, in tali condizioni, dette autorità sono prive della possibilità di dimostrare se le informazioni fornite dall’esportatore ai fini del rilascio dei certificati EUR.1 fossero corrette o no (sentenza Beemsterboer Coldstore Services, cit., punto 40).

52      L’Afasia sostiene che tale soluzione, cui la Corte è pervenuta nella causa all’origine della citata sentenza Beemsterboer Coldstore Services, non è trasponibile alla causa principale, poiché la ARH sarebbe stata nell’impossibilità di rispettare il suo obbligo, esposto all’art. 28 del protocollo n. 1, e consistente nel conservare i documenti probatori per almeno tre anni, dato che i suoi laboratori sono stati distrutti da un uragano prima dello scadere di tale periodo. Detta causa di forza maggiore avrebbe per conseguenza che la questione se i certificati EUR.1 siano stati redatti sulla base di false dichiarazioni dell’esportatore non può più essere risolta e che l’emissione di certificati EUR.1 inesatti deve pertanto essere qualificata come errore commesso dalle autorità giamaicane.

53      Detta argomentazione ignora, tuttavia, la circostanza che l’OLAF, a causa del fatto che non ha saputo ottenere cooperazione da parte dei proprietari del gruppo Afasia e tenuto conto del fatto che i laboratori e gli uffici della ARH erano, in occasione di un’ispezione forzata condotta in cooperazione con le autorità giamaicane, privi di documenti, ha orientato la sua indagine verso i documenti di trasporto nonché i documenti in possesso delle autorità giamaicane relativi alle partite di merci esportate; esso ha poi paragonato i dati che compaiono in tali documenti con quelli trasmessi dalle autorità doganali cinesi. Sulla base di tali documenti e di detto raffronto dei dati, si è concluso che le dichiarazioni relative all’origine di tali merci che la ARH e gli altri esportatori giamaicani hanno inviato alle autorità giamaicane, erano indubbiamente false.

54      Orbene, come hanno giustamente osservato il governo italiano e la Commissione, qualora le autorità dello Stato di esportazione siano state indotte in errore dagli esportatori, il rilascio di certificati EUR.1 inesatti non può essere considerato un errore commesso dalle stesse autorità. Risulta, in proposito, da una giurisprudenza ben consolidata che soltanto gli errori imputabili ad un comportamento attivo delle autorità competenti permettono di evitare il recupero. In assenza di siffatto errore, l’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale non consente al debitore di invocare il legittimo affidamento (v., segnatamente, citate sentenze Faroe Seafood e a., punti 91 e 92, nonché Agrover, punto 31). In tali circostanze, gli argomenti dell’Afasia, basati sul manifestarsi di un caso di forza maggiore, divengono inefficaci.

55      Alla luce di quanto precede, occorre risolvere la seconda questione dichiarando che l’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR.1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione sono annullati in quanto il loro rilascio è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore non può opporsi al recupero dei dazi all’importazione facendo valere che non si può escludere che, in realtà, talune di dette merci abbiano l’origine preferenziale suddetta.

 Sulle spese

56      Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi la Corte (Prima Sezione) dichiara:

1)      L’art. 32 del protocollo n. 1 dell’allegato V dell’accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000 e approvato a nome della Comunità con la decisione del Consiglio 19 dicembre 2002, 2003/159/CE, deve essere interpretato nel senso che i risultati di un controllo a posteriori relativo all’esattezza dell’origine delle merci come indicata nei certificati EUR.1 rilasciati da uno Stato ACP, consistenti essenzialmente in un’indagine condotta dalla Commissione europea, più precisamente dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode, in tale Stato e su invito di quest’ultimo, vincolano le autorità dello Stato membro in cui le merci sono state importate, alla condizione, la cui valutazione spetta al giudice del rinvio, che tali autorità abbiano ricevuto un documento che riconosce inequivocabilmente che detto Stato ACP fa propri tali risultati.

2)      L’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700, deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR.1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione europea sono annullati in quanto il loro rilascio è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore non può opporsi al recupero dei dazi all’importazione facendo valere che non si può escludere che, in realtà, talune di dette merci abbiano l’origine preferenziale suddetta.

Firme


*Lingua processuale: il tedesco.