CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
POIARES MADURO
presentate il 29 giugno 2004(1)



Causa C-319/03



Serge Briheche
contro
Ministre de l'intérieur, de la sécurité intérieure et des libertés locales


[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal administratif de Paris (Francia)]

«Politica sociale – Parità di trattamento – Direttiva n. 76/207 – Accesso all'impiego – Disposizioni che riservano alle vedove non risposate il beneficio di una deroga al limite di età per accedere agli impieghi pubblici»






1.        Con la sua questione pregiudiziale il Tribunal administratif de Paris (Francia) vuole sapere se la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro  (2) , osti ad una disposizione quale l’art. 8 della legge francese 3 gennaio 1975, n. 75‑3  (3) , come modificata dalle leggi 7 luglio 1979, n. 79‑569  (4) , e 9 maggio 2001, n. 2001‑397  (5) (in prosieguo: la «legge di cui trattasi»), in quanto esenta le vedove non rimaritate dall’applicazione dei limiti di età fissati per le assunzioni nella pubblica amministrazione.

I – Fatti, ambito normativo e questione sottoposta alla Corte

2.        All’epoca dei fatti, il sig. Briheche era un vedovo non risposato, di 48 anni di età e con un figlio a carico di 12 anni. Egli si candidava in quattro concorsi esterni per l’assunzione in vari organismi della pubblica amministrazione per i quali era fissato un limite di età di 45 anni. Tutte le sue candidature venivano respinte per superamento dei predetti limiti di età previsti dalla legge.

3.        Il 30 gennaio 2002 il directeur du service inter-académique des examens et concours des académies de Créteil, Paris et Versailles (direttore del servizio accademico per gli esami e i concorsi di Créteil, Parigi e Versailles) respingeva la candidatura del sig. Briheche al concorso esterno per l’assunzione di collaboratori dell’amministrazione centrale. Il 5 febbraio 2002 ne respingeva la candidatura al concorso esterno generale per segretari nell’amministrazione centrale e segretari nell’amministrazione scolastica e universitaria. Il 27 febbraio 2002 il Ministre de l’Education nationale respingeva il ricorso gerarchico presentato dal sig. Briheche contro le citate decisioni.

4.        Il 28 gennaio e l’8 marzo 2002 il Ministre de l’Intérieur respingeva la candidatura del sig. Briheche al concorso esterno per l’assunzione di collaboratori nell’amministrazione centrale.

5.        Il 28 febbraio 2002 il Ministre de la Justice respingeva la candidatura del sig. Briheche al concorso esterno per l’assunzione di collaboratori amministrativi nei servizi decentralizzati dell’amministrazione penitenziaria.

6.        Con tre diversi ricorsi dinanzi al Tribunal administratif de Paris, il sig. Briheche chiedeva l’annullamento delle suddette decisioni e il risarcimento dei danni che gliene erano derivati  (6) .

7.        In funzione del tipo di concorso, l’art. 5 del decreto 1° agosto 1990, n. 90‑713, relativo alle disposizioni statutarie comuni applicabili ai collaboratori amministrativi della pubblica amministrazione  (7) , ovvero l’art. 1 del decreto 14 agosto 1975, n. 75‑765, relativo ai limiti di età applicabili nelle assunzioni mediante concorso dei pubblici impiegati inquadrati nelle classi B, C e D  (8) , fissa in 45 anni il limite di età per i candidati.

8.        L’art. 8 della legge pertinente introduce un’eccezione: «[i] limiti di età per l’accesso ai pubblici impieghi non sono opponibili alle madri di tre o più figli, alle vedove non rimaritate, alle donne divorziate e non rimaritate, alle donne separate legalmente nonché a donne e uomini non sposati con almeno un figlio a carico, che si trovino nella necessità di lavorare».

9.        L’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 vieta qualsiasi discriminazione «fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». Questo principio presenta un vasto ambito di applicazione ratione materiae, definito come segue all’art. 3, n. 1, della direttiva: «[l]’applicazione del principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro qualunque sia il settore o il ramo di attività, e a tutti i livelli della gerarchia professionale».

10.      Nella fattispecie, secondo le parti, potrebbero entrare in gioco varie altre disposizioni della direttiva 76/207. Il sig. Briheche, nelle osservazioni scritte presentate al giudice nazionale e alla Corte, invoca l’art. 2, n. 2, a tenore del quale «[la] presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escluderne dal campo di applicazione le attività professionali ed eventualmente le relative formazioni, per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione determinante».

