CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
SIEGBERT ALBER
presentate il 16 settembre 2003(1)



Causa C-171/02



Commissione delle Comunità europee
contro
Repubblica portoghese


«Libera circolazione dei lavoratori – Libertà di stabilimento – Libera prestazione dei servizi – Attività di vigilanza privata – Requisito di una rappresentanza permanente – Rilevanza dei documenti prodotti in altri Stati membri – Capitale minimo necessario – Requisito dell'organizzazione in forma di persona giuridica – Requisito di un tesserino professionale nazionale – Riconoscimento di attestati di competenza»






I – Introduzione

1.        Il procedimento per inadempimento proposto dalla Commissione nei confronti della Repubblica portoghese concerne la disciplina dell’attività di vigilanza privata con cui si forniscono servizi di sorveglianza su persone e cose in territorio portoghese. La Commissione contesta l’incompatibilità della legislazione portoghese con le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei lavoratori, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.

II – Contesto normativo

A – Direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/51/CEE, relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale, che integra la direttiva 89/48/CEE (2) (in prosieguo: la «direttiva 92/51»)

2.        La direttiva 92/51 definisce la nozione di «attestato di competenza» all’art. 1, lett. c), primo trattino, come «qualsiasi titolo che sancisca una formazione che non faccia parte di un insieme che costituisca un diploma ai sensi della direttiva 89/48/CEE o un diploma o un certificato ai sensi della presente direttiva [92/51] (...)».

3.        Alla lett. f) del medesimo articolo, l’«attività professionale regolamentata» viene definita quale «(...) attività professionale, per la quale l’accesso o l’esercizio o una delle modalità di esercizio in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un titolo di formazione o attestato di competenza (...)».

B – Normativa nazionale

1. Decreto-Lei 22 giugno 1998, n. 231/98 (3) (in prosieguo: il «Decreto-Lei n. 231/98»)

4.        L’art. 1, n. 3, lett. a), definisce i servizi di vigilanza privata come «prestazione di servizi da parte di imprese private, legalmente costituite a tale scopo, diretti alla tutela di persone e cose ed alla prevenzione dei reati».

5.        L’art. 3 stabilisce che «l’attività di vigilanza privata può essere esercitata solamente da imprese legalmente costituite ed a ciò autorizzate in base alle disposizioni del presente decreto legge».

6.        L’art. 7 stabilisce i requisiti in presenza dei quali un soggetto può fornire servizi di vigilanza privata. Tra di essi figura, ai sensi dell’art. 7, n. 2, lett. b), anche il «superamento di prove teoriche e di abilità fisica – il cui contenuto programmatico e la cui durata verranno stabilite con decreto del Ministro da Administração Interna (Ministro degli Interni) – al termine di un corso di preparazione, conforme alle prescrizioni di cui all’art. 8, n. 2», nonché, ai sensi dell’art. 8, n. 2, la partecipazione a un corso di avviamento alla professione.

7.        L’art. 9, nn. 1 e 2, regolamenta il rilascio di un tesserino professionale:

«1.     Il personale di vigilanza, di scorta, di difesa e di protezione delle persone deve possedere un tesserino professionale rilasciato dal Segretariato Generale del Ministero da Administração Interna, valido per la durata di due anni e rinnovabile per un uguale periodo di tempo.

2.       Il rilascio del tesserino professionale è subordinato alla produzione, presso il Segretariato Generale del Ministero da Administração Interna, della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di cui all’art. 7».

8.        L’art. 21, n. 1, subordina l’esercizio dell’attività di prestatore dei servizi di vigilanza privata ad una preventiva autorizzazione.

9.        L’art. 22, nn. 1 e 2, dispone quanto segue:

«1.     Le imprese che svolgono le attività di vigilanza privata di cui all’art. 1, n. 3, lett. a), devono essere state costituite in conformità alla normativa di uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo, avere la sede o una succursale in Portogallo e soddisfare i requisiti menzionati all’art. 4 del codice delle società commerciali.

2.       Il capitale sociale delle imprese di cui al precedente n. 1 non può essere inferiore a:

a)
PTE 10 000 000, se esse forniscono uno dei servizi di cui all’art. 2, n. 1, lett. a) e lett. b);

b)
PTE 25 000 000, se esse forniscono uno dei servizi di cui all’art. 2, n. 1, lett. c) e lett. d);

c)
PTE 50 000 000, se esse forniscono uno dei servizi di cui all’art. 2, n. 1, lett. e)».

10.      L’art. 24, n. 1, elenca i documenti da allegare alla domanda di autorizzazione all’attività di vigilanza privata. Tra di essi figurano, ai sensi della lett. d), i documenti comprovanti il possesso dei requisiti stabiliti all’art. 22.

2. Codice delle società commerciali

11.      L’art. 4, n. 1, dispone che «le società non aventi la propria sede effettiva in Portogallo, ma che intendano qui svolgere la propria attività per un periodo superiore ad un anno, devono istituire una rappresentanza permanente e devono soddisfare i requisiti previsti dalla legge portoghese sul registro commerciale».

III – Fase precontenziosa

12.      Con lettera 6 maggio 1999 la Commissione segnalava alle autorità portoghesi la presumibile incompatibilità delle disposizioni del Decreto-Lei n. 231/98 con le norme del Trattato relative alla libera circolazione dei lavoratori, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi. La Commissione invitava, pertanto, il governo portoghese a trasmetterle congrue informazioni dalle quali potesse risultare la compatibilità del Decreto-Lei con il diritto comunitario. Con lettera 10 settembre 1999 il governo portoghese trasmetteva alla Commissione una serie di documenti.

13.      Poiché dall’esame di tale documentazione la Commissione non era persuasa della legittimità della normativa portoghese, essa inviava al governo portoghese, in data 1° febbraio 2000, una lettera di diffida, con la quale ribadiva le proprie censure. A tale lettera il governo portoghese rispondeva in data 23 maggio 2000.

14.      Nemmeno quest’ultime osservazioni del governo portoghese persuadevano la Commissione della legittimità della normativa portoghese, per cui essa, in data 29 dicembre 2000, inoltrava alla Repubblica portoghese un parere motivato, cui il governo portoghese replicava il 20 marzo 2001.

15.      Poiché la Commissione, dopo l’analisi di tali osservazioni, giungeva alla conclusione che la normativa portoghese fosse incompatibile con le norme del Trattato, l’8 maggio 2002 proponeva il presente ricorso.

IV – Argomenti e domande delle parti

16.      Nel proprio ricorso la Commissione solleva, complessivamente, sei censure. Essa contesta il fatto che le imprese straniere, che intendono esercitare in Portogallo, nel settore dei servizi della vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose, in base alla normativa che regola il rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministro da Administração Interna

dovrebbero avere la sede o una rappresentanza permanente nel territorio portoghese;

non potrebbero far riferimento ai titoli e alle garanzie già presentati nello Stato membro in cui sono stabilite;

dovrebbero assumere la forma di persona giuridica;

dovrebbero possedere un capitale sociale specifico.

Essa contesta, inoltre, il fatto che

il personale di tali imprese straniere dovrebbe essere in possesso di un tesserino professionale rilasciato dalle autorità portoghesi;

e, infine, il fatto che

le attività professionali del settore della vigilanza privata non sarebbero sottoposte al regime comunitario del riconoscimento delle qualifiche professionali.

17.      Quanto all’obbligo imposto dall’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei n. 231/98, di avere la sede o una rappresentanza permanente in Portogallo, la Commissione ritiene che esso valga anche per le imprese che intendano fornire in territorio portoghese, nel settore della vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose solo a titolo temporaneo (in base all’art. 49 CE). Tale obbligo renderebbe di fatto impossibile la prestazione dei servizi, in quanto, se venisse costituita la sede o una succursale in Portogallo, si farebbe uso della libertà di stabilimento, e non più della libera prestazione dei servizi, che si connoterebbe, invece, per il carattere temporaneo della prestazione. Secondo la Commissione, seppur in base alla giurisprudenza nel caso Gebhard il carattere temporaneo della prestazione non impedirebbe la creazione di una qualche infrastruttura  (4) , tuttavia l’esistenza di una tale infrastruttura non potrebbe essere assunta tra i requisiti per l’esercizio della libera prestazione dei servizi.

