CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ELEANOR SHARPSTON

presentate il 18 gennaio 2007 1(1)

Causa C-17/06

Céline Sàrl

contro

Céline SA

«Diritto al marchio – Segno identico a un marchio denominativo – Adozione e uso come denominazione sociale e commerciale»





1.     Conformemente all’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva sui marchi d’impresa (2), il titolare di un marchio registrato può vietare di usare nel commercio, senza il proprio consenso, un segno identico al suo marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato.

2.     La Cour d’appel (Corte d’appello) di Nancy, Francia, chiede se tale diritto possa essere esercitato da un operatore economico che abbia registrato un nome come marchio denominativo per determinati prodotti, nei confronti di un altro operatore che, senza il consenso del titolare, abbia adottato lo stesso nome come denominazione sociale e insegna nell’ambito di un’attività di commercializzazione di prodotti dello stesso tipo.

3.     A seconda della risposta a tale quesito, possono sorgere una o due questioni ulteriori, anche se non sono state espressamente sollevate dal giudice del rinvio.

4.     La prima questione, qualora la situazione non rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, è se una legge nazionale che autorizzi il titolare del marchio a vietare tale uso possa ricadere nel campo di applicazione dell’art. 5, n. 5, della direttiva, che consente agli Stati membri di concedere tutela contro l’uso di un segno fatto a fini diversi da quello di contraddistinguere prodotti o i servizi, quando l’uso di tale segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi. Ci si chiede se, in caso contrario, tale legge nazionale possa essere fondata su altre disposizioni della direttiva.

5.     La seconda questione è se incida sulla soluzione il fatto che, conformemente all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva, il titolare di un marchio non può vietare ai terzi di usare il loro nome e indirizzo, se tale uso è conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale o commerciale.

 Normativa comunitaria

6.     L’art. 5 della direttiva, intitolato «Diritti conferiti dal marchio di impresa», così recita:

«Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. II titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a)      un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

b)      un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa.

2.     Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello Stato membro e se l’uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi.

3.     Si può in particolare vietare, se le condizioni menzionate al paragrafo 1 e 2 sono soddisfatte:

a)      di apporre il segno sui prodotti o sul loro condizionamento;

b)      di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire servizi contraddistinti dal segno;

c)      di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno;

d)      di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità.

4.     Se, anteriormente alla data di entrata in vigore delle disposizioni necessarie per conformarsi alla presente direttiva, la normativa di detto Stato membro non permette di vietare l’uso di un segno secondo le condizioni di cui al paragrafo 1, lettera b) ed al paragrafo 2, il diritto conferito dal marchio di impresa non è opponibile all’ulteriore uso del segno.

5.     I paragrafi da 1 a 4 non pregiudicano le disposizioni applicabili in uno Stato membro per la tutela contro l’uso di un segno fatto a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti o servizi, quando l’uso di tale segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi».

7.     L’art. 6 è intitolato «Limitazione degli effetti del marchio di impresa». Il n. 1 di tale articolo così dispone:

«Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio,

a)      del loro nome e indirizzo;

b)      di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio;

c)      del marchio di impresa se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio;

purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale».

 Normativa nazionale

8.     L’art. L.713-2, lett. a), del Codice della proprietà intellettuale francese vieta la «riproduzione, l’uso o l’apposizione di un marchio, anche con l’aggiunta di parole quali “formula, stile, sistema, imitazione, genere o metodo” nonché l’uso di un marchio riprodotto per prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio è stato registrato», senza l’autorizzazione del titolare del marchio.

9.     Il successivo art. L.713-3 così dispone:

«Salvo autorizzazione da parte del titolare, sono vietati, se ciò può produrre un rischio di confusione nel pubblico:

a)      la riproduzione, l’uso o l’apposizione di un marchio, nonché l’uso di un marchio riprodotto, per prodotti o servizi simili a quelli per cui il marchio è stato registrato;

b)      l’imitazione di un marchio o l’uso di un marchio imitato, per prodotti o servizi identici o simili a quelli per cui il marchio è stato registrato».

