CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

YVES BOT

presentate il 2 settembre 2010 1(1)

Causa C‑232/09

Dita Danosa

contro

LKB Līzings SIA

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dall’Augstākās Tiesas Senāts (Lettonia)]

«Direttiva 92/85/CEE – Ambito di applicazione – Membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali – Lavoratore – Esistenza di un vincolo di subordinazione – Normativa che autorizza il licenziamento di un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni a causa del suo stato di gravidanza – Parità di trattamento tra uomini e donne»





1.        La direttiva del Consiglio 92/85/CEE (2) prevede misure di tutela speciale a favore delle lavoratrici gestanti. Essa impone agli Stati membri, in particolare, di vietare il licenziamento di tali lavoratrici nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato di gravidanza ammessi dal diritto nazionale.

2.        Nella presente causa pregiudiziale la Corte è invitata a pronunciarsi sulla questione se tale disposizione della direttiva 92/85 sia applicabile alla situazione in cui una donna è membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali. Si tratta quindi di stabilire se essa possa essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85.

3.        La Corte si è già pronunciata sul contenuto di tale nozione. Conformemente alla giurisprudenza, la caratteristica principale dello status di lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85 consiste, così come nell’ambito dell’art. 39 CE, nel fatto che una persona fornisca, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione (3).

4.        La presente causa verte più precisamente sull’ultimo criterio di tale definizione. L’Augstākās Tiesas Senāts (Lettonia) chiede alla Corte se, nell’ambito della direttiva 92/85, si possa ritenere che il membro di un organo direttivo di una società eserciti le sue funzioni nell’ambito della stessa in virtù di un vincolo di subordinazione e non in qualità di prestatore di servizi indipendente.

5.        Il giudice del rinvio chiede inoltre se il suo diritto interno, nella parte in cui consente la revoca di un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, in particolare per quanto riguarda lo stato di gravidanza, sia compatibile con la direttiva 92/85.

6.        Nelle presenti conclusioni proporrò alla Corte di dichiarare che una donna membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali che esercita funzioni di direzione della detta società in cambio di una retribuzione deve essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85, dato che, in virtù della sua nomina, essa è parte integrante della detta società, esercita le sue funzioni sotto il controllo di organi di quest’ultima non controllati da lei stessa, quali l’assemblea dei soci e il comitato di vigilanza, e può essere revocata da questi ultimi in caso di perdita della fiducia.

7.        Rileverò che la verifica di tali condizioni rientra nella competenza del giudice nazionale.

8.        Proporrò di rispondere alla seconda questione pregiudiziale dichiarando che che la direttiva 92/85 osta a una normativa di uno Stato membro in virtù della quale una lavoratrice membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali può essere revocata senza limitazioni, nella parte in cui detta disposizione autorizza tale revoca per motivi connessi allo stato di gravidanza.

9.        Inoltre, per essere utile al giudice del rinvio, indicherò i casi in cui questi potrebbe ritenere che la situazione della ricorrente non rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 92/85, in quanto essa non ha informato il datore di lavoro della propria gravidanza alle condizioni previste dal diritto nazionale, o in quanto non era legata da un vincolo di subordinazione alla società resistente e deve essere considerata una lavoratrice autonoma.

10.      Aggiungerò quindi che l’interruzione, da parte della società, del rapporto di lavoro con la ricorrente a causa del suo stato di gravidanza costituisce in ogni caso una discriminazione contraria al principio fondamentale della parità di trattamento attuato dalla direttiva del Consiglio 76/207/CEE (4) nonché, per quanto riguarda i lavoratori autonomi, da tale direttiva in combinato disposto con la direttiva del Consiglio 86/613/CEE (5).

I –    Il contesto normativo

A –    Il diritto dell’Unione

1.      La direttiva 92/85

11.      Dal nono ‘considerando’ della direttiva 92/85 risulta che la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento non deve svantaggiare le donne sul mercato del lavoro e non pregiudica le direttive in materia di uguaglianza di trattamento tra uomini e donne.

12.      Secondo il quindicesimo ‘considerando’ di detta direttiva, il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e conseguentemente conviene prevedere un divieto di licenziamento delle stesse.

13.      L’art. 2, lett. a), della medesima direttiva definisce come lavoratrice gestante «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

14.      L’art. 10 della direttiva 92/85 è così redatto:

«Per garantire alle lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento] l’esercizio dei diritti di protezione della sicurezza e della salute riconosciuti nel presente articolo:

1)       gli Stati membri adottano le misure necessarie per vietare il licenziamento delle lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento] nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità di cui all’articolo 8, paragrafo 1, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo;

2)       qualora una lavoratrice [gestante, puerpera o in periodo di allattamento] sia licenziata durante il periodo specificato nel punto 1), il datore di lavoro deve fornire per iscritto giustificati motivi per il licenziamento;

3)       gli Stati membri adottano le misure necessarie per proteggere le lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento] contro le conseguenze di un licenziamento che a norma del punto 1) è illegittimo».

2.      La direttiva 76/207

15.      L’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 dispone che «il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia».

16.      L’art. 2, n. 7, primo comma, di detta direttiva enuncia che essa «non pregiudica le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità». Inoltre, l’art. 2, n. 7, terzo comma, della medesima direttiva prevede che un trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione ai sensi della direttiva 76/207.

17.      Ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 76/207:

«L’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne significa che non vi deve essere discriminazione diretta o indiretta in base al sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

c)      all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto dalla direttiva 75/117/CEE».

18.      L’art. 3, n. 2, di detta direttiva così recita:

«A tal fine gli Stati membri prendono le misure necessarie per assicurare che:

a)      tutte le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate;

b)      tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento contenute nei contratti di lavoro o nei contratti collettivi, nei regolamenti interni delle aziende o nelle regole che disciplinano il lavoro autonomo (…) siano o possano essere dichiarate nulle e prive di effetto oppure siano modificate».

3.      La direttiva 86/613

19.      L’art. 1 della direttiva 86/613 dispone quanto segue:

«La presente direttiva è intesa ad assicurare, in conformità delle disposizioni che seguono, l’attuazione, negli Stati membri, del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne che svolgono un’attività autonoma o che contribuiscono all’esercizio di un’attività autonoma, per gli aspetti che non sono contemplati dalle direttive 76/207 (…) e 79/7/CEE» (6).

20.      Il lavoratore autonomo è definito all’art. 2, lett. a), della direttiva 86/613 come chiunque eserciti, nelle condizioni previste dalla legislazione nazionale, un’attività lucrativa per proprio conto.

21.      L’art. 3 di detta direttiva dispone che il principio della parità di trattamento ai sensi della stessa implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, che sia direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o familiare.

22.      Ai sensi dell’art. 4 della citata direttiva, per quanto riguarda i lavoratori autonomi, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano soppresse tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento, definito nella direttiva 76/207.

23.      L’art. 8 della direttiva 86/613 è così redatto:

«Gli Stati membri si impegnano ad esaminare se e a quali condizioni le lavoratrici che svolgono un’attività autonoma e le mogli di lavoratori che svolgono un’attività autonoma, possano, nel corso di interruzioni di attività per gravidanza o per maternità:

–        avere accesso a servizi di sostituzione o a servizi sociali esistenti nel loro territorio,

o

–        ricevere prestazioni in denaro nell’ambito di un regime di previdenza sociale oppure di ogni altro sistema di tutela sociale pubblica».

