CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
L.A. GEELHOED
pronunciato il 7 settembre 2004(1)



Causa C-434/02



Arnold André GmbH & Co. KG
e
Landrat des Kreises Herford


[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Verwaltungsgericht Minden (Germania)]
e

Causa C-210/03



Swedish Match AB and
Swedish Match AB UK Ltd
e
Secretary of State for Health


[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice of England and Wales, Queen's Bench Division (Administrative Court)]

«Validità dell'art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 giugno 2001, 2001/37/CE, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco – Divieto di commercializzazione di tabacco per uso orale – Continuazione della vendita di “snus” in Svezia ai sensi dell'art. 151, n. 1, dell'Atto di Adesione del 1994 (Allegato XV, Capitolo X, “Varie”) – Proporzionalità di un divieto totale di commercializzazione (interpretazione degli artt. 28 CE e 95 CE)»(Interpretazione degli artt. 28 CE, 29 CE e 30 CE – Compatibilità di una norma nazionale che vieta la vendita di prodotti di tabacco per uso orale – Validità dell'art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 giugno 2001, 2001/37/CE, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco – Divieto di commercializzazione di tabacco per uso orale – Continuazione della vendita di “snus” in Svezia ai sensi dell'art. 151, n. 1, dell'Atto di Adesione del 1994)»






I – Introduzione

1.        La questione principale sollevata nelle due cause in esame riguarda la validità dell’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 giugno 2001, 2001/37/CE, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco (in prosieguo: la «direttiva»)  (2) . La causa C-434/02 trae origine da un rinvio pregiudiziale del Verwaltungsgericht Minden (Tribunale amministrativo di Minden, Germania), e la causa C-210/03 da un rinvio della High Court of Justice (England & Wales).

2.        Conformemente all’art. 8 della direttiva, gli Stati membri devono vietare la commercializzazione dei tabacchi per uso orale, fatte salve le disposizioni di cui all’art. 151 dell’Atto di adesione dell’Austria, della Finlandia e della Svezia. In Svezia è ancora consentita la vendita di «snus».

3.        Le presenti cause possono essere considerate il seguito della causa C‑491/01, British American Tobacco (Investments) e Imperial Tobacco  (3) , in cui la Corte ha esaminato la validità della direttiva in generale. Da tale esame non è emerso alcun elemento atto ad inficiare la validità della direttiva stessa. Tuttavia, in considerazione del tenore delle questioni sottoposte dal giudice a quo nella detta causa, la Corte non ha preso specificamente in considerazione l’art. 8 della direttiva.

4.        La menzionata disposizione vieta l’immissione in commercio di un prodotto del tabacco che nell’Unione europea è utilizzato solo su scala molto ridotta, principalmente in uno Stato membro (la Svezia), mentre la commercializzazione di tutti gli altri prodotti più comuni del tabacco è ancora consentita, subordinatamente al rispetto di alcune condizioni restrittive. Inoltre, come dichiarato affermato dinanzi alla Corte e come confermano vari studi scientifici, il consumo orale di tabacco è molto meno nocivo per la salute del fumo di sigarette e sigari.

5.        Un altro fattore importante, nella fattispecie, è che il divieto relativo al tabacco per uso orale è stato introdotto nel 1992 nel quadro di un pacchetto di misure coerenti dirette a combattere il consumo di tabacco. Il divieto era giustificato in quanto riguardava prodotti non ancora noti sul mercato comunitario, che avrebbero potuto attirare i giovani. Tale divieto è stato reistituito dalla direttiva del 2001, anche se il contesto aveva subito alcuni importanti mutamenti. In primo luogo, la Svezia, in cui l’uso dello «snus» è tradizionale e diffuso, aveva aderito all’Unione europea. In secondo luogo, la politica comunitaria sui prodotti del tabacco senza combustione diversi da quelli per uso orale tendeva a divenire più flessibile, contrariamente alla politica sulle sigarette.

6.        In tale contesto, si chiede alla Corte di risolvere le seguenti questioni:

se un divieto totale di commercializzazione di taluni prodotti possa essere fondato sull’art. 95 CE;

se il divieto relativo al tabacco per uso orale sia conforme al principio di proporzionalità;

in quale misura il diritto comunitario imponga un trattamento identico per tali prodotti;

se il legislatore comunitario abbia adempiuto l’obbligo di indicare i motivi che giustificano il divieto.

7.        Nelle presenti cause è stata sollevata la questione dell’applicabilità di alcuni altri principi giuridici, soprattutto da parte delle ricorrenti. Ricordo in primo luogo i diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo nonché, più in particolare, il diritto di proprietà e la libertà di esercitare un’attività commerciale o professionale e, in secondo luogo, la libertà di scelta del consumatore, nella misura in cui gli viene negato il diritto di optare per prodotti del tabacco meno nocivi. Tali questioni possono essere risolte facendo semplicemente riferimento alla causa C-491/01 e alla giurisprudenza della Corte in materia di restrizioni della libera circolazione delle merci. Nelle presenti conclusioni non analizzerò questi punti.

8.        Un altro argomento dedotto dalle ricorrenti riguarda la libera circolazione delle merci in sé, in relazione al fatto che lo «snus» può essere legittimamente commercializzato all’interno di uno Stato membro. Come affermano le ricorrenti, il fatto che lo «snus» sia legittimamente disponibile solo in Svezia costituisce un ostacolo per il mercato unico. Tuttavia, poiché tale ostacolo è istituito a livello di Trattato, e precisamente dal Trattato di adesione della Svezia, la Corte non deve valutare se esso sia giustificato da motivi di interesse pubblico.

II – Ambito normativo

9.        Il divieto di commercializzazione del tabacco per uso orale è stato introdotto dalla direttiva del Consiglio 15 maggio 1992, 92/41/CEE (in prosieguo: la «direttiva del 1992»), che modifica la direttiva 89/622/CEE, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri riguardanti l’etichettatura dei prodotti del tabacco (in prosieguo: la «direttiva del 1989»)  (4) .

10.      Ai sensi dell’art. 8 bis della direttiva del 1989 (come modificato nel 1992), gli Stati membri devono vietare l’immissione sul mercato dei tabacchi per uso orale. Conformemente all’art. 2, n. 4, sono «tabacchi per uso orale» «tutti i prodotti che siano destinati ad un uso orale, eccettuati i prodotti da fumare o masticare, costituiti interamente o parzialmente da tabacco, presentato sotto forma di polvere o di particelle fini, ovvero qualsiasi combinazione di queste presentazioni – in particolare quelle presentate in sacchetti/porzioni o sacchetti porosi – oppure sotto una forma che richiama un prodotto commestibile». Questa definizione è rimasta invariata nella direttiva del 2001 ed è comprensiva dello «snus»  (5) .

11.      Conformemente al preambolo della direttiva del 1992, il divieto relativo al tabacco per uso orale si fonda sulle seguenti considerazioni attinenti ai rischi per la salute dei prodotti in questione:

è provato che i prodotti del tabacco senza combustione costituiscono un importante fattore di rischio del cancro;

secondo il parere degli esperti scientifici, la dipendenza causata dal consumo di tabacco costituisce un pericolo che merita un’avvertenza specifica su ogni prodotto del tabacco;

nuovi prodotti del tabacco per uso orale immessi sul mercato di taluni Stati membri attirano in particolare i giovani;

esiste un rischio reale che questi nuovi prodotti per uso orale siano utilizzati soprattutto dai giovani, con il conseguente insorgere della dipendenza nei confronti della nicotina, laddove non siano adottati in tempo utile provvedimenti restrittivi;

secondo le conclusioni degli studi del Centro internazionale di ricerca sul cancro, i tabacchi per uso orale sono caratterizzati dalla presenza di quantità particolarmente elevate di sostanze cancerogene e questi nuovi prodotti provocano in particolare tumori della bocca;

l’unico provvedimento appropriato è la proibizione totale, senza tuttavia colpire i prodotti del tabacco per uso orale di lunga tradizione.

12.      Poiché l’art. 95 CE costituiva il fondamento normativo della direttiva, il preambolo di quest’ultima fa riferimento anche al mercato interno. In particolare vi si afferma che «i divieti di immissione sul mercato già emanati da tre Stati membri per quel che riguarda questi tabacchi hanno un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul finanziamento del mercato interno».

13.      La direttiva del 1989 è stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2001/37. Come già rilevato nell’introduzione delle presenti conclusioni, l’art. 8 della direttiva vieta la commercializzazione del tabacco per uso orale, con una deroga per la Svezia. Il preambolo non indica i motivi di tale divieto e contiene solo un richiamo al fatto che la direttiva 89/622 ha proibito la vendita di taluni tipi di tabacco per uso orale (con una deroga per la Svezia).

14.      Nella Repubblica federale di Germania, l’art. 8 bis della direttiva 89/622 è stato trasposto nel diritto interno per mezzo dell’art. 5 , lett. a), del regolamento tedesco sui prodotti di tabacco (in prosieguo: il «regolamento sul tabacco»)  (6) , che vieta l’immissione sul mercato per fini commerciali dei prodotti del tabacco destinati ad un uso orale diverso dal fumo o dalla masticazione.

15.      Nel Regno Unito, il divieto è stato attuato mediante il «Tobacco for Oral Use (Safety) Regulations 1992» (regolamento del 1992 in materia di tabacchi per uso orale – sicurezza; in prosieguo: il «regolamento del 1992»), il quale dispone che «è vietato vendere, offrire in vendita, consentire la vendita, esporre ai fini della vendita o possedere ai fini della vendita qualunque tipo di tabacco per uso orale». Il regolamento del 1992 è stato adottato in forza di una legge nazionale, il «Consumer Protection Act 1987» (legge sulla protezione dei consumatori del 1987) e non dipende pertanto dall’esistenza di un obbligo di diritto comunitario.

16.      Ricordo, infine, la disciplina relativa all’etichettatura dei prodotti del tabacco senza combustione non soggetti al divieto di commercializzazione. Conformemente alla direttiva del 1992, le unità di confezionamento dei prodotti del tabacco senza combustione dovevano recare la seguente avvertenza: «Provoca il cancro». Ai sensi della direttiva del 2001 è peraltro sufficiente un’avvertenza più blanda. A tenore dell’art. 5, n. 4, di detta direttiva, «[i] prodotti del tabacco per uso orale dei quali è autorizzata la commercializzazione a norma dell’articolo 8, e i prodotti del tabacco senza combustione, recano l’avvertenza seguente: “Questo prodotto del tabacco può nuocere alla tua salute e provoca dipendenza”». Il preambolo della direttiva del 2001 non specifica i motivi per cui è stata apportata tale modifica.

III – Fatti e procedimento

A – Causa C-434/02

17.      La ricorrente, la società Arnold André GmbH & Co. KG, con sede in Germania, commercializza, oltre a sigari e tabacco da pipa, prodotti a base di tabacco non da fumo, tra cui vari articoli con la denominazione «snus».

18.      Con provvedimento 12 settembre 2002, il Landrat des Kreises Herford, resistente nel procedimento principale, vietava alla ricorrente di immettere sul mercato per fini commerciali prodotti di tabacco recanti le denominazioni «Röda Lacket-Snus», «Ljunglöf’s Ettan-Snus» e «General Snus» dell’importatore Swedish Match. Nel contempo ordinava alla ricorrente di provvedere al ritiro dal commercio dei prodotti de quibus e a presentare relativa documentazione, a pena di ammenda in caso di contravvenzione a detti obblighi, disponendo l’esecuzione immediata del provvedimento. Avverso tale provvedimento la ricorrente presentava ricorso amministrativo in data 27 settembre 2002.

19.      Con ordinanza 14 novembre 2002, pervenuta alla cancelleria della Corte il 29 novembre 2002, il Verwaltungsgericht Minden ha sottoposto alla Corte una questione pregiudiziale relativa alla validità dell’art. 8 della direttiva.

B – Causa C-210/03

20.      La prima ricorrente, la Swedish Match AB, è un’impresa svedese che produce e distribuisce un prodotto costituito da tabacchi per uso orale denominato «snus». La seconda ricorrente, la Swedish Match AB UK Ltd, vende all’ingrosso e al dettaglio tabacchi nel Regno Unito.