10.   Ai sensi dell’art. L.713-6, lett. a), la registrazione di un marchio non impedisce l’uso dello stesso segno o di un segno simile come «denominazione sociale, denominazione commerciale o insegna, qualora tale uso sia anteriore rispetto alla registrazione o sia fatto da un’altra persona che utilizzi il proprio cognome in buona fede». Tuttavia, «qualora tale uso leda i suoi diritti, il titolare della registrazione può chiedere che esso sia limitato o vietato».

11.   Conformemente all’art. L.716-1, la violazione dei divieti sanciti, inter alia, dagli artt. L.713‑2 e L.713‑3 costituisce un atto lesivo dei diritti del titolare su un marchio, di cui il responsabile risponde ai sensi del diritto civile.

 Fatti, procedimento e questione sottoposta alla Corte

12.   Il procedimento principale riguarda due imprese francesi, la Céline SA e la Céline Sàrl. I fatti, secondo l’ordinanza di rinvio, possono essere così riassunti.

13.   La Céline SA veniva costituita e iscritta nel registro delle imprese di Parigi nel 1928 (3) e ha come attività principale la creazione e la commercializzazione di articoli di abbigliamento e accessori di moda. Nel 1948, essa depositava il marchio denominativo francese «Céline», in particolare, per abiti e calzature. Da allora, tale marchio d’impresa veniva costantemente rinnovato.

14.   La Céline Sàrl veniva costituita e iscritta nel registro delle imprese di Nancy nel 1992 e la sua attività consiste nella vendita di abbigliamento e accessori di moda, sotto la denominazione «Céline», in locali siti a Nancy. L’impresa operava negli stessi locali e con la stessa denominazione fin dal 1950, anno in cui veniva immatricolata per la prima volta nel locale registro di commercio e delle società (4).

15.   Nel 2003, la Céline SA veniva informata dell’esistenza della Céline Sàrl e dell’analogia tra le rispettive attività (5). Essa citava in giudizio la Céline Sàrl per contraffazione di marchio e concorrenza sleale per usurpazione della sua ragione sociale e del suo nome commerciale. La Céline SA fonda la propria azione unicamente sull’uso della denominazione «Céline» per designare l’impresa Céline Sàrl e la relativa attività commerciale, senza affermare che il marchio sia stato apposto sui prodotti.

16.   La domanda veniva accolta in primo grado. La Céline Sàrl veniva condannata a modificare la sua ragione sociale e la sua insegna e a risarcire alla Céline SA i danni derivanti dalla contraffazione del marchio e dalla concorrenza sleale.

17.   La Céline Sàrl proponeva appello dinanzi al giudice del rinvio, il quale osserva che la Corte, nella sentenza Robelco (6), ha precisato che, qualora il segno non sia utilizzato al fine di contraddistinguere prodotti o servizi, occorre fare riferimento agli ordinamenti giuridici degli Stati membri per determinare la portata e il contenuto della tutela concessa ai titolari di marchi d’impresa che sostengano di aver subito un danno derivante dall’uso di tale segno come nome commerciale o denominazione sociale. In quella causa era sorta la questione se la tutela che gli Stati membri possono concedere in forza dell’art. 5, n. 5, della direttiva riguardi solo l’uso di un segno identico al marchio, o anche l’uso di un segno simile. Nelle circostanze del caso di specie permangono quindi dubbi circa l’applicabilità dell’art. 5, n. 1, lett. a). Secondo la giurisprudenza francese, la contraffazione risulta dalla riproduzione degli elementi caratteristici di un marchio, indipendentemente dall’uso che ne venga fatto.

18.   La Cour d’appel ha quindi sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se l’art. 5, n. 1, della direttiva (CEE) n. 89/104 debba essere interpretato nel senso che l’adozione, da parte di un terzo che non vi sia stato autorizzato, di un marchio nominativo registrato, a titolo di denominazione sociale, nome commerciale o insegna nell’ambito di un’attività di commercializzazione di prodotti identici costituisca un atto d’uso commerciale di tale marchio che il titolare possa far cessare in forza del suo diritto esclusivo».

19.   Hanno presentato osservazioni scritte e orali alla Corte la Céline SA, i governi francese, italiano e del Regno Unito e la Commissione.

 Analisi

 Osservazioni preliminari

20.   La questione sollevata si estrinseca, in sostanza, nel chiedersi se l’adozione di una denominazione sociale o commerciale (7) costituisca un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva. Tale formulazione offre lo spunto per due osservazioni.

