Conclusioni dell avvocato generale

Conclusioni dell avvocato generale

1. Nel presente procedimento pregiudiziale il Gerechtshof te’s-Gravenhage (Corte d’appello dell’Aja) chiede sostanzialmente alla Corte di chiarire il significato dell’espressione «usare [un segno] nel commercio» di cui all’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa (2) . Più in particolare, il giudice del rinvio chiede i) se l’introduzione nella Comunità mediante la procedura di transito esterno di merci non comunitarie contrassegnate da un marchio originale, il loro immagazzinamento in un deposito doganale comunitario, l’offerta in vendita o la vendita delle merci così immagazzinate, in tutti i casi in cui ciò avvenga senza il consenso del titolare del marchio, debbano essere considerati «uso nel commercio di un segno» ai sensi dell’art. 5 e ii) a quale delle parti incomba l’onere della prova nel giudizio relativo alla violazione del marchio d’impresa scaturente da tali situazioni.

2. Il consenso del titolare alle operazioni in questione è rilevante a causa del principio dell’esaurimento comunitario dei diritti di marchio. Tale principio, sviluppato originariamente dalla Corte nel contesto degli artt. 30 e 36 del Trattato CE (divenuti artt. 28 CE e 30 CE), è attualmente sancito dall’art. 7 della direttiva sui marchi d’impresa. La sostanza di detto principio è che il titolare del marchio non può far valere i propri diritti su prodotti che siano stati immessi sul mercato comunitario con tale marchio da lui o con il suo consenso (3) .

Disposizioni comunitarie pertinenti

Normativa sui marchi d’impresa

3. L’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa dispone quanto segue:

«1. Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

(...)

3. Si può in particolare vietare, se le condizioni menzionate al paragrafo 1e 2 sono soddisfatte:

a) (...)

b) di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire servizi contraddistinti dal segno;

c) di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno;

(…)».

4. Gli artt. 9, n. 1, lett. a), e 9, n. 2, lett. b) e c), del regolamento sul marchio comunitario (4) contengono disposizioni identiche, per quanto riguarda i marchi comunitari, all’art. 5, n. 1, lett. a), e n. 3, lett. b) e c), della direttiva sui marchi d’impresa.

Diritto doganale

5. L’art. 24 CE così recita:

«Sono considerati in libera pratica in uno Stato membro i prodotti provenienti da paesi terzi per i quali siano state adempiute in tale Stato le formalità di importazione e riscossi i dazi doganali (…) esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi (…)».

6. L’art. 37, n. 1, del regolamento n. 2913/92 (5), che istituisce un codice doganale comunitario, dispone che le merci introdotte nel territorio doganale della Comunità sono sottoposte, fin dalla loro introduzione, a vigilanza doganale. L’art. 38, n. 1, lett. a), prevede che esse devono essere condotte senza indugio dalla persona che ha proceduto a tale introduzione all’ufficio doganale designato dall’autorità doganale. L’art. 48 stabilisce che le merci non comunitarie presentate in dogana devono ricevere una delle destinazioni doganali ammesse per tali merci.

7. L’art. 4, n. 15, del regolamento n. 2913/92 definisce «destinazione doganale di una merce», tra l’altro, il vincolo della merce ad un regime doganale. L’art. 4, n. 16, definisce «regime doganale», tra l’altro, «il transito» e «il deposito doganale».

8. L’art. 59 prevede quanto segue:

«1. Le merci destinate ad essere vincolate ad un regime doganale devono essere dichiarate per il regime doganale prescelto.

2. Le merci comunitarie dichiarate per il regime (…) del transito o del deposito doganale sono poste sotto vigilanza doganale all’atto dell’accettazione della dichiarazione in dogana fino a quando escano del territorio doganale della Comunità o siano distrutte o fino a quando la dichiarazione in dogana sia invalidata».

Regime di transito esterno

9. Generalmente, il regime di transito esterno riguarda merci provenienti da paesi terzi e non immesse in libera pratica nella Comunità. La Corte ha spiegato nei termini seguenti la finzione giuridica soggiacente a tale regime:

«Le merci vincolate a questo regime non sono assoggettate ai dazi all’importazione corrispondenti né alle altre misure di politica commerciale, come se non fossero mai entrate nel territorio comunitario. In realtà esse sono importate da un paese terzo e percorrono uno o più Stati membri prima di essere esportate verso un altro paese terzo» (6) .

10. L’art. 91, n. 1, del regolamento n. 2913/92 dispone che il regime di transito esterno «consente la circolazione da una località all’altra del territorio doganale della Comunità (…) di merci non comunitarie, senza che tali merci siano soggette ai dazi all’importazione e ad altre imposte, né alle misure di politica commerciale».

11. L’art. 92 stabilisce che il regime di transito esterno ha fine «quando le merci e il documento corrispondente sono presentati in dogana all’ufficio doganale di destinazione conformemente alle disposizioni del regime in questione». L’ufficio doganale di destinazione è l’ufficio doganale al quale le merci vincolate al regime di transito comunitario devono essere presentate per porre termine a tale regime (7) .

Deposito doganale

12. Il deposito doganale è un regime che consente agli importatori di immagazzinare le merci importate quando al momento dell’importazione non sia nota la loro destinazione. Le merci possono essere successivamente riesportate, nel qual caso non sono dovuti i dazi all’importazione, o immesse in libera pratica, e in tal caso i dazi all’importazione sono esigibili. La Corte ha dichiarato che «la funzione essenziale dei depositi doganali è quella di assicurare l’immagazzinamento delle merci» e non di consentire il passaggio di una merce da uno stadio commerciale ad un altro (8) .

13. Poiché il deposito doganale rientra tra i regimi doganali economici (9), il ricorso allo stesso è subordinato al rilascio di apposita autorizzazione da parte delle autorità doganali (10) . Tale autorizzazione dev’essere concessa solo alle persone che offrono tutte le garanzie necessarie per l’ordinato svolgimento delle operazioni e solo se le autorità doganali possono garantire la sorveglianza e il controllo del regime senza oneri amministrativi sproporzionati rispetto alle necessità economiche del regime stesso (11) .

Causa principale e questioni pregiudiziali

14. La SmithKline Beecham plc, società di diritto britannico, è titolare di due marchi del Benelux per la classe 3 (pasta dentifricia o prodotti per l’igiene dentale). La Beecham Group plc, società di diritto britannico, è titolare di un marchio del Benelux e di marchi comunitari, tutti relativi a prodotti della classe 3. I marchi sono marchi figurativi con l’indicazione Aquafresh consistenti in una striscia stilizzata di dentifricio striata di rosso, bianco e blu. Farò riferimento congiuntamente alla SmithKline Beecham plc e alla Beecham Group plc come «le appellate» (12) .