21.      L’8 maggio 2002 le ricorrenti agivano in giudizio contro il resistente, contestando la legittimità del divieto relativo allo «snus» e chiedevano di rinviare alla Corte, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, una serie di questioni pregiudiziali attinenti ai motivi sui quali si fondava la loro impugnazione.

22.      A seguito dell’udienza svoltasi il 15 e 16 ottobre 2002, la High Court (Queen’s Bench Division, Administrative Court) dichiarava ammissibile l’azione delle ricorrenti e le parti convenivano successivamente sull’opportunità di un rinvio pregiudiziale. Con ordinanza 2 aprile 2003, pervenuta alla cancelleria della Corte il 15 maggio 2003, la High Court ha sottoposto alla Corte una serie di questioni pregiudiziali. Nella sostanza, dette questioni riguardano l’interpretazione degli artt. 28 CE e 30 CE, la validità del divieto sancito dall’art. 8 della direttiva del 2001 e le conseguenze dell’eventuale invalidità del regolamento del 1992.

C – Le due cause

23.      In data 8 giugno 2004 si è svolta dinanzi alla Corte un’udienza congiunta per le due cause. All’udienza hanno presentato osservazioni le ricorrenti nelle due cause, il resistente nella causa C-434/02, i governi britannico, francese, irlandese e finlandese, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione. Hanno inoltre presentato osservazioni scritte i governi belga e svedese.

IV – Prima osservazione preliminare: la sentenza nella causa C-491/01 non risolve la questione della validità dell’art. 8

24.      Nella sentenza relativa alla causa C-491/01 la Corte ha dichiarato, dopo avere esaminato la direttiva nel suo complesso, che da tale esame non è emerso alcun elemento idoneo ad inficiare la validità della direttiva 2001/37.

25.      Nelle sue osservazioni scritte, la Commissione spiega che l’obiettivo della direttiva è di impedire che a livello nazionale vengano adottate norme diverse in materia di consumo di tabacco. Il divieto relativo allo «snus» di cui all’art. 8 rappresenta solo un aspetto della realizzazione di tale obiettivo. Ci si potrebbe domandare se sia realmente questo lo scopo principale della direttiva, che prevede una serie di misure dirette a contrastare l’uso dei prodotti del tabacco. Tuttavia, tale argomento non è pertinente rispetto alla questione sollevata dalla Commissione: ci si chiede se la Corte, esaminando la direttiva nel suo complesso, si sia anche pronunciata sulla validità dell’art. 8.

26.      In caso affermativo, l’art. 8 della direttiva sarebbe valido al di là di ogni ragionevole dubbio. La Corte potrebbe risolvere le questioni dei giudici nazionali mediante semplice rinvio alla sentenza nella causa C‑491/01.

27.      Tuttavia, a mio parere la Corte non dovrebbe procedere in tale direzione. È pur vero che le questioni della causa C-491/01, così come la soluzione della Corte, riguardavano la direttiva in generale. Ma ritengo più importante il fatto che gli argomenti dedotti in detta causa riguardano pressoché esclusivamente gli artt. 3, 5 e 7 della direttiva. Lo stesso vale per il giudizio della Corte, il quale riguarda quasi esclusivamente questi tre articoli. Erano in discussione i provvedimenti relativi alla composizione e all’etichettatura delle sigarette, che ritengo si collochino al centro della direttiva in termini di importanza economica e di rilevanza per la salute pubblica.

28.      La Corte non ha proceduto all’esame dell’art. 8 della direttiva, che dev’essere considerato quale disposizione specifica intesa a vietare la commercializzazione di un determinato prodotto. A mio parere, la validità dell’art. 8 può essere valutata a prescindere dalla validità delle altre disposizioni della direttiva. Anche se ritengo che quest’ultima contenga una serie di misure coerenti dirette a contrastare il consumo di tabacco, ogni singola misura può produrre effetti senza che su di essa incida l’annullamento delle altre.

29.      In conclusione, non sarebbe corretto interpretare la sentenza nella causa C‑491/01 nel senso che essa riguardi la validità di ogni singolo aspetto della direttiva. Mi richiamo al tenore letterale della decisione della Corte: «[d]all’esame della prima questione non è emerso alcun elemento idoneo a inficiare la validità della direttiva (…) 2001/37/CE».

V – Seconda osservazione preliminare: l’art. 2, n. 4, indica i prodotti vietati

30.      Nel corso del procedimento dinanzi alla Corte, la ricorrente nella causa C‑434/02, in particolare, ha messo in discussione la precisione della definizione dei prodotti vietati. I suoi dubbi riguardano:

il preambolo della direttiva del 1992, in cui si afferma che il divieto non riguarda i prodotti per uso orale di lunga tradizione;

l’affermazione secondo cui non esistono differenze tra il tabacco da masticare e quello da succhiare;

una discrepanza tra le versione linguistica tedesca e quella inglese.

31.      Per quanto riguarda il preambolo della direttiva del 1992, il suo tenore letterale, come si è detto, non viene ricalcato dalla direttiva del 2001. Tuttavia, in assenza di una motivazione specifica per quest’ultima direttiva, ritengo che le considerazioni che hanno ispirato il tenore del preambolo della direttiva del 1992 siano ancora valide ma, al tempo stesso, irrilevanti. Dopotutto, la definizione di un prodotto non è determinata da un preambolo, ma da una disposizione legale. Le norme in questione (art. 2, n. 4, della direttiva del 1992 e art. 2, n. 4, della direttiva del 2001) non distinguono i prodotti in tradizionali e non tradizionali, bensì in funzione dell’uso cui sono destinati.

32.      Nel prosieguo delle presenti conclusioni esaminerò le osservazioni presentate alla Corte in merito alle differenze, in termini di impiego effettivo, tra il tabacco da masticare e il tabacco da succhiare. Come si è detto, non si può escludere che il tabacco da masticare venga frequentemente succhiato, anziché masticato. Tuttavia, ciò è irrilevante ai fini della determinazione dell’ambito di applicazione del divieto. La direttiva distingue in funzione dell’uso previsto, non in base all’uso effettivo.

33.      Infine, per quanto riguarda l’asserita differenza tra le versioni linguistiche inglese e tedesca, escludo che essa esista. Il testo tedesco utilizza i fatti l’espressione «die zum Kauen bestimmt sind» [destinati ad essere masticati].

34.      Concludo nel senso che l’art. 2, n. 4, definisce la sfera di applicazione del divieto e che il tenore letterale della disposizione è sufficientemente chiaro.

VI – Il contesto di fatto: informazioni essenziali sullo «snus»

A – Considerazioni generali

35.      Una ragionevole valutazione degli aspetti giuridici delle presenti cause presuppone necessariamente una certa conoscenza del contesto di fatto. Che cos’è lo «snus»? Chi ne fa uso? Quali sono gli effetti del consumo di «snus» sulla salute pubblica? L’importanza del contesto di fatto è dimostrata dal numero e dal volume dei documenti prodotti dinanzi alla Corte. Tali documenti sono intesi a costituire la base dei contrapposti argomenti dedotti. Essi dovrebbero infatti provare che il divieto contribuisce al miglioramento della salute pubblica ovvero, secondo la tesi opposta, che esso è dannoso per la salute pubblica.

B – Cos’è lo snus, come viene utilizzato e chi ne fa uso?

36.      Per spiegare cosa sia lo «snus» – primo punto della mia analisi –, l’ordinanza di rinvio relativa alla causa C-210/03 ne descrive come segue la sostanza e l’aspetto: «[i]l tabacco si presenta in vari formati e si suddivide di regola in due categorie: tabacco “da fumo” e tabacco “non da fumo” (che include lo “snus”). Il tabacco non da fumo comprende il tabacco da fiuto, il tabacco umidificato da succhiare, il tabacco da masticare e un’ampia gamma di altri prodotti. Tutti questi prodotti sono costituiti da foglie di tabacco macinate o trinciate, aromatizzate in qualche modo. Sotto questo profilo, si tratta di prodotti ampiamente simili. Vi sono però differenze per quanto riguarda il tipo di tabacco utilizzato, il suo trattamento, nonché il tipo di aromatizzazione utilizzata, che comportano effetti rilevanti quanto ai livelli di nitrosammine e benzopirene specifici del tabacco, sostanze considerate entrambe cancerogene. È generalmente riconosciuto che lo “snus” contiene livelli molto bassi di nitrosammine e benzopirene in confronto a molti dei prodotti del tabacco non da fumo leciti».

37.      Conformemente alla legislazione comunitaria, lo «snus» è un tipo particolare di «tabacco per uso orale». I «tabacchi per uso orale» contengono essenzialmente la stessa sostanza dei tabacchi da masticare, salvo che non sono pressati in zollette e che le particelle di tabacco hanno dimensioni diverse. Inoltre, i «tabacchi per uso orale» contengono più acqua.

38.      Contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rinvio relativa alla causa C-210/03, dinanzi alla Corte è stato sottolineato – senza contestazioni da parte delle ricorrenti – che il livello di nitrosammine nello «snus» è relativamente alto. Le nitrosammine sono sostanze cancerogene. Dinanzi alla Corte si è inoltre osservato che anche il livello di nicotina è piuttosto elevato. Il Consiglio, ad esempio, afferma che 1 grammo di «snus» contiene 8-10 milligrammi di nicotina. La nicotina è tossica, soprattutto a contatto con la pelle, e dà dipendenza.

39.      Il secondo punto della mia analisi riguarda l’uso dello «snus». Le ricorrenti hanno affermato dinanzi alla Corte che lo «snus» è equiparabile ai «prodotti del tabacco da masticare», esclusi dal divieto di cui all’art. 8 della direttiva del 2001. Tali prodotti consistono spesso in tabacco trinciato, pressato in zollette da mettere in bocca, più in particolare nella cavità orale tra il labbro e la gengiva. È stato affermato che molti prodotti venduti con la denominazione «tabacco da masticare» non sono in realtà destinati ad essere masticati e che alcuni di essi non possono affatto essere masticati. Su alcuni prodotti di tabacco «da masticare» si raccomanda al consumatore di «non masticare». Il tabacco viene trattenuto tra il labbro e la gengiva oppure semplicemente spostato all’interno della bocca. Questa modalità di consumo si verifica anche per i prodotti di tabacco da masticare in forma sfusa.

40.      La differenza in termini di impiego tra lo «snus» e il tabacco da masticare è stata ampiamente discussa dinanzi alla Corte. In sintesi, tale discussione si è incentrata sulla tesi delle ricorrenti secondo cui i prodotti venduti come tabacco da masticare non vengono masticati e potrebbero anche non essere destinati a tale modalità d’uso. A mio parere, questa discussione ha un’importanza limitata ai fini della soluzione delle presenti cause, data la definizione di prodotti del tabacco contenuta nella direttiva del 2001. Il fattore decisivo è se un prodotto di tabacco sia destinato ad essere masticato. Se un prodotto di tabacco non da fumo viene commercializzato come «tabacco da masticare», ma allo stesso tempo è evidente che il prodotto non è destinato ad essere masticato, esso rientra nell’ambito di applicazione del divieto sancito dall’art. 8 della direttiva del 2001. Se è destinato ad essere masticato, esso costituisce, ai sensi della direttiva, un prodotto diverso che può essere legittimamente immesso in commercio.

41.      In terzo luogo, chi sono i consumatori? Nell’ambito dell’Unione europea, lo «snus» è venduto solo in Svezia. Circa il 20% della popolazione maschile ne fa regolarmente uso. In origine, lo «snus» non veniva utilizzato frequentemente dalle donne, ma negli ultimi anni il consumo di tale prodotto da parte della popolazione femminile è aumentato. L’espediente per indurre le donne al consumo è stato il confezionamento in piccole «bustine da tè» per renderne più igienico l’uso. La Commissione ha fornito alcuni dati sull’età media dei consumatori e sul loro comportamento da (ex) fumatori. Nel 1976 il tabacco da fiuto veniva utilizzato dal 10% dei maschi svedesi di età compresa tra i 18 e i 24 anni, mentre la percentuale è salita al 37% nel 1986 per i consumatori di età compresa tra i 16 e i 24 anni.

