CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

L.A. GEELHOED

presentate il 27 aprile 2006 1(1)

Causa C-1/05

Yunying Jia

contro

Migrationsverket

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dall’Utlänningsnämnden (Svezia)]

«Interpretazione dell’art. 43 CE, dell’art. 10 del regolamento (CEE) n. 1612/68 – Libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità e artt. 1, lett. d), e 6, lett. b), della direttiva del Consiglio 73/148/CEE – Soppressione delle restrizioni alla circolazione e al soggiorno all’interno della Comunità dei cittadini degli Stati membri con riguardo allo stabilimento e alla prestazione di servizi – Diritto di soggiorno del genitore di un coniuge, entrambi di nazionalità di un paese terzo, di un cittadino di uno Stato membro residente in un altro Stato membro, economicamente dipendente da tale cittadino – Requisito per cui detto genitore deve soggiornare legalmente in uno Stato membro nel momento in cui si ricongiunge alla sua famiglia – Obbligo di provare la dipendenza economica del genitore»





I –    Introduzione

1.        La presente causa solleva, ancora una volta, la delicata questione delle condizioni in presenza delle quali familiari di cittadini comunitari provenienti dall’esterno dell’Unione europea possono rivendicare il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea. In particolare, si pone il problema se tali persone debbano già soggiornare legalmente nell’Unione europea prima di poter far valere i diritti loro conferiti dal diritto comunitario derivato, come ha dichiarato la Corte nella causa Akrich (2). Oppure, è invece sufficiente che esse dimostrino l’esistenza del loro rapporto familiare con un cittadino dell’Unione europea, come la Corte ha dichiarato nella causa MRAX (3)?

2.        Nelle conclusioni relative alla causa Akrich, ho fatto riferimento al dilemma fondamentale che sorge in relazione allo status giuridico e ai diritti di tali persone. Da un lato, i familiari di cittadini comunitari che possiedono la nazionalità di un paese terzo godono dei diritti conferiti dalle norme che disciplinano la libera circolazione delle persone all’interno della Comunità. D’altro lato, persistendo l’assenza di un’armonizzazione completa nel settore dell’immigrazione, gli Stati membri rimangono competenti a fissare le regole in materia di primo ingresso dei cittadini dei paesi terzi nel loro territorio e, pertanto, nel territorio dell’Unione europea.

3.        Lo stesso dilemma si presenta nella causa ora in esame, ancorché in un contesto di fatto completamente diverso rispetto a quello della causa Akrich. Le differenze riguardano le modalità di ingresso del sig. Akrich e della sig.ra Yunying Jia nel territorio dello Stato membro interessato, il rapporto familiare considerato, il comportamento del cittadino del paese terzo che rivendica il diritto di soggiorno e le disposizioni di diritto comunitario applicabili.

II – Disposizioni di diritto comunitario pertinenti

4.        La presente causa è incentrata sui diritti conferiti dalla direttiva 73/148 (4) ai familiari di paesi terzi di cittadini comunitari che hanno esercitato il proprio diritto di stabilimento in forza dell’art. 43 CE. In tale contesto, sono pertinenti le seguenti disposizioni della direttiva citata:

Art. 1, n. 1

«Gli Stati membri sopprimono, alle condizioni previste dalla presente direttiva, le restrizioni al trasferimento e al soggiorno:

a) dei cittadini di uno Stato membro che si siano stabiliti o che desiderino stabilirsi in un altro Stato membro per esercitarvi un’attività indipendente o che desiderino effettuarvi una prestazione di servizi;

(...)

d) degli ascendenti e discendenti dei cittadini suddetti e del coniuge di tali cittadini che sono a loro carico, qualunque sia la loro cittadinanza».

Art. 3

«1. Gli Stati membri ammettono nel rispettivo territorio le persone di cui all’articolo 1 dietro semplice presentazione di una carta d’identità o di un passaporto validi.

2. Non può essere imposto alcun visto d’ingresso né obbligo equivalente, salvo per i membri della famiglia che non possiedono la cittadinanza di uno degli Stati membri. Gli Stati membri concedono a tali persone ogni agevolazione per l’ottenimento dei visti eventualmente necessari».

Art. 4, n. 3

«Ai membri della famiglia che non abbiano la cittadinanza di uno Stato membro è rilasciato un documento di soggiorno di validità uguale a quello rilasciato al cittadino dal quale dipendono».

Art. 6

«Per il rilascio della carta e del permesso di soggiorno lo Stato membro può esigere dal richiedente soltanto:

a) l’esibizione del documento in forza del quale egli è entrato nel suo territorio;

b) la prova che egli rientra in una delle categorie di cui agli articoli 1 e 4».

Art. 8

«Gli Stati membri non possono derogare alle disposizioni della presente direttiva se non per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica».

III – Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

5.        La ricorrente nel procedimento principale, la sig.ra Jia, è cittadina cinese, è nata nel 1940 ed è attualmente pensionata. Suo figlio, il sig. Shenzhi Li, anch’egli cittadino cinese, è sposato con una cittadina tedesca, la sig.ra Svanja Schallehn. La sig.ra Schallehn svolge attività di lavoro autonomo in Svezia come titolare di un’agenzia di viaggi. I coniugi sono legalmente residenti in Svezia dal 1995 e sono entrambi titolari di un permesso di soggiorno valido fino al 3 luglio 2006.

6.        Il 2 maggio 2003, l’Ambasciata svedese di Pechino concedeva alla sig.ra Jia un visto turistico valido per un ingresso in uno Stato membro dello Spazio Schengen per una visita di non più di 90 giorni e con scadenza il 21 agosto 2003. La sig.ra Jia entrava nello Spazio Schengen attraverso l’aeroporto di Stoccolma, Arlanda, il 13 maggio 2003 munita di un passaporto valido del proprio paese e del menzionato visto turistico. Poco prima della scadenza del visto, il 7 agosto 2003, la sig.ra Jia presentava richiesta di permesso di soggiorno alla Migrationsverket (Autorità svedese competente in materia di immigrazione) dichiarando di essere familiare a carico di un cittadino dell’Unione europea.

7.        A sostegno della sua richiesta, la sig.ra Jia adduceva la propria situazione economica in Cina. La sig.ra Jia e il coniuge percepiscono pensioni dallo Stato cinese di circa SEK 1 000 e 1 100 al mese (all’incirca EUR 110 e 120), che non sono sufficienti per vivere. Poiché le autorità cinesi non versano loro alcun sussidio integrativo, essi non sarebbero in grado di provvedere al proprio mantenimento se non ricevessero un aiuto economico dal figlio e dalla nuora. La sig.ra Jia presentava un certificato del Beijing Notary Public Office relativo al vincolo di parentela tra lei e suo figlio, nonché un certificato della China Forestry Publishing House a dimostrazione del fatto che la sig.ra Jia è economicamente dipendente dal figlio e dalla nuora.

8.        Il 7 aprile 2004, la Migrationsverket decideva di respingere la richiesta di permesso di soggiorno della sig.ra Jia e ne disponeva il rientro nel paese d’origine o in un altro paese qualora l’interessata avesse indicato la disponibilità di un altro paese ad accoglierla. La Migrationsverket dichiarava che per dimostrare un rapporto di dipendenza economica occorre esibire un documento emesso dall’autorità competente dello Stato d’origine comprovante che il richiedente è dipendente per il mantenimento dal suo parente residente in Svezia. Il certificato prodotto dalla sig.ra Jia non era stato rilasciato da un’autorità competente. La mera circostanza che il figlio le invii denaro e l’aiuti in altri modi non potrebbe essere considerata una ragione sufficiente per ritenere che la sig.ra Jia sia economicamente dipendente dal figlio nei termini richiesti dalla legge. Neppure la circostanza che il tenore di vita della sig.ra Jia sarebbe più elevato in Svezia potrebbe implicare la sussistenza di una dipendenza economica.

9.        Il 14 maggio 2004, la sig.ra Jia impugnava la decisione della Migrationsverket dinanzi all’Utlänningsnämnden (Organo di appello in materia di immigrazione).

10.      Il 3 settembre 2003, la Migrationsverket concedeva al marito della sig.ra Jia, Yupu Li, un visto valido per un ingresso in Svezia per un soggiorno di non oltre 180 giorni. Il 10 marzo 2004, il sig. Li chiedeva un permesso di soggiorno per le stesse ragioni per cui l’aveva chiesto la moglie. La sua richiesta veniva respinta dalla Migrationsverket il 17 settembre 2004. Il sig. Li impugnava tale decisione dinanzi all’Utlänningsnämnden.

11.      Dopo che la Migrationsverket aveva respinto la richiesta di permesso di soggiorno della sig.ra Jia, essa proponeva reclamo dinanzi alla Commissione europea. In una lettera del 7 maggio 2004 indirizzata alla Rappresentanza permanente della Svezia presso l’Unione europea, la Commissione osservava che la decisione della Migrationsverket non appariva conforme agli artt. 1, n. 1, lett. d), e 4, n. 3, della direttiva 73/148, all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «CEDU») e alla giurisprudenza della Corte, in particolare alla sentenza MRAX (5). Secondo la Commissione, pertanto, la sig.ra Jia aveva diritto a chiedere un permesso di soggiorno di validità uguale a quelli già rilasciati alla nuora tedesca e al figlio cinese.

12.      In risposta alla lettera della Commissione, la Migrationsverket osservava che l’espressione «dipendente per il suo mantenimento» implica che deve esistere un reale bisogno di denaro o di contributi di altro tipo che viene soddisfatto in modo regolare dai parenti residenti nello Stato membro, e che il fattore da considerare decisivo è il bisogno in relazione al mantenimento nello Stato d’origine, e non il bisogno in relazione al mantenimento in caso di eventuale trasferimento in uno Stato membro. La dipendenza deve inoltre essere comprovata da un certificato o da altri documenti, preferibilmente un certificato di dipendenza emesso dalle autorità competenti del paese d’origine. Il semplice impegno da parte del cittadino dell’Unione europea o del suo coniuge a mantenere i genitori non è sufficiente perché si possa ritenere che esista la dipendenza necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno. Tale parere veniva comunicato alla Commissione dal governo svedese con una lettera del 21 giugno 2004.

13.      Nell’ordinanza di rinvio, l’Utlänningsnämnden solleva la questione se la sentenza della Corte nella causa Akrich (6), secondo cui, per poter godere dei diritti previsti dall’art. 10 del regolamento n. 1612/68, occorre che il cittadino dello Stato terzo soggiorni legalmente nella Comunità, si applichi anche in circostanze diverse da quelle in esame in tale procedimento. In altre parole, la suddetta sentenza enuncia un principio generale che implica che i diritti di ingresso e di soggiorno per un parente di un cittadino dell’Unione, nascenti dal Trattato CE e dal diritto comunitario derivato, diventano effettivi solo quando il cittadino dello Stato terzo soggiorna legalmente in uno Stato membro, in conformità della normativa nazionale, e segue o si ricongiunge al cittadino dell’Unione europea che esercita il suo diritto alla libera circolazione, non solo in qualità di lavoratore dipendente, ma anche come lavoratore autonomo? Inoltre, una questione fondamentale sollevata dalla sentenza Akrich riguarda il significato dell’espressione «legalmente residente». L’Utlänningsnämnden chiede altresì che cosa debba intendersi per situazione di dipendenza economica e se in forza dell’art. 6 della direttiva 73/148, oltre al certificato di parentela, si possa anche richiedere la prova che esiste un rapporto di dipendenza economica.

