ORDINANZA DELLA CORTE (Terza sezione)

8 novembre 2007 (*)

«Art. 104, n. 3, primo comma, del regolamento di procedura – Sentenza della Corte che dichiara l’invalidità di una disposizione comunitaria – Obblighi delle istituzioni – Polizia sanitaria – Mangimi composti – Indicazione, sull’etichetta, delle percentuali in peso delle materie prime presenti nel mangime, con un margine di tolleranza pari al ± 15% del valore dichiarato – Divieto di indurre in errore il consumatore»

Nel procedimento C‑421/06,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Consiglio di Stato, con ordinanza 29 agosto 2006, pervenuta in cancelleria il 16 ottobre 2006, nella causa tra

Fratelli Martini & C. SpA,

Cargill Srl

e

Ministero delle Politiche agricole e forestali,

Ministero delle Attività produttive,

Ministero della Salute,

Presidenza del Consiglio dei ministri,

LA CORTE (Terza Sezione),

composta dal sig. A. Rosas (relatore), presidente di sezione, dai sigg. U. Lõhmus, J. N. Cunha Rodrigues, A. Ó Caoimh e dalla sig.ra P. Lindh, giudici,

avvocato generale: sig. Y. Bot

cancelliere: sig. R. Grass

intendendo statuire con ordinanza motivata in conformità all’art. 104, n. 3, primo comma, del suo regolamento di procedura,

sentito l’avvocato generale,

ha emesso la seguente

Ordinanza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte essenzialmente sulle conseguenze che occorre trarre dalla sentenza 6 dicembre 2005, cause riunite C‑453/03, C‑11/04, C‑12/04 e C‑194/04, ABNA e a. (Racc. pag. I‑10423), con la quale la Corte ha risposto, in particolare, a talune questioni poste dal giudice del rinvio in una fase precedente della causa principale.

2        Tale domanda è stata proposta nel quadro dell’esame di un ricorso proposto dalla Fratelli Martini & C. SpA, nonché dalla Cargill Srl, produttrici di mangimi composti, mirante all’annullamento della normativa adottata al fine di recepire nell’ordinamento nazionale talune disposizioni controverse della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, 2002/2/CE, che modifica la direttiva 79/373/CEE del Consiglio relativa alla circolazione dei mangimi composti per animali e che abroga la direttiva 91/357/CEE della Commissione (GU L 63, pag. 23).

 Contesto normativo

3        L’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2 è così redatto:

«4)       L’articolo 5 quater [della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/373/CEE, relativa alla commercializzazione degli alimenti composti per gli animali (GU L 86, pag. 30)] è sostituito dal testo seguente:

         (...)

1.      Tutte le materie prime dei mangimi composti sono elencate con i loro nomi specifici.

2.      L’enumerazione delle materie prime dei mangimi è soggetta alle norme seguenti:

         a)      mangimi composti destinati ad animali diversi dagli animali familiari:

i)       enumerazione delle materie prime dei mangimi con indicazione, in ordine decrescente, delle percentuali rispetto al peso presenti nel mangime;

ii)      è consentita una tolleranza del +/- 15% del valore dichiarato delle suddette percentuali;

(…)».

4        Per la descrizione delle altre disposizioni della direttiva 2002/2 e delle circostanze della sua adozione, si fa rinvio alla citata sentenza ABNA e a.

5        L’art. 6, nn. 1‑3, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, n. 178, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (GU L 31, pag. 1), così dispone:

«1. Ai fini del conseguimento dell’obiettivo generale di un livello elevato di tutela della vita e della salute umana, la legislazione alimentare si basa sull’analisi del rischio, tranne quando ciò non sia confacente alle circostanze o alla natura del provvedimento.

2. La valutazione del rischio si basa sugli elementi scientifici a disposizione ed è svolta in modo indipendente, obiettivo e trasparente.

3. La gestione del rischio tiene conto dei risultati della valutazione del rischio, e in particolare dei pareri dell’Autorità di cui all’articolo 22, nonché di altri aspetti, se pertinenti, e del principio di precauzione laddove sussistano le condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, allo scopo di raggiungere gli obiettivi generali in materia di legislazione alimentare di cui all’articolo 5».

6        L’art. 8 di tale regolamento, intitolato «Tutela degli interessi dei consumatori», enuncia quanto segue:

«La legislazione alimentare si prefigge di tutelare gli interessi dei consumatori e di costituire una base per consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti che consumano. Essa mira a prevenire le seguenti pratiche:

a)      le pratiche fraudolente o ingannevoli;

b)       l’adulterazione degli alimenti;

c)       ogni altro tipo di pratica in grado di indurre in errore il consumatore».