18.      La Commissione non ritiene persuasivo il richiamo all’art. 4 del codice delle società commerciali, operato da parte del governo portoghese al fine di restringere, in forza del predetto art. 4, l’ambito di applicazione dell’art. 22 del Decreto-Lei n. 231/98 ai soli soggetti che forniscono servizi di vigilanza per più di un anno. Il rinvio all’art. 4 del codice delle società commerciali, che compare nel testo dell’art. 22 del Decreto-Lei, potrebbe essere inteso solo quale rinvio alla necessaria osservanza delle disposizioni sul registro commerciale. Infatti l’obbligo imposto al prestatore dei servizi di avere la propria sede principale o una rappresentanza permanente in Portogallo risulterebbe già dal tenore letterale dell’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei.

19.      Secondo la Commissione, l’unica interpretazione plausibile dell’art. 22 del Decreto-Lei è nel senso che esso impone, anche per il semplice esercizio a titolo temporaneo di prestazioni di vigilanza privata, per lo meno l’esistenza di una succursale in Portogallo. Questa, del resto, sarebbe l’interpretazione sostenuta dal governo portoghese nella risposta del 23 maggio 2000 alla lettera di diffida.

20.      Peraltro, anche la congiunzione «e» – collocata tra la parte della norma che impone ai prestatori di avere in Portogallo una sede e la parte della norma che impone loro il rispetto delle disposizioni di cui all’art. 4 del codice delle società commerciali – depone a favore dell’interpretazione sostenuta dalla Commissione. Determinati servizi di vigilanza, ad esempio la gestione di una centrale per la raccolta di segnalazioni d’allarme, non potrebbero essere affatto offerti senza uno stabilimento in loco.

21.      In ogni caso, la normativa portoghese non avrebbe una formulazione univoca e violerebbe, pertanto, il principio della certezza del diritto. In base alla giurisprudenza, la normativa degli Stati membri, nelle materie disciplinate dal diritto comunitario, dovrebbe invece avere una formulazione non equivoca, rispettosa del principio della certezza del diritto  (5) .

22.      La restrizione qui censurata non sarebbe nemmeno giustificata ai sensi dell’art. 46 CE. I servizi di vigilanza privata andrebbero tenuti distinti dalle forze pubbliche di difesa e non sarebbero destinati al mantenimento della pubblica sicurezza di cui all’art. 46 CE.

23.      Inoltre, considerazioni di ordine amministrativo, come quelle relative ad una più efficace possibilità di controllo sulle imprese e sui loro dipendenti se le imprese hanno uno stabilimento in loco, in linea di principio non sarebbero idonee, secondo la giurisprudenza  (6) , a giustificare restrizioni ad una libertà fondamentale garantita dal Trattato. Se poi l’obiettivo è quello di avere maggiori probabilità di soddisfazione delle obbligazioni, la prestazione di una garanzia offrirebbe a tal fine un mezzo sufficiente e meno gravoso  (7) .

24.      Quanto alla rilevanza, di fronte alle autorità portoghesi, dei titoli e delle garanzie già presentati dalle imprese straniere nello Stato membro di stabilimento, la Commissione ritiene che l’art. 24 del Decreto-Lei n. 231/98 non consenta sotto alcun profilo di ritenere che le autorità portoghesi, nell’esame delle domande di autorizzazione, prendano in considerazione i documenti e le garanzie già presentati nello Stato membro di stabilimento. Tale disposizione, in base al suo tenore letterale, andrebbe applicata non solo alle imprese che si sono originariamente stabilite in Portogallo, ma anche a quelle imprese che sono già regolarmente stabilite in un altro Stato membro e intendono semplicemente fornire servizi di vigilanza in Portogallo. Come la Corte ha stabilito nella causa Commissione/Belgio, la libera prestazione dei servizi, in quanto principio fondamentale del Trattato, potrebbe essere limitata solo da norme giustificate da ragioni imperative d’interesse generale e applicabili a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante, qualora tale interesse non sia tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito. Lo Stato membro che richieda a tutte le imprese di soddisfare i medesimi requisiti per ottenere un’autorizzazione od un nullaosta preventivi, escluderebbe di fatto che si tenga conto degli obblighi ai quali il prestatore è già assoggettato nello Stato membro nel quale egli ha la sede principale  (8) . La normativa portoghese andrebbe al di là di quanto necessario per la realizzazione dello scopo perseguito e sarebbe quindi sproporzionata, imponendo essa la presentazione di documenti che sono già stati prodotti nello Stato membro dello stabilimento originario  (9) .

25.      Quanto al requisito imposto alle imprese straniere di assumere la forma di persona giuridica, la Commissione osserva che tale obbligo pregiudica i lavoratori autonomi o imprenditori, in particolare i soggetti privati stabiliti in un altro Stato membro. La Corte avrebbe riconosciuto il diritto del singolo lavoratore subordinato di svolgere a titolo temporaneo un’attività lavorativa, oltre che nello Stato membro di abituale residenza, anche in un altro Stato membro  (10) . Tale giurisprudenza non sarebbe scalfita dalla suddivisione di competenze di cui al Titolo IV del Trattato CE. La Corte avrebbe già stabilito che i servizi di vigilanza privata ricadono negli artt. 39 CE, 43 CE e 49 CE  (11) , e non devono essere confusi con i servizi di pubblica sicurezza di cui parlano gli artt. 64 CE e 68 CE.

26.      Quanto al requisito imposto alle imprese straniere di disporre di uno specifico capitale minimo, la Commissione ritiene che la normativa portoghese subordini la costituzione di una filiale o di una rappresentanza permanente in territorio portoghese alla disponibilità, da parte della società madre straniera, di un capitale sociale non inferiore all’ammontare previsto dall’art. 22, n. 2. Tale requisito equivarrebbe in pratica ad applicare indirettamente all’atto con il quale l’interessato esercita il proprio diritto di aprire una succursale, il medesimo trattamento previsto dalla legge nazionale per lo stabilimento principale. Un requisito di tal genere impedirebbe ad un operatore economico di esercitare la propria attività su tutto il territorio della Comunità con un capitale sociale conforme agli obblighi derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato membro di costituzione, ma inferiore all’ammontare prescritto in Portogallo. Richiamandosi alla sentenza nella causa Centros  (12) , la Commissione ritiene che il requisito dell’osservanza delle disposizioni portoghesi relative al capitale minimo violi la libera prestazione dei servizi, poiché esso restringerebbe tale libertà oltre la misura necessaria al raggiungimento dello scopo perseguito. Una misura meno gravosa potrebbe essere costituita, ad esempio, dalla prestazione di una garanzia. In virtù del rinvio di cui all’art. 55 CE, i principi formulati nella giurisprudenza relativa alla libertà di stabilimento potrebbero essere estesi alla libera prestazione dei servizi.

27.      Le considerazioni del governo portoghese relative all’obiettivo di evitare di discriminare i propri cittadini sono inaccettabili secondo la Commissione, la quale ritiene non pertinente al presente caso la giurisprudenza Alpine Investments e Peralta  (13) . L’attività, in altri Stati membri, delle società costituite in base al diritto portoghese non subirebbe alcun pregiudizio.

28.      La Commissione contesta, altresì, l’obbligo imposto ai dipendenti delle imprese straniere di essere in possesso di un tesserino professionale rilasciato dalle autorità portoghesi. Essa scorge, in tale requisito, sia un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori (art. 39 CE), imposto ai predetti dipendenti, sia un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, imposto al loro datore di lavoro, in quanto viene limitato il diritto di questi di distaccare, in un altro Stato membro, i dipendenti già autorizzati nello Stato membro di stabilimento (art. 49 CE).

29.      Secondo la Commissione, la normativa portoghese impone ad ogni dipendente delle imprese di vigilanza privata di conseguire un’autorizzazione dal Ministero da Administração Interna, sotto forma di un «tesserino professionale», per poter esercitare l’attività sul territorio portoghese. La normativa impugnata non prevede che si tenga conto dei requisiti giuridici equivalenti, già soddisfatti nello Stato membro nel quale si è originariamente stabilita l’impresa, e dei controlli e delle verifiche già effettuati in tale Stato membro. Anche sotto tale aspetto vi sarebbe una restrizione sproporzionata alle suddette libertà fondamentali  (14) .