14.      In tali circostanze, l’Utlänningsnämnden ha deciso di sottoporre alla Corte, in forza dell’art. 234 CE, le seguenti questioni pregiudiziali:

1 a)      Se, alla luce della sentenza nella causa C-109/01, l’art. 10 del regolamento (CEE) n. 1612/68 debba essere interpretato nel senso che il cittadino di uno Stato terzo che è parente di un lavoratore dipendente nel modo ivi previsto, debba soggiornare legalmente nella Comunità per poter aver diritto di risiedervi insieme al lavoratore dipendente e se, analogamente, l’art. 1 della direttiva 73/148/CEE debba interpretarsi nel senso che il diritto di residenza di un cittadino di uno Stato terzo, parente del cittadino dell’Unione europea, presuppone che il cittadino di uno Stato terzo soggiorni legalmente nella Comunità.

1 b)      Qualora la direttiva 73/148/CEE debba essere interpretata nel senso che la condizione perché un cittadino di uno Stato terzo, parente di un cittadino dell’Unione europea, possa rivendicare il diritto di soggiorno secondo la direttiva è che egli soggiorni legalmente nella Comunità, se ciò sia tale da implicare che tale persona deve essere titolare di un permesso di soggiorno valido, che le consente o può consentirle di soggiornare in uno degli Stati membri. In mancanza di un permesso di soggiorno, se sia sufficiente un’autorizzazione al soggiorno emessa per altre ragioni, per una permanenza più o meno lunga oppure se, come nella causa attualmente pendente dinanzi all’Utlänningsnämnden, sia sufficiente che la persona che richiede il permesso di soggiorno sia in possesso di un visto valido.

1 c)      Qualora il cittadino di uno Stato terzo, parente di un cittadino dell’Unione europea, non possa rivendicare un diritto di soggiorno ai sensi della direttiva 73/148/CEE, poiché non soggiorna legalmente nella Comunità, se il rifiuto di concedergli il permesso di soggiorno limiti il diritto di stabilimento del cittadino dell’Unione previsto dall’art. 43 del Trattato di Roma.

1 d)      Qualora il cittadino di uno Stato terzo, parente di un cittadino dell’Unione europea, non possa rivendicare un diritto di soggiorno secondo la direttiva 73/148/CEE, poiché non soggiorna legalmente nella Comunità, se la sua espulsione dal paese dovuta al fatto che la richiesta di permesso di soggiorno nazionale non può essere accolta dopo il suo ingresso in Svezia limiti il diritto di stabilimento di un cittadino dell’Unione, previsto dall’art. 43 del Trattato di Roma.

2 a)      Se l’art. 1, lett. d), della direttiva 73/148/CEE debba essere interpretato nel senso che “[essere] a carico” significa che il parente del cittadino dell’Unione europea dipende economicamente da quest’ultimo per poter raggiungere un livello minimo di sussistenza accettabile nel suo Stato di origine oppure nello Stato in cui risiede permanentemente.

2 b)      Se l’art. 6, lett. b), della direttiva 73/148/CEE debba essere interpretato nel senso che gli Stati membri possono esigere dal parente di un cittadino dell’Unione europea, che afferma di essere a carico di tale cittadino o del suo coniuge, che presenti, oltre ad un impegno da parte del cittadino dell’Unione, documenti comprovanti l’esistenza di un’effettiva situazione di dipendenza».

15.      Hanno presentato osservazioni scritte la sig.ra Jia, i governi belga, slovacco, svedese, olandese e del Regno Unito e la Commissione. Ad eccezione dei governi belga e slovacco, le suddette parti hanno svolto ulteriori osservazioni orali all’udienza del 21 febbraio 2006.

IV – Argomenti delle parti e degli intervenienti

A –    Sullo status dell’Utlänningsnämnden ai sensi dell’art. 234 CE

16.      Prima di esaminare le questioni sollevate dall’Utlänningsnämnden, il governo svedese espone i motivi per cui ritiene che detto organo debba essere considerato una «giurisdizione» ai sensi dell’art. 234 CE e sia quindi competente a sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte in forza di tale disposizione. Il governo svedese osserva che l’Utlänningsnämnden è un organo amministrativo con poteri quasi giurisdizionali, competente a conoscere dei ricorsi contro le decisioni della Migrationsverket. Tale organo è stato istituito dalla legge, ha carattere permanente e il suo presidente e vicepresidente devono essere avvocati con un’esperienza di magistrato. La procedura e le norme sostanziali applicate dall’Utlänningsnämnden sono stabilite dalla legge. Le sue decisioni sono vincolanti e inappellabili. I procedimenti si svolgono in contraddittorio. L’Utlänningsnämnden deve rispettare il principio di uguaglianza di tutte le persone dinanzi alla legge e fornire garanzie di imparzialità e obiettività. Esso adotta le proprie decisioni in totale autonomia, sebbene possa deferire determinati casi al governo in circostanze previste dalla legge.

B –    Sul requisito del soggiorno legale (questioni 1 a) - 1 d))

17.      La sig.ra Jia tenta di mantenere distinta la propria situazione da quella oggetto della causa Akrich facendo notare che era in possesso di un visto valido nel momento in cui ha chiesto il permesso di soggiorno e che in precedenza non era mai stata espulsa dalla Svezia. Conformemente al diritto svedese, essa aveva diritto a rimanere nel territorio svedese durante l’esame della sua domanda. La sig.ra Jia osserva che, in ogni caso, le disposizioni di diritto comunitario pertinenti non prevedono un requisito in termini di soggiorno. L’art. 6 della direttiva 73/148 non prescrive che l’interessato, per poter chiedere un permesso di soggiorno, debba essere in possesso di un visto. Tale permesso può essere chiesto anche dopo l’ingresso nel territorio dello Stato membro in questione. La sig.ra Jia afferma che, in un caso come il suo, il rifiuto di rilasciare un permesso di soggiorno costituisce una violazione dell’art. 43 CE.

18.      I governi svedese e slovacco e la Commissione sostengono sostanzialmente la stessa tesi. A loro parere, la facoltà di invocare il diritto di soggiorno per i familiari a carico di cittadini comunitari che hanno esercitato la libertà di circolazione non dipende da un requisito di previo soggiorno regolare. Nessun requisito del genere è previsto dalla direttiva 73/148. La sentenza della Corte nella causa Akrich andrebbe interpretata restrittivamente e giustificata alla luce delle circostanze di fatto di quella causa. Imporre una condizione preliminare secondo cui i familiari cittadini di paesi terzi che entrano in uno Stato membro direttamente da un paese terzo devono ottenere un permesso di soggiorno nello Stato membro di origine di un cittadino comunitario costituirebbe una restrizione ingiustificata al diritto alla libera circolazione di tale cittadino e si porrebbe in contrasto con gli scopi dell’art. 43 CE e della direttiva 73/148. Come ha dichiarato la Corte nella causa MRAX, il diritto di tali familiari di risiedere con il cittadino di uno Stato membro discende dal solo legame familiare. Pertanto, le suddette parti propongono di risolvere la prima questione in senso negativo.

19.      I governi olandese e del Regno Unito sostengono la tesi opposta. Il governo olandese mantiene distinta l’immigrazione dei cittadini di paesi terzi nel territorio della Comunità dalla «migrazione successiva» («doormigratie») verso un altro Stato membro all’interno della Comunità. Mentre quest’ultima rientra pressoché interamente nella competenza della Comunità, la prima continua ad essere di competenza nazionale. Sotto questo profilo, gli Stati membri sono responsabili della prima ammissione dei cittadini di paesi terzi nel territorio della Comunità in base a una valutazione individuale. In tale contesto, essi devono rispettare gli obblighi loro imposti dall’art. 8 della CEDU. Il diritto comunitario non deve essere interpretato in modo tale che i cittadini di paesi terzi che non sono in possesso di un permesso di soggiorno valido possano eludere l’applicazione delle norme nazionali in materia di immigrazione. Entrambi i suddetti governi sostengono che il principio sancito nella sentenza Akrich, secondo cui il soggiorno regolare costituisce un prerequisito che i cittadini di paesi terzi devono soddisfare per poter far valere i diritti loro conferiti dall’art. 10 del regolamento n. 1612/68, si applica anche nel contesto della direttiva 73/148. Detta direttiva non disciplina l’ingresso nel territorio degli Stati membri dall’esterno della Comunità. Se la direttiva mira ad agevolare la circolazione all’interno della Comunità, nella fattispecie non si può affermare che il rifiuto di concedere un permesso di soggiorno alla sig.ra Jia abbia avuto un effetto dissuasivo sull’esercizio, da parte della nuora, dei diritti conferitile dall’art. 43 CE.

20.      Per quanto riguarda l’interpretazione da dare a «soggiorno regolare», il governo olandese ritiene che tale nozione, in ogni caso, si riferisca a situazioni in cui il cittadino di un paese terzo è in possesso di un permesso per ricongiungimento familiare con un cittadino comunitario, è un soggiornante di lungo periodo o possiede uno status equiparabile. Per contro, le persone che dispongono semplicemente di un visto o possono soggiornare nel territorio di uno Stato membro in pendenza dell’esito di una richiesta di permesso di soggiorno non soddisferebbero il requisito in questione. Consentire di circolare liberamente all’interno della Comunità a persone che si trovano in siffatte situazioni implicherebbe che uno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere un cittadino di un paese terzo senza sottoporlo a un esame individuale. Non poteva essere questa l’intenzione del legislatore comunitario. Il governo del Regno Unito adotta un’interpretazione più restrittiva e sostiene che il «soggiorno regolare» dev’essere definito dal diritto nazionale. La direttiva 73/148 non può conferire a un cittadino di un paese terzo un diritto più esteso di quello che gli è stato attribuito in un altro Stato membro.

C –    Sul requisito della dipendenza economica (questioni 2 a) e 2 b))

21.      La sig.ra Jia ritiene che le nozioni di «dipendenza economica» e di «raggiungimento di un livello minimo di sussistenza accettabile» siano connessi. A suo parere, la «dipendenza economica» implica che la persona che fruisce di un diritto di soggiorno si assuma effettivamente la responsabilità di sostenere economicamente un membro della famiglia. La ricorrente afferma di avere adeguatamente dimostrato di essere realmente a carico del figlio e della nuora.