15. La Class International BV (in prosieguo: l’«appellante»), società di diritto olandese, nel 2001/2002 acquistava container di prodotti da un’impresa sudafricana. La presente controversia riguarda un container contenente dentifrici contrassegnato dai marchi in questione. Le merci venivano trasportate a Rotterdam dall’esterno dello Spazio economico europeo (in prosieguo: il «SEE») nel febbraio 2002 su richiesta dell’appellante e ivi immagazzinate in un deposito doganale. I prodotti sono merci originali contrassegnate dal marchio, ma le appellate non avevano acconsentito, e non lo hanno ancora fatto, alla loro immissione nel SEE.

16. Il 5 marzo 2002 il container in questione veniva posto sotto sequestro conservativo dalle autorità doganali su richiesta delle appellate. Dalle osservazioni scritte dell’appellante emerge che il sequestro conservativo è stato disposto conformemente alla normativa comunitaria che vieta l’ingresso di merci contraffatte e di merci usurpative ai fini, tra l’altro, del deposito doganale e del regime di transito esterno (13), ai sensi della quale un ufficio doganale può porre merci sotto sequestro conservativo qualora ritenga che siano contraffatte o usurpative e il titolare del marchio assertivamente violato abbia ottenuto un provvedimento in tal senso disposto dalle autorità doganali competenti. In seguito si appurava che le merci in questione non erano contraffate né usurpative ai sensi della menzionata normativa.

17. La domanda con cui l’appellante chiedeva la revoca del sequestro delle merci e il risarcimento dei danni da parte delle appellate veniva respinta dal presidente del Rechtbank Rotterdam. L’appellante ha impugnato tale decisione dinanzi al Gerechtshof te’s-Gravenhage; le appellate hanno presentato un appello incidentale. L’appello e l’appello incidentale vertono sulla questione se l’immagazzinamento temporaneo in un deposito doganale di merci contrassegnate da marchi originali aventi lo status di merci in transito doganale e/o il transito di tali merci verso paesi esterni al SEE vadano considerati come uso del marchio ai sensi dell’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa.

18. Il Gerechtshof te’s-Gravenhage ritiene che non sia stato dimostrato che vi fosse già un acquirente dei dentifrici quando essi sono stati introdotti nel territorio dei Paesi Bassi o quando le merci sono state sequestrate. Il Gerechtshof considera in particolare che non è stato dimostrato in maniera soddisfacente che, come afferma l’appellante, i dentifrici sono stati venduti e sono destinati ad un cliente in Ucraina. Né è stato provato che i dentifrici siano stati venduti e saranno consegnati ad un cliente stabilito all’interno del SEE. Tuttavia, il Gerechtshof non esclude la possibilità che il primo acquirente dei dentifrici possa essere stabilito all’interno del SEE.

19. Il Gerechtshof te’s-Gravenhage ha disposto la sospensione del procedimento e ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni:

«1) Se il titolare di un marchio possa opporsi all’introduzione, senza suo consenso, di merci provenienti da paesi terzi, contrassegnate da un marchio ai sensi de[lla direttiva sui marchi d’impresa] e/o del regolamento n. 40/44, nel territorio di uno Stato membro (nella fattispecie nel territorio dei Paesi Bassi/dei paesi del Benelux) nell’ambito del trasporto di beni in transito o del commercio di transito come inteso in prosieguo.

2) Se l’espressione “usare [un segno] nel commercio”, ai sensi dell’art. 5, n. 1, prima frase, in combinato disposto con l’art. 5, n. 3, lett. b) e c), della direttiva, e dell’art. 9, n. 1, prima frase, in combinato disposto con l’art. 9, n. 2, lett. b) e c), del regolamento n. 40/94, comprenda l’immagazzinamento nel territorio di uno Stato membro, in un ufficio doganale o in un deposito, di merci originali (provviste di un marchio ai sensi della direttiva sopra menzionata, della [Eenvormige Beneluxwet op de merken (legge uniforme Benelux sui marchi; in prosieguo: la “LBM”)] e/o del regolamento n. 40/94) che non sono state introdotte nel SEE dal titolare del marchio o con il suo consenso, provengono dall’esterno del SEE e, dal punto di vista doganale, hanno lo status di merci non comunitarie (ad esempio T1 o DAA).

3) Se, ai fini della soluzione delle questioni 1) e 2), sia rilevante che al momento dell’entrata nel territorio di cui trattasi la destinazione finale di tali merci sia o meno certa, oppure che riguardo a tali merci sia stato concluso o meno un accordo (per l’acquisto) con un cliente in uno paese terzo.

4) Se, nell’ambito della soluzione delle questioni 1), 2) e 3), abbia rilevanza l’eventuale sussistenza di ulteriori circostanze, quali

a) il fatto che l’operatore commerciale, che è proprietario delle merci di cui trattasi, o almeno dispone delle stesse, e/o si occupa di commercio parallelo, sia stabilito in uno degli Stati membri;

b) il fatto che tali merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna non sia (ancora) certo;

c) il fatto che tali merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna delle merci in tal modo offerte o vendute sia certo, ma non lo sia il luogo di destinazione finale, e che ciò avvenga o meno con l’espressa indicazione o la limitazione contrattuale che si tratta di merci non comunitarie (in transito);

d) il fatto che tali merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito al di fuori del SEE, laddove siano o meno certi il luogo della consegna e/o la destinazione finale delle merci;

e) il fatto che tali merci siano offerte in vendita, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un operatore stabilito al di fuori del SEE, del quale l’operatore (parallelo) sappia o abbia seri motivi di ritenere che rivenderà o consegnerà le merci di cui trattasi a consumatori finali all’interno del SEE.

5) Se la nozione di “offrire” di cui alle disposizioni menzionate nella questione 1) debba essere interpretata nel senso che in essa rientra anche l’offerta (in vendita) di merci originali (provviste di un marchio ai sensi della direttiva, della LBM e/o del regolamento n. 40/94) immagazzinate in un ufficio doganale o in un deposito nel territorio di uno Stato membro, che non sono state introdotte nel SEE dal titolare o con il suo consenso, provengono dall’esterno del SEE e che, dal punto di vista doganale, hanno lo status di merci non comunitarie (ad esempio T1 o DAA), nelle circostanze indicate supra, nelle questioni 3) e 4).

6) In relazione alle operazioni menzionate supra, nelle questioni 1), 2) e 5), su quale delle parti grava l’onere della prova».

20. Hanno presentato osservazioni scritte l’appellante, le appellate e la Commissione.

21. Poiché l’art. 9 del regolamento sul marchio comunitario conferisce ai titolari di un marchio d’impresa comunitario la medesima tutela garantita dall’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa ai titolari di un marchio registrato, nell’analisi delle questioni pregiudiziali, per motivi di semplicità, farò riferimento soltanto alla direttiva.