30.      La Commissione ritiene che anche la limitazione della validità temporale del tesserino professionale restringa, in modo sproporzionato, le libertà fondamentali. Infatti, la normativa portoghese sottoporrebbe già le imprese erogatrici di servizi di vigilanza ad un controllo permanente. Pertanto la Commissione ritiene non necessario un periodico controllo sui titolari dei tesserini professionali.

31.      La Commissione, infine, contesta il fatto che le professioni del settore della vigilanza privata non sarebbero sottoposte al regime comunitario del riconoscimento delle qualifiche professionali. In Portogallo le attività di vigilanza privata non potrebbero essere esercitate se non da personale di sorveglianza, di scorta, di difesa e di protezione delle persone che abbia superato un corso di formazione prescritto obbligatoriamente dalla normativa portoghese [art. 7, n. 2, lett. b), del Decreto-Lei n. 231/98]. L’accesso a tali attività professionali e il loro esercizio sarebbe riservato a persone in possesso di un tesserino professionale. Il detto tesserino professionale garantirebbe che il suo titolare risponde a tutti i requisiti di legge previsti per l’esercizio di tale professione, tra cui figura anche il superamento di prove teoriche e di abilità fisica, il cui contenuto e la cui durata sono legislativamente disciplinati. Il predetto tesserino, inoltre, consentirebbe al suo titolare l’esercizio di attività di vigilanza privata. Conseguentemente, a parere della Commissione il tesserino professionale costituisce, dal punto di vista sostanziale, un attestato di competenza ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. c), primo trattino, della direttiva 92/51. Pertanto, la Commissione ritiene che le attività di vigilanza privata costituiscano, in Portogallo, un’attività professionale regolamentata ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. e), in combinato disposto con l’art. 1, n. 1, lett. c), primo trattino, e con l’art. 1, n. 1, lett. f), della direttiva. Ciò nonostante, la normativa portoghese emanata per dare attuazione alla direttiva 92/51 non abbraccerebbe le professioni del settore della vigilanza privata che, conseguentemente, non sarebbero assoggettate, in Portogallo, alle disposizioni relative al riconoscimento della formazione professionale cui si riferisce la menzionata direttiva. Sempre a parere della Commissione, la Corte, nella causa Vlassopoulou, ha stabilito che le autorità nazionali, in sede di verifica della sussistenza dei requisiti per il rilascio di un’autorizzazione all’esercizio di determinate professioni, devono riconoscere le analoghe attestazioni che vengono richieste per l’esercizio della medesima professione nel paese d’origine dell’interessato  (15) . Un riconoscimento siffatto non sarebbe invece possibile in base alla normativa portoghese impugnata.

32.      La Commissione conclude chiedendo che la Corte voglia:

1)
dichiarare che la Repubblica portoghese è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 39 CE, 43 CE e 49 CE, nonché ai sensi della direttiva 92/51/CEE in quanto:

a)
le imprese straniere che intendono esercitare in Portogallo, nel settore dei servizi della vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose, in base alla normativa che regola il rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministro da Administração Interna:

devono avere la sede o una succursale nel territorio portoghese;

non possono far riferimento ai titoli e alle garanzie già presentati nello Stato membro in cui sono stabilite;

devono essere costituite sotto forma di persona giuridica;

devono possedere un capitale sociale specifico;

b)
il personale delle imprese straniere che intendono esercitare in Portogallo, nel settore dei servizi della vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose, deve essere in possesso di un tesserino professionale rilasciato dalle autorità portoghesi;

c)
le attività professionali del settore della vigilanza privata non sono sottoposte al regime comunitario del riconoscimento delle qualifiche professionali.

2)
condannare la Repubblica portoghese alle spese.

33.      La Repubblica portoghese chiede che la Corte voglia:

1)
respingere il ricorso;

2)
condannare la Commissione alle spese.

34.      A parere del governo portoghese, l’ambito di applicazione dell’art. 22 del Decreto-Lei n. 231/98, in combinato disposto con l’art. 4 del codice delle società commerciali, è circoscritto alle società non aventi la propria sede principale in Portogallo che intendono fornire in territorio portoghese servizi di vigilanza privata per più di un anno. Attesa tale soglia temporale superiore all’anno, stabilita dalla legge, la normativa in parola non riguarderebbe la libera prestazione dei servizi, bensì la libertà di stabilimento. Nell’ambito della libera prestazione dei servizi garantita dal Trattato rientrerebbe semplicemente l’esecuzione di prestazioni esclusivamente a titolo temporaneo. Si tratterebbe, quindi, di episodi sporadici, circoscritti nel tempo. Per converso, le prestazioni eseguite per un certo periodo di tempo e caratterizzate da una certa frequenza, regolarità e durata, ricadrebbero sotto le regole relative alla libertà di stabilimento. Pertanto, la normativa impugnata non potrebbe restringere la libera prestazione dei servizi.

35.      La normativa portoghese sarebbe altresì conforme al principio della certezza del diritto. Né gli operatori economici, né il governo portoghese avrebbero dubbi sul fatto che l’art. 22 del Decreto-Lei non si applica a chi esegue prestazioni a titolo temporaneo. Del resto, secondo il governo portoghese vi sono imprese stabilite in altri Stati membri che forniscono servizi di vigilanza in Portogallo pur non avendo qui alcuna succursale. La circostanza che il governo portoghese, durante la fase precontenziosa, avrebbe sostenuto, secondo la Commissione, interpretazioni contraddittorie della norma in esame non comproverebbe alcuna violazione del principio della certezza del diritto.

36.      Anche in merito alla censura relativa all’omessa considerazione della documentazione già presentata nello Stato d’origine, il governo portoghese ritiene che la Commissione determini erroneamente l’ambito d’applicazione dell’art. 24 del Decreto-Lei n. 231/98. Anche in quest’ambito si tratterebbe esclusivamente di imprese che intendono fornire servizi di vigilanza in Portogallo per più di un anno. Pertanto, anche l’art. 24 del Decreto-Lei riguarderebbe esclusivamente la libertà di stabilimento delle imprese, e non già la libera prestazione dei servizi da parte delle stesse.

37.      Ciò varrebbe pure per l’obbligo di assumere la forma di persona giuridica. Le imprese sarebbero tenute a costituire in Portogallo lo stabilimento principale o una rappresentanza permanente solo nel caso in cui intendano offrire servizi di vigilanza per più di un anno. Tale obbligo non pregiudicherebbe il diritto di fornire in Portogallo servizi di vigilanza a titolo temporaneo. Conseguentemente, anche per tale aspetto non vi sarebbe alcuna restrizione alla libera prestazione dei servizi. Del resto, la stessa Commissione avrebbe riconosciuto che l’esercizio di attività in settori sensibili possa essere legittimamente subordinato ad una preventiva autorizzazione.

38.      Anche il requisito dell’osservanza delle disposizioni relative al capitale minimo non concerne, a parere del governo portoghese, la libera prestazione dei servizi, bensì la libertà di stabilimento e, segnatamente, la libertà di stabilimento secondaria. Qualora si faccia uso della sola libera prestazione dei servizi, la disposizione relativa al capitale minimo sarebbe inapplicabile; essa andrebbe, invece, applicata alle succursali. Le disposizioni portoghesi sul capitale minimo sarebbero, dunque, applicabili solo nell’ipotesi in cui un’impresa, stabilita in un altro Stato membro, apra in Portogallo una succursale allo scopo di fornire servizi di vigilanza per più di un anno.

