I –Considerazioni introduttive
1. Nel presente procedimento pregiudiziale, in cui viene in rilievo la problematica dell'encefalopatia spongiforme bovina (Bovine
spongiphorme encephalopathy; in prosieguo: la «BSE»), si tratta essenzialmente di stabilire se uno Stato membro debba adottare
misure contro la Commissione qualora questa non abbia rilasciato un’autorizzazione richiesta dal detto Stato membro.
II –Contesto normativo
A – La normativa comunitaria
2. Per combattere la BSE la Commissione ha adottato la decisione – non più in vigore – 27 giugno 1994, 94/381/CE, concernente
misure di protezione per quanto riguarda l’encefalopatia spongiforme bovina e la somministrazione, con la dieta, di proteina
derivata da mammiferi
(2)
. L’art. 1 della citata decisione disponeva, nella versione rilevante nella presente causa, quanto segue:
«1. Entro 30 giorni dalla notifica della presente decisione, gli Stati membri vietano la somministrazione ai ruminanti, con
la dieta, di proteina derivata da tessuti di mammiferi.
2. Tuttavia, gli Stati membri che adottano un sistema che consente di distinguere proteina animale derivata da ruminanti da
quella derivata da specie di animali non ruminanti sono autorizzati dalla Commissione, conformemente alla procedura di cui
all’articolo 17 della direttiva 90/425/CEE, a consentire la somministrazione ai ruminanti, con la dieta, di proteina derivata
da specie diverse dai ruminanti».
3. L’art. 17 della direttiva 90/425/CEE
(3)
dispone quanto segue:
«Nei casi in cui si fa riferimento alla procedura prevista dal presente articolo, il Comitato veterinario permanente, istituito
con la decisione 68/361/CEE, delibera conformemente alle norme stabilite all’articolo 17 della direttiva 89/662/CEE».
4. L’art. 17 della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1989, 89/662/CEE, relativa ai controlli veterinari applicabili negli scambi
intracomunitari, nella prospettiva della realizzazione del mercato interno
(4)
, dispone, nella versione rettificata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee del 15 giugno 1990
(5)
, quanto segue:
«1. Nei casi in cui si fa riferimento alla procedura definita nel presente articolo, il comitato veterinario permanente istituito
con la decisione 68/361/CEE, in appresso denominato “comitato”, è immediatamente consultato dal presidente, su iniziativa
di quest’ultimo o su richiesta di uno Stato membro.
2. Il rappresentante della Commissione sottopone al comitato un progetto delle misure da adottare. Il comitato formula il
suo parere sul progetto entro un termine di due giorni 6 –Nella versione non rettificata la seconda frase dell’art. 17, n. 2, disponeva quanto segue: «Il comitato formula il suo
parere sul progetto entro un termine che il presidente può fissare in funzione dell’urgenza della questione in esame».. Il parere è formulato alla maggioranza prevista dall’articolo 148, paragrafo 2 del trattato per l’adozione delle decisioni
che il Consiglio deve prendere su proposta della Commissione. Nelle votazioni in seno al comitato, ai voti dei rappresentanti
degli Stati membri viene attribuita la ponderazione definita all’articolo precitato. Il presidente non partecipa al voto.
3. La Commissione adotta le misure previste qualora siano conformi al parere del comitato.
4. Se le misure previste non sono conformi al parere del comitato, o in mancanza di parere, la Commissione sottopone senza
indugio al Consiglio una proposta in merito alle misure da prendere.
Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata.
Se il Consiglio non ha deliberato entro un termine di 15 giorni a decorrere dalla data in cui è stato adito, la Commissione
adotta le misure proposte, a meno che il Consiglio non si sia pronunciato contro queste misure a maggioranza semplice».
5. La decisione della Commissione 18 luglio 1996, 96/449/CE, relativa all’ammissione di sistemi alternativi di trattamento termico
per la trasformazione di rifiuti di origine animale, ai fini dell’inattivazione degli agenti dell’encefalopatia spongiforme
(7)
, vietava, in via di principio, la trasformazione di rifiuti animali di mammiferi, autorizzando solo determinati sistemi.
Per consentire alle imprese interessate di adeguare o sostituire i propri impianti, veniva fissato, come termine per l’entrata
in vigore, il 1° aprile 1997.
B – La normativa nazionale
6. Il Productschap voor veevoeder (associazione di diritto pubblico per il commercio di foraggio – in prosieguo: il «Productschap»)
predisponeva, in un progetto di protocollo (in prosieguo: il «protocollo»), un sistema di produzione e di controllo con il
quale la proteina dei ruminanti poteva essere distinta dalla proteina derivata da altri animali, come ad esempio dai maiali.