Sulla prima questione

22. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede se il titolare di un marchio d’impresa possa opporsi all’immissione senza il suo consenso nel territorio di uno Stato membro di merci contrassegnate dal marchio provenienti da paesi terzi nell’ambito del trasporto di beni in transito o del commercio di transito.

23. È pacifico che per «trasporto di beni in transito» il giudice del rinvio intende il passaggio nel territorio di Stati membri di merci non comunitarie soggette al regime comunitario di transito esterno e per «commercio di transito» intende le operazioni relative a merci non comunitarie per le quali non sono state espletate le formalità di importazione, che quindi non sono state formalmente importate nella Comunità, e pertanto, fintantoché permangono tali condizioni, mantengono lo status di merci non comunitarie. Il commercio di transito può riguardare merci soggette al regime di deposito doganale comunitario; il problema se l’immagazzinamento delle merci in un deposito doganale violi i marchi che contraddistinguono i prodotti costituisce l’oggetto della seconda questione, mentre il problema se l’offerta in vendita o la vendita di tali prodotti costituisca un’infrazione è l’oggetto della quarta e della quinta questione.

24. L’appellante sostiene che la prima questione va risolta in senso negativo. Se l’immissione nella Comunità di merci non comunitarie mediante transito commerciale fosse considerata «uso nel commercio di un segno» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva sui marchi d’impresa, ciò limiterebbe in misura significativa le economie degli Stati membri, in quanto tutti i trasporti di beni in transito e i transiti commerciali di merci contrassegnate, effettuati senza il consenso del titolare del marchio, costituirebbero violazioni del marchio. Non può essere questo l’obiettivo o l’effetto della legislazione comunitaria. Inoltre, dalle sentenze Commissione/Francia (14) e Rioglass (15) discende che tale limitazione non è giustificabile in base al diritto comunitario.

25. Le appellate sostengono la tesi opposta. Esse affermano che «l’uso nel commercio di un segno» comprende qualsiasi uso commerciale o professionale (diverso da quello esclusivamente scientifico). L’importazione di merci contrassegnate da un marchio, anche nel contesto dell’art. 5, n. 3, lett. c), della direttiva sui marchi d’impresa, significa immettere le merci nel territorio di uno Stato membro. L’importazione – quantomeno nella fattispecie ora in esame – è volta a conseguire un vantaggio commerciale. Il fatto che le formalità di importazione non siano ancora state espletate e che pertanto le merci non siano ancora in libera pratica è irrilevante. La maggior parte dei regimi di transito comporta il rischio che le merci possano essere immesse in libera pratica nel SEE senza il consenso del titolare del marchio, il quale, di conseguenza, deve potersi opporre all’importazione delle merci e alla loro presenza, anche temporanea.

26. La Commissione sostiene che l’espressione «importare (…) prodotti contraddistinti dal segno» ai sensi dell’art. 5, n. 3, lett. c), della direttiva sui marchi d’impresa non include l’immissione dei prodotti nella Comunità in base al regime di transito. Benché l’art. 5, n. 3, lett. c), non sia perfettamente chiaro, dai lavori preparatori emerge che l’obiettivo era far sì che il titolare potesse opporsi solo all’importazione finalizzata alla commercializzazione nella Comunità. Tale interpretazione, inoltre, è coerente con la definizione di merci in libera pratica di cui all’art. 24 CE, in quanto le formalità relative all’importazione non vengono espletate né i dazi riscossi nel caso in cui le merci siano in transito.

27. A mio parere, la prima questione, benché formulata in termini generali, di fatto è diretta a chiedere un’interpretazione dell’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa, che riguarda i diritti conferiti da un marchio. L’art. 5, n. 1, dispone che un marchio d’impresa conferisce al titolare un diritto esclusivo. Ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. a), tale diritto esclusivo consente al titolare di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato. Nella fattispecie, il titolare intende opporsi all’immissione nella Comunità senza il suo consenso di merci contrassegnate dal suo marchio originale quando l’immissione avviene mediante transito esterno comunitario. Pertanto, con la detta questione si chiede in sostanza se l’immissione nella Comunità, senza il consenso del titolare del marchio, di merci contrassegnate provenienti da un paese terzo e soggette al regime di transito esterno violi il diritto esclusivo conferito al titolare del marchio dall’art. 5, n. 1, della direttiva sui marchi d’impresa, e in particolare se ciò equivalga ad «usare [il marchio] nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. a).

28. La Corte ha dichiarato che l’uso di un segno identico ad un marchio avviene effettivamente nel commercio se si colloca nel contesto di un’attività commerciale finalizzata a un vantaggio economico e non nell’ambito privato (16) . La Corte ha inoltre precisato che il diritto esclusivo previsto all’art. 5, n. 1, lett. a), è stato concesso al fine di consentire al titolare del marchio d’impresa di tutelare i propri interessi specifici quale titolare di quest’ultimo, ossia garantire che il marchio possa adempiere le sue funzioni. L’esercizio di tale diritto deve essere pertanto riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare, in particolare, le funzioni del marchio, e segnatamente la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto (17) . Di conseguenza, il proprietario non può vietare l’uso di un segno identico al marchio d’impresa per prodotti identici a quelli per i quali il marchio è stato registrato se tale uso non può pregiudicare i suoi interessi specifici in quanto titolare del marchio d’impresa, considerate le funzioni di quest’ultimo (18) .

29. Non vedo come la funzione essenziale di un marchio possa essere compromessa dal semplice fatto che merci originali contrassegnate dal marchio in questione sono soggette al regime di transito esterno e quindi non sono, per definizione, in libera pratica nella Comunità. A mio parere, tale circostanza, in assenza di ulteriori elementi, non può pregiudicare né essere idonea a pregiudicare le funzioni del marchio.

30. Tale parere è confermato, in un contesto analogo, dalla sentenza della Corte nella causa Rioglass (19) . Detta causa riguardava una situazione in cui talune merci contrassegnate da un marchio, legalmente prodotte in Spagna, erano state esportate da detto Stato verso la Polonia con un titolo di transito comunitario che permetteva la circolazione tra due punti del territorio doganale della Comunità e della Polonia in esenzione da dazi all’importazione, da imposte o da misure di politica commerciale. Le merci erano state bloccate dai servizi doganali in Francia per sospetto di contraffazione di marchio. Il produttore e il vettore avevano chiesto la revoca del provvedimento di blocco. Alla Corte era stato chiesto se in tali circostanze i provvedimenti nazionali di blocco delle merci fossero contrari all’art. 28 CE, che vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

31. Poiché la controversia non riguardava la direttiva sui marchi d’impresa, la Corte ha utilizzato il linguaggio della sua precedente giurisprudenza in materia di marchi antecedente alla direttiva. Dopo avere dichiarato che i provvedimenti erano contrari all’art. 28 CE, la Corte ha esaminato la questione dell’eventuale giustificazione in forza dell’art. 30 CE. Essa si è richiamata alla giurisprudenza costante secondo cui l’oggetto specifico del diritto di marchio consiste segnatamente nel garantire al titolare il diritto esclusivo di utilizzare il marchio per la prima messa in commercio del prodotto. Ha poi dichiarato che l’attuazione di una siffatta tutela è pertanto connessa ad un’immissione in commercio dei prodotti e ha concluso che un regime quale quello in discussione nella causa principale, che consisteva nel trasporto di merci legalmente fabbricate in uno Stato membro verso uno Stato terzo attraverso il territorio di uno o più Stati membri, non implicava alcuna immissione in commercio delle merci in questione e non era quindi idoneo a pregiudicare l’oggetto specifico del diritto di marchio (20) .