21.   In primo luogo, può essere necessario distinguere, per gli stessi fini, tra l’adozione formale di tale denominazione e le modalità con cui essa venga utilizzata successivamente alla sua adozione.

22.   In secondo luogo, la fattispecie oggetto del procedimento principale può ricadere unicamente nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a), e non in quello dell’art. 5, n. 1, lett. b), dato che nell’ordinanza di rinvio si afferma esplicitamente che il segno e il marchio, e i prodotti considerati, sono identici, e non semplicemente simili. Di conseguenza, la fattispecie in esame non solleva la questione del rischio di confusione tra il segno e il marchio, che, in ogni caso, è diversa dalla questione se il rapporto tra il segno e i prodotti sia tale da costituire un uso ai sensi delle due disposizioni.

 L’art. 5, n. 1, lett. a)

23.   Dalla lettera dell’art. 5 della direttiva emerge una sottile variazione – accentuata dalle differenze tra le versioni linguistiche – che tuttavia non deve distogliere l’attenzione dalla distinzione piuttosto netta ivi formulata tra due tipi di uso di un segno.

24.   Da un lato, ai nn. 1 e 2 (nonché ai nn. 3 e 4, che vi fanno riferimento) si menziona l’uso per prodotti o servizi. Dall’altro, al n. 5, si fa riferimento ad un uso fatto a fini diversi da quello di contraddistinguere prodotti o servizi.

25.   Da tale differenza emerge, come confermato dalla giurisprudenza (8), che l’uso ai sensi dei nn. 1-4 è inteso a contraddistinguere prodotti o servizi.

26.   La Corte ha ulteriormente precisato tale nozione nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. a), dichiarando, in sostanza, che il diritto esclusivo conferito da tale disposizione ha lo scopo di consentire al titolare del marchio di tutelare i propri interessi specifici quale titolare del marchio, ossia garantire che quest’ultimo possa adempiere le sue proprie funzioni, e in particolare la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti. L’esercizio di tale diritto deve pertanto essere riservato ai casi in cui l’uso del segno pregiudichi o possa pregiudicare le suddette funzioni. Il titolare non potrebbe vietare tale uso se esso non potesse pregiudicare i suoi interessi specifici in quanto titolare del marchio d’impresa, considerate le funzioni di quest’ultimo. La natura esclusiva del suo diritto può essere giustificata solo entro tali limiti (9).

27.   Inoltre, una siffatta lesione degli interessi del titolare del marchio si verifica, in particolare, quando l’uso è tale da rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra il titolare e i prodotti offerti in vendita da un terzo. Occorre verificare se i consumatori interessati possano interpretare il segno quale utilizzato dal terzo nel senso che esso indichi, o tenda ad indicare, l’impresa da cui provengono i prodotti (10).

28.   Tali elementi forniscono un notevole contributo al fine di risolvere la questione formulata dal giudice del rinvio – ricordando che la valutazione, in definitiva, è di carattere fattuale e va effettuata dal giudice competente ad accertare i fatti caso per caso.

29.   Se, in circostanze quali quelle del procedimento principale, il titolare di un marchio d’impresa deve poter vietare l’uso lamentato in forza dell’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva, occorre accertare che l’uso del segno sia tale da contraddistinguere i prodotti interessati e che esso leda gli interessi del titolare incidendo sull’idoneità del suo marchio ad adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti. Ciò vale in particolare se l’uso in questione rende credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra il titolare del marchio e prodotti di origine diversa. A tale proposito, occorre verificare se i consumatori interessati possano interpretare il segno utilizzato dal terzo nel senso che esso indichi, o tenda ad indicare, l’origine dei prodotti.

30.   Nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva, secondo costante giurisprudenza della Corte, l’esistenza di un rischio di confusione nella mente del pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie (11). Inoltre, nel decimo ‘considerando’ si afferma che la valutazione del rischio di confusione dipende da numerosi fattori e, segnatamente, dalla notorietà del marchio di impresa sul mercato, dall’associazione che può essere fatta tra il marchio di impresa e il segno usato o registrato e dal grado di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati.