39.      Il governo portoghese ritiene giustificata tale restrizione alla libertà di stabilimento secondaria. Il settore dei servizi di vigilanza non sarebbe armonizzato a livello di diritto comunitario. La misura sarebbe proporzionata, in quanto ogni altra interpretazione comporterebbe una discriminazione a scapito dei cittadini portoghesi. È vero che, in linea di principio, le discriminazioni a scapito dei propri cittadini non sarebbero vietate dal diritto comunitario, riguardando esse, di regola, solo situazioni di mera rilevanza interna. Tuttavia, se si rinunciasse ad una rigorosa osservanza delle disposizioni sul capitale minimo, le imprese potrebbero stabilirsi in un altro Stato membro, che richieda un capitale minimo inferiore, ed attraverso l’espediente della costituzione di una succursale in Portogallo potrebbero eludere le disposizioni portoghesi sul capitale minimo. Ciò porterebbe ad una armonizzazione di fatto al livello più basso. Richiamandosi alle conclusioni dell’avvocato generale Vilaça nella causa 63/86  (16) , il governo portoghese osserva che il diritto di libero stabilimento significherebbe semplicemente che ci si può stabilire alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro ospitante. In mancanza di armonizzazione a livello di diritto comunitario, lo Stato membro, nel rispetto del principio della parità di trattamento, sarebbe però libero di disciplinare le condizioni dello stabilimento nel proprio territorio.

40.      In relazione alla censura dell’omesso riconoscimento della documentazione già presentata in altri Stati membri, il governo portoghese ritiene che non si tratti tanto della necessità del rilascio di un tesserino professionale, quanto, invece, della legittimità dei requisiti da soddisfare a tale scopo, elencati all’art. 7 del Decreto-Lei, e della dimostrazione della loro sussistenza. Come la Commissione stessa avrebbe ammesso, nulla osterebbe all’obbligo di una preventiva autorizzazione. La questione di un’eventuale discriminazione indiretta risultante dai requisiti prescritti non sarebbe stata sollevata nel parere motivato e, pertanto, non potrebbe costituire oggetto del presente procedimento. D’altronde non vi sarebbe alcuna discriminazione, in quanto i requisiti per i cittadini portoghesi sarebbero anzi più rigorosi che per i cittadini di altri Stati membri.

41.      In mancanza di armonizzazione, la Commissione non potrebbe obbligare il Portogallo ad accettare senza riserve il riconoscimento, operato da altro Stato membro, della legittimità della situazione di un’impresa. Alcuni dei requisiti elencati all’art. 7 non verrebbero affatto verificati da altri Stati. In mancanza di armonizzazione, non si potrebbe impedire alla Repubblica portoghese di stabilire tali requisiti. Inoltre, per taluni dei suddetti requisiti sarebbe necessaria una verifica periodica. Pertanto, in Portogallo l’autorizzazione sarebbe rilasciata solo per due anni. I requisiti imposti sarebbero giustificati da ragioni imperative d’interesse generale, ossia dalla sicurezza dei percettori dei servizi.

42.      In relazione alla censura di violare la direttiva 92/51, il governo portoghese sostiene che la direttiva non sarebbe applicabile ai servizi di vigilanza. Né l’accesso a tale professione né il suo esercizio sarebbero subordinati alla sussistenza di un attestato di competenza. Per le attività in parola non ci sarebbe alcun titolo di formazione ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 92/51.

43.      Il necessario tesserino professionale avrebbe soltanto una validità limitata nel tempo, precisamente di due anni. Non potrebbe, pertanto, costituire un attestato di competenza. In relazione alla formazione imposta per legge, si dovrebbe tener presente che essa interviene solo dopo l’assunzione presso un datore di lavoro operante nel settore della vigilanza. A causa di questa sua collocazione temporale, essa e la relativa certificazione non potrebbero essere considerate, rispettivamente, quale formazione e quale titolo di formazione ai sensi della citata direttiva.

44.      Anche la scadenza del tesserino non sarebbe una misura sproporzionata. I requisiti originariamente sussistenti a lungo andare potrebbero venir meno in un momento successivo, per cui sarebbe necessaria una loro regolare verifica. I controlli permanenti sugli enti che forniscono servizi di vigilanza, cui fa riferimento la Commissione, non offrirebbero la medesima garanzia.

45.      Il governo portoghese rileva inoltre, in linea generale, che la salvaguardia della sicurezza non sarebbe compito di pertinenza esclusiva dello Stato. I servizi privati di vigilanza sarebbero complementari ai servizi statali di sicurezza e sarebbero ad essi strettamente correlati. Pertanto, nel fissare i requisiti per l’accesso ai servizi di vigilanza e per il loro esercizio, sarebbe necessario procedere con particolare cautela e rigore.

46.      Come riferisce il governo portoghese, l’art. 27 della Costituzione portoghese riconosce il diritto di tutti i cittadini alla sicurezza. Nell’attuazione di tale diritto spetterebbe un ruolo significativo ai soggetti privati erogatori di servizi di vigilanza.

47.      Le restrizioni poste col Decreto-Lei n. 231/98, a parere del governo portoghese, devono essere valutate alla luce di quanto sopra esposto. Nel valutare il predetto decreto occorre tener presente gli obiettivi che esso soddisfa. Da un lato, infatti, vi sono gli interessi e le aspettative dei cittadini, i quali ottengono la garanzia che i servizi di vigilanza vengano forniti esclusivamente da enti idonei, soggetti a rigorosi controlli ed elevati standard qualitativi. Dall’altro lato vi sono gli interessi e le aspettative dello Stato che ottiene uno strumento che gli consente di attuare la sua politica di sicurezza con maggiore efficienza. Ed infine vi sono gli interessi e le aspettative delle imprese erogatrici dei servizi di vigilanza e dei loro dipendenti, che hanno parimenti interesse all’introduzione di una disciplina normativa che regoli l’accesso al mestiere e il suo esercizio.

48.      L’apposizione di prescrizioni in materia di sicurezza sarebbe una questione prettamente nazionale, che dovrebbe essere decisa autonomamente da ogni Stato membro. L’introduzione dell’obbligo di una preventiva autorizzazione in tale ambito non potrebbe essere censurato a livello di diritto comunitario, tanto più che non vi sarebbero misure di armonizzazione.

49.      Il governo portoghese richiama la giurisprudenza che avrebbe riconosciuto la legittimità di restrizioni alla libera prestazione dei servizi in ipotesi, a suo parere, meno delicate  (17) . Tanto più, quindi, sarebbero giustificate le prescrizioni qui contestate.

50.      Il governo portoghese non ritiene pertinente la giurisprudenza, citata dalla Commissione, in materia di servizi di vigilanza  (18) . Le restrizioni, di cui si discuteva in tali cause, non sarebbero previste dalla legislazione portoghese.

V – Valutazione

51.      Con il presente ricorso la Commissione prosegue la serie dei procedimenti d’inadempimento relativi a restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi nel settore dei servizi di vigilanza privata. La Corte si è già pronunciata in relazione ad analoghe fattispecie nei procedimenti a carico di Spagna  (19) , Belgio (20) e Italia  (21) .

A – Obbligo di aprire una rappresentanza permanente

52.      Nell’ambito dei primi quattro motivi di ricorso le parti controvertono in merito alla delimitazione dei rispettivi ambiti di applicazione della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Il governo portoghese ritiene che un soggetto che offra la prestazione di servizi per una durata superiore ad un anno, faccia uso della libertà di stabilimento, e non più della libera prestazione dei servizi. La Commissione, al contrario, ritiene che si faccia ancora uso della libera prestazione dei servizi anche oltre il periodo di un anno. Nel caso in cui si dovesse trattare di restrizioni alla libertà di stabilimento, il governo portoghese ritiene che esse siano giustificate.

53.      In merito alla censura sollevata dalla Commissione, secondo cui l’obbligo di aprire in Portogallo una rappresentanza permanente (l’art. 22 parla di «delegação», l’art. 4 di «representação permanente») sarebbe incompatibile con la libera prestazione dei servizi, il governo portoghese ritiene che l’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei, dal quale sorge tale obbligo, sia applicabile esclusivamente ad imprese («entidades») che offrono servizi di vigilanza in territorio portoghese per più di un anno. In una siffatta ipotesi non vi sarebbe più una esecuzione di prestazioni a titolo temporaneo, per cui non potrebbe sussistere alcuna violazione della libera prestazione dei servizi. Si tratterebbe, invece, di una esecuzione di prestazioni a titolo duraturo, rientrante, quindi, nell’ambito di applicazione della libertà di stabilimento.

54.      Una possibile limitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei ai soli prestatori di servizi che offrono i loro servizi di vigilanza per più di un anno non risulta, o per lo meno non direttamente, dal testo letterale di tale disposizione. Essa può, invece, essere desunta, tutt’al più, dal rinvio all’art. 4 del codice delle società commerciali.