7. Il protocollo veniva annesso, quale Allegato I, al Verordening Vvr regeling verwerking dierlijke produkten in diervoeders
(regolamento sulla trasformazione di prodotti di origine animale in alimenti per animali) 9 novembre 1994 (in prosieguo: il
«regolamento 1994»). Tale regolamento contiene il divieto per i produttori di alimenti per animali di trasformare prodotti
di origine animale in alimenti destinati ai ruminanti. Tale divieto non si estende ai prodotti di origine animale provenienti
esclusivamente da non ruminanti, a condizione che il produttore sia stato riconosciuto dal Productschap sulla base del predetto
regolamento e che la partita utilizzata sia stata contrassegnata con un’apposita marchiatura. Il produttore di prodotti di
origine animale viene riconosciuto dal Productschap se esercita la propria attività conformemente al protocollo di cui all’Allegato
I.
8. Tuttavia, il protocollo non è mai entrato in vigore in quanto non è stato approvato dal ministro competente.
9. Con lettera del 29 novembre 1994 lo Stato chiedeva alla Commissione di autorizzarlo, in conformità alla decisione 94/381,
ad applicare il protocollo per la distinzione delle proteine. Il regolamento 1994 non è stato approvato.
10. Lo Stato, nel dicembre 1995, sollecitava la Commissione ad avviare la procedura d’autorizzazione. Nel giugno 1997 chiedeva
con insistenza alla Commissione di dare una risposta definitiva alla sua richiesta, affinché i Paesi Bassi potessero fornire
alle imprese indicazioni precise al riguardo.
11. Lo Staatssecretaris van Volksgezondheid, Welzijn en Sport (Ministro per la Salute, il Benessere e lo Sport) dava attuazione
alla decisione 96/449 tramite il cosiddetto «Regeling warmtebehandelingssystemen en eindproducten» (regolamento sui sistemi
di trattamento termico e sui prodotti finiti) 25 marzo 1997
(8)
, modificato con regolamento 23 luglio 1997
(9)
, ed entrato in vigore il 30 luglio 1997. Dopo tale data, la proteina derivata da tessuti di mammiferi poteva essere ancora
venduta per essere destinata alla dieta dei ruminanti soltanto se sottoposta a trattamento termico.
12. Tale misura (l’obbligo di trattamento termico) valeva anche per il sistema di produzione della Ten Kate, che a partire dal
30 luglio 1997 avrebbe dovuto adottare il prescritto procedimento di trattamento termico. Tuttavia, poiché tale procedimento
avrebbe comportato investimenti notevoli per la Ten Kate, e poiché non vi era ancora alcuna notizia dell’autorizzazione che
la Commissione avrebbe dovuto rilasciare ai sensi della decisione 94/381, la Ten Kate sospendeva la produzione di proteina
derivata da grasso di maiale.
13. Con lettera del 9 marzo 1998 il Ministro invitava il Productschap a conformare il regolamento 1994 e il decreto del Presidente
8 agosto 1994 alla decisione 94/381, in quanto le autorità comunitarie non avrebbero adottato alcuna decisione a breve termine
in merito al protocollo.
14. Il presidente del Productschap emanava allora, il 30 giugno 1998, il Besluit PDV regeling verwerking dierlijke producten in
diervoeders 1998 (decreto 1998 dell’associazione di diritto pubblico per il commercio di foraggio «Productschap Diervoeder»,
concernente la trasformazione di prodotti di origine animale in alimenti per animali)
(10)
. L’art. 2 del citato decreto stabilisce che i produttori di alimenti per animali non possono trasformare in alimenti destinati
ai ruminanti prodotti di origine animale, a meno che si tratti (tra l’altro) di prodotti di origine animale ricavati esclusivamente
da non ruminanti e preparati nei Paesi Bassi in conformità al protocollo di distinzione delle proteine di cui all’Allegato
I da produttori riconosciuti dal Productschap in base al decreto stesso, e sempre che tali prodotti siano muniti della marchiatura
prevista dall’art. 8. Ai sensi dell’art. 3, il riconoscimento previsto dal decreto può essere concesso solo dopo l’approvazione
del protocollo di distinzione delle proteine da parte della Commissione.
15. Il 22 febbraio 1999 lo Staatssecretaris van Landbouw, Natuurbeheer en Visserij (Ministro per l’Agricoltura, la Tutela dell'ambiente
e la Pesca) emanava il Regeling verbod diermelen in diervoeders (regolamento concernente il divieto di farine animali nell’alimentazione
degli animali)
(11)
, entrato in vigore il 1° marzo 1999. Con tale regolamento veniva tassativamente vietato l’uso di proteina animale negli alimenti
destinati ai ruminanti (salvo alcune specifiche eccezioni, non rilevanti nel caso di specie).