42.      Il fattore più importante, per quanto riguarda il consumo di «snus», è che in Svezia esso è molto diffuso tra la popolazione e risulta attraente per i giovani. Tale prodotto possiede, come ha affermato il Parlamento europeo all’udienza, un «cool factor». Sotto questo aspetto lo «snus» è diverso da altri prodotti di tabacco da fiuto e da masticare, in quanto – per citare un’affermazione della Commissione non smentita – tali prodotti «non hanno praticamente mercato al di fuori di alcuni gruppi socio-professionali (marinai, minatori e reparti dell’esercito) e di alcune regioni. Inoltre, si tratta di un mercato che è stato costantemente in calo per tutto il ventesimo secolo.

43.      Riassumendo, lo «snus» può essere equiparato ad altri prodotti del tabacco non da fumo, sia dal punto di vista della sostanza e dell’aspetto che da quello dell’uso. La principale differenza riguarda i gruppi di consumatori e le modalità d’uso.

C – Quanto è pericoloso lo «snus»?

44.      In tale questione le osservazioni presentate alla Corte divergono. A mio parere occorre distinguere tre aspetti:

le conseguenze sulla salute: occorre chiedersi se il consumo di «snus» provochi malattie gravi, come il cancro;

un confronto tra i rischi per la salute derivanti dalle altre modalità d’uso del tabacco, vale a dire dal fumo e dal consumo di tabacco da masticare, un prodotto di tabacco senza combustione non vietato;

surrogato o trampolino di lancio? Ci si chiede se la disponibilità di «snus» incentivi le persone a smettere di fumare oppure se il consumo di «snus» non presenti alcuna relazione con il fumo. O, peggio ancora, se lo «snus» attiri soprattutto i giovani che non fumano e li induca al consumo e alla dipendenza da nicotina.

45.      Iniziamo dalle conseguenze sulla salute. Nella documentazione presentata alla Corte vengono menzionate varie malattie correlate all’uso di «snus». In particolare, lo «snus» viene associato ai tumori della bocca. Secondo la motivazione fornita dal legislatore comunitario, anche questa correlazione ha condotto al divieto di tale prodotto. Il preambolo della direttiva del 1992 fa riferimento a studi condotti dal Centro internazionale di ricerca sul cancro («CIRC»).

46.      Le ricorrenti contestano la precisione di tali studi, in quanto, a loro parere, sarebbero stati presi in esame soprattutto prodotti provenienti dagli Stati Uniti e dall’Asia. La relazione del CIRC si baserebbe principalmente su uno studio relativo al tabacco da fiuto «secco», non equiparabile allo «snus», date le differenze nelle modalità d’uso e nelle caratteristiche dei prodotti, dovute principalmente al trattamento cui viene sottoposto il tabacco. La relazione del CIRC non prenderebbe in considerazione gli effetti dello «snus», non esistendo all’epoca studi approfonditi sul possibile rapporto tra «snus» e tumori della bocca. Per contro, secondo le ricorrenti, studi più recenti escluderebbero qualsiasi nesso tra l’uso orale di «snus» e i tumori della bocca.

47.      Si deve rilevare che tale posizione delle ricorrenti non è condivisa dalle altre parti che hanno presentato osservazioni alla Corte e non è stata confermata all’udienza. In definitiva, gli studi cui si richiamano le ricorrenti devono essere interpretati in modo più equilibrato: essi contengono effettivamente affermazioni secondo cui l’uso intensivo di «snus» determina un aumento del rischio di contrarre tumori del cavo orale. La Commissione fa inoltre riferimento ad un recente studio dell’Università di Uppsala  (7) secondo cui i tumori della bocca diagnosticati ad alcuni pazienti sottoposti a trattamento antitumorale erano sicuramente stati provocati dal consumo di «snus». Sono anche stati presentati alla Corte documenti da cui emerge che i consumatori di tabacco senza combustione sono esposti ad un rischio maggiore, tra l’altro, di morte cardiovascolare rispetto ai non consumatori. Inoltre, nessuno afferma espressamente che lo «snus» sia innocuo. Esso contiene quantità di nicotina piuttosto elevate. La presenza di tali quantità di nicotina fa sì che il prodotto dia dipendenza.

48.      Il secondo aspetto richiede un raffronto con i rischi per la salute di altri prodotti del tabacco non vietati. Gli effetti nocivi del fumo sulla salute dei consumatori sono indubbi. Le ricorrenti affermano che tutti i dati disponibili evidenzierebbero chiaramente che le sigarette sono molto più dannose dello «snus». Esse fanno riferimento a stime secondo cui le sigarette sarebbero 100 volte più nocive dello «snus» e i tabacchi senza combustione scandinavi sono meno dannosi del fumo di sigaretta del 90-99%. Esse richiamano ad una recente relazione dei membri del Tobacco Advisory Group of the Royal College of Physicians of London (2002), secondo cui il tabacco senza combustione «è 10‑1 000 volte meno nocivo del fumo». Benché si possa dubitare della precisione di queste cifre, non sembrano esservi opinioni divergenti sulla veridicità della conclusione che le sigarette sono di gran lunga più dannose dello «snus». Secondo uno studio citato dai resistenti nella causa C-210/03, «lo snus è un mini-mostro rispetto alle sigarette».

49.      Per riassumere i primi due aspetti sopra illustrati, lo «snus» è un prodotto di per sé nocivo per la salute dei consumatori, ma molto meno dannoso delle sigarette.

50.      Arriviamo così al terzo aspetto. Per accertare se il divieto relativo allo «snus» costituisca un valido contributo alla salute pubblica è essenziale esaminare più in dettaglio il rapporto tra il consumo di snus e il fumo da sigaretta. Per riprendere i termini utilizzati in precedenza, lo «snus» è un surrogato del fumo o può costituire un trampolino di lancio verso quest’ultimo?

51.      Si potrebbe obiettare che lo «snus» viene utilizzato principalmente come surrogato del fumo. Poiché smettere di fumare non è facile, come molti sanno per esperienza diretta, i fumatori possono essere incoraggiati a smettere se il mercato offre un’alternativa attraente. Sotto questo profilo, la presenza di nicotina nello «snus» potrebbe addirittura rappresentare un vantaggio per la salute pubblica. È questa la tesi delle ricorrenti. Esse hanno presentato alla Corte dati da cui emerge che la Svezia, in cui l’uso di «snus» è molto diffuso tra la popolazione maschile, presenta, su scala internazionale, bassi livelli di morbilità legate al consumo di tabacco tra gli uomini. Esse fanno anche valere che la percentuale di fumatori in Svezia è estremamente bassa rispetto a quella di altri Stati membri ed affermano che ciò presenta un nesso diretto con l’uso tradizionale dello «snus» in Svezia. Tuttavia la validità di questo argomento è dubbia, giacché, come osserva il governo finlandese, la percentuale di fumatori in Finlandia è relativamente bassa anche se il consumo di «snus» o di analoghi prodotti alternativi non è diffuso.

52.      L’argomento opposto si basa sull’assunto che l’effetto di sostituzione non riveste un ruolo importante. Il consumo di «snus» non induce le persone a non fumare e – peggio ancora – la disponibilità sul mercato dello «snus» attira persone (i giovani) che in altre circostanze si asterrebbero dal consumare tabacco. Da questo punto di vista, lo «snus» spiana la strada all’uso di tabacco. Come rileva la Commissione nelle proprie osservazioni scritte, lo «snus» dev’essere considerato un trampolino di lancio verso i prodotti del tabacco da fumo.

53.      Nelle presenti cause sono state difese dinanzi alla Corte entrambe le posizioni. Le ricorrenti, nonché il governo svedese, sostengono la prima tesi, mentre gli altri governi che hanno presentato osservazioni e le istituzioni comunitarie difendono la seconda. A mio avviso, si possono sostenere contemporaneamente entrambe le tesi. Esse non si escludono a vicenda. Lo «snus» può essere considerato un surrogato del fumo in quanto aiuta le persone a smettere di fumare, ma allo stesso tempo attira i giovani che non fumano (ancora) e non intendono iniziare. Inoltre entrambe le tesi sono confermate dal fatto che lo «snus» viene commercializzato come prodotto attraente per i giovani consumatori, a differenza del tradizionale tabacco da masticare e da fiuto.

54.      Non è semplice stabilire quale sia l’effetto prevalente. In particolare, anche se i giovani sono attratti dallo «snus» e si astengono dal fumare sigarette, ciò non significa che essi – qualora lo «snus» non fosse disponibile sul mercato – inizierebbero a fumare. Dall’esperienza svedese si possono trarre alcune indicazioni, ma esse non sono univoche, come dimostrano i dati relativi al consumo di sigarette in Svezia e Finlandia.

VII – La politica dell’Unione europea (e degli Stati membri) in materia di tabacco

55.      La politica sul controllo del consumo di tabacco si fonda, come ha ripetutamente sottolineato il Consiglio  (8) , su una politica globale diretta a contrastare efficacemente con diverse misure coerenti tutti i tipi di uso del tabacco. Le azioni della Comunità europea e degli Stati membri devono integrarsi a vicenda.

56.      La politica sul tabacco è ovviamente incentrata sul tabacco da fumo, non su quello senza combustione. Tale politica si traduce essenzialmente in una politica antifumo e le relative misure sono diventate sempre più restrittive con il passare degli anni. Questa tendenza è dovuta alla maggiore conoscenza degli effetti nocivi del fumo, ma anche ad un nuovo atteggiamento della società nei confronti del fumo e dei fumatori.

57.      Nelle conclusioni relative alla causa C-491/01, British American Tobacco  (9) , ho osservato che la politica delle istituzioni riposa attualmente su un duplice fondamento. Il primo contempla misure volte a scoraggiare quanto possibile il fumo, con un’attenzione particolare per i giovani, mentre il secondo riguarda provvedimenti atti a limitare il più possibile le conseguenze nocive del fumo.

58.      Per quanto riguarda il primo fondamento, l’obiettivo di scoraggiare il fumo è accolto in primo luogo all’art. 5 della direttiva del 2001, che contiene disposizioni relative all’etichettatura dei prodotti del tabacco da fumo. Come sappiamo, i pacchetti dei prodotti del tabacco devono contenere avvertenze severe. Inoltre, la direttiva 2003/33  (10) limita la pubblicità e la promozione dei prodotti del tabacco. L’art. 3 della direttiva del 2001 costituisce un esempio del secondo fondamento della politica comunitaria: vengono imposti tenori massimi in catrame, nicotina e monossido di carbonio.

59.      La politica comunitaria sul fumo incontra dei limiti, in quanto è soggetta ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità, nonché alle condizioni stabilite dalla Corte con la sentenza Tobacco Advertising  (11) . In aggiunta alla politica comunitaria, gli Stati membri hanno elaborato politiche proprie, limitando, tra l’altro, la vendita dei prodotti di tabacco e le zone in cui è ancora permesso fumare.

60.     È importante osservare che la Comunità, nonché gli Stati membri, stanno costantemente rafforzando le misure relative al consumo di tabacco. Tuttavia, la più restrittiva di tutte le misure possibili – un divieto assoluto sui prodotti del tabacco – non viene presa in considerazione. Come ha affermato la Commissione, un provvedimento del genere potrebbe benissimo essere giustificato dai rischi rappresentati dal fumo, ma non sarebbe fattibile per motivi pratici e di natura fiscale e politica. Modificherei questa affermazione: un divieto totale sui prodotti del tabacco non sarebbe ancora fattibile. Tuttavia, dato l’evolversi dell’atteggiamento della società nei confronti del fumo e dei fumatori, la situazione potrebbe cambiare negli anni a venire.

61.      In sintesi, la Commissione deduce due ordini di motivi per spiegare perché il legislatore comunitario non faccia ciò che presumibilmente farebbe se si prendesse in considerazione solo la tutela della salute dei consumatori di tabacco (e la salute dei fumatori «passivi»).