4.      La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

24.      L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso.

25.      L’art. 23 di detta Carta dispone che «[l]a parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione».

B –    Il diritto nazionale

1.      Il Codice del lavoro

26.      L’art. 3 del Codice del lavoro (darba likums) (7) definisce il lavoratore come una persona fisica che, sulla base di un contratto di lavoro e in cambio di una retribuzione pattuita, svolge un determinato lavoro sotto la direzione di un datore di lavoro.

27.      L’art. 4 del Codice del lavoro definisce il datore di lavoro come una persona fisica o giuridica, o una società di persone dotata di personalità giuridica che occupa almeno un lavoratore in base ad un contratto di lavoro.

28.      L’art. 44, n. 3, del Codice del lavoro così recita:

«I membri degli organi direttivi delle società di capitali vengono assunti con contratti di lavoro solo qualora non siano assunti in base ad altri contratti di diritto privato. Se con i membri degli organi direttivi di una società di capitali è stipulato un contratto di lavoro, tale contratto è concluso a tempo determinato».

29.      L’art. 109 del Codice del lavoro, intitolato «Divieti e limitazioni posti al datore di lavoro in materia di licenziamento», dispone quanto segue:

«1)      Il datore di lavoro non può risolvere il contratto di una lavoratrice gestante, né per i dodici mesi successivi al parto né, in caso di allattamento, per l’intera durata di tale periodo, ad eccezione dei casi di cui all’art. 101, n. 1, punti 1, 2, 3, 4, 5 e 10.

(…)».

2.      Il Codice del commercio

30.      L’art. 221 del Codice del commercio (Komerclikums) (8) è così redatto:

«1)      Il consiglio di amministrazione è l’organo esecutivo che dirige e rappresenta la società.

(…)

5)      Il consiglio di amministrazione è tenuto a fornire informazioni all’assemblea dei soci in ordine agli atti conclusi fra la società e un socio, un membro del comitato di vigilanza o un membro del consiglio di amministrazione.

6)      Il consiglio di amministrazione è tenuto a fornire al comitato di vigilanza, almeno una volta a trimestre, una relazione sull’attività e sulla situazione finanziaria della società e ad informare tempestivamente il comitato di vigilanza in ordine al deterioramento della situazione finanziaria della società o ad altre circostanze rilevanti per l’attività commerciale della società.

(…)

8)      I membri del consiglio di amministrazione hanno diritto ad una retribuzione proporzionata alle loro responsabilità e allo stato finanziario della società. L’importo della retribuzione è determinato con decisione del comitato di vigilanza o, qualora esso non sia stato istituito, dall’assemblea dei soci».

31.      L’art. 224 del Codice del commercio, intitolato «Nomina e revoca dei membri del consiglio di amministrazione», dispone quanto segue:

«1)      I membri del consiglio di amministrazione sono nominati e revocati dall’assemblea dei soci. Quest’ultima comunica all’ufficio del registro delle imprese la revoca del mandato dei membri del consiglio, la modifica dei loro poteri di rappresentanza o la nomina di nuovi membri. A tale comunicazione è allegata copia del verbale dell’assemblea dei soci in cui è stata adottata la decisione di cui trattasi.

(…)

3)      I membri del consiglio di amministrazione sono nominati per tre anni, salvo che lo statuto preveda un periodo più breve.

4)      I membri del consiglio di amministrazione possono essere revocati con decisione dei soci. Se la società dispone di un comitato di vigilanza, quest’ultimo può sospendere i membri del consiglio di amministrazione dalle loro funzioni fino alla successiva assemblea dei soci, per un periodo non superiore a due mesi.

(…)

6)      Lo statuto può prevedere che i membri del consiglio di amministrazione siano revocabili solo per gravi motivi. Per grave motivo si intende fra l’altro la violazione del mandato, il mancato adempimento degli obblighi, l’incapacità di dirigere la società, il compimento di atti contrari agli interessi della società, nonché la perdita della fiducia».

II – Controversia principale e questioni pregiudiziali

32.      La Latvijas Krājbanka AS, una società per azioni, con decisione del 21 dicembre 2006, relativa alla costituzione della società a responsabilità limitata LKB Līzings SIA (9), nominava la sig.ra Danosa (10) amministratrice unica di tale società.

33.      Con decisione del comitato di vigilanza dell’11 gennaio 2007 la resistente fissava la retribuzione dei membri del consiglio di amministrazione della società e le condizioni annesse e incaricava il presidente del comitato di vigilanza di concludere gli accordi necessari per garantire l’esecuzione di detta decisione.

34.      Secondo la decisione di rinvio, non veniva concluso alcun contratto di diritto privato avente ad oggetto l’esecuzione degli obblighi di membro del consiglio di amministrazione. La società resistente contesta tale affermazione e sostiene di avere concluso un contratto di mandato con la ricorrente. Quest’ultima avrebbe voluto stipulare un contratto di lavoro, ma la società resistente avrebbe preferito conferirle l’incarico di membro del consiglio di amministrazione sulla base di un mandato.

35.      Il 23 luglio 2007 l’assemblea dei soci della società resistente decideva di sollevare la ricorrente dall’incarico di membro del consiglio di amministrazione. Una copia certificata del verbale dell’assemblea veniva inviata all’interessata il 24 luglio 2007.

36.      Ritenendo di essere stata sollevata illegittimamente dal proprio incarico di membro del consiglio di amministrazione, il 31 agosto 2007 la ricorrente proponeva un ricorso dinanzi al Rīgas pilsētas Centra Rajona tiesa (Tribunale del distretto centrale di Riga) contro la società resistente.

37.      La ricorrente affermava che, dal momento della sua nomina a tale incarico, aveva adempiuto correttamente i propri obblighi professionali derivanti dallo statuto della società e dal regolamento del consiglio di amministrazione. Essa sosteneva inoltre di avere percepito una retribuzione per il lavoro svolto e di avere ottenuto periodi di congedo e che si doveva quindi riconoscere l’esistenza di un rapporto di lavoro, in quanto le due parti avevano stipulato un contratto di lavoro non formalizzato per iscritto. Asseriva che la sua rimozione dall’incarico era stata disposta in violazione dell’art. 109 del Codice del lavoro, relativo al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, in quanto alla data del licenziamento essa era all’undicesima settimana di gravidanza.

38.      Secondo la ricorrente, sussisterebbe un conflitto tra l’art. 224, n. 4, del Codice del commercio, che consente all’assemblea dei soci di revocare in qualsiasi momento i membri degli organi esecutivi, e l’art. 109, n. 1, del Codice del lavoro, che stabilisce talune garanzie previdenziali a favore delle lavoratrici gestanti. In tale conflitto occorrerebbe attribuire priorità all’art. 109 del Codice del lavoro, che vieta la risoluzione del contratto di lavoro di dette lavoratrici.

39.      La domanda veniva respinta sia in primo grado che in appello. La ricorrente ha quindi proposto ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio.