22.      Il governo svedese deduce che la dipendenza economica dev’essere esaminata alla luce della situazione esistente nel paese d’origine e che deve sussistere una reale esigenza di sostegno economico costante. In mancanza, tale condizione, menzionata all’art. 1, n. 1, lett. d), della direttiva 73/148, sarebbe privata del suo effetto utile, dato che essa è intesa a limitare il numero di familiari aventi diritto a stabilirsi con il cittadino migrante comunitario. Tale condizione è stata espressamente ribadita anche nella direttiva 2004/38 (7). Una situazione di dipendenza economica va accertata alla luce delle circostanze della fattispecie in base a fatti concreti e oggettivi. Gli Stati membri possono chiedere che sia provata la situazione di dipendenza, in particolare, per analogia con l’art. 4, n. 3, lett. e), della direttiva 68/360 (8), presentando un documento rilasciato dall’autorità competente dello Stato d’origine. Non è sufficiente una semplice dichiarazione del cittadino comunitario da cui dipende il familiare. Questa tesi è sostenuta dai governi belga, slovacco e del Regno Unito.

23.      La Commissione, invece, afferma che la situazione di dipendenza economica dev’essere valutata con riferimento allo Stato membro in cui soggiorna il cittadino comunitario. Se si prendesse quale punto di riferimento il paese d’origine del familiare di un paese terzo, ciò limiterebbe notevolmente il numero di persone ammissibili al ricongiungimento familiare e restringerebbe il loro diritto a circolare all’interno della Comunità. La circostanza che tale sostegno sia sufficiente o meno a garantire un livello di sussistenza accettabile nello Stato membro sarebbe irrilevante e l’unico criterio pertinente sarebbe quello della dipendenza economica. Per quanto riguarda la prova da fornire, la Commissione ritiene che gli Stati membri debbano accettare qualsiasi tipo di prova addotto per dimostrare la situazione di effettiva dipendenza economica. Poiché può risultare difficile produrre tale prova al momento della richiesta del permesso di soggiorno, l’unica prova accettabile in quel momento è un impegno da parte del cittadino comunitario o del suo coniuge di mantenere il familiare di cui trattasi. Nella fattispecie, la Commissione ritiene che la sig.ra Jia debba essere considerata a carico del figlio o della nuora.

V –    Sulla ricevibilità

24.      Nell’esaminare lo status dell’Utlänningsnämnden ai sensi dell’art. 234 CE, il governo svedese ha implicitamente sollevato la questione della ricevibilità delle questioni deferite da tale organo.

25.      I criteri applicati dalla Corte per stabilire se un organo che effettua un rinvio pregiudiziale costituisca o meno una giurisdizione ai sensi dell’art. 234 CE sono ben consolidati. Fra tali criteri rientrano elementi quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente (9). Alla luce delle informazioni fornite dal governo svedese, non ho dubbi che l’Utlänningsnämnden soddisfi tali criteri. Essa sembra anzi equiparabile, sotto il profilo dello statuto e dell’organizzazione, all’organo che ha effettuato il rinvio pregiudiziale nella causa Abrahamsson (10), che secondo la Corte costituiva una giurisdizione ai sensi dell’art. 234 CE. Di conseguenza, le questioni sono ricevibili.

VI – Il problema in un contesto più ampio

A –    Introduzione

26.      Al pari della causa Akrich, il caso della sig.ra Jia evidenzia la tensione fondamentale esistente rispetto alla situazione giuridica dei cittadini di paesi terzi familiari di un cittadino dell’Unione europea. Tale tensione deriva, da un lato, dai poteri degli Stati membri nel settore dell’immigrazione e, dall’altro, dalle norme comunitarie relative alla libera circolazione delle persone all’interno della Comunità. La competenza degli Stati membri nel settore dell’immigrazione implica che la prima ammissione di un cittadino di un paese terzo nel loro territorio e nel territorio dell’Unione europea è subordinata a un previo esame individuale dell’interessato. Per contro, la normativa comunitaria vigente in materia di libera circolazione delle persone conferisce il diritto di ingresso e di soggiorno ai coniugi e ad alcuni altri familiari dei cittadini dell’Unione europea che esercitino il loro diritto alla libera circolazione all’interno della Comunità, a prescindere dalla nazionalità dei familiari.

27.      Nella sentenza Akrich, la Corte sembrava aver risolto tale problema dichiarando che il regolamento n. 1612/68 riguarda solo la libera circolazione all’interno della Comunità, ma non dispone nulla in merito all’esistenza dei diritti di un cittadino di un paese terzo, coniugato con un cittadino dell’Unione, relativi all’accesso al territorio della Comunità. La Corte ha inoltre dichiarato che per poter fruire dei diritti conferiti a tali cittadini di paesi terzi, l’interessato deve soggiornare legalmente in uno Stato membro nel momento in cui avviene il suo trasferimento in un altro Stato membro verso cui il cittadino dell’Unione emigra o è emigrato (11). Tuttavia, dopo aver così delimitato le competenze nazionali e comunitarie, la Corte ha proseguito precisando le condizioni alle quali dev’essere esercitata tale competenza nazionale, facendo riferimento al diritto al rispetto della vita familiare, quale sancito dall’art. 8 della CEDU.

28.      Tale sentenza contrasta con altre pronunce, adottate sia prima che dopo di essa, in cui la Corte ha inequivocabilmente dichiarato che il diritto di entrare e soggiornare nel territorio degli Stati membri dei cittadini di un paese terzo coniugati con cittadini di uno Stato membro deriva dal solo legame familiare (12).

29.      Permane quindi un certo grado di confusione circa la portata della competenza degli Stati membri a consentire l’ingresso a cittadini di paesi terzi familiari di cittadini dell’Unione che abbiano esercitato o intendano esercitare il loro diritto alla libera circolazione. In particolare, non è chiaro se il criterio adottato dalla Corte nella causa Akrich possa essere spiegato con le specifiche circostanze del caso di specie o se il principio stabilito in tale sentenza abbia validità generale. La situazione è ulteriormente complicata dalla questione se gli Stati membri siano tenuti, in forza del diritto comunitario, a garantire il diritto al rispetto della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU. Ritengo pertanto che occorra collocare il problema soggiacente al caso della sig.ra Jia in una prospettiva più ampia e cercare una soluzione praticabile per le autorità e i giudici nazionali e coerente con la ripartizione dei poteri nel settore dell’immigrazione. Per trovare tale soluzione, esaminerò in maniera più approfondita i vari parametri pertinenti rispetto a questo problema. In tale contesto farò anche riferimento alla legislazione comunitaria adottata più recentemente in materia di accesso dei cittadini di paesi terzi al territorio dell’Unione.

B –    Delimitazione delle competenze

30.      Il primo di tali parametri giuridici riguarda la ripartizione delle competenze in materia di immigrazione nell’Unione e di circolazione e soggiorno all’interno dell’Unione dei cittadini di paesi terzi, compresi i familiari di cittadini degli Stati membri che abbiano esercitato il loro diritto di circolazione all’interno dell’Unione. L’art. 3 CE, che elenca le azioni che la Comunità deve intraprendere per conseguire gli obiettivi indicati all’art. 2 CE, formula una chiara distinzione tra la componente interna e quella esterna della libera circolazione delle persone. Mentre l’art. 3, n. 1, lett. c), CE prevede l’instaurazione di un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, l’art. 3, n. 1, lett. d), CE concerne le misure riguardanti l’ingresso e la circolazione delle persone, come previsto dal titolo IV, relativo a visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone.

31.      L’aspetto interno è interamente disciplinato dal diritto comunitario. La libera circolazione dei cittadini dell’Unione, ossia delle persone in possesso della nazionalità di uno Stato membro, nel territorio degli Stati membri è garantita a livello del Trattato dall’effetto combinato degli artt. 18 CE, 39 CE, 43 CE e 49 CE, che sono tutti dotati di efficacia diretta, insieme agli atti del diritto comunitario derivato adottati per dare effetto a tali disposizioni, in particolare il regolamento n. 1612/68, la direttiva 68/360, la direttiva 73/148 e le direttive 90/364, 90/365 e 93/96 (13). Come corollario ai diritti conferiti ai cittadini comunitari che esercitano attività economiche in altri Stati membri, tali atti comunitari conferiscono anche ai familiari, a prescindere dalla loro nazionalità, il diritto di circolare e soggiornare con il titolare principale del diritto conferito dalla normativa comunitaria.

32.      Per contro, la componente esterna di questa politica, che è stata introdotta nel Trattato CE soltanto con il Trattato di Amsterdam (entrato in vigore il 1° maggio 1999), non conferisce direttamente diritti effettivi, ma fornisce le basi giuridiche di un programma legislativo diretto all’armonizzazione delle normative nazionali che disciplinano, tra l’altro, l’immigrazione e i controlli alle frontiere esterne dell’Unione. L’art. 61, lett. a), CE, in particolare, pone in evidenza lo stretto rapporto intercorrente tra le componenti interne ed esterne della libera circolazione delle persone, laddove impone al Consiglio ad adottare «misure volte ad assicurare la libera circolazione delle persone a norma dell’articolo 14 [CE], insieme a misure di accompagnamento direttamente collegate in materia di controlli alle frontiere esterne, asilo e immigrazione (…)». Benché siano stati adottati vari provvedimenti al fine di dare attuazione alle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 e al successivo programma dell’Aia del novembre 2004 (14), l’armonizzazione in questo settore è ancora lungi dall’essere completa. All’attuale stadio di sviluppo del diritto comunitario, è chiaro che gli Stati membri rimangono competenti su molti aspetti della legislazione in materia di immigrazione.

33.      Più specificamente, ciò comporta che spetta agli Stati membri decidere della prima ammissione nel loro territorio di persone provenienti da paesi terzi alla luce dei criteri stabiliti dal loro diritto nazionale. Ciò implica che essi possono accogliere un cittadino di un paese terzo solo dopo un esame individuale della persona di cui trattasi, e infatti è questa la prassi generale seguita nella maggior parte degli Stati membri. Una volta ammessi nel territorio di uno Stato membro aderente al sistema Schengen, tutti i singoli hanno il diritto di circolare attraverso le frontiere interne tra tali Stati. Il diritto di soggiornare in uno Stato membro, invece, è disciplinato dal diritto comunitario o dal diritto nazionale, a seconda della nazionalità e dello status giuridico dell’interessato.

34.      In alcune circostanze, l’esercizio dei diritti dei cittadini di paesi terzi familiari di un cittadino comunitario migrante, conferiti loro direttamente dagli atti comunitari in questione, può interferire con la competenza degli Stati membri nel settore dell’immigrazione. Ciò si verifica, come nella causa a qua, quando un familiare cittadino di un paese terzo entra in uno Stato membro e rivendica un diritto di soggiorno in forza del diritto comunitario pur non essendo stato regolarmente ammesso nel territorio di tale Stato membro al fine di soggiornarvi per lungo tempo. Alla luce di tale circostanza, sussiste la chiara esigenza di delimitare la portata di entrambi i settori di competenza.