55.      Le parti controvertono in merito all’effettiva presenza, all’interno dell’art. 22, di un siffatto rinvio. Ai fini dell’esame della legittimità dell’obbligo di apertura di una rappresentanza si può anche supporre, una volta per tutte, che un siffatto rinvio sussista e che esso soddisfi i principi di certezza e di precisione del diritto. Infatti, anche ammettendo che con tale rinvio si soddisfino tali principi, si pone comunque la questione se l’esercizio della libera prestazione dei servizi possa essere legittimamente limitato dal diritto nazionale al periodo di un anno.

56.      La giurisprudenza della Corte prende in considerazione la durata dell’erogazione di una prestazione quale indizio utile per distinguere tra esercizio della libertà di stabilimento ed esercizio della libera prestazione dei servizi. Ed infatti, la circostanza che un cittadino comunitario partecipi, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine costituisce un indizio del fatto che egli faccia uso dei suoi diritti derivanti dalla libertà di stabilimento. Diversamente, la circostanza che l’attività venga esercitata solo a titolo temporaneo in un altro Stato membro costituisce, in via di principio, un indizio dell’utilizzo della libera prestazione dei servizi  (22) .

57.      Tuttavia, la Corte ha finora considerato la durata della prestazione solo come uno dei plurimi indizi di cui occorre tener conto per qualificare l’attività di volta in volta rilevante. Per giudicare una tale attività la giurisprudenza ha sempre adottato una valutazione complessiva di tutte le circostanze in cui la prestazione viene effettuata. Oltre alla durata, la Corte ha riconosciuto a tal fine rilevanza alla frequenza, alla periodicità o continuità della prestazione presa in esame  (23) . Inoltre la Corte ha stabilito che nemmeno il fatto di dotarsi di una determinata infrastruttura, come l’apertura di un ufficio o di uno studio, escluda, di per sé, l’utilizzo della libera prestazione dei servizi  (24) . L’avvocato generale Léger, nelle sue conclusioni nella causa Gebhard, ha proposto di prendere in considerazione, accanto alla durata, anche il luogo in cui il prestatore dei servizi ha stabilito il centro principale della sua attività. Se esso è situato in uno Stato membro diverso da quello in cui la prestazione è fornita, allora si tratterebbe dell’esercizio della libera prestazione dei servizi  (25) .

58.      Dalla citata giurisprudenza emerge che una distinzione basata soltanto sulla durata della prestazione non è sufficiente per effettuare un preciso inquadramento nel settore della libertà di stabilimento, ovvero in quello della libera prestazione dei servizi. Pertanto, se l’ambito d’applicazione dell’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei esclude soltanto quei prestatori di servizi di vigilanza che offrono le proprie prestazioni al massimo per un anno – senza tener conto delle ulteriori condizioni dell’erogazione della prestazione e senza ammettere la possibilità di provare che anche prestazioni di durata superiore non hanno carattere permanente e continuativo – allora tale norma restringe la libertà di prestazione dei servizi di tutti coloro che intendano fornire in Portogallo servizi di vigilanza per più di un anno, senza tuttavia l’intenzione di partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica locale, o senza la volontà di sviluppare ivi il centro principale della propria attività.

59.      Al pari della normativa italiana oggetto d’esame nella causa Gebhard, anche l’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei, in combinato disposto con l’art. 4 del codice delle società commerciali, pone una presunzione assoluta di utilizzo della libertà di stabilimento in caso di erogazione di servizi di vigilanza di durata superiore ad un anno  (26) . Tuttavia, non vi è alcuna ragione che giustifichi l’obbligo di utilizzare la libertà di stabilimento.

60.      In particolare, non è consentito modificare, per mezzo di un siffatto obbligo all’utilizzo di una determinata libertà fondamentale, le legittime restrizioni all’esercizio delle altre libertà fondamentali. Ma proprio questo è l’effetto della disciplina di cui all’art. 22, n. 1, eventualmente in combinato disposto con l’art. 4 del codice delle società commerciali. Attraverso l’obbligo di aprire una rappresentanza permanente in Portogallo, l’esercizio della libera prestazione dei servizi viene reso più dispendioso, e non solo più difficile. La giurisprudenza scorge in un obbligo di tal tipo la negazione stessa della libera prestazione dei servizi; esso, pertanto, viola l’art. 49 CE  (27) . Conseguentemente, si deve ritenere che l’obbligo di aprire una rappresentanza permanente in Portogallo nel caso in cui si intenda offrire in tale Stato servizi di vigilanza per un periodo superiore ad un anno, è incompatibile con l’art. 49 CE.

61.      Un esame della censura secondo cui la normativa in parola non sarebbe compatibile col principio della certezza del diritto risulta, a questo punto, superfluo. Infatti, anche supponendo – come si è fatto qui – che il rinvio all’art. 4 del codice delle società commerciali sia sufficientemente chiaro ed univoco, rimarrebbe comunque la constatata negazione della libera prestazione dei servizi e, pertanto, la violazione del diritto comunitario da parte della normativa in esame.

62.      Ciò considerato, la questione di un’eventuale giustificazione di tale restrizione – a rigore – non potrebbe nemmeno essere più posta. Se l’obbligo dell’apertura di una rappresentanza costituisce una completa negazione della libera prestazione dei servizi, tale restrizione rappresenta in ogni caso una misura sproporzionata.

63.      Per l’ipotesi in cui la Corte non dovesse condividere questa tesi, occorre brevemente analizzare le cause di giustificazione sostenute dal governo portoghese.

64.      Il governo portoghese, per giustificare le restrizioni derivanti dal Decreto-Lei, richiama soprattutto la particolare importanza della garanzia di servizi di vigilanza privata legittimi. Essi coadiuverebbero le forze pubbliche di sicurezza e consentirebbero allo Stato di attuare una efficiente politica in materia di sicurezza.

65.      Nei procedimenti per inadempimento contro Spagna, Belgio e Italia già decisi dalla Corte, essa ha chiaramente sottolineato che le cause di giustificazione di cui agli artt. 55 CE e 46 CE non possono essere applicate alle restrizioni imposte ai servizi di vigilanza privata  (28) , poiché non viene qui in rilievo l’esercizio di pubblici poteri. Risulta, altresì, impossibile appellarsi all’art. 46 CE in quanto il potere degli Stati membri di limitare la libera circolazione delle persone e dei servizi per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica non ha lo scopo di porre interi settori economici, come quello della vigilanza privata, al riparo dall’applicazione di questo principio  (29) .

66.      Il richiamo a ragioni imperative d’interesse generale – quali, in particolare, la garanzia per i cittadini che i servizi di vigilanza siano loro forniti esclusivamente da enti idonei, soggetti a rigorosi controlli ed elevati standard qualitativi, nonché la possibilità per lo Stato di ottenere uno strumento che gli consenta di attuare la propria politica di sicurezza con maggiore efficienza, ed infine l’introduzione di una disciplina normativa per le imprese e per i loro dipendenti che regoli l’accesso e l’esercizio del mestiere – è parimenti inidoneo a giustificare la constatata restrizione risultante dall’obbligo di aprire una rappresentanza. Infatti, i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato devono, in base ad una costante giurisprudenza, soddisfare quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da ragioni imperative di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo  (30) .

67.      Come sopra esposto, l’obbligo di aprire una rappresentanza costituisce negazione stessa della libera prestazione dei servizi. Tale restrizione, pertanto, va in ogni caso oltre quanto necessario per il raggiungimento dei predetti scopi. Vi sono a disposizione mezzi meno gravosi per raggiungerli, ad esempio la prestazione di garanzie, la stipulazione di determinate assicurazioni o l’obbligo di provare il possesso di una determinata qualificazione professionale. Conseguentemente, la restrizione in parola non può essere giustificata nemmeno da ragioni imperative d’interesse generale.

68.      Al termine dell’esame dell’obbligo di apertura di una rappresentanza permanente si deve, pertanto, ritenere che tale normativa sia incompatibile con la libera prestazione dei servizi, garantita dall’art. 49 CE.