III –Fatti e procedimento principale
16. La Ten Kate Musselkanaal B.V. è la società controllante la Ten Kate Europrodukten B.V. e la Ten Kate Produktie Maatschappij
B.V. (in prosieguo: la «Ten Kate»), che si occupano, tra l’altro, della produzione e della vendita di una proteina destinata
al latte per vitelli. Tale proteina costituisce il prodotto finale della trasformazione di grassi animali derivati da maiali.
17. La Ten Kate aveva adeguato il suo procedimento di produzione al protocollo di distinzione delle proteine. Il Rijksdienst voor
de keuring van Vee en Vlees (Ente per il controllo del bestiame e della carne – in prosieguo: il «RVV») aveva autorizzato
la Ten Kate a procedere in tal modo. La Ten Kate era l’unico centro specializzato in lipolisi dei Paesi Bassi a procedere
in base al sistema stabilito nel protocollo di distinzione delle proteine.
18. Il 24 febbraio 1998 la Ten Kate citava lo Stato dinanzi al Rechtbank Den Haag (Tribunale dell'Aja) chiedendo che ne venisse
dichiarata la responsabilità per il danno sorto a causa del divieto, vigente dal 30 luglio 1997, di produzione e vendita di
proteine destinate al latte per vitelli, con conseguente condanna al risarcimento del danno.
19. Il danno sarebbe insorto a causa delle misure adottate dallo Stato sul fondamento normativo delle decisioni 94/381 e 96/449.
Lo Stato avrebbe trascurato di adottare tutte le misure necessarie affinché la Commissione rilasciasse l’autorizzazione richiesta.
20. Nel novembre 1994 lo Stato avrebbe chiesto, infatti, alla Commissione di autorizzarlo, in conformità alla decisione 94/381,
ad utilizzare un sistema di produzione e controllo, elaborato dalle autorità olandesi per la distinzione delle proteine.
21. Il Rechtbank Den Haag ha respinto il ricorso, ma il Gerechtshof Den Haag (Corte d'appello dell'Aja) ha accolto il relativo
appello proposto dalla Ten Kate.
22. E’ pacifico tra le parti del procedimento principale che un ricorso per carenza, proposto direttamente dalla Ten Kate, sarebbe
stato dichiarato irricevibile. D’altro canto, con un ricorso per risarcimento danni ai sensi dell’art. 288 CE la Ten Kate
non avrebbe potuto ottenere il risultato di poter proseguire la propria attività di produzione.
23. Pertanto, allo Hoge Raad (Corte di cassazione olandese) spetta accertare quale potere discrezionale lo Stato abbia di proporre,
o meno, un ricorso per carenza. Lo Hoge Raad deve inoltre accertare se soltanto la Commissione disponga del diritto d’iniziativa
di sottoporre proposte al comitato.
IV –Questioni pregiudiziali
24. Lo Hoge Raad ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
1)
Se si debba risolvere in base alle norme del diritto olandese o in base a quelle del diritto comunitario la questione se lo
Stato, in un caso come quello di specie, sia obbligato, nei confronti di un cittadino che ha un interesse al riguardo, come
la Ten Kate, a far uso delle facoltà di ricorso riconosciutegli dall’art. 175 del Trattato CE (divenuto art. 232 CE) o dall’art. 173
del Trattato CE (divenuto art. 230 CE) e, in caso di inosservanza di tale obbligo, a risarcire il danno subito per tale motivo
dal cittadino.
2)
Qualora si debba risolvere la prima questione in tutto o in parte in base alle norme del diritto comunitario:
2.a)
se il diritto comunitario possa, a determinate condizioni, comportare un obbligo e una responsabilità come quelli considerati
nella prima questione;
2.b)
qualora la soluzione della questione sub 2.a) sia in senso affermativo; quali siano le norme del diritto comunitario applicabili
per risolvere la prima questione in un caso concreto come quello di specie.
3)
Se si debba interpretare l’art. 1, n. 2, della decisione 94/381/CE – se del caso, in combinato disposto con l’art. 17 della
direttiva 90/425/CEE e con l’art. 17 della direttiva 89/662/CEE – nel senso che da esso discende un obbligo a carico della
Commissione o del Consiglio di concedere l’autorizzazione ivi prevista, qualora il sistema, che lo Stato richiedente applica
o intende applicare, risulti effettivamente idoneo a distinguere le proteine dei ruminanti da quelle dei non ruminanti.