62.      I motivi pratici dedotti sono evidenti. Un divieto totale sui prodotti del tabacco implicherebbe costi di attuazione irragionevoli e non avrebbe neanche l’effetto di far smettere le persone di fumare. Si svilupperebbe un mercato illegale.

63.      Nel contesto delle cause in esame, ritengo che la seconda serie di argomenti (i motivi fiscali e politici) presenti maggiore interesse. Come sappiamo, la politica sul tabacco delle istituzioni è sempre stata piuttosto ambigua. Le accise sui prodotti del tabacco sono fonte di entrate pubbliche e la produzione e distribuzione di tali prodotti è fonte di occupazione. Naturalmente, questi argomenti rivestono un’importanza molto minore nel caso dei prodotti di scarsa rilevanza economica. In quest’ultima ipotesi il legislatore non deve tenere conto degli alti costi di una scelta politica estrema quale il divieto totale sui prodotti. Egli può astenersi da una difficile analisi costi-benefici e limitarsi a valutare gli effetti sulla salute della misura progettata, naturalmente nei limiti imposti dal principio di proporzionalità.

VIII – Analisi: il divieto totale di determinati prodotti può basarsi sull’art. 95 CE?

A – Portata della competenza comunitaria ai sensi dell’art. 95 CE

64.      L’art. 95 CE costituisce il fondamento normativo delle misure aventi per oggetto l’istituzione e il funzionamento del mercato interno. Come ha dichiarato la Corte, l’art. 95 CE non conferisce al legislatore comunitario una competenza generale a disciplinare il mercato interno. Inoltre le misure adottate in base a detta disposizione devono essere realmente intese a migliorare le condizioni di instaurazione e di funzionamento del mercato interno. Conformemente alla sentenza della Corte nella causa C-491/01, le misure devono effettivamente contribuire «all’eliminazione di ostacoli alla libera circolazione delle merci o alla libera prestazione di servizi, o ancora all’eliminazione di distorsioni della concorrenza. (…) [I]noltre (…) se il ricorso all’art. 95 CE come fondamento normativo è possibile al fine di prevenire l’insorgere di futuri ostacoli agli scambi dovuti allo sviluppo eterogeneo delle legislazioni nazionali, l’insorgere di tali ostacoli deve apparire probabile e la misura di cui trattasi deve avere ad oggetto la loro prevenzione»  (12) .

65.      Da tale ragionamento discende in sostanza che devono sussistere due condizioni. Devono esistere ostacoli (o quanto meno ostacoli realmente imminenti) alla libera circolazione e la misura comunitaria deve contribuire alla loro eliminazione. Se si esaminano più in dettaglio tali condizioni, si può osservare un parallelismo con i criteri utilizzati dalla Corte per valutare la competenza di uno Stato membro a vietare o limitare la libera circolazione delle merci in forza degli artt. 28 CE e 30 CE, (oppure in forza degli artt. 52 CE e 59 CE per quanto riguarda i servizi). Le misure devono essere giustificate da esigenze imperative di interesse generale e devono essere idonee a garantire il conseguimento delle scopo perseguito  (13) . Tuttavia, la competenza di cui all’art. 95 dev’essere giustificata dall’inadeguatezza del mercato interno.

66.      Nelle presenti cause non vi è dubbio che la prima condizione è soddisfatta, dato che sussiste chiaramente un grave rischio di sviluppo eterogeneo delle legislazioni nazionali. Come si affermava nel preambolo della direttiva del 1992, tre Stati membri  (14) avevano già vietato la vendita di tali prodotti del tabacco. Se il divieto fosse stato abolito a livello comunitario con l’adozione della direttiva del 2001, gli Stati membri avrebbero potuto vietare lo «snus», ma non vi sarebbero state garanzie che essi avrebbero esercitato le loro competenze autonome in modo coordinato.

67.      In questa parte delle conclusioni analizzerò la seconda condizione, con specifico riferimento al divieto di commercializzazione di taluni prodotti in forza dell’art. 95 CE. Esaminerò:

la prassi normativa;

i limiti derivanti dalla sentenza Tobacco Advertising;

il divieto di prodotti;

la legittimità dell’art. 8 della direttiva del 2001.

B – La prassi normativa comunitaria

68.      Raramente il legislatore comunitario ha imposto divieti totali alla commercializzazione di determinati prodotti. Nelle proprie osservazioni scritte e orali, il governo francese propone tre esempi. Esso cita in primo luogo la direttiva 76/768, relativa ai prodotti cosmetici  (15) , la quale vieta la commercializzazione di prodotti cosmetici contenenti determinate sostanze o coloranti. Essa non proibisce in generale l’immissione sul mercato di taluni tipi di prodotti, ad esempio quelli per cui sono previste determinate modalità di applicazione. Ciò nondimeno, la direttiva prevede l’adattamento delle prescrizioni al progresso tecnico. Una conseguenza di tale adattamento potrebbe consistere nell’obbligo di ritirare i prodotti dal mercato. Un sistema con effetto analogo sulla commercializzazione dei prodotti è stato introdotto con la direttiva 76/769 in relazione a talune sostanze e preparati pericolosi  (16) .

69.      Il terzo esempio citato dal governo francese è costituito dalla direttiva 2001/83, relativa ai medicinali per uso umano  (17) . Questa direttiva disciplina principalmente i requisiti che devono essere soddisfatti per poter commercializzare prodotti medicinali: i medicinali non possono essere immessi sul mercato di uno Stato membro senza che sia stata rilasciata un’autorizzazione. Quest’ultima può essere concessa solo in seguito a un esame avente per oggetto varie caratteristiche dei prodotti.

70.      Le direttive menzionate dal governo francese riguardano, tra l’altro, la sostanza dei prodotti. Esse prevedono il divieto di commercializzazione di determinati prodotti, nel caso in cui contengano sostanze illecite. Benché nessuna delle disposizioni espressamente richiamate vieti una categoria specifica di prodotti, esse, sotto il profilo del risultato, sono tutte paragonabili all’art. 8 della direttiva del 2001. Tali disposizioni impediscono la legittima commercializzazione di categorie di prodotti al verificarsi di determinate condizioni.

71.      Si deve rilevare che non esiste un esplicito divieto di commercializzazione di specifici prodotti neanche nei regimi particolari adottati in forza dell’art. 95 CE per i prodotti pericolosi quali stupefacenti e sostanze psicotrope  (18) , né per gli esplosivi per uso civile  (19) . Tuttavia, nel caso delle armi da fuoco gli Stati membri devono adottare, ai sensi di una direttiva basata esclusivamente sull’art. 95 CE  (20) , tutte le disposizioni necessarie al fine di vietare l’acquisizione e la detenzione delle armi da fuoco e delle munizioni rientranti in determinate categorie. Il legislatore comunitario spiega il richiamo all’art. 95 CE quale fondamento normativo facendo riferimento alla soppressione totale dei controlli e delle formalità alle frontiere intracomunitarie, che costituisce una condizione fondamentale per l’instaurazione del mercato interno  (21) .

C – I limiti imposti dalla sentenza Tobacco Advertising

72.      Nella sentenza Tobacco Advertising  (22) , la Corte ha dichiarato che l’art. 95 CE non conferisce al legislatore comunitario una competenza generale a disciplinare il mercato interno. Una competenza generale sarebbe contraria al tenore stesso dell’art. 95 CE e incompatibile con il principio sancito dall’art. 5 CE. Conformemente al punto 95 di detta sentenza, si deve verificare se una disposizione contribuisca effettivamente all’eliminazione di ostacoli alla libera circolazione delle merci e alla libera prestazione dei servizi, nonché all’eliminazione di distorsioni della concorrenza. La Corte ha inoltre dichiarato che il divieto della pubblicità su manifesti, ombrelloni, portacenere e altri oggetti utilizzati negli alberghi, nei ristoranti e nei caffè, nonché il divieto di messaggi pubblicitari al cinema non contribuiscono in alcun modo a facilitare gli scambi dei prodotti interessati  (23) .

73.      Si deve tenere a mente che, secondo la Corte, l’art. 95 CE conferisce – utilizzerò quest’espressione – una competenza funzionale. È irrilevante che l’obiettivo ultimo di un provvedimento sia agevolare gli scambi; ciò che conta è se il provvedimento sia idoneo a tale scopo. L’obiettivo politico prevalente può essere benissimo la tutela della salute pubblica.

74.      La Corte pertanto ci fornisce alcuni elementi chiave di questa competenza funzionale: 1) lo scopo deve consistere nel miglioramento delle condizioni di instaurazione e funzionamento del mercato interno, 2) le disposizioni devono contribuire all’eliminazione degli ostacoli, 3) le distorsioni della concorrenza devono essere rimosse e 4) le disposizioni devono agevolare gli scambi.

D – Il divieto di prodotti

75.      A tenore dell’art. 14, n. 2, CE, il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne. Per il funzionamento di tale mercato è essenziale che le condizioni di commercializzazione dei prodotti siano uguali nei vari Stati membri. Solo realizzando tale omogeneità si possono eliminare le frontiere interne.

76.      Questo è il motivo fondante della competenza del legislatore comunitario ad armonizzare le diverse legislazioni degli Stati membri. Tuttavia, la sua responsabilità va al di là di questo. Egli deve non solo creare le condizioni per l’instaurazione di un mercato interno di prodotti, ma anche garantire che i prodotti immessi su tale mercato non ledano altri interessi pubblici quali salute, sicurezza, tutela dell’ambiente e protezione del consumatore. Questa responsabilità del legislatore comunitario è espressamente prevista all’art. 95, n. 3, CE, che richiede un livello di protezione elevato.

77.      Se uno o più Stati membri vietano la commercializzazione di determinati prodotti per motivi di salute pubblica, mentre altri Stati membri ne consentono la vendita, si creano frontiere interne e si pregiudica il funzionamento del mercato interno. L’intervento del legislatore comunitario, diretto ad armonizzare le diverse legislazioni nazionali, può portare all’eliminazione di ostacoli alle frontiere interne della Comunità. Date le differenze tra le normative nazionali, il legislatore comunitario può decidere discrezionalmente se imporre restrizioni alla composizione di determinati prodotti oppure vietarne del tutto la commercializzazione. Se un livello elevato di protezione della salute umana, richiesto anche dall’art. 152, n. 1, CE, può essere assicurato solo da un divieto totale, il legislatore comunitario deve scegliere questa opzione.

78.      Naturalmente si potrebbe obiettare che il divieto di vendita di un prodotto non può certo migliorare le condizioni di commercializzazione del prodotto medesimo. Esso viene infatti escluso dal mercato. Come hanno affermato le ricorrenti nelle osservazioni scritte, si può mettere in dubbio che un siffatto divieto totale possa contribuire all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno. Difficilmente un divieto del genere può essere considerato come una rimozione di ostacoli alla commercializzazione di questi prodotti, in quanto esso rende impossibile l’esistenza di un mercato. In altre parole, esso impedisce la creazione di un mercato legale e pertanto determina un ostacolo al commercio. Le ricorrenti sembrano addirittura interpretare in tal senso la sentenza della Corte Tobacco Advertising  (24) , quando affermano che un divieto assoluto di pubblicizzare determinati prodotti non può essere considerato in alcun modo idoneo ad agevolarne la commercializzazione.

79.      Tuttavia, questa obiezione deriva da una non corretta interpretazione dell’art. 95 CE. Sebbene le misure comunitarie debbano migliorare le condizioni per l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno e agevolare gli scambi, ciò non implica che debbano farlo per ogni singolo prodotto. Come ho già rilevato, il legislatore comunitario può vietare la commercializzazione di un prodotto. Inoltre, in tali circostanze i prodotti non possono essere legittimamente immessi sul mercato nel territorio della Comunità europea, il che riduce i costi di attuazione e può ridurre anche i costi sostenuti per l’applicazione delle normative concernenti prodotti correlati. In definitiva, se lo «snus» non fosse presente sul mercato dell’Unione europea, si potrebbero ridurre gli sforzi diretti a controllare la commercializzazione di altri prodotti del tabacco senza combustione. A tale proposito, si può affermare che l’art. 8 della direttiva del 2001 contribuisce all’eliminazione di ostacoli al commercio di altri prodotti.