31.   Benché, come ho detto, la valutazione del rischio di confusione ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b), sia diversa da quella che ho descritto al paragrafo 29, in relazione all’art. 5, n. 1, lett. a), è chiaro che occorre adottare un approccio globale in entrambi i casi. Infatti, nelle conclusioni relative alla causa Arsenal (12), l’avvocato generale Ruiz-Jarabo ha menzionato un elenco di fattori da prendere in considerazione nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. a), che ricorda quello di cui al decimo ‘considerando’: la natura dei beni e delle prestazioni, la condizione degli eventuali destinatari di questi ultimi, la struttura del mercato e la collocazione sul mercato del titolare del marchio. L’esame di tutti questi fattori esula dalle competenze della Corte di giustizia, trattandosi di una valutazione di fatto che spetta esclusivamente al giudice nazionale

32.   Aggiungerei – e condivido al riguardo la tesi del governo italiano – che la valutazione dev’essere oggettiva, e non basata sull’intenzione della persona che faccia uso del segno.

33.   Se è pur vero che spetta al giudice nazionale competente effettuare la necessaria valutazione di fatto alla luce della giurisprudenza della Corte, alcune ulteriori osservazioni possono fornire chiarimenti supplementari al giudice del rinvio.

34.   In udienza, le parti hanno convenuto che il tipo di uso in discussione nel procedimento principale – ossia l’adozione e l’uso di una denominazione sociale e/o commerciale – può configurare un «uso» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva, senza peraltro costituire necessariamente e automaticamente un siffatto uso in tutti i casi. Condivido tale tesi.

35.   Una denominazione sociale, in particolare, non deve necessariamente essere utilizzata «per» prodotti o servizi forniti dall’impresa «nel commercio». Il suo uso può essere limitato a circostanze più formali, qualora l’impresa operi con uno o più nomi diversi. E anche quando la denominazione sociale venga utilizzata nel commercio per prodotti o servizi, tale uso non è necessariamente idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi, a indicarne l’origine o a rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio con il titolare di un marchio identico o simile. In udienza, il governo del Regno Unito ha fornito l’esempio di una fattura, emessa in nome dell’impresa, relativa alla vendita di prodotti identificati con un’etichetta o un marchio diversi. A fortiori, la mera adozione (registrazione) di una denominazione sociale prima di qualsivoglia uso – che costituisce l’oggetto della questione formulata dal giudice del rinvio – esula, di regola, dalla sfera di applicazione dell’art. 5, n. 1, della direttiva.

36.   D’altro canto, sembra improbabile che all’adozione di una denominazione commerciale non segua un uso «nel commercio». Nondimeno, il modo in cui essa viene utilizzata può non risultare idoneo, a seconda delle circostanze, a contraddistinguere i prodotti o servizi, a identificarne l’origine o a rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio con il titolare di un marchio identico o simile.

37.   A tale proposito, vorrei rilevare che l’esistenza di un elenco non esaustivo, all’art. 5, n. 3, dei tipi di comportamento che possono essere vietati in forza dell’art. 5, nn. 1 e 2, non implica che tutti i comportamenti di questo tipo siano sempre soggetti all’eventuale divieto. Occorrerà verificare, caso per caso, se lo specifico comportamento considerato risponda ai criteri di valutazione che ho indicato al paragrafo 29.

38.   Pertanto, la questione del giudice nazionale, così come è stata formulata, andrebbe risolta nel senso che, di regola, la semplice adozione di una denominazione sociale o commerciale non costituisce un atto d’uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva; l’uso successivo di tale denominazione nel commercio dev’essere valutato dal giudice competente sulla base dei fatti di ciascun caso di specie, alla luce dei criteri indicati al precedente paragrafo 29, per stabilire se esso costituisca un uso per prodotti o servizi ai sensi della menzionata disposizione.

39.   Tuttavia, al di là di tale soluzione, varie altre considerazioni possono aiutare il giudice nazionale a risolvere la controversia di cui è investito. Il governo del Regno Unito ha infatti chiesto ulteriori chiarimenti su alcuni aspetti che sono stati discussi in udienza, e il fatto che la causa sia stata deferita alla Grande Sezione può di per sé indicare che è opportuno svolgere un’analisi più approfondita.