32. Le appellate tentano di mantenere distinta la detta giurisprudenza dalla fattispecie ora in esame affermando che essa riguardava esclusivamente il transito di merci comunitarie prodotte legalmente in uno Stato membro. Ciò è sicuramente vero. Tuttavia, non ritengo che questa circostanza escluda la possibilità di fare riferimento a tale sentenza della Corte per sostenere che il semplice transito delle merci attraverso uno Stato membro «non implica alcuna immissione in commercio delle merci in questione e pertanto non è idoneo a pregiudicare l’oggetto specifico del diritto di marchio». Infatti, si può ritenere che, se la Corte avesse concluso in tal senso con riguardo alle merci in libera pratica nella Comunità, tale conclusione si applicherebbe, a fortiori, alle merci non comunitarie rispetto alle quali non siano state adempiute le formalità relative all’importazione.

33. Le appellate fanno riferimento anche alla sentenza della Corte nella causa Polo/Lauren (21) e in particolare all’affermazione secondo cui «merci contraffatte vincolate al regime del transito esterno rischiano di essere fraudolentemente introdotte nel mercato comunitario». Le appellate fanno valere tale affermazione a sostegno del loro argomento secondo cui il regime di transito esterno non può garantire che le merci trasportate non saranno infine immesse in libera pratica.

34. Tuttavia, la dichiarazione della Corte nella causa Polo/Lauren è stata formulata in un contesto molto diverso da quello della fattispecie ora in esame e, a mio parere, non può essere utile alle appellate neanche per analogia. Nella detta causa la Corte si trovava ad esaminare se l’art. 113 del Trattato (divenuto, in seguito a modifica, art. 133 CE), che riguarda la politica commerciale comune, costituisse il fondamento normativo adeguato per un regolamento (22) applicabile quando merci contraffatte o usurpative vengono scoperte in occasione di un controllo effettuato su merci vincolate, tra l’altro, ad un regime di transito esterno. Ovviamente, il rischio che merci contraffatte in transito esterno possano essere fraudolentemente immesse sul mercato comunitario è un elemento rilevante di cui occorre tenere conto nell’esame della validità di un regolamento inteso a consentire alle autorità doganali di prendere provvedimenti allorché tali merci vengono scoperte in occasione di un controllo su merci in transito esterno. La presente causa, invece, verte sulla questione completamente diversa se il titolare di un marchio possa opporsi all’immissione nella Comunità da un paese terzo, senza il suo consenso, di merci contrassegnate dal suo marchio originale qualora tale immissione avvenga mediante il regime di transito esterno.

35. In ogni caso, quanto la Corte ha dichiarato nella sentenza Polo/Lauren non autorizza l’esercizio del diritto di marchio per il solo fatto che merci non comunitarie sono state immesse nella Comunità mediante il regime di transito esterno.

36. Il timore delle appellate che merci quali quelle in discussione nella causa principale possano essere immesse in libera pratica nella Comunità senza il loro consenso, pregiudicando in tal modo i loro diritti di marchio, dev’essere fugato facendo riferimento alle dettagliate disposizioni del codice doganale (23) e alle relative misure di attuazione (24), intese a garantire che prodotti non comunitari vincolati al regime di transito esterno siano assoggettati a controllo doganale dal momento dell’ingresso fino all’uscita dalla Comunità (25) . Se le merci di fatto non escono dalla Comunità, ma vengono immesse in libera pratica, allora il titolare del marchio può opporsi alla loro «importazione» in forza dell’art. 5, n. 3, lett. c), della direttiva sui marchi d’impresa. Si può osservare che l’art. 50, n. 1, lett. a), dell’Accordo TRIPs (26) prescrive che le autorità giudiziarie nazionali abbiano la facoltà «di ordinare misure provvisorie immediate ed efficaci (…) per impedire che abbia luogo la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in particolare per impedire l’introduzione nei circuiti commerciali di [loro] competenza di prodotti, compresi prodotti importati, immediatamente dopo lo sdoganamento». Sebbene concordi sul fatto che l’esercizio del diritto del titolare del marchio dipende dalla circostanza che egli sia a conoscenza dell’imminente violazione, non vedo motivi per estendere tale diritto al caso delle merci vincolate al regime di transito esterno. Anche nel caso delle merci importate, tale esercizio dipende direttamente dalla previa conoscenza da parte del titolare del marchio.

37. Ritengo pertanto che il titolare di un marchio non possa opporsi all’immissione nel territorio doganale della Comunità, senza il suo consenso, di merci non comunitarie contrassegnate dal suo marchio e vincolate al regime comunitario di transito esterno motivando che tale immissione di per sé costituisce un «uso del marchio nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della prima direttiva del Consiglio.

38. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede anche se il titolare di un marchio possa opporsi all’immissione nella Comunità, senza il suo consenso, di merci non comunitarie contrassegnate dal suo marchio nell’ambito del commercio di transito, ossia ad operazioni relative a merci non comunitarie vincolate al regime di transito esterno o di deposito doganale. Con tale questione, il giudice remittente chiede in sostanza se tali operazioni costituiscano violazione dei marchi che contrassegnano le merci. Di conseguenza, la esaminerò nel contesto della quarta e della quinta questione sollevate dal giudice a quo, che in sostanza riguarda lo status attribuibile a tali operazioni in base alla direttiva sui marchi d’impresa.

Sulla seconda questione

39. Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’«uso nel commercio di un segno» ai sensi dell’art. 5 della direttiva sui marchi d’impresa comprenda l’immagazzinamento in un deposito doganale di merci non comunitarie originali contrassegnate da un marchio, nel caso in cui il titolare dello stesso non abbia acconsentito alla loro immissione nel SEE.

40. L’appellante sostiene che dall’analisi della prima questione discende che in tali circostanze dev’essere consentito anche l’immagazzinamento di merci non comunitarie, giacché, in caso contrario, il trasporto di beni in transito e il commercio di transito diverrebbero impossibili, il che non può essere il risultato cui mirava il legislatore comunitario.

41. Le appellate ribadiscono in sostanza gli argomenti dedotti in merito alla prima questione, secondo cui qualsiasi uso commerciale diverso da quello esclusivamente scientifico implica l’uso in commercio di un segno, e affermano che si deve presumere che l’immagazzinamento delle merci in un ufficio o deposito doganale siano effettuati a scopi commerciali.