4)
Se la soluzione della terza questione possa comportare una restrizione del diritto o dell’obbligo dello Stato, descritto nella
prima questione, di reagire, ai sensi dell’art. 175 del Trattato CE (divenuto art. 232 CE), al mancato rilascio di un’autorizzazione
come quella oggetto del presente caso, ovvero di opporsi, ai sensi dell’art. 173 del Trattato CE (divenuto art. 230 CE), al
diniego di tale autorizzazione.
25. La terza questione viene in rilievo sia nel caso in cui la prima questione debba essere risolta in base al diritto olandese,
sia nel caso in cui essa debba essere risolta in base al diritto comunitario – a condizione che, in quest’ultimo caso, la
questione pregiudiziale sub 2.a) non venga risolta in senso negativo. La quarta questione viene in rilievo solo in connessione
con la questione pregiudiziale sub 2.b).
V –Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali
26. Con la prima questione pregiudiziale si chiede di individuare il fondamento normativo di un eventuale obbligo degli Stati
membri di proporre ricorso per annullamento o per carenza e – in caso di loro mancata proposizione – della conseguente responsabilità
degli Stati stessi.
27. Quale possibile fondamento normativo il giudice a quo indica anche il diritto olandese. In tal modo con la prima questione
viene comunque chiesto di interpretare anche il diritto nazionale.
28. Tuttavia, in base alla competenza attribuita dall’art. 234 CE alla Corte in relazione al procedimento pregiudiziale, l’interpretazione
del diritto nazionale non rientra tra i compiti della Corte. Pertanto, per tale profilo la prima questione pregiudiziale risulta
irricevibile.
VI –Sulla prima e sulla seconda questione
29. Con le prime due questioni – così come esse devono essere restrittivamente intese, tenuto conto dei limiti di competenza della
Corte – il giudice a quo desidera in sostanza sapere se il diritto comunitario obblighi gli Stati membri a proporre il ricorso
per annullamento o per carenza, e se gli Stati membri, in caso di inadempimento di tale obbligo, siano tenuti a risarcire
il danno subito dal cittadino interessato.
30. Poiché un eventuale obbligo risarcitorio di diritto comunitario presuppone la violazione di un obbligo di diritto comunitario,
occorre per prima cosa verificare se il diritto comunitario statuisca effettivamente un obbligo siffatto.
31. Già la mera analisi del disposto letterale dell’art. 230 CE e dell’art. 232 CE in tutte le versioni linguistiche – disposto
che, sul punto, risulta chiaro – rivela, in modo univoco, che tali disposizioni attribuiscono agli Stati membri il potere
di proporre siffatti ricorsi.
32. Un obbligo di tal tipo non può essere desunto né dalla formulazione delle due disposizioni citate, né dal complessivo sistema
di tutela giuridica predisposto dal diritto comunitario. Un obbligo di proporre ricorsi è del tutto estraneo alle pertinenti
disposizioni del diritto primario. Anche le finalità perseguite attraverso la tutela giuridica degli Stati membri non lasciano
spazi un obbligo di proporre ricorsi per annullamento o per carenza. Anzi: gli Stati membri – che peraltro sono anche le Alte
Parti Contraenti, vale a dire gli artefici del diritto primario – intendevano rimettere agli Stati membri, titolari della
legittimazione attiva, la decisione se far uso, o meno, del loro potere di ricorrere. Gli Stati membri dovrebbero conservare,
quindi, la libertà di scelta in proposito.
33. Pertanto manca persino una corrispondente volontà del legislatore.
34. Un obbligo di proporre ricorso rappresenta sempre un’incisiva limitazione delle facoltà della parte, cui è attribuita la legittimazione
attiva. Una restrizione così significativa del potere discrezionale avrebbe avuto bisogno di una previsione sufficientemente
chiara.
35. Contro l’esistenza di un obbligo di proporre il ricorso per annullamento o per carenza milita, altresì, il confronto, prospettato
dal governo francese, con il ricorso per inadempimento di cui all’art. 226 CE. A proposito di quest’ultimo la Corte, con giurisprudenza
costante, ha stabilito che la Commissione non è obbligata a proporre ricorso. Se quindi nemmeno la Commissione, in qualità
di custode dei Trattati, è obbligata a proporre il ricorso di cui all’art. 226 CE, tanto meno gli Stati membri sono obbligati
ad esercitare i poteri loro concessi per controllare il rispetto del diritto comunitario.
36. Nemmeno dal dovere di lealtà degli Stati membri, previsto dall’art. 10 CE, può desumersi un obbligo di proporre ricorso. Vero
è che questa disposizione del diritto primario prevede obblighi di agire a carico degli Stati membri; tuttavia ivi vengono
in rilievo «misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente
trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità». Ciò significa che l’art. 10 CE fa riferimento ad
obblighi di diritto comunitario di cui presuppone già l’esistenza. Per contro, nel presente procedimento deve essere ancora
accertata l’esistenza stessa di un siffatto obbligo.