40.      Dinanzi a tale giudice, la ricorrente ha sostenuto di dover essere considerata una lavoratrice ai sensi del diritto dell’Unione, a prescindere dalla circostanza che sia o meno considerata tale dal diritto lettone. Inoltre, tenuto conto del divieto di licenziamento di cui all’art. 10 della direttiva 92/85 e dell’interesse fondamentale che tale disposizione mira a tutelare, in tutti i rapporti giuridici in cui possano ravvisarsi le caratteristiche di un rapporto di lavoro, lo Stato deve assicurare alle lavoratrici gestanti, con tutti i mezzi di cui dispone, compresi quelli giurisdizionali, le garanzie giuridiche e sociali previste.

41.      La società resistente ha invece sostenuto che i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali non forniscono prestazioni sotto la direzione di un’altra persona e non possono quindi essere considerati lavoratori ai sensi del diritto dell’Unione. Sarebbe pienamente giustificato prevedere un grado di tutela diverso tra i lavoratori e i membri del consiglio di amministrazione delle società di capitali, tenuto conto dell’elemento fiduciario che caratterizza la professione degli amministratori. Il diritto dell’Unione avrebbe distinto tra coloro che svolgono le proprie mansioni sotto la direzione del datore di lavoro e coloro che esercitano tale potere direttivo, i quali, in sostanza, rappresentano il datore di lavoro e non sono lavoratori a lui subordinati.

42.      Il giudice del rinvio afferma che dalla giurisprudenza della Corte relativa alla nozione di lavoratore, nonché dall’obiettivo della direttiva 92/85 per quanto riguarda la tutela delle lavoratrici gestanti dal licenziamento, risulta che se un membro del consiglio di amministrazione di una società rientra in tale nozione di lavoratore, è applicabile nei suoi confronti l’art. 10 della suddetta, sebbene l’art. 224, n. 4, del Codice del commercio lettone non preveda alcuna restrizione in materia di revoca dalle funzioni di membro del consiglio di amministrazione e a prescindere dalla circostanza che sia stato o meno concluso un contratto di lavoro con tali persone.

43.      Secondo detto giudice, sia la direttiva 76/207 che la direttiva 92/85 vietano l’interruzione del rapporto di lavoro con la lavoratrice gestante.

44.      Ritenendo che la controversia di cui è investito richieda l’interpretazione del diritto dell’Unione, l’Augstākās Tiesas Senāts ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se i membri degli organi di gestione delle società di capitali rientrino nella nozione di lavoratore ai sensi del diritto [dell’Unione].

2)      Se l’art. 224, n. 4, del Codice del commercio lettone, che consente di revocare un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali senza alcuna limitazione, in particolare a prescindere dallo stato di gravidanza della persona interessata, sia incompatibile con l’art. 10 della direttiva 92/85 (…) e la giurisprudenza della Corte (...)».

III – Analisi

45.      Con le sue questioni pregiudiziali il giudice del rinvio chiede, anzitutto, se la ricorrente possa essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85, ed eventualmente quale sia la portata della tutela contro il licenziamento apprestata dall’art. 10 di tale direttiva.

46.      In limine, si deve ricordare che la tutela conferita dalla direttiva 92/85, in particolare la tutela contro il licenziamento prevista all’art. 10 della stessa, si applica, in virtù dell’art. 2, alle lavoratrici gestanti che hanno informato il datore di lavoro del proprio stato di gravidanza conformemente alla legislazione o alla prassi vigenti nello Stato membro.

47.      Nella specie il giudice del rinvio non precisa se il diritto interno subordini – e in caso di risposta affermativa, con quali modalità – la prestazione di tale tutela alla condizione che l’interessata abbia previamente informato il datore di lavoro del proprio stato. La società resistente, dal canto suo, sostiene che la ricorrente l’ha informata del suo stato di gravidanza solo molti giorni dopo che il comitato di vigilanza l’aveva sollevata dall’incarico di amministratrice.

48.      La risposta alla questione se tale circostanza sia tale da privare la ricorrente del beneficio della tutela speciale conferita dalla direttiva 92/85 dipende dall’interpretazione del diritto nazionale e dalla valutazione dei fatti, ad esempio uno stato di gravidanza apparente, che rientrano nella competenza del giudice del rinvio.

49.      In ogni caso, l’incertezza su questo punto non può rimettere in discussione la presunzione di rilevanza per la soluzione della controversia principale di cui, conformemente alla giurisprudenza (11), deve godere la decisione di rinvio pregiudiziale e che è pacifica nel caso di specie.

50.      Esaminerò quindi le questioni poste partendo dal presupposto che sussista la condizione relativa all’informazione del datore di lavoro secondo le norme vigenti nel diritto interno.

A –    Sulla prima questione pregiudiziale

51.      Con la prima questione il giudice del rinvio chiede se un membro di un consiglio di amministrazione quale la ricorrente, che era incinta quando l’assemblea dei soci ne ha deliberato la revoca, possa beneficiare della tutela contro il licenziamento prevista all’art. 10 della direttiva 92/85.

52.      Si tratta quindi di stabilire se e in quale misura un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali possa essere considerato un lavoratore ai sensi della direttiva 92/85.

53.      Come ha giustamente ricordato il giudice del rinvio, la nozione di «lavoratore» ai sensi della direttiva 92/85 è stata definita nella citata sentenza Kiiski, trasponendo a detta direttiva la definizione elaborata dalla Corte nell’interpretazione dell’art. 39 CE. Secondo tale definizione, la nozione di «lavoratore» ai sensi della direttiva 92/85 deve quindi presentare un contenuto uniforme all’interno dell’Unione europea e la sua caratteristica essenziale consiste nella presenza simultanea di tre condizioni, ossia la fornitura di prestazioni, in contropartita di una retribuzione, a favore e sotto la direzione di un’altra persona (12).

54.      Il giudice del rinvio rileva che solo l’ultima di tali condizioni è oggetto di contestazione fra le parti. Secondo le informazioni fornite da detto giudice, infatti, la ricorrente sostiene, senza essere contraddetta, di avere svolto i propri compiti di amministratore unico risultanti dallo statuto della società e dal regolamento del consiglio di amministrazione, il che può corrispondere perfettamente all’esercizio di un’attività avente un valore economico certo, non privo di carattere reale ed effettivo ai sensi della giurisprudenza (13).

55.      Inoltre, è pacifico che la ricorrente ha percepito una retribuzione e la qualifica data a tale retribuzione dalle parti del rapporto di lavoro, così come le sue modalità, non hanno alcuna incidenza sulla qualifica di lavoratore (14).

56.      La questione da esaminare è quindi se tali prestazioni retribuite siano state fornite alla società resistente sotto la direzione di questa. Propongo quindi di interpretare la prima questione nel senso che il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se e in quale misura una donna membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, che eserciti le proprie funzioni direttive in detta società in cambio di una retribuzione, fornisca prestazioni nell’ambito di un vincolo di subordinazione e, pertanto, possa essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85.