42. La Commissione rileva che l’art. 5, n. 3, lett. b), della direttiva sui marchi d’impresa fa espressamente riferimento al fatto di «offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini » (27) . Ciò sembrerebbe indicare che il titolare del marchio può opporsi solo alla detenzione delle merci al fine di commercializzarle nella Comunità . Pertanto, se è dimostrato che le merci non saranno immesse nel mercato comunitario, il titolare del marchio non può opporsi al loro immagazzinamento in un deposito doganale.

43. A mio parere, la seconda questione del giudice a quo dev’essere risolta in maniera analoga alla prima questione. La funzione essenziale di un marchio d’impresa non può essere compromessa dal semplice deposito in un deposito doganale comunitario di merci non comunitarie contrassegnate dal marchio. Tale deposito di per sé non può pregiudicare né essere idoneo a pregiudicare le funzioni del marchio.

44. Per quanto riguarda il timore delle appellate che merci quali quelle in discussione nella causa principale possano essere immesse in libera pratica nella Comunità senza il loro consenso, violando in tal modo i loro diritti, tale timore va fugato facendo riferimento alle dettagliate disposizioni del codice doganale (28) intese a garantire che le merci immagazzinate nei depositi doganali non vengano sottratte al controllo doganale (29) . Come si è detto, se le merci vengono immesse in libera pratica, il titolare del marchio può opporsi alla loro «importazione» in forza dell’art. 5, n. 3, lett. c), della direttiva sui marchi d’impresa. Anche in questo caso, sebbene concordi sul fatto che l’esercizio del diritto del titolare del marchio dipende dalla sua conoscenza dell’imminente violazione, non vedo motivi per estendere tale diritto al caso delle merci vincolate al regime di deposito doganale.

Sulla terza questione

45. Con la terza questione, il giudice a quo chiede se ai fini della soluzio ne della prima e seconda questione sia rilevante che al momento dell’entrata nel territorio doganale della Comunità i) la destinazione finale delle merci sia certa, oppure che ii) riguardo a tali merci non sia stato concluso un accordo ai fini dell’acquisto con un cliente stabilito in un paese terzo.

46. Sia l’appellante che le appellate ritengono che le circostanze menzionate dal giudice del rinvio siano irrilevanti ai fini dell’analisi della prima e della seconda questione.

47. Anche io ritengo che tali circostanze siano irrilevanti ai fini della soluzione da me proposta per la prima e la seconda questione. Con tali questioni si chiede soltanto se il titolare del marchio possa opporsi all’immissione nel territorio doganale della Comunità di merci non comunitarie contrassegnate da un marchio e vincolate al regime di transito o di deposito. Ho già esposto i motivi per cui ritengo che tale immissione di per sé non pregiudichi né sia idonea a pregiudicare le funzioni del marchio. A mio parere, ciò vale anche, con una sola riserva, nel caso in cui la destinazione finale delle merci sia specificata o qualora rispetto alle stesse non sia stato concluso alcun accordo per l’acquisto con un cliente in un paese terzo. La situazione cambierebbe solo se la destinazione finale specificata fosse all’interno del SEE. In tal caso, sussisterebbe effettivamente il rischio che le merci vengano immesse in libera pratica nella Comunità, circostanza che esaminerò nel contesto della quinta questione.

Sulla quarta questione

48. Con la quarta questione, il giudice del rinvio chiede se nell’ambito della soluzione delle prime tre questioni abbia rilevanza l’eventuale sussistenza di ulteriori circostanze, quali a) che il proprietario delle merci sia stabilito in uno degli Stati membri; b) che tali merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna non sia (ancora) certo; c) che tali merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna delle merci sia certo, ma non lo sia il luogo di destinazione finale, e che ciò avvenga o meno con l’espressa condizione che si tratta di merci non comunitarie (in transito); d) che tali merci siano offerte in vendita o vendute da un operatore stabilito in uno Stato membro ad un operatore stabilito al di fuori del SEE, laddove siano o meno certi il luogo della consegna e/o la destinazione finale delle merci; e) che tali merci siano offerte in vendita o vendute da un operatore stabilito in uno Stato membro ad un operatore stabilito al di fuori del SEE, del quale l’operatore (parallelo) sappia o abbia seri motivi di ritenere che rivenderà o consegnerà le merci di cui trattasi a consumatori finali all’interno del SEE.

49. L’appellante ammette che il fatto che le merci non comunitarie siano vincolate ad un determinato regime doganale di per sé non è sufficiente per dimostrare che non sussiste alcuna violazione del marchio se il titolare di questo può provare in maniera sufficientemente persuasiva che lo scopo palese del proprietario delle merci è collocare queste ultime sul mercato comunitario. L’appellante, tuttavia, non ritiene che le ipotesi descritte nella quarta questione siano abbastanza determinanti.

50. Le appellate sostengono anch’esse che nessuna delle circostanze indicate nella quarta questione incide sulla soluzione delle prime tre, benché ritengano che le circostanze menzionate ai punti a), b), c) ed e) possano essere rilevanti ai fini della soluzione della quinta questione.

51. La Commissione osserva che le circostanze menzionate nella quarta questione possono essere utili per stabilire se le merci possano essere di fatto commercializzate nella Comunità; se esistono gravi indizi in tal senso, il titolare del marchio può bloccare le merci. Tuttavia, spetta al giudice nazionale accertare i fatti e stabilire se sia dimostrato che le merci non saranno immesse in libera pratica nella Comunità.

52. A mio parere, la soluzione della quarta questione sollevata dal giudice nazionale va desunta, al pari della soluzione fornita alle questioni precedenti, dalla lettera e dalla portata dell’art. 5, n. 1, della direttiva sui marchi d’impresa. Tale disposizione consente al titolare del marchio di impedire ai terzi che non abbiano ottenuto il suo consenso di «usare [il marchio] nel commercio». Per poter essere vietato, detto uso, come si è rilevato nel contesto della prima questione, deve pregiudicare o essere idoneo a pregiudicare le funzioni del marchio. Ho già esposto i motivi per i quali non ritengo che il semplice fatto che merci non comunitarie contrassegnate da un marchio vengano collocate in regime comunitario di transito o di deposito doganale costituisca un uso del marchio nel commercio ai sensi dell’art. 5, n. 1. Il giudice nazionale chiede in sostanza se su tale conclusione incidano le specifiche circostanze menzionate ai punti a)-e).

53. Per quanto riguarda la circostanza di cui al punto a), concordo con l’appellante che il luogo di stabilimento del proprietario delle merci contrassegnate dal marchio è irrilevante ai fini della questione se il vincolo delle merci al regime di deposito doganale o di transito esterno costituisca un uso del marchio nel commercio.