7        L’art. 16 del detto regolamento prevede quanto segue:

«Fatte salve disposizioni più specifiche della legislazione alimentare, l’etichettatura, la pubblicità e la presentazione degli alimenti o mangimi, compresi la loro forma, il loro aspetto o confezionamento, i materiali di confezionamento usati, il modo in cui gli alimenti o mangimi sono disposti, il contesto in cui sono esposti e le informazioni rese disponibili su di essi attraverso qualsiasi mezzo, non devono trarre in inganno i consumatori».

8        L’art. 22 dello stesso regolamento prevede l’istituzione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (in prosieguo: l’«AESA») e descrive i suoi compiti.

9        Il regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 12 gennaio 2005, n. 183, che stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi (GU L 35, pag. 1), stabilisce, ai sensi del suo art. 1, norme generali in materia di igiene dei mangimi, di condizioni e disposizioni atte ad assicurare la rintracciabilità dei mangimi, nonché di condizioni e disposizioni per la registrazione e il riconoscimento di stabilimenti.

10      L’art. 5, n. 3, di tale regolamento prevede quanto segue:

«Gli operatori del settore dei mangimi:

a)       soddisfano criteri microbiologici specifici;

b)       prendono misure o adottano procedure necessarie per raggiungere obiettivi specifici.

I criteri e gli obiettivi di cui alle lettere a) e b) sono adottati secondo la procedura di cui all’articolo 31, paragrafo 2».

11      L’art. 31, n. 2, del detto regolamento istituisce una procedura di comitato.

12      L’art. 32 dello stesso regolamento prevede la consultazione dell’AESA. Esso è del seguente tenore:

«La Commissione consulta l’Autorità europea per la sicurezza alimentare su qualsiasi questione rientrante nell’ambito di applicazione del presente regolamento che possa avere un impatto significativo sulla salute pubblica, in particolare, prima di proporre criteri o obiettivi a norma dell’articolo 5, paragrafo 3».

 Controversia principale e questioni pregiudiziali

13      Le ricorrenti nella causa principale, specializzate nella produzione di mangimi composti, hanno interposto appello dinanzi al Consiglio di Stato avverso una decisione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Esse chiedono l’annullamento della normativa adottata al fine di recepire, nell’ordinamento italiano, talune disposizioni della direttiva 2002/2. A titolo cautelare, il Consiglio di Stato ha sospeso le disposizioni normative impugnate. Con ordinanza 11 novembre 2003, pervenuta alla Corte il 15 gennaio 2004, il giudice del rinvio ha proposto alla Corte diverse questioni pregiudiziali relative alla validità della direttiva 2002/2. Tale domanda di pronuncia pregiudiziale è stata iscritta a ruolo con il numero C‑11/04 ed è stata riunita ad altre domande, le cui questioni vertevano parimenti sulla validità della direttiva 2002/2.

14      Con la citata sentenza ABNA e a., la Corte ha dichiarato invalido, per violazione del principio di proporzionalità, l’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, che impone ai produttori di mangimi composti di fornire, su richiesta del cliente, la composizione esatta di un mangime.

15      Viceversa, la Corte ha giudicato che l’esame delle questioni proposte non aveva evidenziato nessun elemento in grado di inficiare la validità dell’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2, che impone ai produttori di mangimi composti di elencare sulla confezione le materie prime presenti nei mangimi composti destinati ad animali diversi dagli animali domestici, con indicazione delle percentuali in peso presenti nei detti mangimi, consentendo un margine di tolleranza pari al ± 15% del valore dichiarato per quanto concerne le dette percentuali, e ciò sia alla luce della base giuridica utilizzata per l’adozione della detta direttiva, sia del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione o del principio di proporzionalità.

16      Il Consiglio di Stato rileva che questo sistema di tolleranza sembra in contrasto con quello generalmente applicato nell’ambito del diritto alimentare nazionale, in cui le norme sulle tolleranze legittimamente ammesse si riferiscono a differenze minime (2-3%) tra le caratteristiche dichiarate e le caratteristiche effettive del prodotto venduto, dovute a ragioni accidentali. La tolleranza introdotta dalla direttiva 2002/2 sarebbe di tipo diverso, poiché riguarda differenze molto più elevate, dovute non a cause accidentali, bensì intenzionali, perché sarebbero espressamente volute dal produttore.

17      Utilizzando il margine di tolleranza del ± 15%, il produttore potrebbe dichiarare il falso nelle etichette e non sarebbe più tenuto a comunicare ai propri clienti la composizione esatta dei mangimi. Il giudice del rinvio ritiene che si potrebbe rivelare necessario, in seguito alla citata sentenza ABNA e a., modificare le altre disposizioni della direttiva 2002/2, stabilendo un margine di tolleranza più ridotto, prevedendo un obbligo generale di comunicare a un’autorità pubblica la composizione esatta dei mangimi o prevedendo l’indicazione, sulle etichette, del margine di tolleranza espresso come una percentuale del peso delle materie prime.