35.      Non si tratta di un problema che possa risolversi semplicemente applicando il meccanismo della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale contrastante. La questione va invece collocata nel contesto di sfere di competenza coesistenti ma interdipendenti. Come riconosce l’art. 61, lett. a), CE, esiste un evidente rapporto funzionale tra il consentire la libera circolazione all’interno della Comunità in uno spazio senza frontiere interne, come richiesto dall’art. 14 CE, e l’esistenza di controlli affidabili e sicuri alle frontiere esterne di tale spazio. A questo proposito, è possibile tracciare un parallelo con il rapporto esistente tra la libera circolazione delle merci all’interno della Comunità e l’esistenza della tariffa doganale comune e della politica commerciale comune in materia di prodotti importati nella Comunità. Benché le normative nazionali sull’immigrazione non siano ancora state (completamente) armonizzate e possano persistere differenze e disparità, è chiaro che, fino a quando non venga raggiunto un sufficiente grado di armonizzazione, la libera circolazione di tutte le persone all’interno del mercato comune, a prescindere dalla loro nazionalità, dipende dalla reciproca fiducia che gli Stati membri ripongono nelle loro politiche e prassi relative all’ammissione dei cittadini dei paesi terzi nel loro territorio.

C –    La legislazione comunitaria vigente, come interpretata dalla Corte

36.      Il secondo punto da esaminare riguarda l’esatta portata dei diritti conferiti ai familiari di paesi terzi di cittadini comunitari dai vari atti comunitari che disciplinano la libera circolazione dei lavoratori dipendenti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di servizi. Più in particolare, si tratta della questione se il diritto di ingresso in uno Stato membro e il diritto di soggiornarvi vengano concessi a prescindere non solo dalla nazionalità del familiare, ma anche dalla circostanza che egli sia entrato nello Stato membro ospitante da un altro Stato membro o (direttamente) da un paese non membro.

37.      A tale proposito, i termini in cui sono redatte le disposizioni che conferiscono i diritti di ingresso e di soggiorno ai familiari di paesi terzi non sono decisivi. Sia l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 sulla libera circolazione dei lavoratori che l’art. 1 della direttiva 73/148 sulla libera circolazione dei lavoratori autonomi consentono, tra l’altro, ai coniugi dei lavoratori subordinati e autonomi e agli ascendenti a carico, a prescindere dalla loro nazionalità, di stabilirsi con un lavoratore cittadino di uno Stato membro occupato sul territorio di un altro Stato membro o di trasferirsi e risiedere con un cittadino di uno Stato membro stabilito o che intenda stabilirsi in un altro Stato membro per svolgervi attività economiche (15).

38.      Come si è detto, la giurisprudenza della Corte in questo settore non è del tutto priva di ambiguità. La Corte ha adottato sia un’interpretazione elastica che una restrittiva delle condizioni alle quali possono essere fatti valere i diritti conferiti dal diritto comunitario derivato ai familiari di paesi terzi di cittadini comunitari.

39.      L’interpretazione elastica è stata adottata nella sentenza MRAX, in cui la Corte ha dichiarato che il diritto del cittadino di un paese terzo, coniugato con un cittadino di uno Stato membro, di entrare nel territorio degli Stati membri deriva, conformemente al diritto comunitario, dal solo legame familiare. Pur precisando che l’art. 3, n. 2, della direttiva 68/360 e l’art. 3, n. 2, della direttiva 73/148 consentono agli Stati membri di subordinare l’esercizio di tale diritto al possesso di un visto (che è definito come ogni autorizzazione rilasciata o decisione presa da uno Stato membro, necessaria per l’ingresso nel suo territorio (16)), la Corte ha rilevato che queste stesse disposizioni impongono agli Stati membri di accordare alle persone interessate ogni agevolazione per l’ottenimento dei visti ad esse necessari. La politica di uno Stato membro consistente nel respingere alla frontiera il coniuge di un paese terzo di un cittadino comunitario, che tenti di entrare nel territorio di tale Stato senza essere in possesso di un carta d’identità, di un passaporto o di un visto validi, qualora detto coniuge sia in grado di provare la sua identità nonché il legame coniugale e qualora esistano elementi in grado di stabilire che egli rappresenta un rischio per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sanità pubblica, contravviene, tra l’altro, all’art. 3 della direttiva 68/360 e all’art. 3 della direttiva 73/148, letti alla luce del principio di proporzionalità (17). La Corte ha inoltre dichiarato che, in base a una corretta interpretazione dell’art. 4 della direttiva 68/360 e dell’art. 6 della direttiva 73/148, uno Stato membro non può negare il rilascio di un permesso di soggiorno e adottare una misura di espulsione nei confronti del cittadino di un paese terzo che può fornire la prova della sua identità e del suo matrimonio con un cittadino di uno Stato membro, per il solo motivo che egli è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro interessato (18).

40.      Tale pronuncia contrasta nettamente con la sentenza nella causa Akrich, in cui la Corte ha seguito un criterio più restrittivo. Detta causa riguardava un cittadino marocchino che aveva soggiornato illegalmente nel Regno Unito, aveva commesso vari reati durante la sua permanenza ed era quindi stato espulso. Il sig. Akrich era tornato illegalmente nel Regno Unito e aveva sposato una cittadina britannica. Dopo aver lavorato in Irlanda per sei mesi, i coniugi avevano tentato di tornare nel Regno Unito, facendo valere i diritti conferiti ai coniugi dei lavoratori comunitari migranti dall’art. 10 del regolamento n. 1612/68, come interpretato dalla Corte nella causa Singh (19). La Corte ha sottolineato che il regolamento n. 1612/68 riguarda solo la libera circolazione all’interno della Comunità e che esso non dispone nulla in merito all’esistenza dei diritti di un cittadino di un paese terzo, coniugato con un cittadino dell’Unione, relativi all’accesso al territorio della Comunità. Per poter fruire, in una situazione come quella di cui alla causa principale, dei diritti previsti dall’art. 10 del regolamento n. 1612/68, il cittadino di un paese terzo, coniugato con un cittadino dell’Unione, deve soggiornare legalmente in uno Stato membro nel momento in cui avviene il suo trasferimento in un altro Stato membro verso cui il cittadino dell’Unione emigra o è emigrato (20).

41.      Tuttavia, nella causa Commissione/Spagna (21), che è stata decisa oltre un anno dopo la causa Akrich, nell’esaminare le formalità che i familiari di paesi terzi di cittadini comunitari migranti devono espletare in Spagna prima di poter chiedere un permesso di soggiorno, la Corte ha nuovamente adottato l’impostazione seguita nella sentenza MRAX. La Corte ha ribadito che il diritto di entrare nel territorio di uno Stato membro concesso al cittadino di un paese terzo, coniuge di un cittadino di uno Stato membro, deriva dal solo legame familiare e ha concluso che il presupposto costituito dal visto di soggiorno, previsto dalla normativa spagnola e necessario per l’ottenimento del permesso di soggiorno, e di conseguenza il rifiuto di rilasciare tale titolo al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino comunitario, per il fatto che egli avrebbe previamente dovuto richiedere un visto di soggiorno al consolato spagnolo del suo ultimo domicilio, costituisce una misura contraria alle disposizioni delle direttive 68/360, 73/148 e 90/365 (22). Nella motivazione, la Corte non ha fatto riferimento alla sentenza Akrich.

42.      Nella giurisprudenza esiste quindi una palese contraddizione, che deriva dai criteri divergenti adottati nelle sentenze MRAX e Commissione/Spagna, da un lato, e Akrich, dall’altro. Proprio questa diversità di criteri ha indotto l’Utlänningsnämnden a deferire la causa alla Corte.

43.      La questione fondamentale sollevata dalla causa Akrich è se il principio stabilito in tale sentenza si applichi solo nel caso in cui sia stato accertato dalle autorità nazionali che il cittadino di un paese terzo soggiorna illegalmente nel territorio di uno Stato membro. Ne conseguirebbe che tale principio è applicabile non solo quando una persona sia legalmente soggiornante, ma anche quando essa non sia illegalmente presente sul territorio di uno Stato membro. In tal caso, conformemente al criterio MRAX, il rapporto familiare con un cittadino comunitario migrante sarebbe sufficiente a far nascere il diritto ad entrare e soggiornare in uno Stato membro.

44.      Questa interpretazione restrittiva della sentenza Akrich potrebbe fondarsi sul punto 50 della stessa sentenza, in cui la Corte fa espressamente riferimento a «una situazione come quella di cui alla causa principale» come contesto in cui il principio trova applicazione. Un indizio nella direzione opposta, tuttavia, emerge dall’osservazione svolta al punto precedente, in cui la Corte dichiara inequivocabilmente che le disposizioni comunitarie pertinenti riguardano solo la libera circolazione all’interno della Comunità e non dispongono nulla per quanto riguarda l’accesso al territorio della Comunità.

45.      Alla luce di queste osservazioni, è equo concludere che l’attuale normativa concernente le condizioni alle quali i familiari di paesi terzi di cittadini comunitari migranti possono invocare i diritti loro conferiti dal regolamento n. 1612/68 e dalla direttiva 73/148 non appare del tutto coerente.

D –    Vita familiare e libera circolazione

46.      Nell’esame dei diritti di ingresso e soggiorno nel territorio di uno Stato membro dei familiari di paesi terzi di cittadini dell’Unione, la Corte, nella propria giurisprudenza, ha anche attribuito considerevole importanza alla tutela della vita familiare, garantita dall’art. 8 della CEDU.

47.      Nella causa Carpenter (23), si interrogava la Corte in merito alla compatibilità con il diritto comunitario della decisione delle autorità del Regno Unito di espellere una cittadina delle Filippine che aveva soggiornato sul territorio nazionale per un periodo superiore a quello di validità del suo visto turistico e aveva successivamente sposato un cittadino britannico. Poiché quest’ultimo prestava taluni servizi in altri Stati membri, ma lo faceva dal proprio paese d’origine, la sig.ra Carpenter non poteva invocare i diritti conferiti dalla direttiva 73/148 ai coniugi di paesi terzi di cittadini comunitari. La Corte, pertanto, ha esaminato se un diritto di soggiorno a favore del coniuge potesse essere inferito dai principi o da altre norme del diritto comunitario.

48.      Dopo avere stabilito che le attività del sig. Carpenter rientravano nell’ambito di applicazione dell’art. 49 CE, la Corte ha rilevato che «il legislatore comunitario ha riconosciuto l’importanza di garantire la tutela della vita familiare dei cittadini degli Stati membri al fine di eliminare gli ostacoli all’esercizio delle libertà fondamentali enunciate dal Trattato, come emerge in particolare dalle disposizioni dei regolamenti e delle direttive del Consiglio relative alla libera circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi all’interno della Comunità» (24). La Corte ha quindi stabilito che «la separazione dei coniugi Carpenter nuocerebbe alla loro vita familiare e, conseguentemente, alle condizioni di esercizio di una libertà fondamentale da parte del sig. Carpenter. Infatti, tale libertà non potrebbe esplicare pienamente i suoi effetti se il sig. Carpenter fosse dissuaso dall’esercitarla a causa degli ostacoli frapposti, nel suo paese di origine, all’ingresso e al soggiorno di sua moglie» (25).