37. Un obbligo di proporre un ricorso per annullamento o per carenza potrebbe tutt’al più derivare dal diritto nazionale di volta
in volta in questione.
38. La seconda questione sub a) deve pertanto essere risolta dichiarando che il diritto comunitario, in un caso come quello di
specie, non obbliga gli Stati membri a far uso delle facoltà di ricorso, attribuite loro dall’art. 230 CE o dall’art. 232
CE.
39. Poiché la soluzione della seconda questione sub a) è in senso negativo, risulta superfluo risolvere la seconda questione sub
b).
40. La prima questione deve essere decisa dichiarando che la questione se uno Stato, in un caso come quello di specie, sia obbligato,
nei confronti di un cittadino che ha un interesse al riguardo, a far uso delle facoltà di ricorso riconosciutegli dall’art. 232 CE
o dall’art. 230 CE e, in caso di inosservanza di detto obbligo, a risarcire il danno subito per tale motivo dal cittadino,
non può essere risolta in base alle norme del diritto comunitario.
VII –Sulla terza questione
41. Con la terza questione il giudice a quo desidera in sostanza sapere se le pertinenti disposizioni del diritto derivato obblighi
la Comunità a concedere un’autorizzazione.
42. Il disposto letterale dell’art. 1, n. 2, della decisione 94/381, in tutte le versioni linguistiche rilevanti al momento della
sua adozione, depone – per lo meno a prima vista – nel senso che la Commissione è investita dell’obbligo di concedere siffatta
autorizzazione.
43. Ed invero le varie versioni linguistiche impiegano, sostanzialmente, formule del tipo «gli Stati membri (…) sono autorizzati»
(12)
, oppure «gli Stati membri devono (…) essere autorizzati»
(13)
.
44. Questo primo risultato interpretativo dev'essere sottoposto, tuttavia, a verifica tenendo conto del rinvio, operato dall’art. 1,
n. 2, all’art. 17 della direttiva 90/425, il quale a sua volta rinvia alla procedura di cui all’art. 17 della direttiva 89/662.
45. Attraverso tali rinvii si intende garantire che la Commissione adotti la propria decisione nel rispetto di una determinata
procedura comitologica.
46. La norma richiamata, cioè l’art. 17 della direttiva 89/662, disciplina una determinata procedura che prevede il coinvolgimento
di un comitato, segnatamente del comitato veterinario permanente.
47. L’art. 17 della direttiva 89/662 contempla due distinte ipotesi a seconda che le misure previste dalla Commissione siano conformi
al parere del comitato, ovvero non lo siano (o il parere non sia stato formulato).
48. Queste alternative procedurali, disciplinate rispettivamente dal n. 3 e dal n. 4 dell’art. 17 della direttiva 89/662, presentano
un elemento in comune: la Commissione, in un primo momento, prende soltanto una decisione sulle misure previste. Questa è
l’unica decisione che la Commissione può prendere indipendentemente da altri organi. Tale decisione, tuttavia, deve essere
considerata al pari di una proposta e non può essere confusa con il rilascio dell’autorizzazione.
49. La decisione sull’autorizzazione viene assunta soltanto dopo l’adozione della prima decisione e soltanto dopo l’intervento
del comitato. Essa viene assunta – a seconda delle ipotesi – o dalla Commissione o dal Consiglio.
50. Per ragioni di tecnica procedurale può sorgere un obbligo in capo alla Commissione solo rispetto a quegli atti che la Commissione
può compiere da sola. Gli atti, invece, che rientrano nella competenza del Consiglio o del comitato veterinario permanente
non costituiscono oggetto di un tale obbligo. Il problema giuridico affrontato nel presente procedimento pregiudiziale va
tenuto distinto dalla diversa questione se il Consiglio o il comitato siano a loro volta obbligati a compiere determinati
atti.
51. In presenza di un determinato presupposto, la Commissione, in base all’art. 17, n. 3, della direttiva 89/662, è investita,
addirittura in termini espliciti, dell’obbligo di sottoporre al comitato una proposta (e non semplicemente la richiesta dello
Stato membro interessato!) e di adottare le misure previste, e precisamente allorquando tali misure sono conformi al parere
del comitato.
52. Inoltre, anche dall’art. 17, n. 4, comma 1, della direttiva 89/662, sorge un obbligo a carico della Commissione, segnatamente
l’obbligo di sottoporre senza indugio al Consiglio una proposta in merito alle misure da prendere. Ciò vale per il caso in
cui le misure previste non siano conformi al parere del comitato o in mancanza di tale parere.