11.      Il governo francese ha fatto riferimento all’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207, che dispone quanto segue: «[l]a presente direttiva non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità».

12.      Secondo la Commissione, ai fini della soluzione della questione proposta dal giudice nazionale, la disposizione fondamentale della direttiva 76/207 è l’art. 2, n. 4, a tenore del quale «[l]a presente direttiva non pregiudica le misure volte a promuovere la parità delle opportunità per gli uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne nei settori di cui all’articolo 1, paragrafo 1».

13.      Date le circostanze, il giudice nazionale ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione:

«Se le norme della direttiva 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, ostino a che la Francia mantenga in vigore le disposizioni dell’art. 8 della legge 3 gennaio 1975, n. 75‑3, come modificate dalla legge 7 luglio 1979, n. 79‑569, e successivamente dalla legge 9 maggio 2001, n. 2001‑397, relative alle vedove non rimaritate».

II – Valutazione

14.      Anzitutto esaminerò se la direttiva 76/207 sia applicabile ad una legge come quella in discussione nel presente procedimento; quindi valuterò se detta legge possa trovare legittimazione nelle deroghe al principio della parità di trattamento.

A – Sull’applicabilità della direttiva 76/207 e sull’esistenza di discriminazione basata sul sesso

15.      L’art. 8 della legge di cui trattasi disciplina l’accesso all’impiego nel servizio pubblico, in quanto esenta talune categorie da un limite di età per la candidatura a concorsi esterni. Conformemente ad una costante giurisprudenza, la direttiva 76/207 si applica ai rapporti di impiego nel settore pubblico  (9) . L’art. 3, n. 1, della direttiva 76/207 riguarda espressamente l’accesso all’impiego. Pertanto l’art. 8 della legge pertinente rientra nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 76/207, come definito all’art. 3, n. 1.

16.     È indubbio che l’art. 8 della suddetta legge determina una discriminazione diretta tra le vedove e i vedovi non risposati. Infatti, mentre le vedove possono candidarsi a concorsi per l’assunzione nell’amministrazione anche dopo avere superato il limite di età di 45 anni, i vedovi non fruiscono dello stesso diritto. Ciò costituisce una palese discriminazione basata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso all’impiego nella pubblica amministrazione  (10) .

17.      Inoltre, nelle osservazioni presentate alla Corte, il sig. Briheche lamenta un’ulteriore discriminazione, rilevando che l’art. 8 della legge determina una discriminazione illegittima tra i vedovi non risposati con un figlio a carico e gli uomini e le donne non sposati con un figlio a carico, in quanto solo quest’ultima categoria è esentata dal limite di età di 45 anni. Anche in questo caso, le condizioni di accesso ai concorsi esterni della pubblica amministrazione per i genitori con un figlio a carico variano in funzione del loro stato matrimoniale. Solo i genitori soli, le vedove non rimaritate, le donne divorziate e le donne separate legalmente con un figlio a carico possono candidarsi ai concorsi anche qualora abbiano superato la suddetta soglia dei 45 anni.

18.      La questione posta dal giudice del rinvio riguarda solo la situazione dei vedovi non risposati, contrapposta a quella delle vedove non rimaritate. A tale proposito, occorre rammentare che, conformemente ad una costante giurisprudenza, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte  (11) . Pertanto l’analisi può essere circoscritta alla questione relativa alla discriminazione tra vedove e vedovi non risposati.

19.      Nondimeno, in questa fase si può osservare che l’art. 8 prevede altri casi analoghi di discriminazione basata sul sesso. Le madri di tre o più figli, le donne divorziate non rimaritate e le donne separate legalmente con un figlio a carico fruiscono tutte di un’esenzione dal limite di età di 45 anni per l’accesso all’amministrazione, mentre gli uomini nella stessa situazione (padri di tre o più figli, uomini divorziati non risposati e uomini separati legalmente con un figlio a carico) non beneficiano di tale esenzione.

20.      Consentendo alle vedove non rimaritate – e non ai vedovi non risposati – di candidarsi ai concorsi esterni per le assunzioni nell’amministrazione a prescindere dall’età, l’art. 8 introduce una discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso all’amministrazione, contravvenendo in tal modo agli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, della direttiva 76/207.

21.      Il problema è se tale discriminazione sia giustificata.

22.      Nelle osservazioni scritte presentate dinanzi alla Corte il governo francese ha osservato che era stata avviata una riforma delle condizioni di accesso ai concorsi per le assunzioni nell’amministrazione al fine di porre rimedio alla suddetta discriminazione.