18      Il Consiglio di Stato sottolinea peraltro che, mentre le cause che hanno portato alla citata sentenza ABNA e a. erano pendenti dinanzi alla Corte, è stato adottato il regolamento n. 183/2005, che stabilisce nuove norme in materia di mangimi. Dal contesto del detto regolamento, interpretato in combinato disposto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, sembrerebbe discendere l’obbligo, per i produttori, di redigere l’etichetta dei mangimi in modo da non indurre in errore i consumatori. Tuttavia, il regolamento n. 183/2005 non ha espressamente abrogato la direttiva 2002/2.

19      Alla luce di ciò, il Consiglio di Stato ha deciso di confermare la sospensione delle disposizioni regolamentari di recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva 2002/2, di sospendere il giudizio e di proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se, in seguito alla sentenza [ABNA e a., cit.], che ha dichiarato parzialmente invalida la direttiva 2002/2, le Istituzioni europee che hanno adottato tale direttiva, alla luce dell’art. 233 (…) CE (con riferimento agli atti annullati) siano “tenute a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta”.

2)      In caso di risposta affermativa al quesito n. 1, se i provvedimenti che le Istituzioni europee sono tenute ad adottare per conformare la direttiva 2002/2 alla citata sentenza [ABNA e a.], debbano entrare in vigore prima nell’ordinamento comunitario, per poter consentire agli Stati membri di recepirli nel proprio ordinamento.

3)      Se i provvedimenti di cui al quesito n. 2 debbano essere adottati dalle Istituzioni comunitarie e recepit[i] dagli Stati membri nel rispetto del sopravvenuto regolamento n. 183/2005.

4)      Se il regolamento n. 183/2005, letto in collegamento con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, debba essere interpretato nel senso di imporre ai produttori di mangimi il divieto di applicare sui loro prodotti etichette che possano trarre in inganno i consumatori.

5)      Se debbano essere ritenute ingannevoli per i consumatori le etichette applicate sui mangimi, nelle quali le percentuali degli ingredienti in esse riportate possano essere indicate intenzionalmente dai produttori con scostamenti del 15%, in relazione ad ogni ingrediente contenuto nel prodotto».

 Sulle questioni pregiudiziali

20      Ai sensi dell’art. 104, n. 3, primo comma, del regolamento di procedura, qualora la soluzione di una questione pregiudiziale possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza, la Corte può statuire con ordinanza motivata.

21      Occorre risolvere anzitutto la quarta e la quinta delle questioni pregiudiziali.

 Sulla quarta e sulla quinta questione

22      Con le sue questioni quarta e quinta, il Consiglio di Stato chiede se il regolamento n. 183/2005, letto in combinato disposto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, debba essere interpretato nel senso che esso vieta ai produttori di mangimi di apporre sui loro prodotti etichette che possano indurre i consumatori in errore e se si debba ritenere ingannevole per il consumatore l’etichetta di mangimi quando le percentuali degli ingredienti elencati sull’etichetta possono essere indicati intenzionalmente dai produttori con scarti del 15%, per ogni ingrediente presente nella composizione del prodotto.

 Osservazioni sottoposte alla Corte

23      Le ricorrenti nella causa principale ritengono che l’obbligo di etichettatura previsto dalla direttiva 2002/2 sia contrario, nel contempo, agli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002 e al sistema di tolleranza generalmente applicato nell’ordinamento giuridico italiano, il quale richiede la buona fede del produttore. Pertanto, il rischio di violazione di norme penali non sarebbe escluso. Esse rilevano inoltre che, in seguito alla citata sentenza ABNA e a., con la quale è stato dichiarato invalido l’obbligo di comunicare la composizione esatta dei mangimi composti, l’obbligo relativo all’indicazione delle percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione dei detti mangimi sarebbe totalmente privo di motivazione e, di conseguenza, dovrebbe essere dichiarato parimenti invalido.