49.      Per quanto riguarda la questione se tale restrizione della libertà del sig. Carpenter di prestare servizi potesse risultare giustificata, la Corte ha dichiarato che la decisione di espellere la sig.ra Carpenter costituiva un’ingerenza nell’esercizio del diritto del sig. Carpenter al rispetto della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU e non rispettava il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. La decisione di espellere la sig.ra Carpenter, pertanto, costituiva un’ingerenza non proporzionata allo scopo perseguito (26).

50.      Nella sentenza Akrich, la Corte ha stabilito anzitutto che il cittadino di un paese terzo, che sia coniugato con un cittadino dell’Unione che ha esercitato il proprio diritto alla libera circolazione, ma non soggiorni legalmente nello Stato membro di origine del coniuge, non può invocare l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 per rivendicare il diritto di soggiorno in tale Stato membro. Tuttavia, la Corte ha circoscritto l’ambito di applicazione di tale sentenza specificando che quando il matrimonio è autentico, al momento di decidere se ammettere il cittadino di un paese terzo nonostante la sua posizione irregolare rispetto alla normativa in materia di immigrazione, occorre tenere conto del diritto al rispetto della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU. «Benché la CEDU non garantisca, a favore di uno straniero, alcun diritto ad entrare o risiedere nel territorio di un paese determinato, l’esclusione di una persona da un paese in cui vivono i suoi congiunti può rappresentare un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare, tutelato dall’art. 8, n. 1, [della CEDU]. Una simile ingerenza viola la CEDU a meno che essa non corrisponda ai requisiti del n. 2 dello stesso articolo (...)» (27). In questo caso, la Corte ha adottato un atteggiamento più cauto rispetto alla causa Carpenter, lasciando al giudice nazionale il compito di applicare tale criterio.

51.      Infine, farei riferimento alla sentenze nelle cause MRAX e Commissione/Spagna, nelle quali la Corte ha ribadito l’osservazione svolta nella sentenza Carpenter secondo cui dai regolamenti e dalle direttive del Consiglio relativi alla libera circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi all’interno della Comunità deriva, in particolare, che il legislatore comunitario ha riconosciuto l’importanza di garantire la tutela della vita familiare dei cittadini degli Stati membri al fine di eliminare gli ostacoli all’esercizio delle libertà fondamentali enunciate dal Trattato (28).

52.      Oltre ad avermi indotto a concludere, alla fine della sezione precedente, che esiste qualche contraddizione nella giurisprudenza relativa alle norme applicabili ai familiari di paesi terzi di cittadini comunitari migranti, le suesposte considerazioni sembrano anche indicare che il risultato dei procedimenti citati è determinato in ampia misura dalle circostanze specifiche di ciascun caso. In un settore come quello dell’immigrazione, in cui le decisioni adottate dalle autorità competenti incidono molto profondamente sulla vita dei singoli, esiste invece un’esigenza di chiarezza per quanto riguarda la portata dei diritti e la prevedibilità delle modalità di applicazione della legge. Per creare maggiore trasparenza e promuovere la certezza del diritto occorre un approccio più sistematico e strutturale all’interpretazione e applicazione delle norme comunitarie pertinenti.

E –    Nuova legislazione comunitaria

53.      Benché non siano direttamente pertinenti alla soluzione della fattispecie ora in esame, in quanto non sono ad essa applicabili ratione temporis, tuttavia può essere utile fare riferimento ai più recenti sviluppi della legislazione comunitaria in materia di diritto di soggiorno dei cittadini di paesi terzi nel territorio degli Stati membri. Le direttive in questione riguardano sia la componente esterna che quella interna della libera circolazione delle persone.

54.      Il 29 aprile 2004, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato una nuova direttiva sul fondamento degli artt. 12 CE, 18 CE, 40 CE, 44 CE e 52 CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che sostituisce tutte le direttive vigenti in tale ambito (29). Detta direttiva codifica e modifica tutti gli atti comunitari esistenti, tenendo conto dell’interpretazione data a tali atti dalla giurisprudenza della Corte. Analogamente all’art. 10 del regolamento n. 1612/68 e all’art. 1, n. 1, della direttiva 73/148, l’art. 5, nn. 1 e 2, della direttiva 2004/38 conferisce ai familiari di cittadini dell’Unione che non siano cittadini di uno Stato membro il diritto di entrare nel territorio di uno Stato membro, purché siano muniti di un passaporto valido e di un visto d’ingresso in conformità del regolamento n. 539/2001 o, se del caso, della legge nazionale. Ai sensi dell’art. 7, n. 2, della direttiva 2004/38, i familiari non cittadini di uno Stato membro hanno il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi qualora il cittadino dell’Unione soddisfi le varie condizioni previste all’art. 7, n. 1, della direttiva (30).

55.      Altre due direttive concernenti i diritti dei cittadini di paesi terzi sono state adottate sul fondamento dell’art. 63 CE, vale a dire la direttiva 2003/86, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (31), e la direttiva 2003/109, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (32).

56.      Solo la prima di tali direttive è pertinente alla presente causa sotto il profilo sostanziale, ancorché indirettamente, dal momento che si applica esclusivamente al ricongiungimento con i familiari di un cittadino di un paese terzo che sia già legalmente soggiornante in uno Stato membro (il «soggiornante»), mentre ne è espressamente esclusa l’applicazione ai familiari di un cittadino dell’Unione (art. 3, n. 3, della direttiva). L’art. 4, n. 1, della direttiva 2003/86 impone agli Stati membri di autorizzare l’ingresso e il soggiorno dei figli minorenni del soggiornante, a determinate condizioni relative all’ordine pubblico, alla pubblica sicurezza e alla sanità pubblica, nonché alla capacità del soggiornante, in sintesi, di provvedere al sostentamento dei familiari in questione. Per contro, gli Stati membri non sono tenuti, ma sono autorizzati ad ammettere altri familiari, tra cui gli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del suo coniuge, quando sono a carico di questi ultimi e non dispongono di un adeguato sostegno familiare nel paese d’origine (art. 4, n. 2, lett. a)). La direttiva disciplina inoltre, all’art. 5, la procedura di presentazione ed esame delle domande di ammissione a titolo di familiari di soggiornanti. Di regola, le domande devono essere presentate ed esaminate quando i familiari risiedono al di fuori del territorio dello Stato membro interessato, sebbene lo Stato membro, in determinate circostanze, possa derogare a tale principio (art. 5, n. 3). La direttiva doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 3 ottobre 2005.

57.      Alla luce degli atti comunitari vigenti e nuovi, si possono distinguere tre situazioni di fatto che, sebbene possano non risultare significative dal punto di vista del cittadino di un paese terzo, determinano la normativa applicabile alla sua situazione e quindi le sue possibilità di accedere al territorio di uno Stato membro da un paese terzo e, di conseguenza, di acquisire il diritto di soggiorno. In primo luogo, il cittadino di un paese terzo può essere parente di un cittadino di uno Stato membro che non si è avvalso della propria libertà di trasferirsi in un altro Stato membro. In secondo luogo, il cittadino di un paese terzo può essere parente di un cittadino di uno Stato membro che ha esercitato il suo diritto di trasferirsi in un altro Stato membro. In terzo luogo, il cittadino di un paese terzo può essere parente di un altro cittadino di un paese terzo che soggiorna legalmente in uno Stato membro dell’Unione.

58.      Se il cittadino di un paese terzo che si trova nella prima situazione intende entrare in uno Stato membro dall’esterno della Comunità, è chiaramente applicabile la normativa nazionale sull’immigrazione, dal momento che non esistono punti di riferimento per l’applicazione del diritto comunitario. Ciò implica che l’interessato può essere sottoposto a un previo esame individuale.

59.      Nella terza situazione, a decorrere dal 3 ottobre 2005, i diritti del cittadino di un paese terzo sono determinati dalla direttiva 2003/86. Prima di tale data era applicabile la normativa nazionale sull’immigrazione. Come si è rilevato in precedenza, considerato il legame familiare esistente nella fattispecie ora in esame, ai sensi della citata direttiva, gli Stati membri sono liberi di autorizzare o meno l’ingresso e il soggiorno degli ascendenti di primo grado a carico. La direttiva impone anche un esame delle condizioni individuali del richiedente cittadino di un paese terzo.

60.      La seconda situazione è quella in discussione nella presente causa e ai precedenti paragrafi 38-40 si è rilevato come siano possibili due impostazioni. Se il cittadino di un paese terzo fruisce di un diritto di soggiorno direttamente in forza della direttiva 73/148, non sarà soggetto a un esame individuale da parte delle autorità nazionali preposte all’immigrazione. In tal caso, conformemente alla sentenza MRAX, il rapporto familiare sarebbe costitutivo del diritto di soggiorno. Se invece si deve ritenere, conformemente alla giurisprudenza Akrich, che il cittadino di un paese terzo debba già soggiornare legalmente in uno Stato membro per poter invocare i diritti conferiti dalla direttiva 73/148, ciò comporterebbe l’applicazione della normativa nazionale sull’immigrazione anche in tale situazione.

61.      Da questo breve excursus emerge che l’interpretazione elastica data alla direttiva 73/148 nella seconda situazione determina la creazione di un gruppo privilegiato di cittadini di paesi terzi. Tali persone, poiché sono legate a un cittadino comunitario che ha esercitato il diritto a trasferirsi in un altro Stato membro, sono immuni dall’applicazione dei requisiti per l’ingresso e il soggiorno stabiliti dalla normativa nazionale sull’immigrazione. Nelle altre situazioni, non lo sono. Presumendo che, dal punto di vista del cittadino di un paese terzo, i rapporti familiari nelle tre situazioni di fatto siano di per sé equiparabili e che l’unica differenza tra le situazioni consista nella circostanza che il parente cittadino di uno Stato membro si è trasferito in un altro Stato membro, la disparità di trattamento derivante da ciò che ho definito l’interpretazione elastica della direttiva 73/148 richiede una giustificazione.

F –    Ammissione e soggiorno dei familiari di paesi terzi di cittadini comunitari: verso un approccio più sistematico

62.      Al precedente paragrafo 52 ho rilevato che occorre un approccio più sistematico all’interpretazione delle disposizioni comunitarie relative all’ammissione dei familiari di paesi terzi dall’esterno della Comunità nel territorio degli Stati membri e al loro diritto di stabilirsi con cittadini comunitari. Le contraddizioni della giurisprudenza provocano incertezza giuridica per i cittadini di paesi terzi interessati e mancanza di chiarezza per le autorità nazionali responsabili dell’applicazione delle suddette disposizioni. In realtà, l’attuale giurisprudenza determina persino una disparità tra gruppi di cittadini di paesi terzi per la quale non sembra esistere alcuna giustificazione. La giurisprudenza incide anche sulle competenze nazionali nel settore dell’immigrazione, in quanto consente ad alcune categorie di cittadini di paesi terzi di entrare e soggiornare in uno Stato membro senza essere sottoposti a un previo esame individuale.