57.      Si tratta di stabilire, in altre parole, se la ricorrente debba essere considerata, alla luce della citata direttiva, come una lavoratrice dipendente, che gode della tutela ivi prevista, oppure come una prestatrice di servizi indipendente eventualmente rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 86/613. Il diritto sociale dell’Unione, infatti, allo stato attuale non contempla un regime speciale per i dirigenti della società per quanto riguarda l’attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne o, più in particolare, la tutela della gravidanza. La situazione della ricorrente deve quindi essere valutata nell’ambito di tale alternativa e collegata all’una o all’altra di queste due categorie.

58.      La società resistente e i governi ellenico e lettone sostengono che i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali non possono essere considerati lavoratori ai sensi del diritto dell’Unione e non possono perciò beneficiare delle disposizioni della direttiva 92/85.

59.      La società resistente afferma di non avere mai concluso un contratto di lavoro con la ricorrente e che tra loro non esisteva giuridicamente alcun rapporto di lavoro. La ricorrente avrebbe adempiuto i propri obblighi di membro del consiglio di amministrazione in virtù di un contratto di mandato, autonomamente, e non avrebbe ricevuto istruzioni da nessuno, a differenza dei responsabili di settore e di dipartimento, che sono soggetti all’autorità di un superiore o di un consiglio di amministrazione di cui devono rispettare le direttive e le istruzioni. Inoltre, la ricorrente avrebbe redatto essa stessa il regolamento interno del consiglio di amministrazione.

60.      Il governo ellenico, nello stesso senso, espone che un membro di un consiglio di amministrazione quale la ricorrente, che peraltro era amministratrice unica, non offriva servizi sotto la direzione di un’altra persona, ma al contrario era la persona sotto la cui direzione lavoravano i dipendenti della società.

61.      Il governo lettone, dal canto suo, sostiene inoltre che, sebbene i membri del consiglio di amministrazione esercitino le loro funzioni per un periodo determinato e agiscano nell’interesse della società, la loro attività non è, tuttavia, di natura subordinata, bensì di natura autonoma. Il consiglio di amministrazione sarebbe l’organo esecutivo della società, che la dirige e la rappresenta. Esso non fornirebbe prestazioni sotto la direzione di un’altra persona e non dovrebbe rispettare le istruzioni date da un’altra persona. L’attività del consiglio di amministrazione dovrebbe essere considerata la concretizzazione della fiducia accordatagli dai soci della società di capitali.

62.      Analogamente, l’istituzione di un comitato di vigilanza non costituirebbe un obbligo per le società di capitali. Inoltre, tale comitato non disporrebbe di un potere al quale possa corrispondere un obbligo di subordinazione del consiglio di amministrazione. Esso non disporrebbe di mezzi giuridici tali da consentirgli di esercitare una reale influenza sulle attività ordinarie degli amministratori.

63.      Infine, il governo lettone sottolinea che il rapporto tra i soci o gli azionisti di una società di capitali e i membri del suo consiglio di amministrazione si basa sulla fiducia e che, conseguentemente, il rapporto di lavoro di questi ultimi deve poter essere interrotto qualora tale fiducia sia venuta meno.

64.      Non condivido le argomentazioni di queste parti intervenienti. Al pari della ricorrente e del governo ungherese, ritengo che un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali che si trovi nella situazione della ricorrente possa esercitare le proprie funzioni nell’ambito di un vincolo di subordinazione e, pertanto, possedere lo status di lavoratore ai sensi della direttiva 92/85. Tale posizione si fonda sui motivi di seguito esposti, che riguardano, da un lato, le caratteristiche del rapporto di lavoro tra le parti e, dall’altro, l’obiettivo perseguito attraverso l’art. 10 della direttiva 92/85.

1.      Le caratteristiche del rapporto di lavoro tra le parti

65.      Secondo la giurisprudenza, la nozione di «lavoratore» contemplata dal diritto dell’Unione e, in particolare, ai sensi della direttiva 92/85 deve essere definita in base a criteri obiettivi del rapporto di lavoro, tenendo conto dei diritti e degli obblighi delle persone interessate (15).

66.      Il riconoscimento dello status di lavoratore non può dunque dipendere dalla qualifica data dalle parti al rapporto di lavoro né dalla conclusione di un contratto di lavoro. Come ha dichiarato la Corte nella citata sentenza Kiiski, la natura giuridica sui generis del rapporto di lavoro riguardo al diritto nazionale non può avere alcuna conseguenza sulla qualità di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione (16). Essa ha inoltre dichiarato che la qualificazione formale di lavoratore autonomo ai sensi del diritto nazionale non esclude che una persona debba essere qualificata come lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione se la sua indipendenza è solamente fittizia (17).

67.      Pertanto, il fatto che nella specie le parti non abbiano stipulato alcun contratto di lavoro e abbiano invece concluso un contratto di mandato non può determinare la qualificazione del loro rapporto di lavoro, come subordinato o autonomo, in riferimento alla direttiva 92/85.

68.      Conformemente alla giurisprudenza, tale qualificazione dipende, in ciascun caso, dal complesso degli elementi e delle circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti (18). È altresì pacifico che la nozione di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione non dev’essere interpretata restrittivamente (19). Inoltre, si riconosce che tale nozione non è univoca e può eventualmente variare a seconda del settore di applicazione considerato (20).

69.      Per quanto riguarda più in particolare l’esistenza di un vincolo di subordinazione, la Corte, per quanto è a mia conoscenza, non ha ancora avuto occasione di precisare la natura e l’importanza del controllo necessarie per caratterizzare tale vincolo.

70.      Essa si è pronunciata sulla situazione dei dirigenti di società nella sentenza Asscher (21), in cui ha ritenuto che il direttore di una società di cui esso sia l’unico azionista non esercita la sua attività nell’ambito di un vincolo di subordinazione, ragion per cui non può essere considerato un lavoratore ai sensi dell’art. 39 CE (22). L’avvocato generale Léger, nelle conclusioni presentate alla Corte nella causa che ha dato luogo alla sentenza citata, aveva giustificato tale posizione con il fatto che tale dirigente non era sottoposto alla direzione di alcun’altra persona né di alcun organo che non controllasse lui stesso (23).

71.      La Corte ha inoltre precisato che tale soluzione non poteva essere automaticamente trasposta al coniuge di detto dirigente, in quanto i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi derivanti dal matrimonio non escludono l’esistenza, nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, di un vincolo di subordinazione caratteristico di un rapporto di lavoro (24).

72.      Essa ha dichiarato altresì che il fatto che i dipendenti di compagnie portuali incaricate delle operazioni di sbarco delle merci siano membri di tali compagnie in qualità di soci non osta a che essi si trovino in un rapporto di subordinazione nei confronti dell’impresa (25).

73.      Dall’insieme di tali elementi si possono desumere le seguenti considerazioni.

74.      In primo luogo, l’esercizio delle funzioni di dirigente di una società non esclude di per sé l’esistenza di un vincolo di subordinazione. Nella citata sentenza Asscher, secondo la mia interpretazione, l’esistenza di tale vincolo per quanto riguarda il direttore della società in questione è stata esclusa non in ragione della natura delle sue funzioni, ma in ragione del fatto che l’interessato era l’azionista unico della società e conseguentemente, nella sua qualità di direttore, rendeva conto della propria gestione solo a sé stesso. Lo status di dirigente, di per sé, non può quindi escludere che l’interessato, tenuto conto dell’organizzazione dell’impresa, sia soggetto all’autorità di questa.