 Altri fondamenti normativi della tutela

40.   Poiché la normativa francese, come interpretata dalla giurisprudenza, può consentire al titolare di un marchio d’impresa di vietare l’uso di una denominazione sociale o commerciale in circostanze in cui essa non contraddistingua prodotti o servizi, non ne identifichi l’origine, non renda credibile l’esistenza di un collegamento materiale con il titolare del marchio né leda in altro modo i suoi interessi, tenuto conto delle funzioni del marchio, la suddetta normativa non può essere legittimamente fondata sull’art. 5, n. 1, della direttiva.

41.   Essa può invece validamente fondarsi sull’art. 5, n. 5, che consente agli Stati membri di concedere tutela contro l’uso di un segno «a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti o servizi» – come la Corte ha confermato nella sentenza Robelco, cui si richiama la Cour d’appel (13). In tali circostanze, si deve ricordare che l’art. 5, n. 5, può essere fatto valere solo quando l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o della notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi. Anche in questo caso, la valutazione ha natura fattuale e spetta al giudice nazionale competente.

42.   Inoltre, il sesto ‘considerando’ della direttiva precisa che essa non esclude che siano applicate ai marchi di impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori. Naturalmente, le disposizioni nazionali sulla concorrenza sleale possono conferire ai titolari dei marchi d’impresa diritti come quello che la Céline SA rivendica nel procedimento principale. La legge in materia di registrazione delle società potrebbe anche limitare i tipi di denominazione registrabili escludendo, tra l’altro, quelli identici o simili a un marchio d’impresa esistente.

43.   Si deve tuttavia ricordare che, tra le disposizioni che la Céline SA cerca di far valere, la questione sollevata dal giudice nazionale riguarda solo le disposizioni della legge sui marchi d’impresa relative ad un settore che è stato completamente armonizzato dall’art. 5, n. 1, della direttiva (14). Alla luce di tale armonizzazione, le suddette disposizioni sono legittime solo se conformi all’art. 5, n. 1.

 L’art. 6, n. 1, lett. a)

44.   Poiché il diritto rivendicato dalla Céline SA discende dalla legge sui marchi d’impresa e dal suo status di titolare di un marchio, non si può ignorare la restrizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva, secondo cui il titolare non può vietare ai terzi l’uso nel commercio del loro nome e indirizzo, purché sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale.

45.   Ciò che la Céline SA vuole vietare è l’uso, da parte della Céline Sàrl, della denominazione sociale e commerciale di quest’ultima. Concordo con il governo del Regno Unito che elementi quale «Sàrl», che indica semplicemente una forma particolare di personalità giuridica, vadano ignorati. La Corte ha peraltro dichiarato che l’art. 6, n. 1, lett. a), non riguarda solo i nomi delle persone fisiche (15).

46.   Non condivido invece l’argomento svolto in udienza dal governo italiano, secondo cui l’art. 6, n. 1, lett. a), non consentirebbe ai terzi di utilizzare i loro nomi nel commercio per contraddistinguere prodotti o servizi qualora sussista identità o somiglianza tra il nome e il marchio d’impresa registrato o tra i prodotti o servizi rispettivamente interessati – in altre parole, nelle circostanze definite dall’art. 5, n. 1, lett. a) e b).

47.   Anzi, poiché il diritto del titolare del marchio di vietare un comportamento è definito sostanzialmente da queste ultime disposizioni, la restrizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), deve riguardare il diritto così definito. In caso contrario, la restrizione riguarderebbe tutt’al più i diritti accessori di cui all’art. 5, nn. 2 e 5. Dalla lettera e dall’economia delle disposizioni emerge invece che la limitazione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), si applica a tutte le disposizioni dell’art. 5. E la Corte ha dichiarato, nella sentenza Anheuser-Busch (16), che l’eccezione prevista dall’art. 6, n. 1, lett. a), può, in linea di principio, essere fatta valere da un terzo per usare un segno identico o simile ad un marchio per designare la sua ditta benché si tratti di un uso rientrante nell’art. 5, n. 1, che il titolare del marchio potrebbe, in generale, vietare in forza dei diritti esclusivi che tale disposizione gli conferisce.