24      Il governo ellenico propone di rispondere dichiarando che il regolamento n. 183/2005, letto in combinato disposto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, deve essere interpretato nel senso che esso vieta ai produttori di mangimi di apporre sui loro prodotti un’etichetta potenzialmente idonea a trarre in inganno i consumatori. Occorrerebbe a tal riguardo prendere in considerazione la presunta aspettativa di un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto. In considerazione di questo criterio, l’obbligo di indicare le percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione dei mangimi con un margine dell’ordine del 15% non potrebbe essere considerato tale da indurre in errore il consumatore in merito alle caratteristiche dei mangimi di cui trattasi. Il detto governo ricorda che l’obbligo di etichettatura istituito dalla direttiva 2002/2 ha lo scopo di permettere di garantire la rintracciabilità delle materie prime potenzialmente contaminate senza con ciò obbligare i produttori ad indicare la composizione esatta dei mangimi di cui trattasi, cosa che lederebbe gravemente il loro diritto di proprietà intellettuale e non attribuirebbe nessun beneficio concreto al consumatore.

25      La Commissione delle Comunità europee precisa che è l’art. 16 del regolamento n. 178/2002 che vieta di apporre su prodotti alimentari etichette che possano indurre i consumatori in errore e che il regolamento n. 183/2005 a tal riguardo è irrilevante. Essa sottolinea che il margine di tolleranza del ± 15% nell’indicazione delle percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione dei mangimi non ha come unico scopo la protezione della posizione dei produttori nei confronti della concorrenza, consentendo loro di non rivelare ai loro concorrenti la «formula» utilizzata nella produzione dei mangimi, ma risponde ad esigenze di natura tecnica e scientifica e mira ad evitare che i produttori siano costretti a modificare costantemente l’etichetta dei loro prodotti. Del resto, margini di tolleranza di questa portata sarebbero previsti parimenti nell’allegato alla direttiva 79/373, parte A, punti 5 e 6. Dato che gli acquirenti di questi prodotti sono professionisti del settore, essi conoscerebbero la direttiva 79/373 e non potrebbero essere indotti in errore a causa del margine di tolleranza previsto.

26      Il Consiglio dell’Unione europea illustra preliminarmente che, contrariamente alla sua prassi di non presentare osservazioni nelle cause pregiudiziali di carattere interpretativo, esso ritiene necessario intervenire nel presente procedimento, dal momento che il tenore della decisione di rinvio fa temere che sia messa in discussione la validità della direttiva 2002/2, di cui esso è coautore.

27      Esso fa osservare che sia la direttiva 2002/2, sia il regolamento n. 183/2005, letto in combinato disposto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, occupano la medesima posizione nella gerarchia delle norme e che non è opportuno esaminare la validità della direttiva 2002/2 alla luce di questi regolamenti. Esso ricorda peraltro che, stabilendo il margine di tolleranza nell’indicazione delle percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione dei mangimi come pari al ± 15%, il legislatore comunitario ha esercitato l’ampio potere discrezionale di cui dispone in questa materia. L’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2 stabilisce un equilibrio tra le esigenze di protezione della sanità pubblica e gli interessi commerciali dei produttori. Sarebbe proprio la circostanza che l’etichetta non indica la formula esatta della composizione dei detti mangimi che avrebbe indotto la Corte a giudicare che questa disposizione non viola il principio di proporzionalità. Il detto margine di tolleranza sarebbe conosciuto dai clienti e, pertanto, non potrebbe indurli in errore.

 Risposta della Corte

28      Come rileva il Consiglio, le questioni proposte rimettono indirettamente in discussione la validità della direttiva 2002/2 e, in particolare, dell’art. 1, punto 4, della medesima, il quale impone ai produttori di mangimi di elencare sulla confezione le materie prime presenti nella composizione dei mangimi composti destinati ad animali diversi dagli animali domestici, con indicazione delle percentuali in peso presenti nei detti mangimi, consentendo un margine di tolleranza pari al ± 15 % del valore dichiarato per quanto concerne tali percentuali. Le ricorrenti nella causa principale sostengono del resto che, in considerazione della citata sentenza ABNA e a., questa disposizione deve essere dichiarata invalida.

29      Nella citata sentenza ABNA e a., la Corte ha dichiarato che l’esame delle questioni ad essa sottoposte non aveva evidenziato alcun elemento atto ad inficiare la validità dell’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2 in relazione al fondamento normativo in base al quale tale direttiva era stata adottata, al principio della parità di trattamento e al divieto di discriminazione, nonché al principio di proporzionalità.

30      Per quanto concerne il principio di proporzionalità, la Corte ha anzitutto ricordato (punto 69 della motivazione) l’ampio potere discrezionale che occorre riconoscere al legislatore comunitario in un settore come quello del caso di specie, che richiede da parte sua scelte di natura politica, economica e sociale, e nel quale esso è chiamato ad effettuare valutazioni complesse.

31      Nel punto 76 della detta sentenza, la Corte ha giudicato che l’obbligo di indicare le percentuali degli ingredienti di un alimento costituisce una misura idonea a contribuire all’obiettivo di protezione della salute animale ed umana.