B – Sulle possibili deroghe al principio della parità di trattamento

23.      La direttiva 76/207 prevede tre deroghe al principio della parità di trattamento: nel caso in cui il sesso del lavoratore rappresenti una condizione determinante (art. 2, n. 2), nel caso in cui occorra proteggere la donna per quanto riguarda la gravidanza e la maternità (art. 2, n. 3), e qualora vengano adottate misure volte a promuovere la parità delle opportunità (art. 2, n. 4). Come si vedrà, conformemente alla giurisprudenza della Corte, nessuna di tali deroghe è applicabile al caso di specie.

24.      Il sig. Briheche ha invocato l’art. 2, n. 2, della direttiva 76/207 per far valere che non sussistevano motivi per riservare alle donne i posti nell’amministrazione ai quali egli si era candidato. Tuttavia questa deroga al principio della parità di trattamento non è pertinente, né la Repubblica francese ha affermato che fosse applicabile. Infatti i concorsi indetti dallo Stato per le assunzioni nella pubblica amministrazione non sono riservati alle donne, dato che possono candidarvisi sia uomini che donne. La discriminazione sta nelle deroghe al limite di età di 45 anni, previste all’art. 8 della legge.

25.      Un’altra possibile deroga al principio della parità di trattamento è definita all’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207, ed è volta alla protezione delle donne, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità. Il governo francese sembra basarsi su questa deroga, almeno implicitamente, quando afferma che la normativa controversa è stata adottata per ridurre le disparità tra uomini e donne. A tal fine fa riferimento a studi secondo cui le donne svolgono la maggior parte dei lavori domestici, soprattutto nelle famiglie con prole. La Francia cita anche statistiche relative al luglio 2003 secondo cui il tasso di disoccupazione tra le donne è pari al 10,8%, contro l’8,7% tra gli uomini. Si può osservare che queste statistiche non rilevano quanto all’applicazione dell’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207. Tuttavia potrebbero essere rilevanti per giustificare misure adottate ai sensi dell’art. 2, n. 4, della medesima direttiva.

26.      A tale proposito, come ammette la stessa Repubblica francese, conformemente ad una costante giurisprudenza, la deroga di cui all’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207 può essere fatta valere solo per tutelare «la condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza, fino al momento in cui le sue funzioni fisiologiche e psichiche si sono normalizzate dopo il parto»  (12) . Pertanto questa deroga non è applicabile al caso di specie.

27.      Infine l’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207 potrebbe risultare applicabile se si considerasse che l’art. 8 della legge è inteso a promuovere «la parità delle opportunità per gli uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne».

28.      Secondo la Corte, lo scopo di questa disposizione è autorizzare provvedimenti «che, pur apparendo discriminatori, mirano effettivamente ad eliminare o a ridurre le disparità di fatto che possono esistere nella realtà della vita sociale. Essa autorizza misure nazionali in materia di accesso al lavoro, ivi compresa la promozione, le quali, favorendo in special modo le donne, perseguono lo scopo di migliorare la loro capacità di competere sul mercato del lavoro e di effettuare una carriera in posizione di parità rispetto agli uomini»  (13) .

29.      Benché i termini generali con cui è formulato questo obiettivo sembrino includere i provvedimenti intesi a realizzare una sostanziale parità tra uomini e donne nel mercato del lavoro, la Corte ha interpretato l’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207 in senso restrittivo, facendo riferimento ad un «concetto limitato delle pari opportunità»  (14) .

30.      Si possono distinguere fra tre categorie di misure positive  (15) . La prima categoria comprende misure che non sono direttamente discriminatorie, ma mirano semplicemente a migliorare la formazione e le qualifiche delle donne (ad esempio l’assegnazione di posti di formazione alle donne). L’idea di fondo è che la parità delle opportunità richiede strumenti che consentano ai talenti individuali delle donne di emergere. La seconda categoria comprende misure intese a consentire alle donne di conciliare meglio il loro ruolo di madri con l’attività professionale (come la possibilità di fruire di servizi di custodia infantile messi a disposizione dal datore di lavoro). Anche gli uomini possono fruire di questo tipo di misure, che possono essere previste in modo neutro a favore di entrambi i genitori. La terza categoria comprende provvedimenti che mirano anch’essi a realizzare la parità tra uomini e donne nel mercato del lavoro, ma sono discriminatori in quanto favoriscono le donne al fine di ridurre la loro sottorappresentanza nella vita professionale. Nella terza categoria rientrano i provvedimenti che hanno un’incidenza diretta sull’occupazione, accordano preferenza alle donne nelle procedure di selezione o stabiliscono obiettivi o quote da raggiungere. In passato, la giurisprudenza della Corte ha riguardato principalmente provvedimenti positivi della terza categoria, che comportavano una potenziale discriminazione nei confronti degli uomini. Nelle cause Badeck e Lommers la Corte doveva stabilire se, e a quali condizioni, provvedimenti rientranti rispettivamente nella prima e nella seconda categoria fossero compatibili con l’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207. Tutte le categorie di misure positive sono soggette ad un triplice esame.