48.   Tuttavia, la questione rilevante ai fini del procedimento principale è se l’adozione della denominazione «Céline» per l’impresa di Nancy (come denominazione commerciale e successivamente come denominazione sociale) successivamente alla registrazione del marchio d’impresa «Céline» da parte della Céline SA e il suo uso successivo per prodotti (qualora venga dimostrato un uso di tale natura) siano conformi agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. (Naturalmente, se la denominazione fosse stata adottata e utilizzata prima della registrazione del marchio d’impresa, la condizione degli «usi consueti di lealtà» avrebbe potuto essere applicata solo all’uso successivo alla registrazione e sulla sua applicazione avrebbe inciso la relativa collocazione nel tempo).

49.   Ancora una volta, si tratta di una valutazione di natura fattuale che deve essere effettuata dal giudice nazionale competente. In passato, tuttavia, la Corte ha fornito alcune indicazioni in merito a ciò che può costituire un uso consueto di lealtà ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva, e il governo del Regno Unito, in particolare, ha chiesto alla Corte nel presente procedimento di fornire ulteriori chiarimenti. Qualora la Grande Sezione decidesse di accogliere tale richiesta, potrebbero assumere rilevanza le osservazioni che seguono.

50.   In generale, la condizione dell’uso leale nel commercio esprime l’obbligo di agire correttamente rispetto agli interessi legittimi del titolare del marchio (17). Spetta al giudice nazionale procedere ad un esame globale di tutte le circostanze pertinenti e, più specificamente, valutare se si possa ritenere che chi usa il nome o un’altra indicazione eserciti concorrenza sleale nei confronti del titolare del marchio (18).

51.   Nella sentenza Gillette (19), la Corte ha dichiarato, nel contesto dell’art. 6, n. 1, lett. c), della direttiva, che l’uso del marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale, in particolare, quando:

–       avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del marchio; o

–       pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; o

–       causi discredito o denigrazione a tale marchio.

52.   Anche a questo proposito, tali chiarimenti possono fornire un importante contributo al giudice nazionale ai fini dell’esame della controversia di cui è investito. Tuttavia, la denominazione utilizzata dalla Céline Sàrl non è stata adottata o utilizzata né come denominazione commerciale né come denominazione sociale, prima che la Céline SA registrasse il proprio marchio «Céline».

53.   Sembra evidente che, in tale contesto, la questione della conoscenza è fondamentale.

54.   Di regola, non si può ritenere che una persona agisca conformemente agli usi consueti di lealtà in campo commerciale qualora essa adotti un nome per utilizzarlo nel commercio al fine di contraddistinguere prodotti o servizi che sa essere identici o simili a quelli contrassegnati da un marchio d’impresa esistente identico o simile.

55.   Né, in realtà, il semplice fatto di ignorare l’esistenza di un marchio può essere sufficiente per far rientrare l’adozione e l’uso del nome nell’ambito degli usi consueti di lealtà. Gli usi consueti di lealtà nella scelta di un nome da utilizzare nel commercio devono comportare una ragionevole diligenza nell’accertare che il nome scelto non sia in conflitto, tra l’altro, con un marchio d’impresa esistente, e quindi nel verificare se esso esista. E una ricerca nei registri nazionali e comunitari dei marchi, di regola, non è particolarmente difficile o onerosa.

56.   Tuttavia, qualora sia stata adottata una normale diligenza e non sia stato riscontrata l’esistenza di un determinato marchio, non sembra si possa affermare che la persona che ha adottato il nome abbia agito al riguardo in modo incompatibile con gli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. In tali circostanze, solo in casi eccezionali esisterà effettivamente un marchio simile o identico al nome di cui titolare vorrà vietare l’uso. Ma, se così fosse, ritengo che il diritto del titolare del marchio sarebbe circoscritto dall’art. 6, n. 1, della direttiva, in quanto la limitazione è subordinata solo alla lealtà del comportamento dell’utilizzatore (20).

57.   D’altro canto, qualora si riscontrasse l’esistenza di un marchio d’impresa simile o identico, il limite entro cui il titolare del marchio potrebbe vietare l’uso del nome dipenderebbe dal comportamento successivo dell’utilizzatore. Presumibilmente, gli usi di lealtà imporrebbero quanto meno di contattare il titolare del marchio per conoscere la sua posizione. Qualora egli si opponesse all’uso del nome per motivi ragionevoli (e tutte le circostanze rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 5 sembrerebbero per definizione idonee a costituire ragionevoli motivi di opposizione), l’uso successivo del nome contestato non sarebbe conforme agli usi consueti di lealtà.