32      Interrogata sulla validità, nel contempo, dell’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2 e dell’art. 1, punto 4, della stessa direttiva, la Corte, nella medesima sentenza, ha dichiarato che solo la prima di tali disposizioni, che impone ai produttori di mangimi composti di fornire, dietro richiesta del cliente, la composizione esatta di un alimento, è invalida in relazione al principio di proporzionalità, in quanto lede gravemente gli interessi economici dei produttori, senza poter essere giustificata dall’obiettivo di protezione della salute perseguito, ed eccede manifestamente la misura necessaria per conseguire quest’obiettivo.

33      Viceversa, quanto all’obbligo di cui all’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2, la Corte ha illustrato, nel punto 83 della citata sentenza ABNA e a., che, come risulta dalle spiegazioni fornite e dagli esempi presentati alla Corte, l’indicazione, sull’etichetta, delle percentuali all’interno di forchette di valori dovrebbe normalmente consentire l’identificazione di un alimento che si sospetta contaminato, al fine di valutare la sua pericolosità in funzione del peso indicato e di disporre eventualmente il suo ritiro provvisorio in attesa dei risultati delle analisi di laboratorio o per consentire la rintracciabilità del prodotto da parte delle autorità pubbliche interessate. È proprio in ragione dell’esistenza di quest’obbligo che la Corte ha giudicato, nel detto punto 83, che l’obbligo previsto dall’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, eccedeva manifestamente la misura necessaria per conseguire l’obiettivo di protezione della salute perseguito.

34      Pertanto, da questa sentenza risulta che la Corte ha giudicato che il legislatore comunitario non aveva violato il principio di proporzionalità imponendo, con l’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2, per motivi di sanità pubblica, l’obbligo di indicare, sull’etichetta dei mangimi composti, le percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione del mangime con un margine di tolleranza del ±15% del valore dichiarato per quanto riguarda le dette percentuali.

35      È proprio l’esistenza di questo margine di tolleranza che ha indotto la Corte a valutare, nella citata sentenza ABNA e a., che il detto obbligo imposto dal legislatore comunitario non viola il principio di proporzionalità. Infatti, se i produttori fossero stati obbligati ad indicare, sull’etichetta, la composizione esatta del mangime, quest’obbligo avrebbe arrecato ai loro interessi economici la medesima lesione grave e ingiustificata, alla luce dell’obiettivo di tutela della sanità pubblica, dell’obbligo di fornire, su richiesta del cliente, la composizione esatta del mangime, di cui all’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, obbligo dichiarato invalido dalla Corte.

36      Poiché gli obblighi previsti dall’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, da un lato, e dall’art. 1, punto 4, della medesima direttiva, dall’altro, sono distinti e possono essere osservati indipendentemente l’uno dall’altro, nessun motivo di coerenza imponeva di dichiarare invalido il detto art. 1, punto 4, in conseguenza dell’invalidità del citato art. 1, punto 1, lett. b).

37      Quanto all’asserita incoerenza tra l’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2 ed il regolamento n. 183/2005, letto in combinato disposto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, occorre rilevare preliminarmente che il regolamento n. 183/2005 non contiene nessuna disposizione relativa all’etichettatura dei mangimi.

38      Gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002 hanno come scopo la tutela del consumatore. Il detto art. 8 è una disposizione di carattere generale la quale mira a prevenire qualsiasi comportamento che possa indurre in errore il consumatore, mentre il detto art. 16, riguardante specificamente i prodotti offerti in vendita, prevede, in particolare, che l’etichetta e la presentazione dei mangimi non debbono indurre in errore il consumatore.

39      È importante rilevare che il regolamento n. 178/2002, adottato lo stesso giorno della direttiva 2002/2, non è una norma di rango superiore a quest’ultima.

40      Inoltre, l’art. 16 del detto regolamento pone il principio appena illustrato «fatte salve disposizioni più specifiche della legislazione alimentare». Quest’articolo deve essere letto pertanto tenendo in considerazione l’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2, la cui validità è stata confermata dalla Corte. Di conseguenza, il margine di tolleranza previsto dal detto art. 1, punto 4, deve essere considerato tale da non indurre in errore il consumatore ai sensi del citato art. 16.

41      Ad ogni modo, poiché è una direttiva comunitaria a prevedere l’esistenza del margine di tolleranza del ± 15% del valore dichiarato sull’etichetta per quanto riguarda le percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione di un mangime composto, non risulta possibile ritenere che il produttore o il venditore di un mangime etichettato in tal modo intendano indurre in errore un acquirente potenziale quanto alla composizione del detto mangime. Infatti, questi operatori economici si limiterebbero a far uso del margine di tolleranza loro concesso dal legislatore comunitario.