63.      A mio parere, ai fini dell’interpretazione delle disposizioni pertinenti di diritto comunitario derivato, è essenziale, in linea di principio, rispettare la ripartizione delle competenze tra la Comunità e gli Stati membri stabilita dal Trattato CE. Si deve considerare parte dei compiti della Corte, quali previsti dall’art. 220 CE, non solo garantire l’effettività del diritto comunitario, ma anche rispettare e vigilare sui poteri che il Trattato riconosce come propri degli Stati membri. Ciò vale non solo nel senso negativo di delimitare i poteri della Comunità rispetto a quelli degli Stati membri, ma anche nel senso più positivo di garantire che tali poteri nazionali possano essere effettivamente esercitati.

64.      Nella situazione attuale, è chiaro che la libera circolazione delle persone all’interno della Comunità, in quanto pietra angolare del mercato interno, rientra interamente nelle competenze della Comunità. È altrettanto chiaro che la disciplina dell’immigrazione alle frontiere esterne dell’Unione, dato che l’armonizzazione ai sensi del titolo IV del Trattato non è ancora completa, rimane di competenza degli Stati membri. Mi richiamo ai precedenti paragrafi 30 e segg.

65.      Quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Akrich, secondo cui il regolamento n. 1612/68 «riguarda solo la libera circolazione all’interno della Comunità» e «non dispone nulla in merito all’esistenza dei diritti di un cittadino di un paese terzo, coniugato con un cittadino dell’Unione, relativi all’accesso al territorio della Comunità» (33), si concilia perfettamente con tale ripartizione delle competenze tra la Comunità e gli Stati membri. Poiché la direttiva 73/148 persegue gli stessi obiettivi del regolamento n. 1612/68 con riguardo a una diversa categoria di persone, la stessa conclusione deve valere per tale direttiva. Infatti, che la portata della direttiva sia limitata in maniera analoga è stato riconosciuto, ancorché implicitamente, nella sentenza Carpenter, in cui la Corte ha dichiarato che «sia dagli obiettivi perseguiti sia dal contenuto emerge che la direttiva disciplina le condizioni alle quali un cittadino di uno Stato membro, nonché gli altri soggetti di cui all’art. 1, n. 1, lett. c) e d), possono lasciare lo Stato membro di origine del detto cittadino ed entrare e soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per uno degli scopi enunciati all’art. 1, n. 1, lett. a) e b), e questo per il tempo di cui all’art. 4, n. 1 o 2» (34).

66.      Il fatto che il regolamento n. 1612/68 e la direttiva 73/148 non dispongano nulla in merito alla prima ammissione di un cittadino di un paese terzo nel territorio della Comunità non implica che tali atti siano neutri a tale riguardo. Questa constatazione della Corte non implica l’esistenza di un vuoto che può essere riempito implicitamente mediante un’interpretazione elastica di tali atti. Essa può soltanto significare che, conformemente alla ripartizione delle competenze prevista dal Trattato, la prima ammissione di dette persone è una questione sulla quale spetta agli Stati membri decidere in base alla loro normativa in materia di immigrazione. Ciò implica necessariamente che, secondo quanto ha dichiarato la Corte nella sentenza Akrich, e che cito liberamente, per poter fruire dei diritti conferiti dai suddetti atti comunitari, un familiare di un paese terzo deve soggiornare legalmente in uno Stato membro quando si trasferisce in un altro Stato membro verso cui emigra o è emigrato il cittadino dell’Unione (35).

67.      Ammettere che i cittadini di paesi terzi, che ancora non soggiornano legalmente in uno Stato membro e intendono ricongiungersi con un cittadino di uno Stato membro che ha esercitato la sua libertà di circolazione, fruiscano di un diritto automatico ad entrare e soggiornare nello Stato membro ospitante in base al solo legame familiare, senza alcun intervento da parte di tale Stato membro, consentirebbe a tali persone di eludere le normative nazionali sull’immigrazione. Tale criterio, pertanto, pregiudica i poteri degli Stati membri in materia di controllo dell’immigrazione alle loro frontiere esterne.

68.      Dagli atti comunitari relativi alla libera circolazione all’interno della Comunità si può inoltre desumere che i diritti conferiti da tali atti ai familiari di paesi terzi non sono incondizionati.

69.      Il regolamento n. 1612/68 e la direttiva 73/148 sono stati espressamente adottati per dare attuazione rispettivamente agli artt. 39 CE e 43 CE. Tali atti sono entrambi intesi a rimuovere gli ostacoli per i cittadini degli Stati membri che si avvalgano dei diritti loro conferiti da tali disposizioni del Trattato trasferendosi in altri Stati membri in quanto lavoratori subordinati o autonomi o in quanto prestatori di servizi. Fra tali ostacoli rientrano gli effetti potenziali dell’applicazione della normativa nazionale sull’immigrazione ai familiari del titolare del diritto principale, soprattutto quando tali familiari non possiedono la nazionalità di uno Stato membro. Se tali familiari non fossero sicuri di poter entrare ed essere ammessi in un altro Stato membro, ciò dissuaderebbe il lavoratore comunitario subordinato o autonomo dall’esercitare i diritti conferitigli dal Trattato. Come corollario al diritto del lavoratore comunitario subordinato o autonomo, i soggetti in questione godono anch’essi del diritto di trasferirsi e soggiornare nello Stato membro in cui devono essere svolte le attività economiche.

70.      Alla luce dello scopo principale di tali atti comunitari, ossia eliminare qualsiasi tipo di ostacolo derivante dai requisiti nazionali per l’ingresso e il soggiorno che potrebbero dissuadere il cittadino di uno Stato membro dal trasferirsi in un altro Stato membro per motivi economici, si può sostenere che debba prendersi in considerazione la situazione familiare esistente al momento in cui il cittadino comunitario decide di trasferirsi in un altro Stato membro. Una volta che tale persona si sia trasferita e stabilita in un altro Stato membro, si crea una nuova situazione, in cui la sua posizione giuridica dovrebbe essere equiparabile a quella dei cittadini dello Stato membro ospitante che non hanno esercitato il loro diritto alla libera circolazione. Se una persona rientrante in quest’ultima categoria intende ricongiungersi con un familiare di un paese terzo dall’esterno della Comunità, tale familiare dev’essere ammesso alle condizioni previste dalla normativa nazionale sull’immigrazione. Lo stesso deve valere per un cittadino che ha già esercitato i propri diritti di libera circolazione ed evidentemente non è stato dissuaso dall’esercitare tali diritti per motivi legati all’eventuale mancata ammissione di familiari di paesi terzi. In altre parole, non si può dire che il diritto comunitario conferisca ai cittadini degli Stati membri il diritto di ricongiungersi in qualsiasi momento ai parenti provenienti dall’esterno della Comunità. Sotto questo aspetto, non ritengo che l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 e l’art. 1, n. 1, della direttiva 73/148 debbano essere considerati strumenti per il ricongiungimento familiare a posteriori tra cittadini degli Stati membri e parenti provenienti dall’esterno della Comunità.

71.      La Commissione ritiene che qualora un familiare di un paese terzo intenda seguire un cittadino comunitario nello Stato membro ospitante direttamente dall’esterno della Comunità, imporgli di ottenere un permesso di soggiorno nel paese d’origine del cittadino comunitario equivarrebbe a una restrizione del diritto di quest’ultimo di circolare liberamente all’interno della Comunità. A parte il fatto che, in una situazione come quella di cui alla causa principale, il requisito del soggiorno legale implica che il familiare debba ottenere un’autorizzazione a soggiornare nello Stato membro ospitante ai sensi della normativa nazionale sull’immigrazione, non si può ammettere che la condizione menzionata dalla Commissione comporti necessariamente una restrizione del diritto del cittadino comunitario di trasferirsi in un altro Stato membro. Tale restrizione sussisterebbe se la condizione determinasse una perdita di diritti. Se invece tale diritto, vale a dire quello di ricongiungersi a un familiare, non sussisteva nel momento in cui è stato esercitato il diritto alla libera circolazione, logicamente non si pone alcuna questione di una perdita di diritti che potrebbe comportare una restrizione alla libertà di circolazione.

72.      Vorrei aggiungere che, sebbene sia chiaro che l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 e l’art. 1, n. 1, della direttiva 73/148 hanno l’effetto di tutelare la vita familiare, a mio parere non si può dire che ciò costituisse un obiettivo di tali disposizioni. Quando la Corte ha osservato, prima nella sentenza Carpenter e successivamente nella sentenza MRAX, che, nell’adottare i regolamenti e le direttive, «il legislatore comunitario ha riconosciuto l’importanza di garantire la tutela della vita familiare dei cittadini degli Stati membri al fine di eliminare gli ostacoli all’esercizio delle libertà fondamentali enunciate dal Trattato» (36), tenendo conto del contesto temporale in cui tali atti sono stati adottati, si trattava di una considerazione meramente implicita e, al massimo, di carattere secondario. I preamboli del regolamento n. 1612/68 e della direttiva 73/148 non contengono alcun riferimento alla CEDU, né, significativamente, vi è alcun riferimento del genere nell’atto che è loro succeduto, la direttiva 2004/38. Quest’ultima fa riferimento al rispetto della CEDU solo in senso generale (37). La direttiva sul ricongiungimento familiare, invece, per ovvi motivi, visto il suo scopo principale, fa espressamente riferimento all’art. 8 della CEDU (38). Pertanto, non ritengo che la tutela della vita familiare possa essere utilizzata quale parametro per l’interpretazione della portata e del contenuto delle disposizioni pertinenti del regolamento n. 1612/68 e della direttiva 73/148.

73.      Ciò detto, è importante determinare la funzione dell’art. 8 della CEDU in questo contesto. L’art. 6, n. 2, UE stabilisce che l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. Tale disposizione è rivolta alla stessa Unione e si applica agli Stati membri solo quando essi agiscono per dare attuazione al diritto comunitario e agli atti comunitari, come conferma l’art. II-111, n. 1, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (39). Gli Stati membri, qualora agiscano al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto comunitario, come avviene quando adottano decisioni relative all’accesso di cittadini di paesi terzi al loro territorio, devono sempre rispettare gli obblighi loro imposti dall’art. 8 della CEDU, ma non in quanto vincolati dal diritto comunitario, bensì in quanto firmatari della CEDU. Ritengo che, su questo punto, la sentenza della Corte nella causa Carpenter sia discutibile, laddove ha effettivamente applicato l’art. 8 della CEDU ai fatti di causa.