75.      In secondo luogo, per valutare l’esistenza di un vincolo di subordinazione in relazione a detto dirigente si devono prendere in considerazione tutti gli elementi che ne caratterizzano il rapporto di lavoro con l’impresa e tenere conto, nell’ambito di tale valutazione, della natura della sua funzione. L’esistenza di un vincolo del genere deve quindi essere valutata tenendo conto del fatto che la sua funzione implica, per propria natura, l’esercizio di poteri molto ampi e che non esistono superiori gerarchici tra il personale dipendente.

76.      Pertanto, a mio parere, nell’ambito di tale valutazione si deve attribuire particolare importanza alle condizioni in cui il dirigente in questione è stato assunto, al controllo cui era sottoposto e alle condizioni in cui poteva essere sollevato dall’incarico.

77.      Se si esaminano tali criteri nella presente causa si rileva, per quanto riguarda le condizioni in cui è stata assunta la ricorrente, che quest’ultima è stata nominata membro del consiglio di amministrazione della società resistente per un periodo determinato di tre anni ed è stata incaricata di amministrare i beni di detta società, di dirigere la società stessa e di rappresentarla in tutti i rapporti con i terzi. Dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio e dal governo lettone risulta inoltre che essa era parte integrante della società resistente.

78.      Da questo punto di vista la situazione della ricorrente si distingueva quindi chiaramente da quella di un mandatario, quale un avvocato o un perito contabile, che riceve da una società il mandato di svolgere un determinato compito, ma rimane in posizione di terzietà rispetto ad essa.

79.      Per quanto concerne, poi, il controllo cui era soggetta, dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni delle parti risulta che la ricorrente doveva rendere conto della propria gestione al comitato di vigilanza e collaborare con esso. È inoltre pacifico che la ricorrente, nell’esercizio delle sue funzioni, ha elaborato a più riprese relazioni e note informative per detto comitato.

80.      Per quanto riguarda, infine, il potere di revoca, dagli atti risulta che i membri del consiglio di amministrazione potevano essere revocati con decisione dei soci, eventualmente dopo essere stati sospesi dal comitato di vigilanza. Risulta inoltre che tale revoca poteva basarsi semplicemente sulla perdita della fiducia.

81.      È vero che, come sottolinea il governo lettone, da tali informazioni non risulta che il comitato di vigilanza o i soci potessero impartire, giorno per giorno, istruzioni ai membri del consiglio di amministrazione.

82.      Tuttavia, mi sembra difficile ammettere che gli amministratori, in tali condizioni, svolgessero le loro funzioni in piena autonomia. Infatti, poiché dovevano rendere conto del proprio operato ad un organismo non controllato da loro stessi, potevano essere rimossi dall’incarico per una semplice perdita di fiducia e quest’ultima poteva derivare dal semplice dissenso dei soci in ordine alla gestione della società, essi in realtà erano obbligati a determinare le decisioni relative alla gestione della società in base alle aspettative dei membri del comitato di vigilanza e dei soci.

83.      In diritto e in fatto, la situazione dei membri del consiglio di amministrazione era quindi più simile a quella di un lavoratore subordinato che non a quella di un lavoratore autonomo, dato che il loro rapporto di lavoro con la società poteva essere revocato se quest’ultima, attraverso i suoi soci, non approvava le decisioni adottate dagli amministratori nell’esercizio delle loro funzioni.

84.      L’esame degli elementi che caratterizzano il rapporto di lavoro di un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, quale la ricorrente, con la società resistente, fatta salva la loro verifica da parte del giudice nazionale, conduce, a mio parere, a qualificare la ricorrente come lavoratrice (26).

85.      Tale conclusione è in linea con l’obiettivo perseguito attraverso l’art. 10 della direttiva 92/85.

2.      L’obiettivo perseguito attraverso l’art. 10 della direttiva 92/85

86.      Tenuto conto dell’obiettivo perseguito attraverso l’art. 10 della direttiva 92/85, tale disposizione è logicamente applicabile nell’ambito del rapporto di lavoro controverso. Inoltre, contrariamente a quanto sembrano sostenere il governo lettone e la società resistente nelle loro osservazioni scritte, l’applicazione della direttiva 92/85 ad un tale rapporto non comporterebbe necessariamente l’esclusione del diritto dei soci o degli azionisti di una società di revocare il contratto dei dirigenti della stessa in caso di perdita della fiducia.

87.      Sul primo punto, dall’ottavo e dal quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 92/85 nonché dalla giurisprudenza risulta che la lavoratrici gestanti devono essere tutelate contro il rischio di licenziamento a causa del loro stato, in quanto tale licenziamento potrebbe avere ripercussioni negative sulla loro situazione fisica e psichica ed occorre evitare che esse possano essere spinte ad interrompere volontariamente la gravidanza per non perdere il lavoro (27).

88.      Se si esamina la situazione di un dirigente di società quale la ricorrente, si rileva che l’elemento determinante consiste nel fatto che il rapporto di lavoro, in virtù del quale essa è parte integrante della detta società, può essere revocato con una decisione adottata da un organo che, in ipotesi, essa non controlla e la cui volontà di revoca le viene quindi imposta.

89.      Tale situazione corrisponde, a mio avviso, al contesto in cui è destinato a trovare applicazione l’art. 10 della direttiva 92/85, dato che in questo caso sussiste effettivamente il rischio che il rapporto di lavoro di una lavoratrice gestante con la società di cui essa è parte integrante venga interrotto in ragione del suo stato di gravidanza. Una dirigente d’impresa, il cui mandato possa essere revocato in qualsiasi momento contro la sua volontà, potrebbe essere spinta ad abortire come qualsiasi altra dipendente assegnata ad un impiego subalterno qualora ritenga che il suo stato di gravidanza possa farle perdere il lavoro.

90.      Inoltre la Corte, per come ne interpreto la giurisprudenza, intende garantire l’effetto utile dell’art. 10 della direttiva 92/85. Essa ha infatti dichiarato, in particolare, che tale disposizione non vieta solo la notifica di un licenziamento fondato sullo stato di gravidanza per l’intera durata della stessa e del congedo di maternità. Essa vieta anche l’adozione di misure preparatorie al licenziamento a causa della gravidanza e/o della nascita di un figlio (28).

91.      Secondo la Corte, nell’ambito dell’applicazione dell’art. 10 della direttiva 92/85, gli Stati membri non possono modificare la portata della nozione di «licenziamento» privando così d’effetto l’estensione della tutela offerta da tale disposizione e compromettendone l’effetto utile(29).

92.      Analogamente, nella citata sentenza Kiiski la Corte ha dichiarato che una lavoratrice in congedo parentale rimane, in tale periodo, un lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione, per cui può interrompere tale congedo per fruire di un congedo di maternità ai sensi delle disposizioni della direttiva 92/85. La Corte ha dunque ritenuto che il rapporto di lavoro fra il lavoratore e il datore di lavoro prosegua durante il congedo parentale, anche se il lavoratore non svolge più le sue attività professionali e il vincolo di subordinazione risulta quindi affievolito (30).