53. Infine, in base all’art. 17, n. 4, comma 3, della direttiva 89/662, in capo alla Commissione sorge un determinato obbligo
qualora il Consiglio non abbia assunto alcuna deliberazione. In tal caso la Commissione deve adottare le misure da essa proposte,
a meno che il Consiglio non si sia pronunciato contro queste misure a maggioranza semplice.
54. Che l’art. 2, n. 1, della decisione 94/381, in combinato disposto con l’art. 17 della direttiva 90/425 e con l’art. 17 della
direttiva 89/662, debba essere interpretato nel senso che esso statuisce l’esistenza – sia pur soltanto in presenza di determinati
presupposti – di obblighi a carico della Commissione, lo si evince anche dal confronto con altre disposizioni della citata
direttiva.
55. Ed invero la direttiva 89/662 in riferimento alla Commissione contiene, accanto alle menzionate norme, anche disposizioni
formulate espressamente in termini facoltizzanti come dimostrano l’art. 7, n. 1, lett. a), l’art. 8, n. 1, e l’art. 9, n. 3.
56. Quanto alla direttiva 90/425, l'art. 9, n. 1 di quest'ultima, può essere invocato a conferma del fatto che tale direttiva,
come pure altri atti normativi di diritto comunitario derivato, distingue tra la formula «può» e la formula «deve».
57. Questo regime disciplinato dall’art. 1, n. 2, in combinato disposto con l’art. 17 della direttiva 90/425, non viene per nulla
intaccato nemmeno dal penultimo ‘considerando’ della citata direttiva. Infatti anche tale ‘considerando’ rinvia all’art. 17
della direttiva 89/662, in tal modo parimenti «importando» la procedura comitologica ivi prevista.
58. A tal proposito occorre a questo punto verificare se l’art. 17, n. 2, della direttiva 89/662 preveda un termine entro il quale
il comitato deve formulare il proprio parere.
59. Siffatta questione giuridica solleva difficoltà solo in quanto esistono due versioni del pertinente passaggio dell’art. 17,
n. 2, vale a dire della sua seconda frase. Nella prima versione, pubblicata dopo l’adozione della direttiva, manca un termine
espresso. Tuttavia, tale versione è stata successivamente rettificata – benché solo con pubblicazione nel giugno 1990. Soltanto
questa seconda versione rettificata prescrive al comitato un termine di due giorni per formulare il parere. A tal riguardo
balza agli occhi che la versione originale – a differenza dei tipici casi di rettifica – conteneva in tutte le versioni linguistiche
all’epoca vigenti la medesima formulazione, la quale non prevedeva un termine misurato in giorni. Pertanto vennero rettificate
tutte le versioni linguistiche.
60. Poiché tuttavia l’interpretazione dell’art. 17, n. 2, seconda frase, della direttiva 89/662 deve prendere le mosse dalla versione
rettificata, il risultato non è dubbio: il comitato deve deliberare entro un termine di due giorni.
61. Il fatto che tale termine si riferisca all’attività del comitato, e che l’art. 17 non preveda un analogo termine per la Commissione,
non incide affatto sugli obblighi della Commissione risultanti dallo stesso art. 17.
62. A questo punto della nostra analisi si può, pertanto, ritenere assodato che in capo alla Commissione sorge un obbligo di attivarsi.
Da ciò va, tuttavia, tenuta distinta l’ulteriore questione se la Commissione sia obbligata a proporre al comitato veterinario
permanente o al Consiglio misure aventi un determinato contenuto. Nel caso di specie si tratta del rilascio di una determinata
autorizzazione e, in particolare, dei presupposti per il rilascio di siffatta autorizzazione.
63. A tal proposito occorre ricordare che il rilascio dell’autorizzazione non può avvenire ad opera della sola Commissione. Connesso
a tale profilo è anche l’ulteriore problema dell’individuazione di quali siano i vari obblighi che gravano sui vari organi
coinvolti nella procedura.
64. Nel presente procedimento pregiudiziale, tuttavia, occorre principalmente individuare quali siano i presupposti materiali
in presenza dei quali sorge l’obbligo di rilasciare l’autorizzazione.
65. La risposta a tale quesito giuridico si ricava dallo stesso disposto letterale dell’art. 1, n. 2, della decisione 94/381,
che sul punto risulta chiaro. L’autorizzazione può essere concessa soltanto a quegli Stati membri «che adottano un sistema
che consente di distinguere proteina animale derivata da ruminanti da quella derivata da specie di animali non ruminanti».