42      Dal canto loro, si suppone che gli acquirenti conoscano la legge nazionale di recepimento della direttiva 2002/2, che deve prevedere la possibilità del margine di tolleranza nell’indicazione delle dette percentuali, e possono, in caso di dubbio, consultare la stessa direttiva, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Peraltro, occorre ricordare che l’obbligo di etichettatura censurato concerne i «mangimi composti destinati ad animali diversi dagli animali familiari». Gli acquirenti sono pertanto professionisti del settore, consapevoli della normativa applicabile.

43      Per quanto riguarda l’asserita contraddizione tra le disposizioni della direttiva 2002/2 e talune norme dell’ordinamento nazionale, che autorizzano scostamenti solo fortuiti relativamente alle indicazioni sull’etichetta, occorre ricordare che risulta da una giurisprudenza costante che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito di propria competenza, le norme di diritto comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (v., in particolare, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punto 24, e 18 luglio 2007, causa C‑119/05, Lucchini, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 61).

44      Una direttiva non può certamente creare di per sé obblighi a carico di un soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze 5 ottobre 2004, cause riunite da C‑397/01 a C‑403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I‑8835, punto 108, nonché 3 maggio 2005, cause riunite C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I‑3565, punto 73). Nel caso di specie, tuttavia, dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che la direttiva 2002/2 impone obblighi meno vincolanti di quelli previsti dall’ordinamento nazionale.

45      Dall’insieme delle considerazioni sin qui svolte risulta che l’art. 1, punto 4, della direttiva 2002/2, il quale prevede l’obbligo di indicare, sull’etichetta dei mangimi composti, le percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione del mangime, con un margine di tolleranza pari al ± 15% del valore dichiarato per quanto concerne le dette percentuali, deve essere interpretato nel senso che esso non è in contrasto con gli artt. 8 e 16 del regolamento n. 178/2002, i quali hanno lo scopo, in particolare, di prevenire il rischio che l’etichetta e la presentazione dei mangimi inducano in errore il consumatore.

 Sulla prima, sulla seconda e sulla terza questione

46      Con la sua prima questione, il Consiglio di Stato chiede lumi alla Corte sugli obblighi delle istituzioni alla luce dell’art. 233 CE in conseguenza della citata sentenza ABNA e a..

 Osservazioni sottoposte alla Corte

47      Poiché le questioni sono state poste dal giudice del rinvio al fine di permettere a quest’ultimo di rispondere agli argomenti delle ricorrenti nella causa principale, occorre richiamare gli argomenti dedotti dalle dette ricorrenti dinanzi alla Corte.

48      Le ricorrenti nella causa principale ritengono, in primo luogo, che le istituzioni comunitarie siano obbligate, in forza dell’art. 233 CE, ad adottare i provvedimenti resisi necessari ai fini dell’esecuzione di una sentenza di invalidità pronunciata dalla Corte, anche quando tale invalidità sia stata dichiarata nell’ambito di un procedimento pregiudiziale.

49      Esse sostengono, in secondo luogo, che la dichiarazione d’invalidità dell’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2 è stata fonte di incoerenze e che spetta al legislatore comunitario intervenire in modo sostanziale. Di conseguenza, i provvedimenti divenuti necessari a causa di tale dichiarazione d’invalidità dovrebbero essere adottati anzitutto dal legislatore comunitario, affinché gli Stati membri possano disporre delle indicazioni utili per adottare successivamente i provvedimenti nazionali di attuazione.

50      A loro parere, un atto dichiarato invalido mediante una sentenza della Corte può essere modificato solo da un atto della medesima natura e della medesima portata dell’atto dichiarato invalido, ossia, nel caso di specie, da una direttiva.

51      Le ricorrenti nella causa principale asseriscono infine che, dopo la pronuncia della citata sentenza ABNA e a., è entrato in vigore il regolamento n. 178/2002 ed è stato adottato il regolamento n. 183/2005. Conformemente alle disposizioni di quest’ultimo, la valutazione dei rischi per la sanità pubblica che occorrerebbe effettuare in sede di modifica della direttiva 2002/2 spetterebbe adesso all’AESA. Di conseguenza, esse propongono di rispondere alla terza questione pregiudiziale dichiarando che il procedimento normativo d’adozione della regolamentazione destinata a modificare la direttiva 2002/2 deve tener conto delle disposizioni presenti sia negli artt. 6, 29 e 32, n. 2, del regolamento n. 178/2002, sia nell’art. 32 del regolamento n. 183/2005, dato che questa regolamentazione dovrà essere adottata solo dopo che l’AESA si sia pronunciata sui rischi, per la sanità pubblica, che possano derivare dalla mancanza di indicazioni sull’etichetta dei mangimi, relative all’esatta percentuale in peso degli ingredienti presenti nella loro composizione.