93.      Mi sembra che l’applicazione della direttiva 92/85 al rapporto di lavoro in discussione nella causa principale sia in linea con la giurisprudenza.

94.      Infine, il secondo punto del mio argomento riguarda il fatto che tale interpretazione dell’ambito applicativo della direttiva 92/85 non obbligherebbe gli Stati membri a sopprimere il diritto dei soci o degli azionisti di una società di revocare in qualsiasi momento il mandato dei dirigenti della loro società, qualora non abbiano più fiducia in loro.

95.      Come si vedrà nuovamente nell’esame della seconda questione pregiudiziale, l’art. 10 della direttiva 92/85 non impone agli Stati membri di vietare in modo assoluto il licenziamento di una lavoratrice gestante fino al termine del congedo di maternità. Esso li obbliga ad adottare le misure necessarie affinché tale licenziamento non si basi sullo stato di gravidanza o sulla nascita di un figlio e possa avere luogo solo nei casi consentiti dalle legislazioni e dalle prassi nazionali.

96.      L’art. 10 della direttiva 92/85, pertanto, non è diretto a mettere in discussione le normative degli Stati membri o dell’Unione che disciplinano i diritti e gli obblighi degli amministratori delle società e le condizioni della loro revoca (31). Esso mira ad imporre agli Stati membri di prevedere misure destinate a garantire l’applicazione effettiva del principio fondamentale della parità di trattamento tra uomini e donne, in virtù del quale il licenziamento di una lavoratrice fondato sul suo stato di gravidanza costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso (32).

97.      Ai sensi dell’art. 10, n. 1, della direttiva 92/85, uno Stato membro può dunque prevedere che i soci di una società che ritengano di dover revocare la fiducia alla loro amministratrice abbiano il diritto di interrompere il rapporto di lavoro anche se l’interessata è incinta. Tale Stato membro deve tuttavia prevedere, conformemente all’art. 10, n. 2, di tale direttiva, che i suoi soci siano tenuti a fornire per iscritto i motivi del licenziamento. Ai sensi dell’art. 10, n. 3, della medesima direttiva, esso deve inoltre adottare misure che consentano all’amministratrice revocata di far controllare, eventualmente dinanzi ad un organo giurisdizionale, che detti motivi non siano effettivamente basati sul suo stato di gravidanza. In virtù dell’art. 4 della direttiva del Consiglio 97/80/CE (33), lo Stato membro deve anche adottare i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento, ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (34).

98.      A mio parere, l’obiezione sollevata dalla società resistente e dal governo lettone, secondo cui l’applicazione dell’art. 10 della direttiva 92/85 agli amministratori di società costituirebbe un’ingerenza ingiustificata nei diritti dei soci, è infondata.

99.      Riassumendo, una donna membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, quale la ricorrente, dev’essere considerata una lavoratrice se sono soddisfatte le tre condizioni seguenti: in primo luogo, alla luce delle condizioni in cui è stata assunta, essa era parte integrante della società; in secondo luogo, essa esercitava le proprie funzioni sotto il controllo di organi quali l’assemblea dei soci o il comitato di vigilanza da lei non controllati o sui quali non era in grado di esercitare un’influenza determinante e, in terzo luogo, poteva essere revocata dall’uno o dall’altro di tali organi semplicemente perché era venuta meno la loro fiducia nei suoi confronti.

100. Conformemente alla giurisprudenza, spetta al giudice nazionale verificare se tali condizioni siano soddisfatte (35).

101. Alla luce di tali elementi, propongo quindi di risolvere la prima questione affermando che una donna membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, che esercita funzioni di direzione della detta società in cambio di una retribuzione, può essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva 92/85 e, pertanto, godere della tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 di tale direttiva qualora, in virtù della sua nomina, essa sia parte integrante della società stessa, eserciti le proprie funzioni sotto il controllo di organi da lei non controllati, quali l’assemblea dei soci e il comitato di vigilanza, e possa essere revocata da questi ultimi solo perché è venuta meno la loro fiducia nei suoi confronti.

B –    Sulla seconda questione pregiudiziale

102. Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 10 della direttiva 92/85 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale secondo cui un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali può essere revocato senza alcuna limitazione, in particolare per quanto riguarda lo stato di gravidanza.

103. Ho già parzialmente risposto a tale questione.

104. L’art. 10 della direttiva 92/85, come si è visto, impone agli Stati membri di adottare le disposizioni necessarie per vietare che una lavoratrice venga licenziata per motivi connessi al suo stato di gravidanza. Esso non vieta, tuttavia, l’interruzione del rapporto di lavoro per il periodo di tutela della lavoratrice previsto dal medesimo art. 10, a meno che l’interruzione si fondi su altri motivi, previsti dalla legislazione o dalle prassi nazionali.

105. Al pari dei governi intervenuti nel presente procedimento, ritengo che l’art. 10 della direttiva 92/85 non osti a che uno Stato membro istituisca, per le amministratrici di società, un regime diverso da quello previsto per le altre lavoratrici che non hanno gli stessi poteri e le stesse responsabilità e che, di conseguenza, non si trovano in una situazione paragonabile. Spetta tuttavia a detto Stato membro garantire in ogni caso il divieto di licenziamento per motivi connessi allo stato di gravidanza.

106. In base a tali considerazioni, una disposizione di una normativa nazionale quale l’art. 224, n. 4, del Codice del commercio, che non prevede alcuna limitazione per il diritto dei soci di revocare i membri del consiglio di amministrazione, è in contrasto con il diritto dell’Unione solo nella parte in cui consente che tale revoca venga disposta per motivi connessi allo stato di gravidanza.

107. Il solo fatto che tale disposizione conferisca una tutela minore rispetto alle norme nazionali applicabili agli altri lavoratori non contrasta di per sé con l’art. 10 della direttiva 92/85. Tale disparità di trattamento che, ancora una volta, si applica a lavoratrici che si trovano in situazioni diverse (36), può dunque risultare conforme al potere discrezionale che l’art. 10, n. 1, di tale direttiva riconosce espressamente agli Stati membri.

108. Propongo quindi di risolvere la seconda questione affermando che l’art. 10 della direttiva 92/85 osta ad una legislazione nazionale secondo cui un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali può essere revocato senza alcuna limitazione, nella parte in cui detta legislazione consente che tale revoca venga disposta per motivi connessi allo stato di gravidanza.

109. Concretamente, spetterà al giudice nazionale verificare che il motivo o i motivi della revoca della ricorrente non siano connessi al suo stato di gravidanza. Qualora invece ritenesse che ricorra tale ipotesi, il licenziamento non potrebbe trovare fondamento normativo nell’art. 224, n. 1, del Codice del commercio.

110. Certamente, come ha sottolineato la società resistente, l’art. 10 della direttiva 92/85 non è direttamente applicabile in una controversia tra singoli, mentre potrebbe esserlo nell’ambito di una controversia con un datore di lavoro che rivesta lo status di pubblica autorità (37). Tuttavia, va ricordato che il giudice nazionale deve interpretare il suo diritto interno, per quanto possibile, in maniera conforme al diritto dell’Unione, per conseguire il risultato da esso perseguito, e, se tale interpretazione non è possibile, deve disapplicare la disposizione del suo diritto interno contraria al diritto dell’Unione, se le sue norme di procedura gli conferiscono questo potere (38).