B – Rilevanza della documentazione presentata nello Stato membro d’origine

69.      In sede d’esame della legittimità dell’art. 24 del Decreto-Lei n. 231/98, il quale elenca i documenti da allegare alla domanda di autorizzazione per accedere all’attività dei servizi di vigilanza, il governo portoghese si limita a rinviare al fatto che anche l’art. 24 si applicherebbe soltanto alle imprese che offrono le proprie prestazioni per più di un anno. La tesi del governo portoghese va respinta, in conformità a quanto sopra esposto in relazione all’obbligo di apertura di una succursale. L’art. 24 del Decreto-Lei n. 231/98 incide, in linea di principio, anche sulla libera prestazione dei servizi.

70.      Come giustamente sottolinea la Commissione, la Corte, nella sua sentenza nella causa Commissione/Belgio, ha già deciso che la libera prestazione dei servizi, in quanto principio fondamentale del Trattato, può essere limitata solo da norme giustificate da ragioni imperative d’interesse generale e applicabili a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante, qualora tale interesse non sia già tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito. Disposizioni nazionali che richiedono a tutte le imprese di soddisfare i medesimi requisiti per ottenere un’autorizzazione od un nullaosta preventivi, escludono che si tenga conto degli obblighi ai quali il prestatore è già assoggettato nello Stato membro nel quale è stabilito  (31) .

71.      L’art. 24 del Decreto-Lei prescrive che tutti i richiedenti, in allegato alla domanda d’autorizzazione all’esercizio dei servizi di vigilanza, inoltrino i documenti elencati al n. 1, lett. a)-g). Il disposto letterale di tale norma non prevede che analoghi documenti, già prodotti dal prestatore dei servizi nello Stato membro in cui è stabilito, possano essere presi in considerazione. Il governo portoghese non ha, del resto, sostenuto che siano state adottate altre cautele per assicurare una siffatta rilevanza ai documenti presentati in altri Stati membri, come richiesto dal diritto comunitario. Pertanto, si deve ritenere che anche l’art. 24 del Decreto-Lei sia incompatibile con l’art. 49 CE.

C – Obbligo di costituire una persona giuridica

72.      Anche in sede di illustrazione dell’obbligo di costituire una persona giuridica, il governo portoghese si limita a sostenere che esso non inciderebbe sulla libera prestazione dei servizi, in quanto si riferirebbe soltanto ad attività di durata superiore ad un anno. Tale opinione va respinta per i motivi sopra esposti.

73.      L’obbligo di costituirsi in forma di persona giuridica non emerge, a prima vista, dal tenore letterale dell’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei n. 231/98. Tale disposizione parla semplicemente di unità («entidades»). Questo concetto di per sé neutro può, in linea di principio, riferirsi tanto a persone giuridiche, quanto a persone fisiche o ad associazioni.

74.      Occorre, tuttavia, considerare che l’art. 22, n. 1, richiede alle predette unità che esse siano costituite in base al diritto portoghese o al diritto di uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo («devem ser costituidas»). Ma costituite o fondate possono essere solo le persone giuridiche, e non anche le persone fisiche. Ciò induce a ritenere che l’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei in realtà subordini l’esercizio dei servizi di vigilanza alla condizione che il prestatore dei servizi si organizzi in forma di persona giuridica. In tal modo risulta in linea di principio esclusa l’attività dei lavoratori autonomi.

75.      L’interpretazione qui sostenuta trova conforto anche nell’art. 22, n. 2, del Decreto-Lei, che prescrive il conferimento di un determinato capitale sociale minimo. Tale disposizione dovrà essere affrontata più in dettaglio nella successiva sezione. Per ora è sufficiente notare che un capitale sociale deve essere conferito solo nel caso delle persone giuridiche. Anche questa considerazione induce a ritenere che l’esercizio dei servizi di vigilanza sia riservato, in Portogallo, alle persone giuridiche.

76.      Infine, occorre considerare anche l’art. 3 del Decreto-Lei. Tale norma riserva l’esercizio dei servizi di vigilanza ad unità legalmente costituite [«(...) só pode ser exercida por entidades legalmente constituidas (...)»]. Ma costituite legalmente, cioè in conformità alle norme, possono essere solo le persone giuridiche.

77.      Tale interpretazione delle disposizioni del Decreto-Lei è stata confermata anche dal governo portoghese nella fase precontenziosa. Nella sua risposta alla lettera di diffida, il governo portoghese ha sostenuto che la scelta, da parte del legislatore, della forma della persona giuridica si basa sulla convinzione che tale struttura possa offrire la massima sicurezza ed affidabilità. L’esperienza passata avrebbe dimostrato che la sicurezza e la solvibilità delle società sarebbe notevolmente superiore a quella dei singoli imprenditori che rispondono personalmente  (32) . È vero che il governo portoghese né nel controricorso né nella controreplica ha richiamato tale spiegazione. Tuttavia in tali atti manca qualsiasi altra plausibile giustificazione del tenore letterale dell’art. 22, n. 1, in combinato disposto con l’art. 3 del Decreto-Lei. Il governo portoghese si limita, invece, a sostenere la tesi secondo cui l’art. 22 non sarebbe applicabile alle prestazioni di servizi. Tale posizione, tuttavia, come ho già esposto sopra, non è sostenibile.

78.      In definitiva, si deve pertanto ritenere che i prestatori di servizi, che intendano offrire servizi di vigilanza in Portogallo, devono organizzarsi in forma di persone giuridiche. In tal modo si esclude che le persone fisiche, cioè i lavoratori autonomi, possano fornire prestazioni di tal tipo. Sussiste, quindi, una restrizione alla libera prestazione dei servizi.

79.      Poiché il governo portoghese non deduce alcuna causa di giustificazione per la suddetta restrizione, si deve ritenere che l’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei violi l’art. 49 CE nella parte in cui richiede, per l’esercizio di attività di vigilanza, la costituzione di una persona giuridica.

D – Osservanza delle disposizioni portoghesi relative al capitale minimo

80.      La Commissione contesta altresì la condizione, posta all’art. 22, n. 2, del Decreto-Lei, consistente nell’imporre un determinato capitale minimo. Tale disposizione richiede alle imprese che intendano offrire i servizi di vigilanza previsti dall’art. 2 del Decreto-Lei, che il loro capitale sociale non sia inferiore a determinate soglie minime.

81.      Disposizioni relative al capitale minimo riguardano soltanto i prestatori di servizi organizzati in forma di società di capitali. Per i lavoratori autonomi non possono esserci, in linea di principio, disposizioni relative al conferimento di un capitale sociale. La disposizione in esame, escludendo implicitamente l’attività dei lavoratori autonomi, già viola la libera prestazione dei servizi.

82.      In merito alle prestazioni delle società di capitali, occorre altresì considerare che disposizioni relative al conferimento di un determinato capitale minimo costituiscono una restrizione ingiustificata alla libera prestazione dei servizi. Per l’esercizio della libertà di stabilimento la Corte, nella causa Centros, ha stabilito che le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento sono volte precisamente a consentire alle società costituite conformemente alla normativa di uno Stato membro e che hanno la loro sede sociale, l’amministrazione centrale o il loro stabilimento principale all’interno della Comunità, di svolgere attività negli altri Stati membri per il tramite di un’agenzia, di una succursale o di una filiale. Ciò considerato, il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrano meno severe e crei succursali in altri Stati membri non potrebbe costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento. Il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in altri Stati membri sarebbe inerente all’esercizio, nell’ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato  (33) .

83.      Nelle mie conclusioni nella causa Inspire Art ho sostenuto la tesi secondo cui anche il requisito dell’osservanza delle disposizioni dello Stato ospitante relative al capitale minimo costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, in quanto in tal modo si nega il riconoscimento – richiesto invece dal diritto comunitario – della società legalmente costituita conformemente al diritto di un altro Stato membro  (34) . Tale giurisprudenza può essere estesa alla libera prestazione dei servizi. Se un lavoratore autonomo o un’impresa è regolarmente stabilita in uno Stato membro ed ivi fornisce servizi di vigilanza, il requisito dell’osservanza delle disposizioni relative al capitale minimo implica il mancato riconoscimento della costituzione conforme a legge nello Stato d’origine. Ciò comporta, in definitiva, nuovamente una negazione del diritto alla libera prestazione dei servizi delle imprese legalmente stabilite in un altro Stato membro.