80.      Riassumendo, l’obiettivo principale delle disposizioni del Trattato CE relative al mercato interno è la creazione di un mercato unico, che non risulti frammentato per effetto di normative nazionali divergenti. Tale obiettivo non implica che possano essere immessi su tale mercato tutti i prodotti possibili, anche se nocivi per la salute dei consumatori. Una disposizione che vieti espressamente l’immissione sul mercato di un determinato prodotto può non contribuire all’eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla commercializzazione di tale specifico prodotto, ma può nondimeno contribuire all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno ai sensi dell’art. 95 CE.

E – Esame della legittimità dell’art. 8

81.      E’ dubbio se l’art. 8 della direttiva del 2001 debba effettivamente essere considerato come un divieto totale su una determinata categoria di prodotti, come nel caso della direttiva concernente le armi da fuoco, ovvero se il divieto contenuto a tale articolo sia equiparabile ad una restrizione alla composizione dei prodotti, come all’art. 3 della direttiva del 2001.

82.      L’art. 8 non vieta la commercializzazione dei prodotti del tabacco in generale. Il divieto colpisce tali prodotti solo qualora siano destinati ad essere utilizzati in un determinato modo. Il suo ambito di applicazione non è sostanzialmente diverso da quello di un divieto di prodotti che presentano una certa composizione. D’altro canto, si potrebbe sostenere che esso impedisce l’immissione in commercio di una determinata categoria di prodotti del tabacco aventi un mercato che potrebbe facilmente essere tenuto distinto dal mercato di altri prodotti di tabacco (tralasciando l’«effetto di sostituzione», esaminato in un altro punto delle presenti conclusioni).

83.      Non occorre sviluppare gli argomenti esposti nel paragrafo precedente. Come si è rilevato, il legislatore comunitario può vietare determinate categorie di prodotti in forza dell’art. 95 CE. Poiché la direttiva del 2001 vieta soltanto una specifica, limitata categoria di prodotti – che si distinguono da altri prodotti autorizzati non per la composizione ma per le modalità d’uso –, è indubbio che l’art. 95 CE possa essere assunto come fondamento normativo.

IX – Modalità di esercizio della competenza comunitaria: la prescrizione dell’art. 95, n. 3, CE e il principio di proporzionalità

A – Considerazioni introduttive

84.      Come si è detto, il legislatore comunitario può avvalersi della competenza conferitagli dall’art. 95 CE qualora sussistano ostacoli (o quanto meno ostacoli realmente imminenti) alla libera circolazione e la misura comunitaria contribuisca alla loro eliminazione. Il legislatore comunitario dispone di un’ampia discrezionalità, ma tale discrezionalità non è illimitata. Nella presente sezione esaminerò i limiti imposti al legislatore comunitario per l’esercizio di questa competenza.

85.      In primo luogo, l’art. 152, n. 1, CE richiede un livello elevato di protezione della salute umana nella definizione di tutte le politiche comunitarie. L’art. 95, n. 3, CE, è ancora più specifico in relazione all’esercizio del potere legislativo ex art. 95 CE e fa riferimento ai nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici. Mentre l’azione di un governo nazionale che limiti la commercializzazione di prodotti in forza degli artt. 28 CE e 30 CE dev’essere giustificata da esigenze imperative di interesse generale, l’azione del legislatore comunitario deve garantire un livello di protezione elevato. Come ho osservato nelle conclusioni relative alla causa C-491/01  (25) , se esiste un ostacolo alla libera circolazione, la salute pubblica viene tutelata dal legislatore comunitario. Esaminata sotto il profilo della tutela della salute pubblica, la sua azione non si distingue da quella del legislatore nazionale che limiti l’immissione in commercio di prodotti in forza degli artt. 28 CE e 30 CE.

86.      In secondo luogo, dev’essere rispettato il principio di proporzionalità. A termini dell’art. 5 CE, l’azione comunitaria non deve andare al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito. Se l’obiettivo principale di una misura comunitaria è la tutela della salute pubblica – come nel caso dell’art. 8 della direttiva del 2001 –, la valutazione sotto il profilo del principio di proporzionalità non differisce da quella di una misura adottata da uno Stato membro al fine di tutelare la salute pubblica in forza degli artt. 28 CE e 30 CE. Si deve accertare se la misura sia idonea a tale scopo e se lo stesso risultato non potrebbe essere raggiunto con provvedimenti meno restrittivi.

87.      In terzo luogo, il legislatore comunitario deve osservare altri principi di diritto che sono stati sviluppati dalla giurisprudenza della Corte o vengono enunciati nel Trattato, quali il principio di diligenza e la presa in considerazione delle legittime aspettative, nonché l’obbligo di motivazione. Come ho rilevato nell’introduzione delle presenti conclusioni, non mi addentrerò in tali principi di diritto, in quanto nella fattispecie essi non rivestono un ruolo fondamentale, eccezion fatta per l’obbligo di motivazione (v. infra).

B Un livello elevato di protezione della salute umana

1. La natura particolare delle controversie

88.      Le cause in esame presentano alcune particolarità. È indubbio che il legislatore comunitario, vietando lo «snus», miri ad un livello elevato di tutela della salute. Tuttavia non è certo che la misura sia idonea a conseguire questo obiettivo di politica comunitaria, anzi si potrebbe addirittura pensare che esso sarebbe stato raggiunto più facilmente se legislatore comunitario avesse consentito la commercializzazione dello «snus».

89.      Il punto fondamentale nelle controversie in esame è che l’art. 8 della direttiva del 2001 essenzialmente vieta un prodotto nuovo non ancora commercializzato negli Stati membri, ad eccezione della Svezia. I documenti presentati alla Corte confermano la tesi secondo cui il consumo di «snus» provoca tumori della bocca. Tuttavia, tale affermazione non giustifica, da sola, il divieto di commercializzare lo «snus». La mia seconda affermazione è che gli effetti nocivi del consumo di «snus» sono molto inferiori ai rischi del fumo. Infine, ma non in ordine di importanza, non è certo che l’effetto principale dell’immissione dello «snus» sul mercato sia quello di incoraggiare le persone a smettere di fumare («effetto di sostituzione»), e non piuttosto quello di avviare al consumo di tabacco («trampolino di lancio») (26) .

90.      In prosieguo esaminerò il riferimento dell’art. 95, n. 3, CE ai nuovi sviluppi basati su riscontri scientifici, il principio di precauzione in mancanza di consenso sull’efficacia di una misura diretta a tutelare la salute pubblica e il principio dell’azione preventiva.

2. Considerazioni relative alle prove

91.      Nel corso del procedimento dinanzi alla Corte si è dedicata molta attenzione alle prove (scientifiche) che giustificano il divieto relativo allo «snus».

92.      In primo luogo, interessanti argomenti di diritto sono stati dedotti dalle ricorrenti (e dal governo svedese) in merito alla pertinenza delle nuove prove scientifiche. Esse affermano che il legislatore comunitario deve tenere conto degli sviluppi scientifici. Il principio di proporzionalità comporta l’obbligo di verificare periodicamente se un provvedimento sia divenuto sproporzionato o meno  (27) . Le ricorrenti si richiamano all’art. 95, n. 3, CE e alla giurisprudenza della Corte.

93.      Esse citano in particolare i provvedimenti comunitari nel settore veterinario e zootecnico, ad esempio le misure dirette a combattere la BSE in discussione nella causa C-180/96, Regno Unito/Commissione  (28) . In detta causa si è riconosciuto che i provvedimenti da adottare devono essere sottoposti a studi scientifici approfonditi e che si deve tenere conto delle nuove informazioni. Di conseguenza, la revisione della decisione contestata doveva essere preceduta da un esame complessivo della situazione. Da un lato, condivido l’affermazione delle ricorrenti secondo cui la legislazione dev’essere riesaminata quando nuovi dati scientifici sollevano dubbi sui suoi effetti benefici. La revisione continua rappresenta un obbligo per ogni legislatore. Tale obbligo diviene ancora più stringente quando una determinata misura è prevista da una direttiva o da un regolamento che viene modificato alla luce di nuovi sviluppi intervenuti nel settore di cui trattasi. In conclusione, in caso di modifica sostanziale della legislazione in materia di consumo di prodotti del tabacco, occorre riconsiderare tutti i provvedimenti relativi ai vari prodotti di questo tipo.

94.      Dall’altro lato, non condivido la tesi secondo cui, nella fattispecie, il riesame condurrebbe necessariamente all’annullamento della normativa comunitaria relativa allo «snus». Gli studi scientifici presentati alla Corte dimostrano – come ho rilevato al paragrafo 47 delle presenti conclusioni – gli effetti nocivi del consumo di «snus» e, contrariamente a quanto sembrano suggerire le ricorrenti, non esprimono un parere radicalmente nuovo in relazione ai rischi per la salute. Ricordo che dalla giurisprudenza della Corte relativa all’art. 30 CE emerge che le misure di tutela della salute pubblica che limitano la libera circolazione delle merci possono essere adottate anche in mancanza di consenso scientifico. Si possono citare le sentenze De Peijper e National Farmers Union e altri  (29) . In sintesi, il diritto comunitario ammette provvedimenti restrittivi diretti a proteggere la salute pubblica, purché siano basati su studi scientifici adeguati e recenti. In considerazione di tali studi, non è richiesta una prova scientifica unanime dei rischi per la salute. Sono sufficienti indizi gravi.

95.      In secondo luogo, si deve valutare la prova dell’efficacia dell’art. 8. Non è scientificamente dimostrato che lo «snus», più che un surrogato del fumo, costituisca soprattutto un trampolino di lancio verso il consumo di tabacco. In realtà, la mancanza di prove e l’incertezza scientifica non riguardano la sostanza vietata in sé, ma le aspettative sul comportamento delle persone. La questione da risolvere è se, nelle circostanze del caso di specie, il divieto relativo allo «snus» possa essere considerato un provvedimento efficace ai fini della tutela della salute pubblica. È appunto per questo motivo che prendo in considerazione il principio di precauzione e il principio dell’azione preventiva.

3. Il principio di precauzione

96.      Come già rilevato, l’efficacia del divieto di commercializzazione dello «snus» come misura di tutela della salute è incerta. Esaminerò se, in tal caso, il legislatore comunitario debba astenersi dal prendere provvedimenti, oppure possa agire richiamandosi al principio di precauzione.

97.      Il principio di precauzione non è definito nel Trattato, che vi fa riferimento solo una volta, in relazione alla politica comunitaria in materia di tutela dell’ambiente, all’art. 174 CE. Ma il principio non si applica solo alla tutela dell’ambiente. Il 2 febbraio 2000, la Commissione ha pubblicato una comunicazione relativa al principio di precauzione  (30) . In detta comunicazione, essa afferma che tale principio è di applicazione generale che deve essere preso in considerazione in particolare nei settori della protezione dell’ambiente e della salute umana, animale o vegetale. A suo parere, il ricorso al principio di precauzione interviene solo in un’ipotesi di rischio potenziale, quando quest’ultimo è stato oggetto di studi scientifici e i risultati delle ricerche sono contrastanti o non conclusivi.

98.      Il principio di precauzione conferisce al legislatore comunitario una discrezionalità più ampia, ma non illimitata. Tuttavia, se egli intende avvalersi di tale discrezionalità ampliata, gli incombe il gravoso onere di dimostrare che il presunto rischio non è meramente ipotetico.

99.      La Corte ha avuto varie occasioni per esaminare l’applicazione del principio di precauzione in cause vertenti su questioni relative alla sanità e alla libera circolazione delle merci. Nella causa C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia  (31) , la controversia riguardava il regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 27 gennaio 1997, n. 258, sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti alimentari  (32) , e in particolare l’art. 12. Nelle cause C-192/01, Commissione/Danimarca, C-24/00, Commissione/Francia, e C-95/01, Greenham e Abel  (33) , la Corte ha dovuto esaminare diverse normative nazionali che limitavano l’impiego di additivi negli alimenti, quali vitamine e minerali.