31.      Per essere compatibile con l’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, una misura nazionale dev’essere intesa a porre rimedio ad una situazione di disparità tra uomini e donne. Affinché un provvedimento positivo ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, occorre anzitutto dimostrare che le donne sono sottorappresentate in uno specifico settore o grado di carriera. In tal caso, il provvedimento è diretto ad eliminare le disparità esistenti in detto settore o grado di carriera. Si può anche ipotizzare l’adozione di una misura positiva nel settore pubblico per compensare, ad esempio, le difficoltà che incontrano le donne più anziane nel settore privato. Tuttavia un provvedimento di quest’ultimo tipo non sarebbe diretto ad eliminare la discriminazione, ma a compensarla. In ogni caso, in mancanza di prove, nessuna azione diretta a porre rimedio alla situazione, direttamente o indirettamente, può trovare legittimazione nell’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207.

32.      In secondo luogo, la Corte valuta la probabilità che la misura adottata ponga effettivamente rimedio alla situazione. Questa prova di adeguatezza, tuttavia, è superflua per le misure della terza categoria, in quanto esse indicano espressamente i risultati perseguiti.

33.      Infine, per essere giustificabile in forza dell’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, la misura positiva adottata deve conciliarsi, per quanto possibile, con il principio della parità di trattamento. Ciò esclude le misure che stabiliscono preferenze automatiche o assolute per le donne ed impone di valutare la proporzionalità del provvedimento. Tale valutazione ha conseguenze diverse a seconda del tipo di misura di cui trattasi e delle possibilità di conciliarla con il principio della parità di trattamento.

34.      Nelle cause Kalanke, Marschall e Badeck, la Corte doveva esaminare una normativa nazionale che attribuiva preferenza ai candidati di sesso femminile in possesso di pari qualifiche rispetto a quelle dei candidati di sesso maschile. Nella sentenza Badeck essa ha affermato che «un’azione diretta a promuovere di preferenza i candidati di sesso femminile nei settori del pubblico impiego in cui le donne sono sottorappresentate dev’essere considerata compatibile con il diritto comunitario quando non accordi automaticamente e incondizionatamente la preferenza ai candidati di sesso femminile aventi una qualificazione pari a quella dei loro concorrenti di sesso maschile e le candidature siano oggetto di un esame obiettivo che tenga conto della situazione particolare personale di tutti i candidati»  (16) .

35.      Nella causa Abrahamsson  (17) la normativa nazionale controversa accordava automaticamente la preferenza ai candidati di sesso femminile, purché in possesso di qualifiche sufficienti, alla sola condizione che la differenza tra i meriti dei candidati di ciascun sesso non fosse di rilevanza tale da dar luogo ad una violazione del criterio di obiettività che deve essere osservato nelle assunzioni. La Corte ha considerato che detta misura fosse vietata dall’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, in quanto la selezione «si basa[va], in ultima analisi, sulla semplice appartenenza al sesso sottorappresentato»  (18) . Nondimeno, la Corte ha dichiarato che la selezione può includere criteri che accordano preferenza alle donne, ma l’applicazione di tali criteri deve «essere effettuata in maniera trasparente e [deve] altresì poter essere sottoposta a controllo, al fine di escludere qualsivoglia valutazione arbitraria delle qualifiche dei candidati»  (19) .

36.      In linea con questa giurisprudenza, la Corte EFTA, nella causa E-1/02, Autorità di vigilanza EFTA/Regno di Norvegia  (20) , ha dichiarato che riservare alle donne posti accademici permanenti e temporanei era contrario al principio della parità di trattamento e non poteva rientrare nella deroga di cui all’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, in quanto non presentava la necessaria flessibilità e non prevedeva una valutazione delle qualifiche dei candidati, ma escludeva automaticamente i candidati di sesso maschile dai posti riservati.