58.   Il governo del Regno Unito ha suggerito che l’acquiescenza da parte del titolare del marchio potrebbe precludergli la possibilità di vietare l’uso del nome. Tuttavia, benché tale impedimento soggettivo all’opposizione possa apparire logico, esso non fa parte del sistema istituito dall’art. 6, n. 1, che, come ho detto, prevede quale unica condizione la lealtà del comportamento dell’utilizzatore. Una regola di questo tipo andrebbe quindi assoggettata alla condizione secondo cui essa non sarebbe idonea a sanare un comportamento inizialmente non conforme agli usi di lealtà, a meno che non intervengano variazioni sostanziali in tale comportamento o nella volontà sottostante. D’altro canto, si potrebbe ritenere che una persona che abbia contattato il titolare del marchio (assicurandosi che la comunicazione gli sia pervenuta) abbia agito conformemente agli usi di lealtà qualora non sia stata sollevata, entro un termine ragionevole, alcuna obiezione all’uso di un nome simile o identico. In ogni caso, l’acquiescenza del titolare del marchio all’uso di un nome simile o identico al suo marchio potrebbe essere sufficiente, a seconda delle circostanze, a costituire un consenso ai sensi dell’art. 5, n. 1, e quindi a sottrarre l’uso, per altra via, dall’ambito di applicazione del divieto.

59.   Desidero, infine, soffermare l’attenzione su un argomento che non è pertinente ai fini del procedimento principale, dato che quest’ultimo riguarda unicamente il diritto e il territorio francesi. Lo scopo principale della direttiva, enunciato dal suo primo ‘considerando’, consiste nel ravvicinare le legislazioni degli Stati membri al fine di eliminare le «disparità che possono ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi, nonché falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune». Quale sarebbe l’effetto sull’obbligo di rispettare gli usi consueti di lealtà se la Céline Sàrl fosse un’impresa stabilita in un altro Stato membro che entrasse nel mercato francese?

60.   Ritengo che valgano le stesse considerazioni. In linea di principio, un operatore deve poter utilizzare lo stesso nome di persona, la stessa denominazione sociale o la stessa denominazione commerciale in tutta la Comunità senza che ciò gli venga impedito in uno Stato membro dalla successiva registrazione in tale Stato (o nel registro comunitario dei marchi d’impresa) di un marchio identico o simile al nome in questione. Tuttavia, l’estensione dell’uso del nome a un nuovo Stato membro dovrebbe essere assoggettata alla medesima condizione degli usi consueti di lealtà per valutare se un marchio simile o identico fosse già stato registrato in quello Stato membro (o come marchio d’impresa comunitario) prima dell’adozione del nome.

 Conclusione

61.   Ritengo, quindi, che la Corte debba risolvere le questioni poste dalla Cour d’appel di Nancy nei termini seguenti:

«La semplice adozione di una denominazione sociale o commerciale simile o identica a un marchio d’impresa esistente non costituisce un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 89/104/CEE.

Spetta la giudice nazionale competente valutare l’uso successivo di tale denominazione nel commercio al fine di stabilire se costituisca uso per prodotti o servizi ai sensi della menzionata disposizione, vale a dire se esso sia idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi in questione e leda gli interessi del titolare incidendo sull’idoneità del marchio ad adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti o servizi. Ciò vale, in particolare, se l’uso in questione rende credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra il titolare del marchio e prodotti o servizi di origine diversa. A tale proposito, occorre verificare se i consumatori interessati possano interpretare il segno, quale utilizzato dal terzo, nel senso che esso indichi, o tenda ad indicare, l’origine dei prodotti o servizi.