100.    Un’applicazione corretta del principio di precauzione presuppone, in primo luogo, l’identificazione delle conseguenze potenzialmente negative per la salute di una determinata situazione e, in secondo luogo, una valutazione approfondita del rischio per la salute basata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale  (34) . In altre parole, l’esistenza di un rischio per la salute dev’essere plausibile  (35) . Secondo la Corte, «[q]ualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio dedotto a causa della natura insufficiente, inconcludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive»  (36) . Conformemente a questa pronuncia, l’elemento chiave del principio di precauzione è l’incertezza scientifica. Si possono adottare provvedimenti quando il livello desiderato di tutela dell’ambiente o della salute viene messo a rischio.

101.    In generale, il principio di precauzione entra in gioco se le istituzioni vogliono limitare il rischio. Conformemente alla Dichiarazione di Rio di Janeiro adottata nel quadro del Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, il principio si applica se esistono rischi di danni gravi o irreversibili ma vi è incertezza scientifica su tali rischi. Il fatto che non esistano prove del danno non dev’essere equiparato ad un’assenza di rischio  (37) .

102.    Non è certo che la competenza conferita dal principio di precauzione al fine di limitare i rischi possa essere esercitata per proibire tutte le fonti di rischio. Nella causa T-13/99, Pfizer Animal Health/Consiglio  (38) il Tribunale di primo grado ha dichiarato, da un lato, che una misura comunitaria adottata in forza del principio di precauzione non può essere orientata ad un livello di «rischio zero» e, dall’altro, che le istituzioni devono tener conto dell’obbligo loro incombente in forza dell’art. 152, n. 1, CE di garantire un livello elevato di tutela della salute umana.

103.    A mio parere è indubbio che il legislatore comunitario possa fondare la sua azione sul principio di precauzione qualora siano cumulativamente soddisfatte tre condizioni. Deve sussistere un’incertezza scientifica in merito al rischio; il rischio dev’essere analizzato e si deve dimostrare che è reale; inoltre il rischio deve avere conseguenze rilevanti per l’interesse pubblico. Quanto al contenuto dei provvedimenti, una misura fondata sul principio di precauzione non può giungere a vietare tutte le fonti di rischio.

104.    Arrivo così alle cause in esame. Le ricorrenti sostengono che il principio di precauzione non è applicabile. Esse si richiamano ad alcuni criteri enunciati dal Tribunale di primo grado nella sentenza Pfizer Animal Health/Consiglio  (39) , diretti a garantire che il detto principio non venga applicato in modo arbitrario. Inoltre il principio di precauzione sarebbe pertinente solo nei casi in cui vi sia incertezza scientifica quanto agli effetti di talune sostanze o comportamenti. Esso viene invocato allorché sono stati esaminati tutti i dati scientifici disponibili, ma permane l’incertezza.

105.    Le ricorrenti negano l’esistenza di incertezze sui rischi per la salute dello «snus». Esse sottolineano che lo «snus» non è un prodotto nuovo, bensì un prodotto tradizionalmente commercializzato in alcuni paesi nordici. Di conseguenza, i rischi per la salute sono noti. Condivido queste osservazioni: il principio di precauzione non è pertinente in relazione agli effetti dello «snus» in sé, un prodotto tradizionalmente diffuso in alcuni paesi nordici. Sebbene gli studi scientifici presentati alla Corte non siano unanimi per quanto riguarda la valutazione dei rischi dello «snus», come potrebbe emergere dalle mie osservazioni precedenti, non vi è incertezza scientifica nel senso sopra indicato. Pertanto la Corte può fondare la propria valutazione sul presupposto che il consumo di «snus» può provocare tumori del cavo orale.

106.    Tuttavia, l’effetto della commercializzazione dello «snus» nell’intera Comunità sul comportamento delle persone – in particolare dei giovani – è molto incerto. Arriviamo quindi alle conseguenze delle osservazioni che precedono: l’incertezza sull’efficacia del divieto, ovvero se il divieto di commercializzazione dello «snus» farà smettere di fumare o dissuaderà i giovani non fumatori dal cominciare a consumare tabacco.

107.    A mio parere, il principio di precauzione non è applicabile in queste circostanze:

l’incertezza del rischio che giustifica il divieto dipende dalle aspettative sul consumo di «snus». Non si tratta di un rischio di natura scientifica che giustifichi l’applicazione del principio di precauzione. La fonte dell’incertezza non ha nulla a che vedere con il principio di precauzione.

per quanto riguarda l’onere della prova, il danno alla salute pubblica conseguente alla comparsa dello «snus» sul mercato non è plausibile. Ricordo l’effetto di sostituzione  (40) . Il legislatore comunitario non poteva basare i suoi provvedimenti sulla probabilità di un danno reale alla salute pubblica  (41) , in assenza di prove scientifiche inequivocabili;

la terza condizione ricordata al paragrafo 103 è invece soddisfatta: il rischio, qualora si concretizzasse, avrebbe conseguenze rilevanti sulla salute pubblica.

4. Azione preventiva

108.    Anche il titolo XIX del Trattato CE, relativo all’ambiente, menziona il principio dell’azione preventiva. Tale principio, sancito all’art. 174, n. 2, CE, è stato riconosciuto anche in relazione alla tutela della salute umana, più in particolare dalla giurisprudenza relativa alla BSE  (42) . Normalmente detto principio viene citato unitamente al principio di precauzione. Nelle pronunce in materia di BSE, ad esempio, la Corte non attribuisce un ruolo autonomo al principio dell’azione preventiva.

109.    A mio parere, nelle cause in esame il principio riveste un ruolo essenziale. Il legislatore comunitario, di fronte ai rischi potenziali per la salute della commercializzazione dello «snus», non deve attendere che la tesi del «trampolino di lancio» si riveli esatta. Egli può agire preventivamente. Consideriamo però anche l’ipotesi che la Comunità non possa agire in via precauzionale. Lo «snus» comparirebbe sul mercato e le persone inizierebbero ad usarlo. Dopo alcuni anni emergerebbe che lo «snus» viene utilizzato frequentemente da giovani che in precedenza non erano fumatori (e ai quali è stato facilitato l’accesso al fumo). Sarebbe quindi compito del legislatore comunitario eliminare un prodotto divenuto attraente per i consumatori e che provoca dipendenza. Si può dubitare che una misura del genere sarebbe altrettanto efficace quanto un divieto su un prodotto che non ha ancora raggiunto i consumatori. Ricordo il rischio della comparsa di un mercato illegale. Inoltre il divieto su un prodotto già commercializzato può ledere le legittime aspettative del produttore e condurre al pagamento di compensazioni e/o all’adozione di misure transitorie.

110.    In definitiva, l’azione preventiva è necessaria in quanto l’assenso all’immissione dello «snus» sul mercato potrebbe avere effetti irreversibili. Se le istituzioni consentissero la commercializzazione e la promozione dello «snus» per un certo periodo, non si potrebbe più introdurre efficacemente un divieto su tale prodotto.

B – Il principio di proporzionalità

1. In generale

111.    Nella sentenza relativa alla causa C-491/01, la Corte esamina il principio di proporzionalità in relazione alla direttiva del 2001, tenendo a mente l’importanza di un’adeguata protezione della salute pubblica da parte del legislatore comunitario. Mi richiamo alle ampie argomentazioni della Corte. In questa sede ne rammenterò gli elementi essenziali, di specifico interesse per le cause in esame:

le misure devono essere idonee al conseguimento dello scopo perseguito, vale a dire tutelare la salute pubblica rendendo meno attraente il consumo dei prodotti del tabacco;

il legislatore comunitario dispone di un ampio potere discrezionale, che richiede scelte di natura politica, economica e sociale. Solo la manifesta inidoneità di una misura in relazione allo scopo perseguito può inficiare la legittimità di tale misura (v. punto 123 della sentenza);

anche alcune misure restrittive generali quali il divieto di produrre sigarette contenenti determinati tenori di sostanze e la proibizione riguardante – termini descrittivi in uso, ma presumibilmente fuorvianti, sono ritenute conformi al principio di proporzionalità.

112.    Da queste considerazioni della Corte discende che una disposizione comunitaria sul consumo di tabacco, diretta a tutelare la salute pubblica, non sarà facilmente annullata in quanto non conforme al principio di proporzionalità. Come sappiamo, il principio di proporzionalità non va confuso con una valutazione comparativa della tutela della salute pubblica e degli interessi commerciali delle imprese private. Il divieto relativo allo «snus» è conforme al principio di proporzionalità se:

il provvedimento che vieta la commercializzazione del prodotto è idoneo ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi per la salute pubblica;

un provvedimento meno restrittivo non garantirebbe lo stesso livello di protezione della salute.

113.    Al termine della presente sezione esaminerò una questione sollevata dalle ricorrenti, vale a dire se la misura imponga un onere finanziario sproporzionato a determinate imprese.

2. Adeguatezza: la competenza ad emanare una disciplina quando i benefici sono incerti

114.    L’incertezza dei benefici del divieto per la salute pubblica possono essere confrontati con l’incertezza riscontrata dal legislatore comunitario allorché ha optato per un divieto di vaccinazione preventiva contro l’afta epizootica. Nella sentenza 12 luglio 2001, Jippes  (43) , la Corte ha dichiarato quanto segue:

in primo luogo, «[q]uando il legislatore comunitario deve valutare, nell’emanare una normativa, i suoi effetti futuri e questi non possono essere previsti con certezza, la sua valutazione può essere oggetto di censura solo qualora appaia manifestamente erronea alla luce degli elementi di cui disponeva al momento dell’adozione della normativa stessa»;

in secondo luogo, il legislatore comunitario «ha proceduto ad una valutazione globale dei vantaggi e degli inconvenienti del sistema che si doveva attuare e (…) tale politica (…) non era ad ogni modo manifestamente inadeguata rispetto all’obiettivo di lotta contro l’afta epizootica»;

in terzo luogo, «[c]onseguentemente, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale attribuito al Consiglio (…), si deve giungere alla conclusione che il divieto di vaccinazione preventiva (…) non eccede i limiti di quanto è idoneo e necessario alla realizzazione dello scopo perseguito dalla normativa comunitaria».

115.    La Corte distingue, quindi, tre criteri. Il legislatore dispone di un ampio potere discrezionale; egli deve effettuare una valutazione globale dei vantaggi e degli inconvenienti del sistema che si deve attuare, ma un provvedimento comunitario può essere annullato solo in caso di valutazione manifestamente errata. Se trasponiamo questi criteri alle cause in esame, risulta evidente che il divieto relativo alla «snus» dev’essere ritenuto adeguato. Mi richiamo alle osservazioni che ho svolto in precedenza a proposito del principio dell’azione preventiva per dimostrare che la valutazione del legislatore comunitario non era manifestamente errata. Consentire l’immissione dello «snus» sul mercato comunitario avrebbe effetti irreversibili. Il principio di precauzione non è pertinente.

3. L’efficacia di misure meno restrittive.

116.    Le ricorrenti hanno menzionato una serie di misure meno restrittive. Esse fanno riferimento alla prescrizione di norme tecniche, come quelle applicate in Canada o quelle basate sui principi adottati dalla stessa Swedish Match. Esse ricordano inoltre i requisiti di etichettatura, la possibilità di introdurre un limite di età e le restrizioni per il commercio al dettaglio.

117.    Considerato l’obiettivo del divieto della politica comunitaria – quale indicato nel preambolo della direttiva del 1992 –, nessun provvedimento alternativo potrebbe essere altrettanto efficace quanto un divieto totale. Poiché l’obiettivo del legislatore comunitario è impedire l’introduzione di nuovi prodotti sul mercato, è evidente che tale obiettivo non può essere conseguito con misure meno restrittive di un divieto totale.

118.    Sottolineo che le norme tecniche possono limitare gli effetti nocivi dell’uso di determinati prodotti, ma non li eliminano completamente, a meno che dal prodotto non debbano essere rimosse tutte le sostanze pericolose, compresa la nicotina, che rende il prodotto attraente per il consumatore. Non vi sono indizi nel senso che una norma tecnica così restrittiva – che del resto non è stata proposta dalle ricorrenti nelle presenti cause – avrebbe effetti meno restrittivi sul commercio rispetto al divieto previsto allo stadio attuale del diritto comunitario.