 Risposta della Corte

52      Secondo costante giurisprudenza, quando la Corte accerta, nell’ambito di un procedimento ai sensi dell’art. 234 CE, l’invalidità di un atto emanato dalle autorità comunitarie, la sua decisione produce la conseguenza giuridica di imporre alle istituzioni competenti della Comunità europea l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari per porre rimedio all’illegittimità accertata (v., in particolare, sentenze 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 e 16/77, Ruckdeschel e Ströh, Racc. pag. 1753, punto 13, e 29 giugno 1988, causa 300/86, Van Landschoot, Racc. pag. 3443, punto 22). In tal caso, spetta alle dette istituzioni adottare i provvedimenti necessari all’esecuzione della sentenza pregiudiziale al pari di quanto sono tenute a fare, ai sensi dell’art. 233 CE, nel caso di una sentenza che annulli un atto o dichiari illegittima l’inerzia di un’istituzione comunitaria. Dalla menzionata giurisprudenza emerge infatti che, quando una sentenza pregiudiziale accerti l’illegittimità di un atto comunitario, l’obbligo sancito dall’art. 233 CE si applica per analogia.

53      Quanto alle autorità nazionali, per giurisprudenza parimenti consolidata spetta in primo luogo a queste trarre le conseguenze, nel loro ordinamento giuridico, di una declaratoria di illegittimità intervenuta nel contesto dell’art. 234 CE (sentenze 30 ottobre 1975, causa 23/75, Rey Soda, Racc. pag. 1279, punto 51, e 2 marzo 1989, causa 359/87, Pinna, Racc. pag. 585, punto 13).

54      Una dichiarazione d’invalidità di tal genere va parimenti rispettata da tutti i giudici nazionali. Infatti, benché sia indirizzata direttamente al solo giudice che ha adito la Corte, la sentenza con cui quest’ultima accerta, a norma dell’art. 234 CE, l’invalidità di un atto di un’istituzione costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare invalido tale atto agli effetti di una pronunzia che egli debba emettere (sentenza 13 maggio 1981, causa 66/80, International Chemical Corporation, Racc. pag. 1191, punto 13).

55      Solo un esame concreto della disposizione dichiarata invalida e della normativa comunitaria di cui essa fa parte permette di determinare quali siano i provvedimenti necessari che devono essere adottati per porre rimedio all’illegittimità. In taluni casi, la dichiarazione d’invalidità concerne una disposizione autonoma e non ha ripercussioni su altri elementi della normativa comunitaria mentre, in altri, questa dichiarazione d’invalidità provoca una lacuna del diritto o un’incoerenza, che richiedono un intervento del legislatore al fine di modificare la sostanza del testo.

56      Peraltro, occorre ricordare che il principio della certezza del diritto, che costituisce un principio generale dell’ordinamento comunitario, impone che la normativa comunitaria sia chiara e precisa e che la sua applicazione sia prevedibile per gli interessati (v., in tal senso, sentenze 16 giugno 1993, causa C‑325/91, Francia/Commissione, Racc. pag. I‑3283, punto 26, e 23 settembre 2003, causa C‑78/01, BGL, Racc. pag. I‑9543, punto 71). Conformemente a tale principio, può risultare opportuno che, in seguito ad una sentenza della Corte che dichiari invalide talune disposizioni della normativa comunitaria, il legislatore comunitario apporti le modifiche formali che consentano di chiarire quest’ultima e, a tal fine, adotti un testo che rettifichi la detta normativa e abroghi le disposizioni dichiarate invalide, nonché i rinvii alle medesime.

57      Occorre precisare, tuttavia, che un siffatto testo di rettifica si limita a dare formalmente esecuzione, nella normativa comunitaria, al contenuto della sentenza della Corte. La dichiarazione d’invalidità deriva infatti da questa sentenza e non dal testo di rettifica, con tutte le conseguenze che ciò comporta, in particolare per quanto concerne gli effetti nel tempo della dichiarazione d’invalidità.

58      Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato, mediante la citata sentenza ABNA e a., l’invalidità dell’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, il quale imponeva ai produttori di mangimi composti di fornire, su richiesta del cliente, la composizione esatta di un mangime. Poiché quest’obbligo era autonomo, la dichiarazione d’invalidità di questa disposizione non richiedeva nessuna modifica sostanziale della detta direttiva da parte delle istituzioni comunitarie.