66. L’art. 1, n. 2, della decisione 94/381 fa quindi riferimento alla presenza di un presupposto oggettivo, e non alla convinzione
della Commissione basata su valutazioni soggettive. Poiché tuttavia la disposizione citata non prevede che in presenza di
tale presupposto lo Stato membro interessato sia ex lege autorizzato, ma prescrive espressamente il rilascio di un’autorizzazione,
si deve ritenere che gli organi coinvolti nella procedura di cui all’art. 17 della direttiva 89/662, e cioè il comitato veterinario
permanente, la Commissione e il Consiglio, siano tenuti a verificare la sussistenza dei presupposti necessari.
67. L’art. 1, n. 2, della decisione 94/381 dev'essere inoltre interpretato nel senso che l’attività delle imprese è illecita anche
nell’ipotesi in cui, pur essendo essa conforme ad un sistema nazionale oggettivamente idoneo, per tale sistema non sia stata
ancora rilasciata l’autorizzazione di diritto comunitario. Un permesso rilasciato soltanto da una autorità dello Stato interessato
non può sostituire un’autorizzazione da parte della Comunità e, pertanto, non costituisce un fondamento sufficiente per l’esercizio
di un’attività conforme al diritto comunitario.
68. L’art. 1, n. 2, della decisione 94/381 dev'essere inteso, pertanto, nel senso che gli organi coinvolti nella procedura di
cui all’art. 17 della direttiva 89/662 non possono limitarsi soltanto a farsi un’idea del funzionamento del sistema per il quale lo Stato membro interessato ha richiesto l’autorizzazione,
ma sono specificamente obbligati ad esaminare la situazione concreta.
69. La Commissione deve quindi convincersi dell’idoneità del sistema. A tal fine ha a disposizione una pluralità di mezzi come,
ad esempio, l’effettuazione di ispezioni o la richiesta di informazioni. A tale scopo deve essere concesso alla Commissione
anche il tempo all’uopo necessario. Di ciò tiene invero conto anche il regime della decisione 94/381, la quale non fissa alcun
termine alla Commissione.
70. Il regime risultante dalle norme della decisione 94/381, della direttiva 90/425 e della direttiva 89/662 si differenzia in
tal modo dal regime che era, invece, alla base della causa Monsanto e a proposito del quale la Corte ha stabilito che la
Commissione non era vincolata al parere del comitato
(14)
. A prescindere dal fatto che alla base della normativa rilevante in quel procedimento vi era un rapporto del tutto differente
tra Commissione e comitato, la Commissione, in forza della norma ivi rilevante, doveva adottare le proprie misure «tenendo
conto» del parere del comitato
(15)
.
71. In merito alla questione se, nel caso oggetto della presente causa, la Commissione o un altro organo fosse obbligato a rilasciare
l’autorizzazione richiesta dai Paesi Bassi, occorre prima di tutto osservare che gli organi competenti della Comunità non
avevano la convinzione che lo Stato membro interessato avesse adottato un sistema che consentisse di distinguere una proteina
animale derivata da ruminanti da una derivata da specie di animali non ruminanti.
72. L’eventuale violazione, in concreto, da parte della Commissione del suo obbligo avrebbe comunque potuto formare oggetto di
un ricorso per carenza ai sensi dell’art. 232 CE. Tuttavia, non potrebbe certo costituire oggetto di un procedimento pregiudiziale,
come quello attuale, la questione se un siffatto ricorso per carenza avrebbe prodotto l’esito sperato.
73. Per contro, occorre verificare se l’esame della eventuale conformità del sistema, presentato dai Paesi Bassi, ai dettami del
diritto comunitario costituisca oggetto del presente procedimento pregiudiziale.
74. L’oggetto di un procedimento pregiudiziale va determinato sulla scorta delle questioni pregiudiziali – in connessione con
le altre parti dell’ordinanza di rinvio. In tal modo vengono naturalmente segnati soltanto i confini ultimi dell'oggetto di
un procedimento. Infatti non rientrano nell’oggetto di un procedimento quelle questioni pregiudiziali che risultano in tutto
o in parte irricevibili. Peraltro, nel presente caso, dalle questioni pregiudiziali e dall’ordinanza di rinvio si evince che
tra le questioni proposte dal giudice a quo non compare quella concernente l’idoneità del sistema di cui era stata richiesta
l’autorizzazione. D’altro canto, un ampliamento dell’oggetto del procedimento non è possibile.
75. Peraltro, l’idoneità del sistema, di cui era stata richiesta l’autorizzazione, non potrebbe essere presa in esame anche per
l’ulteriore motivo che ciò implicherebbe la verifica della conformità di una misura nazionale con il diritto comunitario,
verifica che non può costituire oggetto di un procedimento pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 CE.