119.    Le altre alternative precedentemente menzionate non hanno lo stesso effetto del divieto. Poiché lo «snus» è considerato un prodotto attraente per i giovani, la sua semplice disponibilità sul mercato può indurre questi ultimi a farne uso. Si potrebbe persino sostenere che restrizioni legittime, quali le disposizioni sull’etichettatura e i limiti di età, potrebbero rendere lo «snus» ancora più attraente.

4. L’onere sproporzionato imposto a determinate imprese

120.    Il mio ultimo argomento riguarda la sproporzione dell’onere incombente sui produttori e sui venditori di «snus». La questione è stata sollevata dalle ricorrenti nelle presenti cause. Come ho già rilevato, il divieto relativo allo «snus» è una misura che può essere adottata in forza dell’art. 95 CE e che – di per sé – è conforme al principio di proporzionalità. Ma ciò non esclude che la Comunità europea sia tenuta a porre rimedio ai danni causati da questo atto, ai sensi dell’art. 288, secondo comma, CE, relativo alla responsabilità extracontrattuale.

121.    Tuttavia, tale obbligo sorge solo se si verifica una danno rilevante e/o se sono state lese legittime aspettative. Su questi punti sono sufficienti brevi osservazioni. Lo «snus» non è ancora presente sul mercato comunitario (ad eccezione della Svezia) e nei produttori di «snus» non può essere sorta la legittima aspettativa di essere autorizzati a produrre e a vendere lo «snus» su detto mercato. Il divieto relativo allo «snus» era già stato imposto dalla direttiva del 1992 (prima dell’adesione della Svezia all’Unione europea).

X – Il principio della parità di trattamento

122.    Il principio della parità di trattamento viene dedotto nelle cause in esame come un principio che non va confuso con quello di proporzionalità, benché l’effetto della loro applicazione, nelle circostanze del caso di specie, sia abbastanza simile. Il divieto relativo allo «snus» è ritenuto sproporzionato proprio perché vengono tollerati sul mercato prodotti altrettanto o anche maggiormente nocivi.

123.    Tuttavia, le numerose osservazioni presentate alla Corte in merito a tale principio richiedono una valutazione a parte. Il principio della parità di trattamento impone anzitutto che situazioni analoghe non siano trattate in modo dissimile e che situazioni diverse non siano trattate nello stesso modo, a meno che una differenziazione sia obiettivamente giustificata  (44) .

124.    Si potrebbe obiettare che questo principio costituisce un limite essenziale del potere discrezionale del legislatore comunitario, in particolare per quanto riguarda le misure dirette a limitare o a vietare la commercializzazione di determinati prodotti. Seguendo questo ragionamento, prima di adottare un provvedimento comunitario si dovrebbero valutare i rischi legati alla commercializzazione di tutti i prodotti analoghi.

125.    Non condivido la tesi secondo cui il principio della parità di trattamento ha effetti di così vasta portata. Se, ad esempio, su un determinato mercato – limitiamoci ad un mercato ben definito, come quello dei prodotti del tabacco – cinque diversi prodotti comportano gravi rischi per la salute, spetta al legislatore comunitario, nell’esercizio del suo potere discrezionale, decidere quali di questi prodotti – e in quale ordine – debbano essere esclusi dal mercato o sottoposti ad altre misure restrittive. A tale proposito, l’unico limite imposto al legislatore è che non può fare scelte arbitrarie. Egli deve precisare i motivi per cui un determinato prodotto è soggetto a norme restrittive. Parte di tale motivazione potrebbe consistere in un raffronto con altri prodotti sul mercato.

126.    Arrivo così alle due principali obiezioni mosse dalle ricorrenti, che riguardano il principio della parità di trattamento. La prima obiezione è che il divieto non colpisce prodotti analoghi. Le ricorrenti affermano che il tabacco da masticare non è vietato anche se in pratica esso viene consumato con modalità identiche allo «snus»: sebbene sia normalmente classificato come «tabacco da masticare», il tabacco molto spesso non viene masticato, ma succhiato.

127.    Su questo punto le ricorrenti potrebbero avere ragione. La differenza tra i due prodotti non è evidente, anche se potrebbe esistere una leggera diversità sotto il profilo delle sostanze, con riguardo ai livelli di nitrosammine e di nicotina  (45) . Benché l’argomento delle ricorrenti relativo all’uso del tabacco da masticare non rispecchi la realtà, gli effetti sulla salute delle modalità con cui esso viene consumato sono simili: sotto l’aspetto degli effetti nocivi del consumo dei prodotti del tabacco, non fa molta differenza che questi ultimi siano succhiati o masticati. Ciò detto, tuttavia, l’analogia tra i prodotti non implica una violazione del principio della parità di trattamento. Infatti, la disparità di trattamento non è basata sugli effetti sul singolo consumatore, ma sulla differenza tra i gruppi di (potenziali) consumatori. Mentre il tabacco da masticare attira principalmente gruppi socio-professionali ben definiti, lo «snus» è diretto ad attrarre un’ampia gamma di consumatori, come avviene in Svezia. In conclusione, la disparità di trattamento non si giustifica per le caratteristiche intrinseche dei prodotti, ma in relazione alle persone che ne fanno (potenzialmente) uso.

128.    La seconda obiezione riguarda il fatto che, contrariamente a quanto indicato dal legislatore comunitario, il prodotto non è nuovo, bensì tradizionale, quanto meno in alcuni paesi nordici. Le ricorrenti utilizzano il termine «nuovo» in modo diverso dal legislatore comunitario e dalle altre parti che hanno presentato osservazioni alla Corte. Esse lo impiegano in riferimento al prodotto in quanto tale, mentre le altre parti lo usano in relazione al mercato rilevante.

129.    Riconosco che il legislatore comunitario, parlando di prodotti nuovi nel preambolo della direttiva del 1992, non ha fatto alcun riferimento al mercato interno. Tuttavia è ovvio che si riferiva a prodotti non ancora disponibili sul mercato comunitario e non a nuovi prodotti in quanto tali, giacché la direttiva del 1992 – così come quella attuale – riguarda solo il mercato interno dei prodotti del tabacco, e non i prodotti fabbricati e disponibili nei paesi terzi. Più in particolare, il termine «nuovi» è stato impiegato nel contesto dell’obiettivo della politica comunitaria di impedire che i giovani residenti nell’Unione europea inizino ad usare prodotti del tabacco o – peggio ancora – che inizino ad utilizzare prodotti del tabacco in precedenza non disponibili. Lo «snus» non era disponibile per i giovani dell’Unione europea. Lo si sarebbe potuto equiparare a prodotti del tabacco frequentemente utilizzati in altri continenti, ma non in Europa.

130.    Poiché il Regno di Svezia non era ancora uno Stato membro quando è stata adottata la direttiva del 1992, il legislatore comunitario poteva utilizzare il termine «nuovi» incondizionatamente, in quanto i prodotti non erano commercializzati affatto nel territorio della Comunità europea. Solo in seguito, dopo l’adesione del Regno di Svezia alla Comunità, il contesto è cambiato. Tuttavia la differenziazione è rimasta, giacché lo «snus» non è vietato nell’unico Stato in cui viene utilizzato tradizionalmente.

131.    Ritengo, in conclusione, che nessuna delle due obiezioni evidenzia una violazione del principio della parità di trattamento. Come già rilevato, detto principio esplica una funzione fondamentale in quanto impone al legislatore comunitario di motivare il trattamento differenziato di prodotti analoghi.

132.   È indubbio che il legislatore abbia fornito una motivazione valida nel preambolo della direttiva del 1992, citato al paragrafo 6 delle presenti conclusioni. Nelle loro osservazioni, la Commissione, il Consiglio e il Parlamento europeo forniscono alcune spiegazioni aggiuntive per il divieto relativo allo «snus». In primo luogo, essi svolgono considerazioni basate sul funzionamento del mercato interno, in quanto tre Stati membri hanno preso in esame l’ipotesi di vietare lo «snus», oppure hanno già imposto tale divieto. In secondo luogo, segnalano una tendenza al consumo in rapido aumento. In terzo luogo, dimostrano l’esistenza di rischi per la salute e in quarto luogo ricordano i costi economici relativamente contenuti di un divieto.

133.    Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo che l’art. 8 della direttiva del 2001 sia conforme al principio della parità di trattamento.

XI – L’obbligo di motivazione ai sensi dell’art. 253 CE

A – Mutamento del contesto

134.    Il divieto relativo al tabacco per uso orale è stato introdotto dalla direttiva del 1992 e si basava sul presupposto che riguardava prodotti non ancora noti sul mercato comunitario ma che avrebbero potuto attirare i giovani. In base alle osservazioni svolte nelle presenti conclusioni, questa motivazione potrebbe giustificare il divieto. Tuttavia, quando il divieto è stato reintrodotto dalla direttiva del 2001, non è stata fornita alcuna motivazione sostanziale. Il preambolo fa semplicemente riferimento al divieto esistente durante la vigenza della direttiva del 1992.

135.    Conformemente alla giurisprudenza della Corte, il requisito della motivazione è un requisito formale sostanziale che dev’essere tenuto distinto dalla questione della fondatezza della motivazione, attinente alla legittimità nel merito dell’atto controverso. La motivazione dev’essere adeguata alla natura dell’atto e deve fare apparire in forma chiara ed inequivocabile l’argomentazione dell’istituzione da cui emana l’atto considerato, onde consentire sia agli interessati di prendere conoscenza delle ragioni del provvedimento adottato, sia al giudice adito di esercitare il proprio controllo. Tuttavia, la motivazione non deve necessariamente specificare tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti. Infatti, l’accertamento se la motivazione di una decisione soddisfi le condizioni di cui all’art. 253 CE va effettuato alla luce non solo del suo tenore, ma anche del suo contesto nonché del complesso delle norme giuridiche che disciplinano la materia  (46) .

136.    Ricordo che l’obbligo di cui all’art. 253 CE è più che una semplice formalità, come ha affermato il governo britannico nel presente procedimento. La Corte deve poter accertare se una decisione sia giustificata o meno dai motivi enunciati. Inoltre occorre una motivazione più particolareggiata nel caso in cui una decisione si discosti dalla prassi consolidata o altre circostanze la impongano per garantire che la Corte possa esercitare il proprio controllo.

137.    Conformemente alla giurisprudenza della Corte relativa all’art. 253 CE, la prescrizione imposta da tale disposizione deve essere valutata non solo alla luce del suo tenore letterale, ma anche del suo contesto. A mio avviso, è chiaro che non si deve valutare la motivazione solo nel contesto esistente al momento in cui è stato adottato l’atto, ma occorre tenere conto anche dei mutamenti sostanziali avvenuti in tale contesto. Questa prescrizione assume importanza ancora maggiore quando la politica generale in un determinato settore è soggetta a riesame. Nel caso in esame, invece, il legislatore comunitario non ha tenuto conto del mutamento di contesto.

138.    Nelle presenti cause rilevo due cambiamenti di contesto sostanziali:

il Regno di Svezia ha aderito all’Unione europea;

la politica comunitaria sui prodotti del tabacco ha subito una modifica radicale.

B – L’adesione della Svezia

139.    In primo luogo, l’adesione della Svezia ha implicato l’adesione di un paese in cui il consumo di «snus» è tradizionale e diffuso. Così stando le cose, la motivazione fornita nel preambolo della direttiva del 1992, ossia che il divieto non riguarda i prodotti del tabacco per uso orale tradizionali, dovrebbe essere riformulata. La premessa della motivazione implicava infatti che lo «snus» è un prodotto che doveva essere considerato non tradizionale nel mercato interno della Comunità.

140.    Tuttavia, ritengo ancora più importante l’impatto dell’adesione della Svezia sul mercato interno dei prodotti del tabacco per uso orale. Di fronte alle conseguenze di tale adesione, la Comunità ha reagito compartimentando il mercato in questione. Il mercato svedese è separato dal mercato interno di questi prodotti. Inoltre le autorità svedesi devono adottare tutti i provvedimenti necessari per impedire che prodotti legittimamente immessi sul mercato svedese, ma vietati nel resto della Comunità europea, siano esportati verso il mercato comunitario.