74.      Infine, al paragrafo 61 ho già rilevato che consentire ai cittadini di paesi terzi, che non siano ancora stati ammessi nel territorio di uno Stato membro e abbiano un legame familiare con un cittadino di uno Stato membro, di entrare e soggiornare nello Stato membro ospitante del cittadino comunitario migrante solo in virtù di detto legame, crea disparità rispetto ai cittadini di paesi terzi che intendono ricongiungersi con un familiare che è cittadino di uno Stato membro ma non si è spostato all’interno della Comunità, o con un familiare cittadino di un paese terzo che soggiorna già legalmente in uno Stato membro. Nei due ultimi casi, i cittadini di un paese terzo vengono sottoposti a un esame individuale prima di essere ammessi, mentre il familiare che si trova nella prima situazione non viene sottoposto a tale esame. Non esiste alcuna giustificazione per tale disparità di trattamento.

75.      Quand’anche le norme applicabili all’ammissione dei cittadini di paesi terzi alle frontiere esterne della Comunità fossero completamente armonizzate, consentire a determinate categorie di persone di accedere al territorio di uno Stato membro e di soggiornarvi in virtù del legame familiare con un cittadino comunitario che ha esercitato il suo diritto alla libera circolazione pregiudicherebbe l’efficacia di tali norme comuni e incentiverebbe abusi come quello all’origine della causa Akrich. Collegare il diritto di soggiorno semplicemente al fattore casuale consistente nella circostanza che un cittadino di uno Stato membro si sia trasferito in un altro Stato membro è arbitrario e iniquo in quanto crea disparità rispetto ai cittadini comunitari che non hanno esercitato tale diritto e rispetto ai cittadini di paesi terzi che non hanno il privilegio di essere parenti di un cittadino comunitario migrante.

76.      In tale contesto, è poi essenziale stabilire che cosa costituisca «soggiorno legale» in uno Stato membro. Allo stadio attuale, i criteri per effettuare tale valutazione non sono stati oggetto di armonizzazione. È ancora prerogativa degli Stati membri determinare quando un cittadino di un paese terzo «soggiorni legalmente» nel loro territorio. Nondimeno, benché tale nozione, di per sé, non sia una nozione comunitaria, occorre individuare alcuni elementi fondamentali della nozione di «soggiorno legale».

77.      Il «soggiorno legale» nel territorio di uno Stato membro implica che 1) a seguito della richiesta di un cittadino di un paese terzo, 2) vi sia una decisione esplicita delle autorità nazionali di uno Stato membro, 3) fondata su un esame individuale, 4) che autorizzi il richiedente ad entrare e soggiornare sul territorio di detto Stato 5) per un periodo di tempo più lungo. Non può porsi alcuna questione di «soggiorno legale» ai fini di tale esame quando la decisione autorizzi espressamente e chiaramente solo un soggiorno di breve durata o quando tale autorizzazione sia concessa solo per un determinato scopo. Sarebbe in contrasto con la funzione stessa di tali permessi, considerarli un elemento sufficiente per dare diritto a soggiorni di lungo periodo o a tempo indeterminato.

78.      Per trovare ulteriori indicazioni circa il significato della nozione di soggiorno legale, un minimo di informazioni può essere tratto dall’art. 3 della direttiva 2003/86, secondo cui il soggiornante, che viene definito all’art. 2, lett. c), come «il cittadino di un paese terzo legalmente soggiornante in uno Stato membro», può chiedere il ricongiungimento con determinati membri della sua famiglia quando è titolare di un permesso di soggiorno di validità pari o superiore a un anno e ha una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile.

79.      Sotto questo profilo, un visto rilasciato per un periodo di tre mesi o un’autorizzazione al soggiorno concessa in attesa dell’esito della richiesta di permesso di soggiorno non costituisce un «soggiorno legale» sufficiente per poter invocare i diritti conferiti ai familiari di paesi terzi dal regolamento n. 1612/68 e dalla direttiva 73/148.

80.      Le suesposte considerazioni portano a concludere che, prendendo come punto di partenza la ripartizione delle competenze tra la Comunità e gli Stati membri nel settore della libera circolazione delle persone, i diritti conferiti dal regolamento n. 1612/68 e dalla direttiva 73/148 ai cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino che intenda esercitare o abbia esercitato il proprio diritto di trasferirsi in un altro Stato membro per svolgervi attività economiche, possono essere fatti valere da tali familiari solo qualora siano stati ammessi nel territorio di uno Stato membro in conformità della normativa sull’immigrazione di detto Stato. Nell’adottare le proprie decisioni in tale contesto, gli Stati membri devono rispettare gli obblighi loro imposti dall’art. 8 della CEDU, non in quanto vincolati dal diritto comunitario, ma in quanto firmatari della CEDU.

81.      Solo applicando questa netta linea di demarcazione tra competenze comunitarie e nazionali è possibile definire con chiarezza la portata dei diritti dei familiari di paesi terzi di cittadini comunitari migranti conferiti loro dal regolamento n. 1612/68 e dalla direttiva 73/148, evitare confusioni nell’esercizio dei poteri conferiti dal diritto comunitario e dalla normativa nazionale sull’immigrazione e garantire la parità di trattamento dei familiari di paesi terzi dei cittadini comunitari provenienti dall’esterno della Comunità.

VII – Soluzione delle questioni pregiudiziali

A –    Questioni 1 a) - 1 d)

82.      Benché la prima questione sollevata dall’Utlänningsnämnden riguardi sia l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 che la direttiva 73/148, dai fatti di causa emerge chiaramente che solo quest’ultima è pertinente alla fattispecie in esame.

83.      La prima questione solleva tre problemi fondamentali, che sono già stati tutti esaminati in generale nel precedente capitolo delle presenti conclusioni. Le soluzioni della prima questione possono quindi essere formulate in breve.

84.      Si ricorderà che il primo di tali problemi (parte a) della prima questione) è se, alla luce della sentenza della Corte nella causa Akrich, un cittadino di uno Stato terzo, parente di un cittadino dell’Unione che svolge attività di lavoro autonomo in uno Stato membro di cui non è cittadino, possa rivendicare il diritto di soggiornare stabilmente nello Stato membro ospitante solo qualora soggiorni già legalmente nella Comunità.

85.      Per i motivi esposti ai paragrafi 62 e segg., è chiaro che, a mio parere, l’art. 1 della direttiva 73/148 dev’essere interpretato nel senso che il diritto di soggiornare stabilmente di un familiare, cittadino di un paese terzo, di un cittadino dell’Unione presuppone effettivamente che tale cittadino di un paese terzo soggiorni legalmente nella Comunità. Ciò implica che, a mio avviso, il principio stabilito dalla sentenza Akrich ha validità generale.

86.      Il secondo punto sollevato nella parte b) della prima questione pregiudiziale riguarda il problema se il requisito del «soggiorno legale» implichi che il familiare di un paese terzo di un cittadino comunitario dev’essere munito di un permesso di soggiorno in corso di validità che gli consenta o gli possa consentire di soggiornare in modo stabile in uno degli Stati membri. In caso contrario, si chiede se sia sufficiente un’autorizzazione al soggiorno emessa per altre ragioni, per una permanenza più o meno lunga o se possa bastare anche un visto valido.

87.      Come ho rilevato ai paragrafi 76-79, il requisito del soggiorno legale implica che il cittadino di un paese terzo di cui trattasi sia stato autorizzato a soggiornare nel territorio di uno Stato membro per un periodo più lungo, tale da offrirgli la prospettiva di ottenere un diritto di soggiorno più stabile. Dall’art. 3 della direttiva 2003/86 si può evincere che, a tal fine, sarebbe sufficiente un periodo di un anno. Qualora il permesso di entrare nel territorio di uno Stato membro sia stata concesso per un periodo più breve o per un determinato scopo, come nel caso di un visto turistico, tale situazione non può essere considerata come un soggiorno legale.

88.      Il terzo problema è stato sollevato nei punti c) e d) della prima questione deferita dall’Utlänningsnämnden: se a un familiare di un cittadino dell’Unione, che non sia cittadino di uno Stato membro, viene negato il diritto di soggiornare stabilmente nello Stato membro in cui quest’ultimo è stabilito o se il detto familiare viene espulso da tale Stato membro, ciò restringe il diritto di libero stabilimento conferito al cittadino dell’Unione dall’art. 43 CE?

89.      L’art. 43 CE impone di eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento. Conformemente a giurisprudenza costante, tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tale libertà devono essere considerate restrizioni di questo tipo (40). La direttiva 73/148 disciplina le condizioni applicabili alla circolazione e al soggiorno all’interno della Comunità dei cittadini degli Stati membri e dei loro familiari, a prescindere dalla loro nazionalità. Se le misure nazionali adottate in relazione al soggiorno di tali persone possono essere considerate restrizioni ai sensi dell’art. 43 CE, esse devono essere esaminate anzitutto nel contesto della direttiva 73/148.

90.      Come si è rammentato ai paragrafi 69 e 70, la detta direttiva mira principalmente a rimuovere gli ostacoli derivanti dai requisiti nazionali relativi all’ingresso e al soggiorno che possano rappresentare un disincentivo per un cittadino di uno Stato membro che intenda trasferirsi in un altro Stato membro allo scopo di svolgervi un’attività economica. Una volta che sia stata esercitata la libertà conferita dall’art. 43 CE, qualsiasi decisione adottata in merito al soggiorno dei familiari cittadini di un paese terzo non ancora prevedibile all’epoca del trasferimento nello Stato membro ospitante, per definizione, non può essere considerata come avente un tale effetto dissuasivo e pertanto non può essere considerata una restrizione ai sensi dell’art. 43 CE.

91.      È ovvio che, nell’adottare tali decisioni, le autorità nazionali devono rispettare gli obblighi loro imposti dall’art. 8 della CEDU. Questa, tuttavia, è una questione di competenza dei giudici nazionali.

B –    Sulle questioni 2 a) e 2 b)

92.      La prima parte della seconda questione è volta ad accertare se l’espressione «[essere] a carico» di cui all’art. 1, lett. d), della direttiva 73/148 si riferisca al fatto che il parente di un paese terzo del cittadino dell’Unione dev’essere economicamente dipendente da quest’ultimo per poter raggiungere un livello minimo di sussistenza accettabile nel suo paese di origine oppure nel paese in cui risiede permanentemente. La seconda parte di tale questione riguarda l’aspetto della prova che può essere chiesta in forza dell’art. 6, lett. b), della direttiva 73/148. Lo Stato membro ospitante può chiedere che siano prodotti documenti atti a provare che esiste un’effettiva situazione di dipendenza economica, oltre all’impegno del cittadino dell’Unione a sostenere il proprio familiare?