84.      Pertanto, viene meno la giustificazione fornita dal governo portoghese relativa ad una possibile discriminazione a scapito dei propri cittadini. Infatti, sotto l’etichetta di discriminazione a scapito dei propri cittadini – in linea di principio irrilevante per il diritto comunitario, come entrambe le parti convengono – viene presentata null’altro che la lotta contro il pericolo di elusione delle disposizioni portoghesi relative al capitale minimo. Il governo portoghese evoca espressamente il pericolo che un’impresa possa stabilirsi in un altro Stato membro, ove è richiesto un capitale minimo inferiore, e attraverso l’espediente della costituzione di una succursale in Portogallo possa eludere le disposizioni portoghesi sul capitale minimo. Come risulta dalla citata giurisprudenza nel caso Centros, un generico pericolo di elusione non è, tuttavia, sufficiente a giustificare una restrizione alle libertà fondamentali garantite dal Trattato. Del resto, vi sono a disposizione misure meno incisive, con le quali può essere assicurata una tutela dei creditori altrettanto efficace, come ad esempio la predisposizione di garanzie o la stipulazione di assicurazioni. A prescindere da tutto ciò, d’altronde è assai controverso se davvero attraverso il conferimento di un determinato capitale minimo al momento della costituzione di una società o, riportando il discorso al presente caso di specie, al momento dell’avvio dell’attività di vigilanza in Portogallo, possa essere raggiunto l’obiettivo della tutela dei creditori  (35) .

85.      Conseguentemente, si deve ritenere che anche la disciplina di cui all’art. 22, n. 2, del Decreto-Lei, relativa all’obbligo di disporre di un capitale minimo, sia incompatibile con l’art. 49 CE.

E – Requisito di un tesserino professionale

86.      Nel requisito del possesso di un tesserino professionale la Commissione scorge sia una restrizione alla libera circolazione dei lavoratori, in pregiudizio dei dipendenti (art. 39 CE), sia una restrizione alla libera prestazione dei servizi, in pregiudizio del loro datore di lavoro, in quanto risulta per questi più difficile distaccare in Portogallo dipendenti già autorizzati nello Stato membro di stabilimento (art. 49 CE). Il governo portoghese si difende sostenendo che, in linea di principio, sarebbe lecito subordinare l’esercizio di determinate attività sensibili ad una preventiva autorizzazione e che al momento del rilascio del tesserino verrebbe verificata la presenza dei requisiti elencati all’art. 7 del Decreto-Lei, i quali sarebbero stati imposti per ragioni imperative d’interesse generale.

87.      La Corte, nella sentenza nella causa Commissione/Belgio, ha dichiarato che il requisito del rilascio di un documento d’identificazione costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi, perché le formalità che implica l’ottenimento di tale documento potrebbero rendere più onerosa la prestazione di servizi trasfrontalieri. Una restrizione di tal tipo è stata inoltre ritenuta sproporzionata, in quanto il predetto documento dovrebbe servire ad accertare l’identità del prestatore del servizio, la quale potrebbe essere parimenti accertata già grazie ad un documento d’identità o al passaporto che il prestatore porta con sé  (36) . Conformandosi a tale giurisprudenza, si deve quindi ritenere che l’art. 9 del Decreto-Lei restringe la libera prestazione dei servizi e la libera circolazione dei lavoratori.

88.      A differenza di quanto avvenuto nella causa Commissione/Belgio, tuttavia, la normativa portoghese non viene giustificata con la possibilità di accertare l’identità del prestatore del servizio, bensì con la verifica della sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività, elencati all’art. 7 del Decreto-Lei. Si tratta, pertanto, di qualità e capacità personali del prestatore. Ciò considerato, tale verifica potrebbe, in linea di principio, essere ritenuta una misura adeguata a garantire la qualità del servizio di vigilanza offerto.

89.      Occorre, tuttavia, domandarsi se tale misura non vada oltre il necessario, escludendo essa la rilevanza di documenti equivalenti già prodotti dal prestatore nel suo Stato d’origine. Analogamente a quanto sopra constatato in relazione all’art. 22, n. 1, del Decreto-Lei, nemmeno l’art. 9, n. 2, del Decreto-Lei prevede che, in sede di verifica della documentazione comprovante il possesso dei presupposti per l’esercizio dell’attività elencati all’art. 7, possano essere presi in considerazione documenti equivalenti già necessari nello Stato d’origine per accedere all’esercizio di servizi di vigilanza. In base alla giurisprudenza, tuttavia, uno Stato membro al quale sia stata presentata la domanda di autorizzazione all’esercizio di una professione il cui accesso è, secondo la normativa nazionale, subordinato al possesso di un diploma o di una qualifica professionale, è tenuto a prendere in considerazione i diplomi, i certificati e gli altri titoli che l’interessato ha acquisito ai fini dell’esercizio della medesima professione in un altro Stato membro procedendo ad un raffronto tra le competenze attestate da questi diplomi e le conoscenze e qualifiche richieste dalle norme nazionali  (37) . Questo principio, elaborato in relazione alla libertà di stabilimento, può essere riferito – essendo coinvolti interessi analoghi – anche alla libera circolazione dei lavoratori e alla libera prestazione dei servizi. Pertanto, si deve ritenere che l’art. 9 del Decreto-Lei restringa la libera circolazione dei lavoratori e la libera prestazione dei servizi oltre la misura necessaria.

F – Applicabilità della direttiva 92/51

90.      Da ultimo, la Commissione contesta la mancata applicazione della direttiva 92/51 ai lavoratori nel settore dei servizi di vigilanza. A tal proposito, vi è controversia tra le parti sul punto se il tesserino professionale – già menzionato nella precedente sezione – da un punto di vista sostanziale costituisca un attestato di competenza ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. c), primo trattino, della direttiva 92/51.

91.      In base all’art. 1, lett. f), della direttiva 92/51, un’attività professionale regolamentata consiste in una attività professionale, le cui modalità di accesso o di esercizio siano direttamente o indirettamente disciplinate da norme di natura giuridica, cioè da disposizioni di legge, di regolamento o amministrative. L’accesso a una professione o l’esercizio della medesima deve, pertanto, considerarsi direttamente disciplinato da norme giuridiche qualora disposizioni di legge, di regolamento o amministrative dello Stato membro ospitante istituiscano un regime che produce l’effetto di riservare espressamente tale attività professionale alle persone che soddisfino a talune condizioni e di vietare l’accesso a quelle che non vi soddisfino  (38) . L’esercizio di prestazioni di vigilanza viene subordinato dagli artt. 7 e 9 del Decreto-Lei alla sussistenza di determinate condizioni personali. Si tratta, pertanto, dell’esercizio di un’attività professionale regolamentata ai sensi della direttiva 92/51.

92.      La nozione di «attestato di competenza» viene definita all’art. 1, lett. c), primo trattino, della direttiva 92/51, come qualsiasi titolo che sancisca una formazione che non faccia parte di un insieme che costituisca un diploma ai sensi della direttiva 89/48 o un diploma o un certificato ai sensi della direttiva 92/51. Per i servizi di vigilanza non è previsto alcun diploma, per cui in quest’ambito può venire in rilievo soltanto un titolo che sancisce una formazione.

93.      La Commissione ritiene che il tesserino professionale, di cui si è discusso nella precedente sezione, costituisca un siffatto attestato di competenza. Esso certificherebbe, tra l’altro, il superamento di prove teoriche e di abilità fisica, prescritte ai sensi dell’art. 7, n. 2, lett. b), del Decreto-Lei, ed il cui contenuto e la cui durata sono legislativamente disciplinati, e consentirebbe al suo titolare l’esercizio dei servizi di vigilanza privata.

94.      Occorre, tuttavia, notare che il tesserino professionale ha solo una validità temporale limitata a due anni, come rileva il governo portoghese. Un titolo che sancisce una determinata formazione, invece, viene conseguito una volta per tutte ed ha una validità temporale illimitata. Va tenuto da esso distinto il permesso di esercitare una determinata professione per la quale sia richiesta una determinata formazione, il quale può ben essere limitato nel tempo, al fine di consentire determinati controlli. Già a causa della limitazione temporale della sua validità, tuttavia, il tesserino professionale non può essere considerato un titolo, valido senza limiti di tempo, che sancisce una formazione.