54. Le circostanze menzionate alle lettere b)-e) implicano tutte che le merci siano offerte in vendita o vendute. L’art. 5, n. 3, lett. b), della direttiva sui marchi d’impresa comprende l’«offrire i prodotti» tra le operazioni che possono essere vietate in forza dell’art. 5, n. 1. Poiché la quinta questione riguarda specificamente la portata della nozione di «offrire» ai sensi dell’art. 5, n. 3, lett. b), sembra opportuno esaminare i punti b)-e), dato che le circostanze menzionate includono l’offerta in vendita delle merci, nel contesto di detta questione. Nella misura in cui tali circostanze includono la vendita delle merci, la portata del diritto del titolare del marchio dipende dal fatto che l’effetto della vendita consista o meno nell’immissione delle merci in libera pratica nella Comunità. Poiché tale problema si pone anche nel contesto della quinta questione, lo esaminerò nella parte ad essa dedicata.

Sulla quinta questione

55. Con la quinta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se il termine «offrire» di cui all’art. 5, n. 3, lett. b), della direttiva sui marchi d’impresa includa l’offerta in vendita di merci non comunitarie contrassegnate da un marchio e immagazzinate in un deposito doganale nel caso in cui il titolare del marchio non abbia acconsentito alla loro immissione nel SEE nelle circostanze indicate nella terza e quarta questione.

56. L’appellante ritiene che l’offerta in vendita di merci non comunitarie, nella Comunità o meno, non possa essere considerata un uso del marchio nel commercio all’interno della Comunità, dato che l’immissione delle merci contrassegnate dal marchio nel mercato comunitario non ne costituisce né lo scopo né l’effetto. Esistono varie forme di commercio internazionale di merci non comunitarie; se l’offerta in vendita di tali merci fosse vietata dalla normativa comunitaria sui marchi, gli operatori stabiliti e che lavorano nella Comunità non potrebbero più commercializzare prodotti contrassegnati da un marchio, e non può essere questo lo scopo del legislatore.

57. Le appellate sostengono che, per i motivi già esposti nel contesto delle questioni precedenti, la quinta questione dev’essere risolta in senso affermativo.

58. La Commissione afferma che un’offerta in vendita come quella descritta nella quinta questione non equivale ad «offrire in vendita» ai sensi dell’art. 5, n. 3, lett. b), se il proprietario delle merci contrassegnate dal marchio le offre in vendita nella Comunità ad un acquirente potenziale che è pressoché certo di non immetterle nel mercato comunitario.

59. Il punto di partenza per l’interpretazione della nozione di «offrire in vendita» dev’essere l’economia e lo scopo della direttiva sui marchi d’impresa. Detta direttiva è fondata sull’art. 100 A del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 95 CE). Il primo ‘considerando’ fa riferimento alle disparità tra le legislazioni nazionali relative ai marchi d’impresa che possono ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi. Il terzo ‘considerando’ precisa che il ravvicinamento delle legislazioni realizzato dalla direttiva è limitato alle disposizioni nazionali che hanno un’incidenza più diretta sul funzionamento del mercato interno. Il nono ‘considerando’ enuncia che è fondamentale, per agevolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi, che i marchi di impresa abbiano la medesima tutela in tutti gli Stati membri.

60. Pertanto, l’art. 5 dev’essere interpretato nel contesto della libera circolazione delle merci. Tuttavia, tale principio si applica ai prodotti provenienti da paesi terzi solo nel caso in cui essi siano in libera pratica nella Comunità (30) . La Corte ha chiarito che per prodotti in libera pratica si devono intendere i prodotti, originari di uno Stato terzo, regolarmente importati in uno Stato membro alle condizioni prescritte dall’attuale art. 24 CE (31) e che «una merce non comunitaria dichiarata per essere immessa in libera pratica ottiene la posizione doganale di merce comunitaria solo dal momento in cui sono state applicate le misure di politica commerciale, tutte le altre formalità previste per l’importazione di una merce sono state espletate e i dazi all’importazione legalmente dovuti sono stati non solo applicati ma anche riscossi o garantiti» (32) .

61. Pertanto, le merci non comunitarie devono essere debitamente importate nella Comunità prima di poter beneficiare della libertà di circolazione. A mio parere, ciò spiega perché l’art. 5, n. 3, lett. c), includa, quale esempio di «uso di un marchio nel commercio», il fatto di «importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno». La Corte ha anche dichiarato che, «adottando l’art. 7 della direttiva [sui marchi d’impresa], che limita l’esaurimento del diritto conferito dal marchio al caso in cui i prodotti contrassegnati dello stesso siano stati posti in commercio nel [SEE], il legislatore comunitario ha precisato che l’immissione sul mercato al di fuori di tale territorio non esaurisce il diritto del titolare di impedire l’importazione di tali prodotti effettuata senza il suo consenso, e di controllare così la prima immissione sul mercato nel [SEE], dei prodotti contrassegnati dal marchio (33) », confermando la tesi secondo cui l’importazione è necessaria prima che il titolare del marchio possa esercitare i diritti conferitigli dall’art. 5.

62. Ritengo tuttavia che per tutto il tempo in cui le merci mantengono il loro status di prodotti non comunitari, la loro offerta in vendita di norma non costituisca un uso del marchio nel commercio che possa essere impedito dal titolare in forza del diritto comunitario.

63. Se il risultato dell’offerta in vendita delle merci è in realtà la loro immissione in libera pratica nella Comunità, i diritti del titolare del marchio ovviamente risultano lesi da tale immissione ed egli, in linea di principio, può vietare l’operazione. Ricordo ancora che l’art. 50, n. 1, lett. a), dell’Accordo TRIPs (34) dispone che le autorità giudiziarie nazionali devono avere la facoltà «di ordinare misure provvisorie immediate ed efficaci (…) per impedire che abbia luogo la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in particolare per impedire l’introduzione nei circuiti commerciali di [loro] competenza di prodotti, compresi prodotti importati, immediatamente dopo lo sdoganamento».

64. Alla luce della mia interpretazione secondo cui l’offerta in vendita di merci non comunitarie contrassegnate da un marchio e immagazzinate in un deposito doganale, nel caso in cui il titolare del marchio non abbia acconsentito alla loro immissione nel SEE, in linea di principio non costituisce un uso del marchio nel commercio, esaminerò gli eventuali effetti su tale conclusione delle ulteriori circostanze menzionate dal giudice a quo ai punti b)-e) nel contesto della quarta questione.

65. La circostanza menzionata al punto b) è che le merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna non sia (ancora) certo. La circostanza menzionata al punto c) è che le merci siano offerte in vendita o vendute, a partire da uno Stato membro, da un operatore stabilito in tale Stato membro ad un altro operatore stabilito in uno Stato membro, laddove il luogo della consegna delle merci sia certo, ma non altrettanto il luogo di destinazione finale, e che ciò avvenga o meno con l’espressa condizione che si tratta di merci non comunitarie (in transito).

