Conclusioni dell'avvocato generale Tizzano del 21 febbraio 2002. - Procedimento penale a carico di Kenny Roland Lyckeskog. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Hovrätten för Västra Sverige - Svezia. - Questioni pregiudiziali - Obbligo di rinvio pregiudiziale - Nozione di giurisdizione avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno - Interpretazione del regolamento (CEE) n. 918/83 - Regime comunitario delle franchigie doganali. - Causa C-99/00.
raccolta della giurisprudenza 2002 pagina I-04839
Premessa
1. Con ordinanza del 9 marzo 2000 lo Hovrätten för Västra Sverige (Corte d'appello per la Svezia occidentale, in prosieguo: lo «Hovrätten») ha sottoposto alla Corte di giustizia quattro quesiti pregiudiziali ai sensi dell'art. 234 CE. I primi due riguardano proprio tale disposizione, segnatamente il suo terzo comma, e vertono rispettivamente sulla nozione di giurisdizione nazionale cui incombe l'obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale e sulla portata di tale obbligo. Gli altri due quesiti, posti in via subordinata, attengono invece all'interpretazione del regolamento (CEE) n. 918/83 del Consiglio, del 28 marzo 1983, relativo alla fissazione del regime comunitario delle franchigie doganali (in prosieguo: il «regolamento n. 918/83») .
Quadro giuridico
Aspetti concernenti la procedura pregiudiziale
Il diritto comunitario
2. Per quanto riguarda il diritto comunitario, mi limito a ricordare che l'art. 234, terzo comma, CE definisce nei seguenti termini l'obbligo di rinviare alla Corte le questioni menzionate nel primo comma della disposizione:
«Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia».
Il diritto svedese
3. Le giurisdizioni ordinarie svedesi, con competenza in materia civile e penale, si articolano in Tingsrätter (Tribunali), Hovrätter (Corti d'appello, in numero di sei sull'intero territorio svedese) e Högsta Domstolen (Corte suprema). Di regola, l'impugnazione dinanzi alla Corte suprema avverso una sentenza o una decisione definitiva di una Corte d'appello, emessa a sua volta a seguito dell'impugnazione della sentenza di un Tribunale, è subordinata ad una dichiarazione di ammissibilità da parte della stessa Corte suprema, salvo che essa sia stata introdotta dal Procuratore generale presso la Corte suprema nei casi in cui è esercitata l'azione pubblica.
4. Ai sensi dell'art. 10 del capitolo 54 del Rättegångsbalken (codice di procedura), la Corte suprema può pronunciare la dichiarazione di ammissibilità solo se:
«1. è importante per l'applicazione uniforme del diritto che l'impugnazione sia esaminata della Suprema giurisdizione; o
2. sussistono motivi particolari per l'esame dell'impugnazione, quali l'esistenza di motivi di revisione, un vizio di forma ovvero quando la decisione della causa dinanzi alla Corte d'appello riposi manifestamente su un'omissione o un errore grave.»
5. La revisione del processo, regolata dagli artt. 1-3 del capitolo 58 del Rättegångsbalken, è uno dei mezzi straordinari di ricorso con i quali si possono impugnare decisioni passate in giudicato. Il n. 2 del citato art. 10 precisa che essa può essere richiesta quando vengono prodotti nuovi fatti o mezzi di prova che, se fossero stati conosciuti prima del giudizio, avrebbero verosimilmente portato ad una diversa soluzione del caso.
6. L'art. 11 dello stesso capitolo 54 ammette anche la possibilità che la dichiarazione di ammissibilità sia limitata ad uno specifico aspetto del caso, rispetto al quale il controllo riveste una particolare importanza per l'applicazione uniforme del diritto. Quando la Corte suprema giudica dell'ammissibilità dell'impugnazione, essa apprezza tanto i punti di diritto quanto quelli relativi alla prova, non essendo in alcun modo vincolata dall'apprezzamento dei mezzi di prova effettuato dal giudice inferiore.