59      Con la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio 23 maggio 2007, n. 623/2007/CE, recante modifica della direttiva 2002/2 (GU L 154, pag. 23), il legislatore comunitario ha tratto tuttavia le conseguenze dalla citata sentenza ABNA e a. ed ha eliminato dal testo della direttiva 2002/2 la disposizione dichiarata invalida ed i rinvii alla medesima. Così facendo, esso ha reso chiara, a buon diritto, la normativa applicabile, al fine di garantire la certezza del diritto per gli operatori economici.

60      A tale riguardo, poco importa che il legislatore comunitario abbia optato per la modifica della direttiva 2002/2 mediante una decisione. Infatti, l’art. 233 CE non precisa in che forma debbano essere adottati i provvedimenti divenuti necessari o giustificati da una sentenza della Corte che dichiari invalida una disposizione di diritto comunitario. Ad ogni modo, come precisato nel punto 58 della presente ordinanza, la dichiarazione d’invalidità deriva dalla citata sentenza ABNA e a. e non dal testo di modifica.

61      Peraltro, il legislatore comunitario non era obbligato a procedere a una nuova valutazione dei rischi per la sanità pubblica potenzialmente derivanti dalla mancanza di indicazioni, sull’etichetta dei mangimi, dell’esatta percentuale in peso delle materie prime presenti nella loro composizione prima di abrogare l’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2, dichiarato invalido dalla Corte, nonché i rinvii a tale disposizione. Come precisato nel punto 59 della presente ordinanza, tale abrogazione ubbidisce al solo intento di rafforzare la certezza del diritto per gli operatori economici e si limita a prendere atto della citata sentenza ABNA e a. e dell’invalidità accertata tramite tale sentenza.

62      Ipotesi del tutto diversa sarebbe quella di un intento del legislatore comunitario di procedere a una modifica per il futuro della normativa di cui fa parte la disposizione dichiarata invalida dalla Corte. Una siffatta modifica, che sembra auspicata dalle ricorrenti nella causa principale, sarebbe priva di nessi con la dichiarazione di invalidità e dovrebbe essere adottata dal legislatore competente nel rispetto delle procedure vigenti all’epoca della sua adozione.

63      Alla luce di tutto quanto sin qui esposto, occorre rispondere alla prima questione pregiudiziale dichiarando che, dal momento che l’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2 prevedeva un obbligo autonomo privo di nessi con gli obblighi previsti dalle altre disposizioni della medesima direttiva, la dichiarazione d’invalidità della detta disposizione, pronunciata dalla Corte mediante la citata sentenza ABNA e a., non ha provocato nessuna lacuna del diritto né un’incoerenza che impongano alle istituzioni comunitarie di adottare modifiche di sostanza della direttiva 2002/2.

In ogni caso, l’invalidità di una disposizione comunitaria deriva direttamente dalla sentenza della Corte che la accerta e spetta tanto alle autorità quanto ai giudici degli Stati membri trarne le conseguenze nel loro ordinamento giuridico nazionale.

64      Alla luce della soluzione data alla prima questione, non occorre rispondere alle questioni seconda e terza.

 Sulle spese

65      Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

1)      L’art. 1, punto 4, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, 2002/2/CE, che modifica la direttiva 79/373/CEE del Consiglio relativa alla circolazione dei mangimi composti per animali e che abroga la direttiva 91/357/CEE della Commissione, il quale prevede l’obbligo di indicare, sull’etichetta dei mangimi composti, le percentuali in peso delle materie prime presenti nella composizione del mangime, con un margine di tolleranza pari al ± 15% del valore dichiarato per quanto concerne le dette percentuali, deve essere interpretato nel senso che esso non è in contrasto con gli artt. 8 e 16 del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, n. 178, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare, i quali hanno lo scopo, in particolare, di prevenire il rischio che l’etichetta e la presentazione dei mangimi inducano in errore il consumatore.

2)      Dal momento che l’art. 1, punto 1, lett. b), della direttiva 2002/2 prevedeva un obbligo autonomo privo di nessi con gli obblighi previsti dalle altre disposizioni della medesima direttiva, la dichiarazione d’invalidità della detta disposizione, pronunciata dalla Corte mediante sentenza 6 dicembre 2005, cause riunite C‑453/03, C‑11/04, C‑12/04 e C‑194/04, ABNA e a., non ha provocato nessuna lacuna del diritto né un’incoerenza che impongano alle istituzioni comunitarie di adottare modifiche di sostanza della direttiva 2002/2.

In ogni caso, l’invalidità di una disposizione comunitaria deriva direttamente dalla sentenza della Corte che la accerta e spetta tanto alle autorità quanto ai giudici degli Stati membri trarne le conseguenze nel loro ordinamento giuridico nazionale.

Firme


* Lingua processuale: l’italiano.