93.      Per quanto riguarda la prima questione, si deve osservare che nella sentenza Lebon (41), la Corte, interpretando la stessa nozione di dipendenza dell’art. 10 del regolamento n. 1612/68, ha dichiarato che la condizione di familiare a carico di un lavoratore risulta da una situazione di fatto, vale a dire dal sostegno fornito dal lavoratore, senza che sia necessario determinarne i motivi, né chiedersi se l’interessato sia in grado di provvedere a se stesso esercitando un’attività retribuita (42). Tale definizione è stata ribadita in termini analoghi nella sentenza Zhu e Chen (43), nel contesto della direttiva 90/364 (44), in cui la Corte ha nuovamente rilevato che la qualità di familiare «a carico» del titolare risulta da una situazione di fatto caratterizzata dalla circostanza che il sostegno materiale del familiare è garantito dal titolare del diritto di soggiorno (45).

94.      In nessuna di tali sentenze la Corte ha fatto riferimento a un livello standard di sussistenza per accertare l’esigenza di sostegno economico da parte del cittadino comunitario. Anzi, nella sentenza Lebon ha dichiarato che non occorre determinare i motivi del sostegno economico fornito o la capacità del parente a carico di provvedere a se stesso.

95.      Ciò detto, in un caso come quello di cui alla causa principale, in cui l’essere a carico è un criterio per accertare l’esistenza del diritto di un cittadino di un paese terzo di stabilirsi con un cittadino comunitario in uno Stato membro, risulta necessario accertare se esista effettivamente una reale esigenza di sostegno economico e se tale esigenza sia dimostrata da un’adeguata prova documentale.

96.      La questione se la condizione dell’essere a carico sia soddisfatta va risolta in base a elementi oggettivi, tenendo conto delle circostanze individuali e delle esigenze personali del soggetto che necessita di sostegno. A tale proposito, ritengo che il criterio adeguato consista anzitutto nello stabilire se, alla luce di tali circostanze personali, i mezzi economici della persona a carico consentano a quest’ultima di raggiungere il livello minimo di sussistenza nel paese in cui risiede permanentemente, supponendo che tale paese non sia lo Stato membro in cui essa intende soggiornare. Inoltre, occorre accertare che non si tratti di una situazione temporanea, bensì di una situazione di natura strutturale.

97.      Ai sensi dell’art. 6, lett. b), della direttiva 73/148, la persona che chiede il permesso di soggiorno deve fornire la prova della sua appartenenza a una delle categorie di persone menzionate agli artt. 1-4 della direttiva. Fra tali categorie rientra la condizione di familiare a carico del cittadino comunitario di cui trattasi. A tal fine, la disposizione parallela della direttiva 68/360, l’art. 4, n. 3, lett. e), richiede che venga prodotto un documento rilasciato dall’autorità competente dello Stato di origine o di provenienza da cui risulti che l’interessato è a carico del lavoratore o che con esso conviveva in detto paese. Questo medesimo requisito è richiesto per i familiari di paesi terzi di tutti i cittadini dell’Unione dall’art. 10, n. 2, lett. e), della direttiva 2004/38.

98.      Ciò che rileva in tale contesto è che le autorità nazionali competenti siano convinte dell’esistenza di una situazione di dipendenza. A questo proposito, un documento rilasciato dalle autorità nazionali del paese d’origine costituisce sicuramente un valido elemento di prova, sebbene non sia sempre decisivo. Inoltre, non si può escludere che qualora, secondo le autorità nazionali, tale dichiarazione ufficiale non sia sufficiente, dette autorità possano chiedere ulteriori prove. Né si può escludere che, in mancanza di tale dichiarazione ufficiale, il richiedente cittadino di un paese terzo possa dimostrare la sua dipendenza economica con altri mezzi. Una semplice dichiarazione con cui il cittadino comunitario affermi di avere fornito sostegno al parente in passato e si impegni a continuare a fornire tale sostegno in futuro, di per sé, non è sufficientemente obiettiva per poter dimostrare che il familiare è «a carico» ai sensi dell’art. 1, lett. d), della direttiva 73/148.

VIII – Conclusione

99.      Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di risolvere nei termini seguenti le questioni pregiudiziali sottopostele dall’Utlänningsnämnden svedese:

–        L’art. 1 della direttiva 73/148/CEE dev’essere interpretato nel senso che il diritto di soggiorno stabile di un parente di un cittadino dell’Unione, cittadino di uno Stato terzo, presuppone che il cittadino di uno Stato terzo soggiorni legalmente nella Comunità.

–        Il soggiorno legale all’interno della Comunità implica che il cittadino di un paese terzo in questione sia stato ammesso nel territorio di uno Stato membro per un periodo più lungo, della durata di almeno un anno, tale da offrirgli la prospettiva di ottenere un diritto di soggiorno più stabile. Qualora l’autorizzazione ad entrare nel territorio di uno Stato membro sia stata concessa per un periodo più breve o per un determinato scopo, come nel caso di un visto turistico, ciò non può costituire un soggiorno legale.

–        Qualora un parente di un cittadino dell’Unione, cittadino di uno Stato terzo, non possa fruire di un diritto di soggiorno stabile in forza della direttiva 73/148 in quanto non soggiorna legalmente nella Comunità, il rifiuto di concedere a un parente il permesso di soggiornare stabilmente o la decisione di espellerlo non limita il diritto al libero stabilimento conferito al cittadino dell’Unione dall’art. 43 CE.

–        L’art. 1, lett. d), della direttiva 73/148/CEE dev’essere interpretato nel senso che l’espressione «[essere] a carico» si riferisce alla situazione in cui un parente di un cittadino dell’Unione è economicamente dipendente da tale cittadino dell’Unione per poter raggiungere il livello minimo di sussistenza nel paese in cui risiede permanentemente, che non è lo Stato membro in cui intende soggiornare, e che tale situazione ha carattere strutturale.

–        L’art. 6, lett. b), della direttiva 73/148/CEE dev’essere interpretato nel senso che gli Stati membri possono chiedere a un parente di un cittadino dell’Unione che afferma di essere a carico del cittadino dell’Unione o del coniuge di quest’ultimo di produrre, oltre all’impegno espresso dal cittadino dell’Unione, documenti comprovanti l’esistenza di un’effettiva situazione di dipendenza.


1 – Lingua originale: l'inglese.


2 – Sentenza 23 settembre 2003, causa C-109/01, Akrich (Racc. pag. I-9607).


3 – Sentenza 25 luglio 2002, causa C-459/99, MRAX (Racc. pag. I-6591).


4 – Direttiva del Consiglio 21 maggio 1973, 73/148/CEE, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi (GU L 172 pag. 14).


5 – Citata alla nota 3.


6 – Citata alla nota 2.


7 – Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU L 158, pag. 77).


8 – Direttiva del Consiglio 15 ottobre 1968, 68/360/CEE, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli Stati membri e delle loro famiglie all’interno della Comunità (GU L 257, pag. 13).


9 – V, tra l’altro, sentenze 30 giugno 1966, causa 61/65, Vaassen-Göbbels (Racc. pag. 408), 19 ottobre 1995, causa C-111/94, Job Centre (Racc. pag. I-3361, punto 9), 17 settembre 1997, causa C-54/96, Dorsch Consult (Racc. pag. I-4961, punto 23), e 30 novembre 2000, causa C-195/98, Österreichischer Gewerkschaftsbund (Racc. pag. I-10497, punto 24).


10 – Sentenza 6 luglio 2000, causa C-407/98, Abrahamsson (Racc. pag. I-5539, in particolare punti 28-38).


11 – Sentenza citata alla nota 2, punti 49 e 50.


12 – Sentenze MRAX, citata alla nota 3, punto 59, e 14 aprile 2005, causa C-157/03, Commissione/Spagna (Racc. pag. I-2911, punto 28).


13 – Regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (GU L 257, pag. 2); direttiva 68/360, citata alla nota 8; direttiva 73/148, citata alla nota 4; direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/364/CEE, relativa al diritto di soggiorno (GU L 180, pag. 26), direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/365/CEE, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno cessato la propria attività professionale (GU L 180, pag. 28), e direttiva del Consiglio 29 ottobre 1993, 93/96/CEE, relativa al diritto di soggiorno degli studenti (GU L 317, pag. 59).


14 – Entrambi i documenti sono consultabili su http://europa.eu.int/comm/justice_home/index_en.htm.


15 – Lo stesso vale per i familiari dei prestatori di servizi, che evito di menzionare per non sovraccaricare il testo principale.


16 – Tale definizione è contenuta all’art. 5 del regolamento (CE) del Consiglio 25 settembre 1995, n. 2317, che determina quali siano i paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso di un visto per l’attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri (GU L 234, pag. 1).


17 – Sentenza MRAX, citata alla nota 3, punti 59-62.


18 – Sentenza MRAX, ibid., punto 80.


19 – Sentenza 7 luglio 1992, causa C-370/90, Singh (Racc. pag. I-4265).


20 – Sentenza Akrich, citata alla nota 2, punti 49 e 50.


21 – Citata alla nota 12.


22 – Punto 38.


23 – Sentenza 11 luglio 2002, causa C-60/00, Carpenter (Racc. pag. I-6279).


24 – Punto 38.


25 – Punto 39.


26 – V. punti 41, 43 e 45.


27 – Sentenza Akrich, citata alla nota 2, punto 59.


28 – Sentenze MRAX, citata alla nota 3, punto 53, e Commissione/Spagna, citata alla nota 12, punto 26.


29 – Citata alla nota 7.


30 – Tali condizioni comportano che i cittadini dell’Unione a) siano lavoratori subordinati o autonomi nello Stato membro ospitante o b) dispongano per se stessi e per i propri familiari di risorse economiche sufficienti affinché non divengano un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante, o c) siano iscritti presso un istituto pubblico o privato (…) per seguirvi a titolo principale un corso di studi, inclusa una formazione professionale. Inoltre, il cittadino dell’Unione deve disporre di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante e assicurare all’autorità nazionale competente (…) di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno.


31 – Direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU L 251, pag. 12).


32 – Direttiva del Consiglio 25 novembre 2003, 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU L 16, pag. 44).


33 – Sentenza Akrich, citata alla nota 2, punto 49.


34 – Sentenza Carpenter, citata alla nota 23, punto 35.


35 – Sentenza Akrich, citata alla nota 2, punto 50.


36 – Sentenze Carpenter, citata alla nota 22, punto 38, e MRAX, citata alla nota 3, punto 53.


37 – V. ‘considerando’ 31.


38 – V. ‘considerando’ 2.


39 – GU 2004, C 310.


40 – V., tra l’altro, sentenze 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165, punto 37), e 5 ottobre 2004, causa C-442/02, Caixa-Bank France (Racc. pag. I-8961, punto 11).


41 – Sentenza 18 giugno 1987, causa 316/85, Lebon (Racc. pag. 2811).


42 – Punto 22.


43 – Sentenza 19 ottobre 2004, causa C-200/02, Zhu e Chen (Racc. pag. I-9925).


44 – Citata alla nota 13.


45 – Punto 43.