37.      Tuttavia si deve tenere presente che le misure esaminate nelle cause Kalanke, Marschall e Abrahamsson appartenevano alla terza categoria, come definita sopra, al paragrafo 30 (misure che accordano preferenza alle donne nell’accesso al lavoro o fissano obiettivi o quote da raggiungere). Le misure appartenenti alle altre categorie sono soggette agli stessi criteri di controllo, anche se l’ultima condizione, quella della proporzionalità, può imporre requisiti diversi, in quanto dette misure non implicano una discriminazione diretta per quanto riguarda l’accesso al lavoro.

38.      Nella causa Lommers la misura nazionale in discussione riservava posti in asili nido ai dipendenti di sesso femminile del Ministero olandese dell’Agricoltura, del Patrimonio naturale e della Pesca, «salvo casi di necessità riconosciuti dal direttore»  (21) . La Corte ha sottolineato il fatto che la misura in questione non riservava alle donne posti di lavoro, ma solo «il beneficio di talune condizioni di lavoro»  (22) .

39.      Inoltre riservare posti negli asili nido ai dipendenti di sesso femminile poteva migliorare la parità di opportunità per le donne, in quanto era riconosciuto che queste ultime tendevano più degli uomini a rinunciare alla loro carriera professionale per dedicarsi alla cura dei figli  (23) .

40.      Nelle sentenze Badeck e Lommers la Corte ha attribuito particolare importanza al fatto che le misure in questione non costituivano un’esclusione totale dei candidati di sesso maschile  (24) . La Corte ha dichiarato che, per essere compatibile con l’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207, una misura doveva soddisfare questa condizione negativa. Infatti, nella sentenza Lommers, la Corte ha espressamente osservato che il provvedimento in questione non escludeva del tutto i dipendenti di sesso maschile dal suo campo di applicazione  (25) . In caso contrario, la misura positiva sarebbe stata incompatibile con il principio della parità di trattamento  (26) .

41.      La necessità di conciliare il fine perseguito con il principio della parità di trattamento esclude qualsiasi tipo di preferenza automatica a favore delle donne e impone che i provvedimenti assicurino un equilibrio proporzionato tra i vantaggi dell’azione positiva volta a promuovere la parità per le donne e i costi a carico di altre persone. Tali requisiti sono necessari per evitare che la parità tra i singoli venga sacrificata per garantire una sostanziale parità tra gruppi  (27) .

42.      La Corte tenta di conciliare la discriminazione positiva con il principio generale di uguaglianza consentendola solo nella misura in cui non determini una discriminazione a favore di un determinato gruppo a scapito di singoli: il raggiungimento di una rappresentatività più equilibrata di uomini e donne nella forza lavoro non giustifica una deroga al diritto di ogni individuo di non essere discriminato. In altre parole, la parità delle opportunità prevale sulla parità dei risultati. La Corte considera ammissibili le misure positive discriminatorie solo qualora siano effettivamente dirette ad evitare una discriminazione in ogni singolo caso, obbligando il datore di lavoro a collocare donne in posizioni analoghe a quelle occupate dagli uomini. Le misure positive discriminatorie, sotto questo profilo, sono discriminatorie solo all’apparenza. Ciò spiega perché la Corte consideri ammissibili, ad esempio, misure volte a conciliare il lavoro con l’allevamento dei figli, favorendo in tal modo le donne, purché tali misure non riguardino l’accesso al lavoro e possano essere applicate anche agli uomini  (28) . Ciò spiega altresì perché la Corte ammetta misure che accordano preferenza alle donne nelle assunzioni a condizione che non si tratti di una priorità automatica, ma semplicemente di un ulteriore criterio che il datore di lavoro deve prendere in considerazione ai fini dell’assegnazione dei posti. Tuttavia non è improbabile che questa logica di autorizzare la discriminazione positiva solo nella misura in cui può contribuire ad eliminare la discriminazione potenziale entri in conflitto con gli obiettivi più ambiziosi talora associati a misure di azione positiva. Spesso tali misure sono dirette ad eliminare o a compensare la sottorappresentanza di determinati gruppi sociali accordando loro preferenza nell’accesso a taluni settori della società.

43.      La giurisprudenza della Corte, invece, rispecchia il riferimento esclusivo di cui all’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207 alle misure volte a «[porre] rimedio alle disparità di fatto», senza menzionare la compensazione. È alla luce di tale disposizione che la Corte autorizza forme di discriminazione positiva solo nella misura in cui possano contribuire a correggere meccanismi decisionali discriminatori (in particolare per quanto riguarda l’occupazione), ma non qualora siano volte a compensare tali meccanismi.