76. Infine, la valutazione della condotta degli organi che hanno effettivamente partecipato o che avrebbero dovuto partecipare
alla procedura in questione implicherebbe un giudizio sulle circostanze di un caso concreto, il che, in base all’art. 234
CE, travalicherebbe ancora una volta il possibile oggetto di un procedimento pregiudiziale.
77. La terza questione deve pertanto essere risolta dichiarando che l’art. 1, n. 2, della decisione 94/381 – in combinato disposto
con l’art. 17 della direttiva 90/425 e con l’art. 17 della direttiva 89/662 – deve essere interpretato nel senso che esso
impone alla Commissione l’obbligo di proporre al comitato veterinario permanente o al Consiglio di concedere un’autorizzazione
ad uno Stato membro, ovvero l’obbligo di concedere tale autorizzazione qualora ciò risulti conforme al parere del comitato
o, in caso contrario, qualora il Consiglio non abbia deliberato entro un termine di 15 giorni a decorrere dalla data in cui
è stato adito, a meno che il Consiglio stesso non si sia pronunciato in senso contrario a maggioranza semplice. Anche sul
comitato veterinario permanente e sul Consiglio grava, pertanto, un obbligo di agire. L’obbligo di concedere l’autorizzazione
presuppone che lo Stato membro interessato adotti un sistema che consenta di distinguere una proteina animale derivata da
ruminanti da una derivata da specie di animali non ruminanti.
VIII –Sulla quarta questione
78. La quarta questione, su indicazione dello stesso giudice a quo, viene in rilievo solo in connessione con la questione sub
2.b), la quale, a sua volta, viene in rilievo solo in caso di soluzione in senso affermativo della questione pregiudiziale
sub 2.a), vale a dire solo nel caso in cui il diritto comunitario possa, a determinate condizioni, comportare un obbligo e
una responsabilità. Pertanto, considerata la soluzione qui proposta per la prima e la seconda questione, non risulta necessario
risolvere la quarta questione.
IX –Conclusione
79. Sulla base delle considerazioni sopra svolte, propongo alla Corte di risolvere le questioni pregiudiziali nei seguenti termini:
1)
La questione se uno Stato, in un caso come quello di specie, sia obbligato, nei confronti di un cittadino che ha un interesse
al riguardo, a far uso delle facoltà di ricorso riconosciutegli dall’art. 232 CE o dall’art. 230 CE e, in caso di inosservanza
di detto obbligo, a risarcire il danno subito per tale motivo dal cittadino, non può essere risolta in base alle norme del
diritto comunitario.
2)
L’art. 1, n. 2, della decisione 94/381/CE – in combinato disposto con l’art. 17 della direttiva 90/425/CEE e con l’art. 17
della direttiva 89/662/CEE – deve essere interpretato nel senso che esso impone alla Commissione l’obbligo:
–
di verificare l’esistenza del presupposto prescritto dall’art. 1, n. 2, della decisione 94/381;
–
di proporre al comitato veterinario permanente o al Consiglio di concedere un’autorizzazione ad uno Stato membro;
–
di concedere tale autorizzazione qualora ciò risulti conforme al parere del comitato o, in caso contrario, qualora il Consiglio
non abbia deliberato entro un termine di 15 giorni a decorrere dalla data in cui è stato adito, a meno che il Consiglio stesso
non si sia pronunciato in senso contrario a maggioranza semplice.
Obblighi di agire gravano anche sul comitato veterinario permanente e sul Consiglio.
3)
L’obbligo di concedere l’autorizzazione presuppone che lo Stato membro interessato adotti un sistema che consenta di distinguere
una proteina animale derivata da ruminanti da una derivata da specie di animali non ruminanti.
Direttiva del Consiglio 26 giugno 1990, 90/425/CEE, relativa ai controlli veterinari e zootecnici applicabili negli scambi
intracomunitari di taluni animali vivi e prodotti di origine animale, nella prospettiva della realizzazione del mercato interno
(GU L 224, pag. 29).
Nella versione non rettificata la seconda frase dell’art. 17, n. 2, disponeva quanto segue:
«Il comitato formula il suo parere sul progetto entro un termine che il presidente può fissare in funzione dell’urgenza della
questione in esame».
V. art. 6, n. 3, del regolamento (CEE) del Consiglio 26 giugno 1990, n. 2377, che definisce una procedura comunitaria per
la determinazione dei limiti massimi di residui di medicinali veterinari negli alimenti di origine animale (GU L 224, pag. 1),
più volte modificato.