66. Ritengo che nessuna di tali circostanze incida sulla soluzione da me proposta per la quinta questione. Se il fatto che l’acquirente delle merci sia stabilito in uno Stato membro può indicare che i prodotti saranno immessi in libera pratica – nel qual caso, come si è detto, il titolare del marchio può far valere i propri diritti – tale risultato rimane speculativo fino a che non venga determinata la destinazione finale, in quanto l’acquirente potrebbe anche voler commercializzare i prodotti al di fuori del SEE.

67. La circostanza indicata al punto d) è che le merci siano offerte in vendita o vendute da un operatore stabilito in uno Stato membro ad un operatore stabilito al di fuori del SEE, laddove siano o meno certi il luogo della consegna e/o la destinazione finale delle merci.

68. Con una sola riserva, ritengo che, per i motivi esposti nel contesto dei punti b) e c), anche la situazione descritta al punto d) sia irrilevante ai fini della soluzione da me proposta per la quinta questione. Tuttavia, nel caso in cui la destinazione finale delle merci sia certa e si trovi all’interno del SEE, è evidente che le merci saranno immesse in libera pratica prima della consegna e, a mio parere, il titolare del marchio può far valere i suoi diritti per impedire tale immissione o consegna.

69. Infine, il giudice a quo ipotizza, al punto e), che le merci siano offerte in vendita da un operatore stabilito in uno Stato membro ad un operatore stabilito al di fuori del SEE, del quale l’operatore (parallelo) sappia o abbia seri motivi di ritenere che rivenderà o consegnerà le merci di cui trattasi a consumatori finali all’interno del SEE.

70. In tali circostanze è chiaro che le merci molto probabilmente verranno immesse in libera pratica per essere consegnate ed il titolare del marchio, a mio parere, può far valere i suoi diritti per impedire tale immissione o consegna.

71. L’onere della prova richiesta a tal fine costituisce l’oggetto della sesta e ultima questione del giudice a quo.

Sulla sesta questione

72. Con la sesta questione, il giudice a quo chiede a quale parte incomba l’onere della prova in relazione alle operazioni menzionate nella prima, seconda e quinta questione.

73. La prima questione riguarda l’ingresso, senza il consenso del titolare del marchio, di merci non comunitarie contrassegnate da un marchio «nell’ambito del trasporto di beni in transito o del commercio di transito come inteso in prosieguo». Ho già spiegato perché ritengo che con tale questione si chieda in sostanza se l’immissione nella Comunità di merci contrassegnate da un marchio e provenienti da un paese terzo in base al regime di transito esterno senza il consenso del titolare del marchio equivalga ad «usare [il marchio] nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva sui marchi d’impresa. Con la seconda questione si chiede in sostanza se l’immagazzinamento di tali merci in un deposito doganale costituisca un uso di questo tipo. Con la quinta questione si chiede sostanzialmente se l’offerta in vendita di tali merci equivalga ad «offrire i prodotti» ai sensi dell’art. 5, n. 3, lett. b), e quindi ad «usare [il marchio] nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1. Ritengo che con la sesta questione si chieda a chi incombe l’onere della prova nei giudizi in cui si deduca la violazione del marchio nelle circostanze descritte.

74. L’appellante sostiene che chi afferma, in base a fatti specifici, che il trasporto o il commercio di transito è illegale deve fornirne la prova, dal momento che le sue affermazioni rappresentano un’eccezione alla regola generale della libertà di transito (35) . Egli inoltre dovrà dimostrare l’irrilevanza dei documenti doganali che determinano lo status non comunitario delle merci. Per contro, il fatto che si tratti di trasporto o di commercio di transito, in generale, dev’essere provato dal proprietario o dal possessore delle merci in base ai documenti doganali.

75. Le appellate sostengono che incombe al titolare del marchio provare che i suoi diritti sono stati lesi, qualora eserciti un’azione a difesa degli stessi, nel senso che egli deve dimostrare di essere il titolare del marchio per il territorio di cui trattasi, che le merci provengono dall’esterno del SEE e che sono state immesse in tale territorio. Se il titolare del marchio dimostra tali circostanze, spetta alla parte accusata di avere violato il marchio dimostrare di non avere utilizzato il segno nel commercio e di non avere intenzione di farlo.

76. La Commissione rileva come le norme che disciplinano l’onere della prova non siano state armonizzate né dalla direttiva sui marchi d’impresa né dal regolamento sul marchio comunitario. Inoltre, dal preambolo della direttiva, e in particolare dall’ottavo e dal decimo ‘considerando’, emerge che tali questioni sono disciplinate dalle norme di procedura nazionali. Tuttavia, dalla giurisprudenza, e in particolare dalle sentenze Sebago (36) e Zino Davidoff (37), risulta altresì che il proprietario delle merci deve provare che il titolare del marchio ha acconsentito alla loro immissione in libera pratica. Per analogia, spetta al proprietario delle merci, nelle circostanze descritte dal giudice a quo, dimostrare che le merci sono state introdotte non per essere commercializzate nella Comunità, ma come logica tappa del loro trasporto verso un paese terzo.

77. Concordo con la Commissione che dal preambolo risulta chiaramente che l’onere della prova, nei procedimenti relativi alla violazione di un marchio, costituisce una questione che va risolta in base alle norme di procedura nazionali.

78. Ritengo invece che la giurisprudenza richiamata dalla Commissione non sia pertinente nella fattispecie ora in esame.

79. Non mi è chiaro perché la Commissione si richiami alla sentenza Sebago, che non concerne l’onere della prova. La causa Zino Davidoff invece riguarda tale materia. Detta causa verteva sulla regola dell’esaurimento dei diritti sancita all’art. 7, n. 1, della direttiva sui marchi d’impresa. Tale disposizione, che costituisce una deroga alla regola dell’art. 5, n. 1, secondo cui il titolare del marchio può vietare ai terzi, «salvo proprio consenso», d’importare prodotti contrassegnati con il suo marchio (38), prevede che il diritto del titolare è esaurito quando i prodotti sono stati immessi in commercio all’interno del SEE dal titolare o «con il suo consenso». Nella sentenza Zino Davidoff la Corte ha dichiarato che spetta all’operatore che fa richiamo all’esistenza di un consenso di produrne la prova e non al titolare del marchio di dimostrare la mancanza di un consenso (39) .