95.      Si deve, inoltre, considerare che il tesserino professionale non concerne soltanto l’attestazione della frequenza di un determinato corso di formazione e del superamento del relativo esame. Il tesserino professionale viene invece rilasciato, ai sensi dell’art. 9 del Decreto-Lei, dopo aver accertato la sussistenza del complesso dei requisiti di cui all’art. 7 del Decreto-Lei. L’attestazione del conseguimento di una determinata formazione costituisce soltanto un aspetto parziale del tesserino professionale. Oltre a ciò vengono verificate, ad esempio, anche la cittadinanza o la sussistenza di eventuali condanne. Anche tali considerazioni inducono a respingere la tesi secondo cui il tesserino professionale sarebbe un attestato di competenza ai sensi della direttiva 92/51.

96.      Ciò considerato, non è ravvisabile alcuna violazione della direttiva 92/51.

VI – Spese

97.      A termini dell’art. 69, n. 2, primo comma, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Tuttavia, ai sensi del successivo n. 3, primo comma, la Corte può ripartire le spese o decidere che ciascuna parte sopporti le proprie, se le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi, ovvero per motivi eccezionali. L’unica, tra le violazioni dedotte, che non ha potuto essere accertata è la violazione della direttiva 92/51. Tale circostanza, tuttavia, non incide in modo tale, rispetto agli altri inadempimenti che sono stati accertati, da far ritenere congrua una ripartizione delle spese. Poiché la Commissione ha presentato la relativa domanda, il Portogallo, il quale è risultato soccombente in tutti gli altri punti, deve essere condannato alle spese.

VII – Conclusione

98.      Sulla base delle osservazioni sopra svolte, propongo alla Corte di decidere come segue:

«1)
La Repubblica portoghese è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 39 CE, 43 CE e 49 CE, in quanto:

a)
le imprese straniere che intendono esercitare in Portogallo, nel settore dei servizi di vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose, in base alla normativa che regola il rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministro da Administração Interna:

devono avere la sede o una succursale nel territorio portoghese;

non possono far riferimento ai titoli e alle garanzie già presentati nello Stato membro in cui sono stabilite;

devono essere costituite sotto forma di persona giuridica;

devono possedere un determinato capitale sociale;

b)
il personale delle imprese straniere che intendono esercitare in Portogallo, nel settore dei servizi di vigilanza privata, attività di sorveglianza su persone e cose, deve essere in possesso di un tesserino professionale rilasciato dalle autorità portoghesi.

2)
Il ricorso è respinto per il resto.

3)
La Repubblica portoghese è condannata alle spese».


1
Lingua originale: il tedesco.


2
GU L 209, pag. 25.


3
Diário da República I, Serie A, n. 167, 22 luglio 1998, pag. 3515.


4
Sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165, punto 27).


5
La Commissione cita, a tal proposito, la sentenza 21 giugno 1988, causa 257/86, Commissione/Italia (Racc. pag. 3249, punto 12).


6
La Commissione richiama la sentenza 4 dicembre 1986, causa 205/84, Commissione/Germania (Racc. pag. 3755, punto 54).


7
A sostegno della propria opinione la Commissione cita la sentenza 6 giugno 1996, causa C‑101/94, Commissione/Italia (Racc. pag. I-2691, punto 23).


8
Sentenza 9 marzo 2000, causa C-355/98, Commissione/Belgio (Racc. pag. I-1221, punti 37 e segg.).


9
La Commissione richiama la sentenza 17 dicembre 1981, causa 279/80, Webb (Racc. pag. 3305, punto 20).


10
La Commissione rinvia alla sentenza 7 luglio 1988, causa 143/87, Stanton/Inasti (Racc. pag. 3877, punti 11-13), nonché alla sentenza 15 febbraio 1996, causa C-53/95, Inasti/Kemmler (Racc. pag. I‑703, punti 10 e segg.).


11
La Commissione richiama la sentenza 29 ottobre 1998, causa C-114/97, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑6717, punti 42 e 48).


12
Sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros (Racc. pag. I-1459, in particolare punti 36‑38).


13
Sentenze 10 maggio 1995, causa C-384/93, Alpine Investments (Racc. pag. I-1141), e 14 luglio 1994, causa C‑379/92, Peralta (Racc. pag. I-3453).


14
La Commissione, a sostegno della propria tesi, richiama nuovamente le sentenze Commissione/Germania (cit. alla nota 6, punto 47), e Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punto 40).


15
Sentenza 7 maggio 1991, causa C-340/89, Vlassopoulou (Racc. pag. I-2357, punti 16 e 23).


16
Conclusioni dell’avvocato generale Vilaça, presentate il 22 ottobre 1987, nella causa 63/86, Commissione/Italia (Racc. 1988, pag. 29).


17
Il governo portoghese richiama le sentenze 12 dicembre 1996, causa C-3/95, Reisebüro Broede (Racc. pag. I‑6511); 18 dicembre 1997, causa C-384/95, Landboden-Agrardienste (Racc. pag. I‑7387), nonché 24 marzo 1994, causa C-275/92, Schindler (Racc. pag. I‑1039).


18
Il governo portoghese si riferisce alle sentenze 29 ottobre 1998, causa C‑114/97, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑6717); Commissione/Belgio (cit. alla nota 8), nonché 31 marzo 2001, causa C‑283/99, Commissione/Italia (Racc. pag. I-4363).


19
Cit. alla nota 18.


20
Cit. alla nota 18.


21
Cit. alla nota 18.


22
V. sentenza Gebhard (cit. alla nota 4, punti 25 e segg.).


23
Sentenza Gebhard (cit. alla nota 4, punto 27).


24
Sentenza Gebhard (cit. alla nota 4, punto 27).


25
Conclusioni dell’avvocato generale Léger, presentate il 20 giugno 1995, nella causa C‑55/94, Gebhard (Racc. pag. I‑4165, in particolare pag. I-4168, paragrafo 37).


26
V., sul punto, le conclusioni dell’avvocato generale Léger (cit. alla nota 25, paragrafo 84).


27
Sentenze 4 dicembre 1986, causa 220/83, Commissione/Francia (Racc. pag. 3663, punto 20); Commissione/Germania (cit. alla nota 6, punto 52), e Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punto 27).


28
Sentenze Commissione/Spagna (cit. alla nota 18, punti 35-39); Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punti 24-26), nonché Commissione/Italia (cit. alla nota 18, punti 20 e 22).


29
Sentenza Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punto 29). V., nello stesso senso, anche le conclusioni dell’avvocato generale Jacobs, presentate il 15 febbraio 2001, nella causa C‑283/99, Commissione/Italia (Racc. pag. I‑4363, in particolare pag. I-4365, paragrafo 47).


30
Sentenze 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus (Racc. pag. I-1663, punto 32), e Gebhard (cit. alla nota 4, punto 37).


31
Sentenza Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punti 37 e segg.).


32
«(...) a opçao do legislador pela forma societária resulta do facto de aquela ser, no seu entender, a que se reveste de uma maior segurança e credibilidade. Os ensinamentos da história recente demonstram que a credibilidade das sociedades, no nosso ordenamento interno, é muito superior à que goza por exemplo, o estabelecimento individual de responsabilidade limitada (...)», pagg. 17 e segg. della risposta 23 maggio 2000 alla lettera di diffida 1° febbraio 2000.


33
Sentenza Centros (cit. alla nota 12, punti 26 e segg.).


34
Conclusioni presentate il 30 gennaio 2003, nella causa C-167/01, Kamer van Koophandel/Inspire Art (Racc. pag. I-0000, paragrafi 97-100).


35
V., sul punto, le fondamentali considerazioni svolte nelle mie conclusioni nella causa Inspire Art (cit. alla nota 34, paragrafi 141-146).


36
Sentenza Commissione/Belgio (cit. alla nota 8, punti 39 e segg.).


37
Sentenza nella causa C-340/89 (cit. alla nota 15, punto 16).


38
Sentenze 1° febbraio 1996, causa C-164/94, Aranitis (Racc. pag. I-135, punti 18 e segg.), e 8 luglio 1999, causa C-234/97, Fernández de Bobadilla (Racc. pag. I-4773, punti 16 e segg.).