44.      Nella fattispecie, il governo francese non ha dimostrato che le donne fossero sottorappresentate nell’amministrazione o più in particolare in determinati gradi di carriera. Inoltre l’art. 8 della legge in esame non si limita a distinguere tra uomini e donne, ma fa anche riferimento allo stato matrimoniale dei singoli. Inoltre non è chiaro il motivo per cui le vedove non rimaritate, le donne divorziate non rimaritate e le donne separate legalmente andrebbero mantenute distinte da altre categorie di singoli per le quali occorrerebbe adottare provvedimenti. In ogni caso, il governo francese non ha prodotto alcuna prova a sostegno di questo ragionamento.

45.      Inoltre, come si è già detto, le misure che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2, n. 4, della direttiva 76/207 sono compatibili con detta disposizione solo qualora siano adeguate e proporzionate allo scopo perseguito. Nel caso di specie, mancando la prova che la misura è volta a porre rimedio ad una sottorappresentanza delle donne, non occorre neanche valutare l’adeguatezza e la proporzionalità della legge di cui trattasi rispetto allo scopo prefissato.

46.      Da queste considerazioni discende che nessuna delle deroghe all’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 è atta a giustificare la discriminazione basata sul sesso di cui all’art. 8 della legge.

47.      In tali circostanze, tuttavia, si deve stabilire se la normativa in esame possa trovare legittimazione nell’art. 141, n. 4, CE.

48.      L’art. 141, n. 4, CE autorizza le misure «che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali»  (29) . Non si può escludere che misure positive non rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 76/207 possano essere autorizzate in forza di tale disposizione  (30) . Infatti, come ho sottolineato, si potrebbe sostenere che esiste una differenza tra le misure dirette a ridurre le disparità e quelle volte a compensare disparità che penalizzino o abbiano penalizzato un gruppo sociale. Non si può escludere che il riferimento alla compensazione contenuto all’art. 141, n. 4, CE sia inteso a conferire agli Stati membri una più ampia discrezionalità ai fini dell’adozione di misure di discriminazione positiva. Tuttavia questa interpretazione deve sempre rimanere nei limiti consentiti dal principio generale di uguaglianza. La questione che la Corte deve risolvere non è se determinate forme di discriminazione positiva conducano o meno ad una società più equa e più giusta, bensì se tali forme di discriminazione positiva, una volta adottate dal legislatore, siano conciliabili con il principio generale di uguaglianza e di non discriminazione  (31) .

49.      A tale proposito, il riferimento alla compensazione di cui all’art. 141, n. 4, CE può essere interpretato nel senso che l’esigenza di compensare disuguaglianze sociali passate o presenti può giustificare il fatto di favorire singoli individui appartenenti a tali gruppi a costo di discriminare membri dei gruppi sovrarappresentati, oppure nel senso che l’adozione di misure di tipo compensativo è necessaria se si ritiene che l’applicazione non discriminatoria delle regole sociali in vigore sia strutturalmente squilibrata a favore dei membri dei gruppi sovrarappresentati  (32) . La prima interpretazione subordina il diritto dei singoli a non essere discriminati al conseguimento della parità tra gruppi, il che si giustifica con lo scopo di compensare i membri dei gruppi sottorappresentati per le discriminazioni subite in passato. Questa interpretazione è poco compatibile con la priorità attribuita dalla Corte alla parità delle opportunità e con la sua tradizionale interpretazione del principio generale della parità di trattamento.

50.      La seconda interpretazione, invece, si concilia meglio con il principio della parità di trattamento, così come interpretato ed applicato dalla Corte. Secondo questa interpretazione, l’obiettivo non è la parità dei risultati. Né gli scopi della discriminazione positiva giustificano necessariamente la discriminazione tra singoli. Si ritiene che le misure spesso associate all’uguaglianza sostanziale e dirette a compensare la sottorappresentanza di determinati gruppi (ad esempio quote, preferenze automatiche) siano le uniche che possono effettivamente garantire pari opportunità nel lungo periodo. Pertanto le misure che favoriscono i membri di determinati gruppi non sono intese come un mezzo per ottenere la parità tra gruppi o la parità di risultati, bensì come uno strumento volto a realizzare un’effettiva parità delle opportunità. Lo scopo delle misure compensative di questo tipo diventa allora ristabilire la parità delle opportunità eliminando gli effetti della discriminazione e promuovendo la massimizzazione di detta parità nel lungo periodo  (33) . In questo caso la compensazione comporta il riequilibrio delle opportunità offerte dalla società ai membri dei vari gruppi.