Il diritto del titolare del marchio di vietare tale uso è soggetto alla restrizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104/CEE, che a sua volta è subordinata al rispetto, da parte dell’utilizzatore del nome, degli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. L’uso non è conforme a tali usi in particolare quando renda credibile l’esistenza di un collegamento nel commercio tra l’utilizzatore e il titolare del marchio, pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà o arrechi discredito o denigrazione a tale marchio. Gli usi consueti di lealtà in relazione all’adozione di un nome ai fini del suo uso nel commercio implicano una ragionevole diligenza nell’informare il titolare di un marchio simile o identico registrato per prodotti o servizi simili o identici a quelli per i quali il nome dev’essere utilizzato e il rispetto di eventuali condizioni ragionevoli poste dal titolare entro un termine ragionevole».


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GU 1989, L 40, pag. 1; in prosieguo: «la direttiva»).


3 – Secondo quanto pubblicizzato dalla stessa impresa, essa è stata fondata (dalla sig.ra. Céline Viapiana) nel 1945. Tuttavia, tale discrepanza, se di discrepanza si tratta, appare irrilevante. In ogni caso, la registrazione del marchio denominativo «Céline» nel 1948 è anteriore alla prima registrazione o al primo utilizzo di «Céline» quale denominazione commerciale a Nancy nel 1950.


4 – Risulterebbe che il negozio è stato aperto nel 1950 da un certo sig. Grynfogel, che lo ha così chiamato in omaggio a sua figlia Céline, ed è rimasto un esercizio a conduzione familiare.


5 – Nella causa principale tale data è contestata dalla Céline Sàrl, la quale afferma che la Céline SA fosse al corrente dell’esistenza della sua attività fin dal 1974.


6 – Sentenza 21 novembre 2002, causa C‑23/01 (Racc. pag. I‑10913, punto 34).


7 – In udienza, il rappresentante del governo francese ha confermato che non sussisteva alcuna distinzione giuridica, ai fini della presente procedimento, tra una ditta (nom commercial), che identifica un operatore, e un’insegna (enseigne), che identifica i locali. Ai presenti fini, farò riferimento a entrambe le nozioni con l’espressione «denominazione commerciale».


8 – V. sentenza 23 febbraio 1999, causa C‑63/97, BMW (Racc. pag. I‑905, punto 38).


9 – V. sentenze 12 novembre 2001, causa C‑206/01, Arsenal Football Club (Racc. pag. I‑10273, punti 51-54; in prosieguo: la «sentenza Arsenal»), e 16 novembre 2004, causa C‑245/02, Anheuser-Busch (Racc. pag. I‑10989, punto 59).


10 – V. sentenze Arsenal, punti 56 e 57, e Anheuser-Busch, punto 60.


11 – V. ad esempio, sentenze 11 novembre 1997, causa C‑251/95, SABEL (Racc. pag. I‑6191, punto 22), 22 giugno 1999, causa C‑342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer (Racc. pag. I‑3819, punto 18), 22 giugno 2000, causa C‑425/98, Marca Mode (Racc. pag. I‑4861, punto 40), e 6 ottobre 2005, causa C‑120/04, Medion (Racc. pag. I‑8551, punto 27).


12 – Citata supra alla nota 9, paragrafo 53.


13 – V. precedente paragrafo 17.


14 – V. ad es., sentenza Arsenal, citata alla nota 9, punti 43-45.


15 – V. sentenza Anheuser-Busch, citata alla nota 9, punti 77-80. Poiché la direttiva non contiene alcuna limitazione per quanto riguarda il tipo di nome utilizzabile, la normativa nazionale non va interpretata in modo da imporre tale limitazione.


16 – Citata alla nota 9, punto 81.


17 – Sentenze BMW, citata alla nota 8, punto 61, 7 gennaio 2004, causa C‑100/02, Gerolsteiner Brunnen (Racc. pag. I‑691, punto 24), e Anheuser-Busch, citata alla nota 9, punto 82.


18 – Sentenze Gerolsteiner Brunnen, citata alla nota 17, punto 26, e Anheuser-Busch, citata alla nota 9, punto 84.


19 – Sentenza 17 marzo 2005, causa C‑228/03 (Racc. pag. I‑2337).


20 – Potrebbe sussistere un’altra situazione del genere, nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. b), qualora venisse riscontrata l’esistenza di un marchio d’impresa simile o identico ma la persona che ha adottato il nome avesse commesso un errore in buona fede nel valutare il grado di somiglianza tra i rispettivi prodotti o servizi in questione.