80. Tuttavia, tale sentenza è stata pronunciata in un contesto molto diverso da quello ora in esame. Nella sentenza Zino Davidoff la Corte ha dichiarato che il consenso del titolare all’immissione in commercio di prodotti contrassegnati con il suo marchio «equivale ad una rinuncia del titolare al suo diritto esclusivo, ex art. 5 della direttiva, di vietare ai terzi d’importare prodotti contrassegnati con il suo marchio» e pertanto «costituisce l’elemento determinante per l’estinzione di tale diritto» (40) . In tali circostanze, come essa stessa ha osservato, la Corte doveva dare un’interpretazione uniforme della nozione di «consenso» ai sensi dell’art. 7, n. 1. Il giudice remittente aveva chiesto se tale consenso potesse essere dato implicitamente o indirettamente. La Corte ha affermato che, in considerazione dell’«importanza del suo effetto estintivo del diritto esclusivo dei titolari dei marchi (…), il consenso dev’essere espresso in modo che esprima con certezza la volontà di rinunciare a tale diritto» (41) . Ha quindi statuito che a tale premessa consegue che spetta all’operatore che fa richiamo all’esistenza di un consenso di produrne la prova (42) .

81. La presente causa, invece, verte su una situazione in cui il titolare di un marchio vuole impedire ad un operatore di usare il suo marchio nel commercio.

82. Nella causa Zino Davidoff esistevano motivi cogenti per stabilire principi in materia di onere della prova con riguardo alla specifica questione sollevata in detto procedimento. Lo stesso non vale nella fattispecie ora in esame. In mancanza di motivi cogenti, devono applicarsi le norme nazionali relative all’onere della prova.

Conclusione

83. Pertanto, concludo che le questioni sottoposte alla Corte dal Gerechtshof te’s Gravenhage vanno risolte nei termini seguenti:

1) Il titolare di un marchio non può opporsi all’introduzione nel territorio doganale della Comunità, senza il suo consenso, di merci non comunitarie contrassegnate con il suo marchio e vincolate al regime comunitario di transito esterno o di deposito doganale motivando che tale introduzion equivale di per sé ad «usare [il marchio] nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa.

2) Per tutto il tempo in cui le merci mantengono il loro status di prodotti non comunitari, la loro offerta in vendita o la loro vendita non equivale ad «usare [il marchio] nel commercio» ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104/CEE.

3) Il titolare del marchio con cui le dette merci sono contrassegnate ha il diritto, in forza dell’art. 5, n. 1, della direttiva 89104/CEE, di impedire la loro immissione in libera pratica nello Spazio economico europeo.

4) Allo stato attuale del diritto comunitario, qualora il titolare di un marchio agisca in giudizio deducendo una violazione del suo diritto, la parte cui incombe l’onere della prova va determinata in base alle norme di procedura nazionali, salvo per quanto riguarda la questione se le merci siano state immesse in commercio nello Spazio economico europeo provviste di detto marchio con il consenso del titolare del medesimo.

(1) .

(2)  – Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GU 1989, L 40, pag. 1).

(3) – Conformemente all’art. 65, n. 2, in combinato disposto con l’allegato XVII, punto 4, dell’Accordo sullo Spazio economico europeo del 2 maggio 1992 (GU 1994, L 1, pag. 3), l’art. 7, n. 1, è stato modificato ai fini dell’Accordo sostituendo l’espressione «nella Comunità» con «in una Parte contraente».

(4)  – Regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU 1994, L 11, pag. 1).

(5)  – Regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913 (GU L 302, pag. 1).

(6)  – Sentenza 6 aprile 2000, causa C-383/98, Polo/Lauren Company (Racc. pag. I-2519, punto 34).

(7)  – Art. 340 ter, n. 3, del regolamento (CEE) della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 253, pag. 1), come modificato in particolare dal regolamento della Commissione 15 dicembre 2000, n. 2787 (GU L 330, pag. 1).

(8)  – Sentenza 20 aprile 1983, causa 49/82, Commissione/Paesi Bassi (Racc. pag. 1195, punto 10).

(9)  – Art. 84, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2913/92.

(10)  – Art. 85 del regolamento n. 2913/92.

(11)  – Art. 86 del regolamento n. 2913/92.

(12)  – Dall’ordinanza di rinvio non emerge con chiarezza a quale titolo partecipino al procedimento nazionale le altre appellate di cui è stata fatta menzione (Colgate-Palmolive Company e Unilever NV). L’appellante afferma di avere rinunciato all’azione nazionale nei loro confronti.

(13)  – Regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 1994, n. 3295, che fissa misure intese a vietare l’immissione in libera pratica, l’esportazione, la riesportazione e il vincolo ad un regime sospensivo di merci contraffatte e di merci usurpative (GU L 341, pag. 8).

(14)  – Sentenza 26 settembre 2000, causa C-23/99 (Racc. pag. I-7653).

(15)  – Sentenza 23 ottobre 2003, causa C-115/02, Rioglass e Transremar (Racc. pag. I-12705).

(16)  – Sentenza 12 novembre 2002, causa C-206/01, Arsenal Football Club (Racc. pag. I‑10273, punto 40).

(17)  – Sentenza Arsenal Football Club, punto 51. V. anche sentenza 14 maggio 2002, causa C-2/00, Hölterhoff (Racc. pag. I-4187, punto 15).

(18)  – Sentenza Arsenal Football Club, punto 54.

(19)  – Cit. alla nota 15.

(20)  – Punti 25-27.

(21)  – Cit. alla nota 6, punto 34.

(22)  – Regolamento n. 3295/94, cit. alla nota 13.

(23)  – Regolamento n. 2913/92, cit. alla nota 5.

(24)  – Regolamento n. 2454/93, cit. alla nota 7.

(25)  – In particolare artt. 94 e 96 del codice e artt. 345, 349, 356, 357, 361, 365 e 366 del regolamento n. 2454/93.

(26)  – Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, contenuto nell’allegato 1 C dell’Accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio, approvato con la decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, 94/800/CE, relativa alla conclusione a nome della Comunità europea, per le materie di sua competenza, degli accordi dei negoziati multilaterali dell’Uruguay Round (1986-1994) (GU L 336, pag. 1).

(27)  – Il corsivo è mio.

(28)  – Cit. alla nota 5.

(29)  – In particolare, artt. 85 e 86 (citati al paragrafo 13, supra), 101 e 105 del regolamento n. 2913/92.

(30)  – Art. 23, n. 2, CE.

(31)  – Sentenza 15 dicembre 1976, causa 41/76, Donckerwolke (Racc. pag. 1921, punto 16).

(32)  – Sentenza 1° febbraio 2001, causa C-66/99, D. Wandel (Racc. pag. I-873, punto 36).

(33)  – V. sentenza 1° luglio 1999, causa C-173/98, Sebago e Maison Dubois (Racc. pag. I-4103, punto 21).

(34)  – Cit. alla nota 26.

(35)  – Sentenza Rioglass, cit. alla nota 15.

(36)  – Cit. alla nota 33.

(37)  – Sentenza 20 novembre 1999, cause riunite da C-414/99 a C-416/99 (Racc. pag. I‑8691).

(38)  – V. sentenza Zino Davidoff, punto 40.

(39)  – Punto 54.

(40)  – Punto 41.

(41)  – Punto 45.

(42)  – Punto 54.