111. Si deve anche aggiungere che, conformemente alla sentenza Kücükdeveci (39), poiché l’art. 10 della direttiva 92/85 si limita a concretizzare il principio fondamentale della parità di trattamento tra uomini e donne vietando il licenziamento di una lavoratrice gestante in ragione del suo stato di gravidanza, il giudice nazionale che non disponesse, in base al suo diritto processuale interno, di mezzi sufficienti per disapplicare la disposizione del suo diritto interno che giustificano tale licenziamento trarrebbe siffatto potere dal primato del principio fondamentale (40).

C –    Osservazioni aggiuntive

112. Poiché l’applicazione della direttiva 92/85 nella causa principale è subordinata alla verifica, da parte del giudice nazionale, dei criteri precisati dalla Corte nella sentenza che verrà pronunciata e poiché, conseguentemente, tale applicazione riveste in questa fase un carattere condizionato, potrebbe essere necessario, per essere eventualmente utile al giudice del rinvio, prendere posizione sui possibili effetti delle direttive 76/207 e 86/613 sulla soluzione della controversia (41).

113. Si deve rammentare che l’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 dispone che il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. L’art. 5, n. 1, di tale direttiva prevede che l’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso.

114. Come già rilevato, secondo costante giurisprudenza il licenziamento di una lavoratrice a motivo della sua gravidanza rappresenta una discriminazione diretta fondata sul sesso, contraria all’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207 (42).

115. Quand’anche il giudice del rinvio ritenesse che la ricorrente, pur possedendo lo status di lavoratore ai sensi della direttiva 92/85, non rientri nell’ambito di applicazione della stessa in quanto non ha informato la società resistente del proprio stato alle condizioni prescritte dal diritto nazionale, la sua situazione sarebbe comunque disciplinata dalla direttiva 76/207 e la revoca del suo contratto, ove fosse fondata sul suo stato di gravidanza, dovrebbe essere considerata illegittima ed essere sanzionata.

116. A tal riguardo, si deve ricordare che gli Stati membri, in virtù dell’art. 6 della direttiva 76/207 e conformemente alla giurisprudenza, devono introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici interni le misure necessarie per garantire alle vittime di discriminazioni ai sensi di detta direttiva una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace, nonché il risarcimento dei danni (43).

117. Qualora il giudice del rinvio ritenesse, invece, che la ricorrente esercitasse le sue attività in qualità di lavoratore autonomo, la situazione sarebbe disciplinata dalla direttiva 86/613, che, ai sensi del suo art. 2, si applica a chiunque eserciti, nelle condizioni previste dalla legislazione nazionale, un’attività lucrativa per proprio conto.

118. L’art. 4 della direttiva 86/613 rinvia espressamente al principio della parità di trattamento, così come definito dalla direttiva 76/207, il cui art. 3, lo ricordo, vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. Inoltre, la direttiva 76/207 impone agli Stati membri di prendere i provvedimenti necessari affinché tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento contenute nelle regole che disciplinano il lavoro autonomo siano o possano essere dichiarate nulle e prive di effetto. La determinazione della portata della tutela conferita dal diritto dell’Unione ad una lavoratrice autonoma richiede quindi l’interpretazione del combinato disposto delle direttive 76/207 e 86/613 (44).

119. I motivi per i quali la Corte e il legislatore dell’Unione hanno riconosciuto che il licenziamento di una lavoratrice dipendente a causa della sua gravidanza costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso, contro la quale è giustificato prevedere speciali misure di tutela, sono trasponibili alla revoca del mandato di una lavoratrice autonoma per la stessa causa.

120. Infatti, la revoca unilaterale di un mandato, da parte del mandante, prima della scadenza inizialmente prevista dalle parti e a causa dello stato di gravidanza del mandatario può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione fondata sul sesso. Inoltre, il rischio derivante da tale revoca per la situazione fisica e psichica di una lavoratrice gestante non sembra inferiore rispetto a quello determinato dall’interruzione di un rapporto di lavoro dipendente. Infatti, si tratta in entrambi i casi del rischio determinato dal timore di perdere i propri mezzi di sussistenza.

121. Infine, gli inconvenienti che possono derivare per il mandante dall’impedimento del mandatario connesso alla gravidanza e al parto non sembrano molto diversi da quelli invocati dai datori di lavoro per giustificare la risoluzione di un contratto di lavoro e che la Corte ha sistematicamente respinto in considerazione dell’importanza dei principi garantiti dalla direttiva 76/207.

122. Così, al punto 26 della sentenza Webb (45), la Corte ha dichiarato che se la disponibilità del lavoratore è necessariamente, per il datore di lavoro, un presupposto essenziale della buona esecuzione del contratto di lavoro, la tutela garantita dal diritto comunitario alla donna durante la gravidanza, e dopo il parto, non può dipendere dalla circostanza che la presenza dell’interessata, nel periodo corrispondente al proprio congedo di maternità, sia indispensabile al buon funzionamento dell’impresa in cui essa lavora. Secondo la Corte, un’interpretazione contraria priverebbe le disposizioni della direttiva 76/207 del loro effetto utile.

123. Essa ha precisato, nella citata sentenza Tele Danmark, che tale interpretazione è trasponibile ai casi in cui il contratto di lavoro sia stato concluso per una durata determinata (46).

124. Certamente, la direttiva 86/613 non contempla tutti i diritti garantiti dalla direttiva 92/85, quali il diritto all’organizzazione del lavoro, al congedo di maternità e al mantenimento dei diritti connessi con il contratto di lavoro per la durata della gravidanza e di tale congedo. Ciò non toglie che l’effetto utile del divieto di discriminazione fondata sul sesso sarebbe compromesso se un mandante potesse revocare unilateralmente un mandato prima della scadenza concordata per un motivo legato allo stato di gravidanza.

125. In caso di incapacità del mandatario dovuta al suo stato di gravidanza e per la durata di tale incapacità un contratto di mandato può, a mio avviso, essere sospeso ma non risolto.

126. Tale interpretazione sarebbe in linea con la volontà del legislatore dell’Unione di ravvicinare, per quanto possibile, la situazione delle donne che esercitano un’attività autonoma a quella delle donne che svolgono un’attività subordinata. Così, la direttiva 86/613, in una prima fase, ha invitato gli Stati membri ad esaminare se e a quali condizioni le lavoratrici che svolgono un’attività autonoma possano, nel corso di interruzioni di attività per gravidanza o per maternità, avere accesso a servizi di sostituzione che consentano loro di interrompere le attività professionali o ricevere prestazioni in denaro.

127. Il progetto di direttiva destinato a sostituire la direttiva 86/613 prevede, dal canto suo, che le donne che esercitano un’attività autonoma devono beneficiare di un congedo di maternità retribuito a condizioni che garantiscano loro una tutela equiparabile a quelle delle lavoratrici subordinate (47).