141.    Questa scelta del legislatore contrasta con la nozione di mercato interno, in quanto consente la compartimentazione di tale mercato. A questo punto devo sottolineare l’importanza dell’instaurazione e del funzionamento del mercato interno quale strumento dell’integrazione europea. Nelle presenti cause, tale compartimentazione è ancora più significativa, per i seguenti motivi:

la direttiva del 2001 ha appunto come obiettivo l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno, mediante la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti del tabacco. Tuttavia, la deroga per la Svezia determina un nuovo ostacolo;

la compartimentazione non è limitata ad un periodo transitorio. Una deroga per la Svezia all’epoca dell’adesione era sensata, in quanto detto Stato avrebbe potuto incontrare difficoltà a porre fine repentinamente al consumo di «snus». Tuttavia, una limitazione temporale di questo effetto sul mercato interno sarebbe stata più conforme all’importanza di tale mercato. Una delle conseguenze naturali dell’adesione all’Unione europea è l’adeguamento della legislazione alle sue norme.

142.    In conclusione, l’assenza di una motivazione alla luce dell’adesione della Svezia determina due lacune. In primo luogo, il legislatore comunitario avrebbe dovuto prendere in considerazione l’effetto del divieto sui prodotti del tabacco di lunga tradizione in uno Stato membro. In secondo luogo, avrebbe dovuto tenere conto delle conseguenze dell’adesione sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato interno dei prodotti del tabacco.

C – Modifica della politica comunitaria sui prodotti del tabacco

143.    Giungo così alla modifica radicale della politica comunitaria sui prodotti del tabacco. In linea generale, la direttiva del 2001 è espressione di una politica sul tabacco che è divenuta sempre più restrittiva con il passare degli anni. Come si è detto, tale politica è principalmente una politica antifumo.

144.    Nondimeno, contrariamente alla tendenza generale della politica sulle sigarette, sembra che la politica sui prodotti del tabacco non da fumo (diversi dallo «snus») sia diventata più flessibile. Ricordo le norme sull’etichettatura dei prodotti del tabacco senza combustione diversi dallo «snus». Le confezioni non recano più l’avvertenza «Provoca il cancro»: è sufficiente che sugli imballaggi si ammonisca che «Questo prodotto del tabacco può nuocere alla tua salute e provoca dipendenza». Al contempo, le avvertenze che debbono essere riportate sui pacchetti di sigarette sono divenute molto più severe, sia per dimensioni che per contenuto. Esse includono un ammonimento come «Il fumo uccide».

145.    Riassumendo, la tendenza generale consiste nel rendere più restrittiva la legislazione sul tabacco. Il legislatore prevede una deroga per una categoria particolare di prodotti del tabacco (tabacco senza combustione). Sarebbe stato logico che tale deroga fosse stata applicata a tutti i prodotti rientranti in questa categoria. Il legislatore ha invece fatto il contrario e ha reintrodotto la misura più restrittiva di tutte in relazione ad un sottogruppo particolare di questa categoria.

146.    Sottolineo che, in tali circostanze, il mantenimento del divieto relativo allo «snus» può essere considerato semplicemente come uno sviluppo della politica esistente. Si deve ricordare la giurisprudenza della Corte secondo cui una decisione che si discosta da una prassi consolidata richiede una motivazione più approfondita, onde consentire alla Corte di esercitare il proprio controllo. Inoltre gli interessati hanno il diritto di conoscere i motivi in base ai quali il legislatore comunitario ha deciso di limitare la loro libertà.

D – Le conseguenze

147.    Più una decisione si discosta dalla prassi normale, più la motivazione del legislatore comunitario dev’essere esplicita. Dati gli importanti mutamenti di contesto, la scelta del legislatore di mantenere il divieto sullo «snus», che di per sé non eccede i limiti del suo potere discrezionale, richiede una solida motivazione. L’assenza di spiegazioni costituisce una chiara e palese violazione dell’obbligo incombente alla Comunità in forza dell’art. 253 CE.

148.    Ritengo, inoltre, che questa assenza di una motivazione che tenga conto del mutamento di contesto debba essere considerata come una violazione di forme sostanziali, che determina l’invalidità dell’art. 8 della direttiva del 2001. Pertanto propongo alla Corte di dichiarare invalido l’art. 8 della direttiva del 2001.

149.    Tuttavia si deve ricordare che dall’esame delle presenti cause è emerso che il legislatore comunitario – nel 1992 – aveva validi motivi per vietare lo «snus». Inoltre si deve osservare che l’annullamento ex tunc della disposizione controversa probabilmente ridurrebbe l’effetto principale del divieto e costituirebbe un grave ostacolo all’obiettivo di impedire la comparsa sul mercato di nuovi prodotti del tabacco potenzialmente attraenti. Si deve tenere conto anche del fatto che, come emerge dalle considerazioni precedenti, il contenuto normativo essenziale della direttiva è valido.

150.    Alla luce di quanto precede, importanti motivi di certezza del diritto, equiparabili a quelli operanti in caso di annullamento di un regolamento in forza dell’art. 231, secondo comma, CE, giustificano la limitazione degli effetti dell’annullamento da parte della Corte  (47) . Suggerisco pertanto alla Corte di mantenere, date le particolari circostanze delle presenti cause, tutti gli effetti dell’art. 8 della direttiva del 2001 fino a che il Consiglio e il Parlamento europeo non l’abbiano sostituito con una nuova disposizione adeguatamente motivata.

XII – Conclusione

151.    Alla luce di quanto precede, propongo alla Corte di risolvere come segue le questioni sottopostele dal Verwaltungsgericht Minden nella causa C-434/02 e dalla High Court of Justice (England & Wales) nella causa C-210/03:

L’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 giugno 2001, 2001/37/CE, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco, che impone un divieto assoluto di commercializzazione dei prodotti del tabacco per uso orale, può essere fondato sull’art. 95 CE.

Il divieto sui tabacchi per uso orale di cui all’art. 8 della direttiva 2011/37/CE è conforme al principio di proporzionalità.

Il divieto sui tabacchi per uso orale di cui all’art. 8 della direttiva è conforme al principio della parità di trattamento tra prodotti analoghi.

Il legislatore comunitario è venuto meno all’obbligo di enunciare i motivi alla base del divieto e, pertanto, l’art. 8 dev’essere dichiarato invalido.

Sono provvisoriamente mantenuti tutti gli effetti dell’art. 8 della direttiva 2001/37/CE, sino al momento in cui il Consiglio e il Parlamento europeo lo avranno sostituito con una nuova disposizione adeguatamente motivata.


1
Lingua originale: l'inglese.


2
GU L 194, pag. 26.


3
Sentenza 10 dicembre 2001 (Racc. pag. I‑11453).


4
GU L 158, pag. 30.


5
V. art. 2, n. 4, della direttiva del 2001.


6
Verordnung über Tabakerzeugnisse (Tabakverordnung).


7
Jan-M. Hirsch e a., Oral Cancer in Swedish Snuff-Dippers, presentato dalla Commissione alla Corte.


8
Raccomandazione del Consiglio 2 dicembre 2002, sulla prevenzione del fumo e su iniziative per rafforzare la lotta contro il tabagismo (GU L 22, pag. 31), e precedenti atti del Consiglio ivi richiamati.


9
Citata alla nota 3, paragrafo 60.


10
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26 maggio 2003, 2003/33/CE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità e di sponsorizzazione a favore dei prodotti del tabacco (GU L 152, pag. 16). Questa direttiva sostituisce la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 luglio 1998, 98/43/CE, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità e di sponsorizzazione a favore dei prodotti del tabacco (GU L 213, pag. 9), che è stata annullata dalla Corte con sentenza 5 ottobre 2000, causa C-376/98, Germania/Parlamento e Consiglio (Racc. pag. I-8419).


11
Citata alla nota 10.


12
Punti 60 e 61 della sentenza nella causa C-491/01.


13
V. i criteri tratti dalla sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165).


14
Si tratta di Belgio, Irlanda e Regno Unito.


15
Direttiva del Consiglio 27 luglio 1976, 76/768/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici (GU L 262 , pag. 169).


16
Direttiva del Consiglio 27 luglio 1976, 79/769/CEE, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alle restrizioni in materia di immissione sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi (GU L 262, pag. 201).


17
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 novembre 2001, 2001/83/CE, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano (GU L 311, pag. 67).


18
Direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/109/CEE, relativa alla fabbricazione e all’immissione in commercio di talune sostanze impiegate nella fabbricazione illecita di stupefacenti o di sostanze psicotrope (GU L 370, pag. 76).


19
Direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/15/CEE, relativa all’armonizzazione delle disposizioni relative all’immissione sul mercato e al controllo degli esplosivi per uso civile (GU L 121, pag. 36).


20
Direttiva del Consiglio 18 giugno 1991, 91/477/CEE, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi (GU L 256, pag. 51).


21
V. preambolo della direttiva del Consiglio 91/477.


22
Citata alla nota 10, punto 83.


23
Punto 99.


24
Citata alla nota 10, punti 95-100.


25
In particolare paragrafo 106.


26
V. paragrafi 44-54 delle presenti conclusioni.


27
A tale proposito, le ricorrenti propongono confronti con la giurisprudenza in materia di politica sociale, in cui la Corte ha riconosciuto l’esistenza dell'obbligo di rivedere periodicamente le attività in questione per stabilire se, tenuto conto dell'evoluzione sociale, possa essere mantenuta una deroga (sentenza 11 gennaio 2000, causa C-285/98, Kreil, Racc. pag. I-69).


28
Sentenza 5 maggio 1998 (Racc. pag. I‑2265, punto 101).


29
Sentenze 20 maggio 1976, causa 104/75, De Peijper (Racc. pag. 613), e 5 maggio 1998, causa C-157/96, National Farmers Union e a. (Racc. pag. I-2211).


30
Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, COM/2000/0001 def. Lo scopo della comunicazione è sottolineare la strategia della Commissione nell’utilizzazione del principio di precauzione, stabilire orientamenti della Commissione per la sua applicazione, elaborare una comprensione comune dei modi in cui è opportuno valutare, gestire e comunicare i rischi che la scienza non è ancora in grado di valutare pienamente ed evitare un ricorso ingiustificato al principio di precauzione che diverrebbe una forma dissimulata di protezionismo.


31
Sentenza 9 settembre 2003, punto 113.


32
GU L 43, pag. 1.


33
Sentenze 23 settembre 2003, causa 192/01, e 5 febbraio 2004, cause C-24/00 e C-95/01.


34
Come ha dichiarato la Corte nella sentenza Commissione/Danimarca, citata alla nota 33, punti 51-55.


35
Come rileva l’avvocato generale Mischo nelle conclusioni relative alla causa C‑192/01, Commissione/Danimarca, citata alla nota 33, paragrafo 124.


36
Punto 52.


37
Per un approfondimento v. E. Fischer, «Is the precautionary principle justiciable?», Journal of Environmental Law, Vol. 13, n. 3, pag. 315.


38
Sentenza 11 settembre 2002 (Racc. pag. II-3305, punto 152).


39
Citata alla nota 38.


40
V. supra, punti 50-53.


41
Criterio formulato dalla Corte e citato supra, al paragrafo 100.


42
Sentenze 5 maggio 1998, causa C-180/96, Regno Unito/Commissione (Racc. pag. I-2265), e causa C-157/96, National Farmers’ Union (Racc. pag. I-2211).


43
Racc. pag. I-5689, in particolare punti 84, 85, 95 e 100.


44
V., ad esempio, sentenza 13 aprile 2000, causa C-292/97 Kjell Karlsson e a. (Racc. pag. I-2737, punto 39).


45
V. supra, paragrafo 38.


46
V. mie conclusioni nella causa C-278/00, Grecia/Commissione, definita con sentenza 29 aprile 2004, paragrafo 182, e giurisprudenza ivi citata.


47
I motivi della limitazione degli effetti possono essere molto simili a quelli indicati dalla Corte nella sentenza 20 ottobre 1992, causa C-295/90, Parlamento/Consiglio (Racc. pag. I-4193).