51.      Fondando l’accettazione delle forme compensative di discriminazione positiva sulla parità delle opportunità anziché sulla parità dei risultati, si determinerebbe ugualmente una prevalenza della parità tra singoli rispetto alla parità tra gruppi, ma si imporrebbero a sua volta limiti e condizioni alle forme di discriminazione positiva compensativa ammissibili alla luce dell’art. 141, n. 4, CE. L’ammissibilità di tali forme di discriminazione positiva sarebbe strettamente legata, ad esempio, al loro carattere transitorio  (34) . In caso contrario, esse potrebbero creare, nel lungo periodo, diritti radicati anche quando non sussistano più le condizioni che le giustificavano inizialmente. Di conseguenza, si comprometterebbe l’obiettivo della creazione di pari opportunità effettive nel lungo periodo. Si potrebbero collegare altre condizioni alla natura e alla portata degli oneri imposti ai membri del gruppo sovrarappresentato, alla probabilità che migliori prospettive per i membri del gruppo sottorappresentato possano condurre ad una reale parità di opportunità e all’obbligo di comprovare la sottorappresentanza non solo in generale, ma anche nello specifico settore o nella specifica istituzione soggetti a forme di discriminazione positiva.

52.      Nella fattispecie, in mancanza di prove relative allo scopo perseguito dalla normativa, una disposizione come l’art. 8 della legge in questione non è giustificabile in forza dell’art. 141, n. 4, CE, per cui non occorre stabilire se le suddette condizioni siano soddisfatte.

III – Conclusione

53.      A mio parere, pertanto, la questione proposta dal giudice nazionale dovrebbe essere risolta come segue:

La direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, e l’art. 141, n. 4, CE, ostano ad una disposizione quale l’art. 8 della legge francese n. 75-3, come modificata, nella misura in cui discrimina tra vedove e vedovi non risposati, per quanto riguarda il limite di età imposto per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione, senza essere intesa a porre rimedio a disparità di fatto o a compensarle.


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Lingua originale: il portoghese.


2
(GU 1976, L 39, pag. 40). Va rilevato che la direttiva 76/207 è stata sostituita dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE, che modifica la direttiva del Consiglio 76/207 (GU L 269, pag. 15). Le nuove disposizioni non sono applicabili alla presente causa, in quanto devono essere trasposte dagli Stati membri al più tardi entro il 5 ottobre 2005.


3
Journal Officiel de la République Française (JORF) del 4 gennaio 1975, pag. 198.


4
JORF dell’8 luglio 1979.


5
JORF del 10 maggio 2001, pag. 7320.


6
I ricorsi sono stati registrati rispettivamente il 28 marzo, il 29 marzo e il 19 aprile 2002 con i numeri 0204512/5, 0204571/5 e 0205683/5.


7
L’art. 5 del decreto 1° agosto 1990, n. 90‑713, relativo alle disposizioni statutarie comuni applicabili ai collaboratori amministrativi della pubblica amministrazione, dispone quanto segue: «sono ammessi al concorso i candidati di età inferiore a 45 anni al 1° gennaio dell’anno del concorso» (JORF dell’11 agosto 1990, pag. 9795).


8
L’art. 1 del decreto 14 agosto 1975, n. 75-765, relativo ai limiti di età applicabili alle assunzioni mediante concorso dei pubblici impiegati inquadrati nelle classi B, C e D, dispone quanto segue: «[i]l limite di età (…) è fissato in 45 anni, salvo che specifiche disposizioni prevedano un limite superiore» (JORF del 19 agosto 1975).


9
Sentenze 26 ottobre 1999, causa C‑273/97, Sirdar (Racc. pag. I‑7403, punto 18); 11 gennaio 2000, causa C‑285/98, Kreil (Racc. pag. I‑69, punto 18), e 19 marzo 2002, causa C‑476/99, Lommers (Racc. pag. I‑2891, punto 25).


10
Benché originariamente la direttiva 76/207 fosse intesa a porre rimedio alla discriminazione contro le donne, è indubbio che anche gli uomini possono chiedere che si ponga rimedio alle discriminazioni che li penalizzano ogni qual volta vengano collocati in una situazione svantaggiata rispetto alle donne.


11
V., tra l’altro, sentenze 15 giugno 2000, causa C‑302/98, Sehrer (Racc. pag. I‑4585, punto 20); 20 marzo 2001, causa C‑33/99, Fahmi (Racc. pag. I‑2415, punto 28), e 8 maggio 2003, causa C‑111/01, Gantner Electronic (Racc. pag. I‑4207, punti 34 e 38).