128. In base a tali considerazioni ritengo che l’interruzione, da parte della società resistente, del rapporto di lavoro con la ricorrente a causa del suo stato di gravidanza costituisca, in ogni caso, una discriminazione contraria al principio fondamentale della parità di trattamento attuato dalla direttiva 76/207 e, per quanto riguarda i lavoratori autonomi, da tale direttiva in combinato disposto con la direttiva 86/613.

D –    Sulla limitazione nel tempo degli effetti della sentenza da pronunciarsi

129. Il governo lettone chiede alla Corte, qualora dovesse dichiarare che l’art. 224, n. 4, del suo Codice del commercio è in contrasto con il diritto dell’Unione, di limitare l’efficacia di tale decisione nel tempo. Detto governo fonda tale domanda sul fatto che, in virtù della menzionata disposizione, talune società di capitali lettoni hanno revocato membri dei propri organi direttivi in quanto non avevano più fiducia in tali persone, senza tenere conto del loro stato di gravidanza.

130. Poiché ritengo che siffatte revoche, non essendo fondate sullo stato di gravidanza, non siano contrarie all’art. 10 della direttiva 92/85, questa domanda, se la Corte condivide la mia posizione, dovrebbe essere considerata priva di oggetto.

IV – Conclusione

131. Alla luce delle precedenti considerazioni, propongo alla Corte di risolvere come segue le questioni proposte dall’Augstākās Tiesas Senāts:

1)         «Una donna membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, che esercita funzioni di direzione della detta società in cambio di una retribuzione, può essere considerata una lavoratrice ai sensi della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e, pertanto, godere della tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 di tale direttiva qualora, in virtù della sua nomina, essa sia parte integrante della società stessa, eserciti le proprie funzioni sotto il controllo di organi da lei non controllati, quali l’assemblea dei soci e il comitato di vigilanza, e possa essere revocata da questi ultimi solo perché è venuta meno la loro fiducia nei suoi confronti.

2)         L’art. 10 della direttiva 92/85 osta ad una legislazione nazionale secondo cui un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali può essere revocato senza alcuna limitazione, nella parte in cui detta legislazione consente che tale revoca venga disposta per motivi connessi allo stato di gravidanza».


1 – Lingua originale: il francese.


2 – Direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (GU L 348, pag. 1).


3 – Sentenza 20 settembre 2007, causa C‑116/06, Kiiski (Racc. pag. I‑7643, punto 25).


4 – Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva 76/207»).


5 – Direttiva 11 dicembre 1986, relativa all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità (GU L 359, pag. 56).


6 –      Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24).


7 – Latvijas Vēstnesis, 2001, n. 105 (in prosieguo: il «Codice del lavoro»).


8 – Latvijas Vēstnesis, 2000, n. 158/160 (in prosieguo: il «Codice del commercio»).


9 – In prosieguo: la «società resistente».


10 – In prosieguo: la «ricorrente».


11 – V., in particolare, sentenza 4 ottobre 2001, causa C‑438/99, Jiménez Melgar (Racc. pag. I‑6915, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).


12 – Sentenza Kiiski, cit. (punto 25).


13 – Sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie‑Blum (Racc. pag. 2121, punti 20 e 21).


14 – V., in tal senso, sentenza 14 dicembre 1989, causa C‑3/87, Agegate (Racc. pag. 4459, punto 36).


15 – Sentenze citate Lawrie‑Blum (punto 17) e Kiiski (punto 25). V. anche sentenza 17 luglio 2008, causa C‑94/07, Raccanelli (Racc. pag. I‑5939, punto 36).


16 – Sentenza Kiiski, cit. (punto 26 e giurisprudenza ivi citata).


17 – Sentenza 13 gennaio 2004, causa C‑256/01, Allonby (Racc. pag. I‑873, punto 79).


18 – Sentenze Agegate, cit. (punto 36), e 4 febbraio 2010, causa C‑14/09, Genc (Racc. pag. I‑931, punti 26 e 27).


19 – Sentenza Genc, cit. (punto 19 e giurisprudenza ivi citata).


20 – Sentenza 12 maggio 1998, causa C‑85/96, Martínez Sala (Racc. pag. I‑2691, punto 31).


21 – Sentenza 27 giugno 1996, causa C‑107/94 (Racc. pag. I‑3089).


22 – Punto 26.


23 – Paragrafo 29.


24 – Sentenza 8 giugno 1999, causa C‑337/97, Meeusen (Racc. pag. I‑3289, punto 15).


25 – Sentenza 10 dicembre 1991, causa C‑179/90, Merci convenzionali porto di Genova (Racc. pag. I‑5889, punto 13).


26 – V., in tal senso, anche sentenza 7 maggio 1998, causa C‑350/96, Clean Car Autoservice (Racc. pag. I‑2521, punto 30).


27 – V., in particolare, sentenza 11 ottobre 2007, causa C‑460/06, Paquay (Racc. pag. I‑8511, punto 30 e giurisprudenza ivi citata).


28 – Ibidem (punto 33).


29 – Ibidem (punto 32).


30 – Sentenza Kiiski, cit. (punti 31 e 32).


31 – V., per quanto concerne l’organo direttivo della società europea, art. 39 del regolamento (CE) del Consiglio 8 ottobre 2001, n. 2157, relativo allo statuto della Società europea (SE) (GU L 294, pag. 1).


32 – Sentenza Paquay, cit. (punto 29 e giurisprudenza ivi citata).


33 – Direttiva del Consiglio del 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (GU 1998, L 14, pag. 6).


34 – Ciò potrebbe accadere se, ad esempio, un’amministratrice della società, cui i soci avevano periodicamente rinnovato la loro fiducia, venisse sollevata dall’incarico dopo avere annunciato il proprio stato di gravidanza.


35 – Sentenza Raccanelli, cit. (punto 37).


36 – Si deve ricordare che gli Stati membri, nel dare esecuzione al diritto dell’Unione, devono rispettare i principi fondamentali, fra i quali rientra il principio di non discriminazione (sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609, punto 19, e 3 maggio 2007, causa C‑303/05, Advocaten voor de Wereld, Racc. pag. I‑3633, punto 45 e giurisprudenza ivi citata).


37 – Nella citata sentenza Jiménez Melgar la Corte ha riconosciuto che l’art. 10 della direttiva 92/85 era direttamente applicabile (punto 34).


38 – Sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C‑397/01 a C‑403/01, Pfeiffer e a. (Racc. pag. I‑8835, punto 116).


39 – Sentenza 19 gennaio 2010, causa C‑555/07 (Racc. pag. I‑365).


40 – Punto 56.


41 – Le parti intervenute nella fase orale sono state invitate dalla Corte ad esprimersi sulla rilevanza di tali direttive nella presente causa.


42 – Sentenza 4 ottobre 2001, causa C‑109/00, Tele Danmark (Racc. pag. I‑6993, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).


43 – Sentenza Paquay, cit. (punti 43‑46).


44 – Sentenza 6 aprile 2000, causa C‑226/98, Jørgensen (Racc. pag. I‑2447, punto 26).


45 – Sentenza 14 luglio 1994, causa C‑32/93 (Racc. pag. I‑3567).


46 – Punto 30.


47 – V. proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, che abroga la direttiva 86/613/CEE [COM(2008) 636 def.].