12
Sentenze 12 luglio 1984, causa 184/83, Hofmann (Racc. pag. 3047), e 30 giugno 1998, causa C‑394/96, Brown (Racc. pag. I‑4185). Per analogia, benché l’analisi riguardi l’art. 141 CE, v. anche sentenza 29 novembre 2001, causa C‑366/99, Griesmar (Racc. pag. I‑9383, punti 43 e 44).


13
Sentenza Lommers, cit., punto 32. V., anche, sentenze 17 ottobre 1995, causa C‑450/93, Kalanke (Racc. pag. I‑3051, punti 18 e 19); 11 novembre 1997, causa C‑409/95, Marschall (Racc. pag. I‑6363, punti 26 e 27), e 28 marzo 2000, causa C‑158/97, Badeck e a. (Racc. pag. I‑1875, punto 19).


14
Sentenza Lommers, cit., punto 33.


15
Una distinzione analoga era già stata proposta dall’avvocato generale Tesauro nella causa C‑450/93, Kalanke, cit., paragrafo 9.


16
Sentenza Badeck e a., cit., punto 23. V., anche, sentenza 24 gennaio 2003, causa E‑1/02, Autorità di vigilanza EFTA/Regno di Norvegia, EFTA Court Report 1, punto 15.


17
Sentenza 6 luglio 2000, causa C‑407/98 (Racc. pag. I-5539).


18
Sentenza Abrahamsson, cit., punto 53.


19
Sentenza Abrahamsson, cit., punto 49.


20
Citata


21
Sentenza Lommers, cit., punto 11.


22
Sentenza Lommers, cit, punto 38.


23
Sentenza Lommers, cit., punto 37.


24
Citate sentenze Badeck, punto 53, e Lommers, punti 44 e 45.


25
.Sentenza Lommers, cit., punto 45.


26
Citate sentenze Lommers, punto 39, e Autorità di vigilanza EFTA/Regno di Norvegia, punto 43.


27
Per un’analisi critica della preferenza accordata alla parità tra i singoli, v. S. Freeman, Social Law and Policy in an evolving European Union, J. Shaw (ed.), 2000, pag. 189; A. Haquet, L’action positive, instrument de l’égalité des chances entre hommes et femmes, RTDE, 2001, pag. 305; S. Prechal, Equality of Treatment, Non-Discrimination and Social Policy: Achievements in Three Themes, CMLRev., 2004, pag. 533.


28
.Citate sentenze Badeck, punto 53, e Lommers, punti 44 e 45.


29
Il termine «compensare» è stato introdotto con il Trattato di Amsterdam.


30
Come la Corte ha riconosciuto nella sentenza Abrahamsson, cit., punto 54.


31
Per valutare le scelte del legislatore nazionale, la Corte deve tenere conto anche del fatto che autorizzare scelte politiche diverse in un settore caratterizzato da grande incertezza e da un dibattito aperto sui reali effetti e vantaggi delle misure di discriminazione positiva può comportare un’utile sperimentazione e uno scambio di esperienze fra i vari Stati membri. Un altro elemento da prendere in considerazione è se, nei casi in cui vengono adottate misure di discriminazione positiva, i membri dei gruppi sovrarappresentati abbiano un livello di rappresentanza e partecipazione sufficiente per esprimere le proprie posizioni nell’ambito del processo politico.


32
Questo punto è al centro delle critiche di cui è oggetto l’uguaglianza formale, che si ritiene rafforzi le discriminazioni esistenti nella società.


33
A tale proposito si possono indicare due motivi principali. In primo luogo, la discriminazione positiva è semplicemente intesa a migliorare le prospettive delle vittime della discriminazione mettendole nella situazione in cui si sarebbero trovate senza siffatta discriminazione. In secondo luogo, la discriminazione positiva è considerata l’unico strumento efficace per generare i giusti incentivi per i gruppi sottorappresentati ad investire in capitale umano (spezzando il circolo della discriminazione) e per porre rimedio a talune lacune di mercato (monopoli sociali e costi di informazione) che, rafforzando le discriminazioni sociali esistenti, impediscono effettivamente ai candidati migliori di essere scelti. Si deve osservare che spesso il nesso di causalità tra questi motivi e gli effetti della discriminazione positiva viene contestato e forma oggetto di numerose strategie alternative. Tuttavia alla Corte spetta valutare non i meriti di tali politiche, ma solo se, e in quale misura, esse possano essere considerate compatibili con il principio della parità di trattamento.


34
Il che può essere garantito mediante clausole di limitazione o riesami periodici della normativa.