7. Secondo i dati forniti dal governo svedese nelle osservazioni scritte, su circa 24 000 sentenze rese ogni anno dagli Hovrätter, circa 5 000 formano oggetto di impugnazione dinanzi alla Corte suprema; di queste, tra 150 e 200 circa (in una percentuale quindi tra il 3% e il 4%) sono dichiarate ricevibili.
Aspetti concernenti il regime di franchigia doganale
La normativa comunitaria
8. Per quanto riguarda il merito del giudizio principale, viene in considerazione il regolamento n. 918/83 nella parte in cui esso si preoccupa di determinare i casi particolari nei quali è accordata una franchigia dai dazi della Tariffa doganale comune. Considerato in effetti che l'imposizione di tali dazi non si giustifica in alcune circostanze ben definite, per le quali le condizioni dell'importazione delle merci non richiedono l'applicazione delle misure abituali di protezione dell'economia (secondo considerando), il Consiglio ha provveduto a determinare i «casi nei quali, a motivo di circostanze particolari, è accordata, secondo i casi, una franchigia dai dazi all'importazione o dai dazi all'esportazione al momento dell'immissione in libera pratica di merci nella Comunità o della loro esportazione dalla medesima» (art. 1, n. 1).
9. In primo luogo, quindi, l'art. 1, n. 2, del regolamento precisa alcune definizioni; in particolare, esso prevede che si intendono per:
«a) "dazi all'importazione", i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente, nonché i prelievi agricoli ed altre imposizioni all'importazione previste nel quadro della politica agricola comune o in quello dei regimi specifici applicabili a talune merci risultanti dalla trasformazione di prodotti agricoli;
b) "dazi all'esportazione", i prelievi agricoli e le altre imposizioni all'esportazione previste nel quadro della politica agricola comune o in quello dei regimi specifici applicabili a talune merci risultanti dalla trasformazione di prodotti agricoli;
c) "beni personali", i beni destinati all'uso personale degli interessati o ai bisogni della loro famiglia.
Costituiscono tra l'altro "beni personali":
(...)
le provviste di casa che corrispondono all'approvvigionamento familiare normale (...). I beni personali non devono riflettere, per loro natura o quantità, alcun intento di carattere commerciale;
d) "effetti o oggetti mobili", gli effetti personali, la biancheria di casa, oggetti d'arredamento o beni strumentali destinati all'uso personale degli interessati o ai bisogni della loro famiglia;
e) "prodotti alcolici", i prodotti (birre, vini, aperitivi a base di vino o d'alcole, acquaviti, liquori o bevande alcoliche, ecc.) che rientrano nelle voci da 22 03 a 22 09 della tariffa doganale comune».
10. Al titolo XI il regolamento disciplina le franchigie doganali che gli Stati membri riconoscono alle merci contenute nei bagagli personali di viaggiatori provenienti da paesi terzi. Ai sensi dell'art. 45, e fatti salvi gli artt. 46-49, dette merci sono infatti ammesse in franchigia «purché si tratti di importazioni prive di qualsiasi carattere commerciale».
Il successivo n. 2 chiarisce che si intende:
«a) per "bagagli personali", tutti i bagagli che il viaggiatore è in grado di presentare al servizio delle dogane al momento del suo arrivo nella Comunità, nonché quelli che egli presenta successivamente a questo stesso servizio, purché possa provare che essi sono stati registrati come bagagli accompagnati, al momento della partenza, presso la compagnia che ha assicurato il suo trasporto dal paese terzo di provenienza nella Comunità.
(...)
b) per "importazioni prive di qualsiasi carattere commerciale", le importazioni che:
- «presentano carattere occasionale e
- riguardano esclusivamente merci riservate all'uso personale o familiare dei viaggiatori, o destinate ad essere regalate; tali merci non debbono riflettere, per la loro natura o quantità, alcun intento di carattere commerciale».
11. L'art. 47 precisa che la franchigia di cui all'art. 45 è accordata, per ciascun viaggiatore, nei limiti di un valore complessivo di ecu 175 . Gli Stati membri hanno facoltà di ridurre il valore e/o la quantità delle merci da ammettere in franchigia se queste sono importate da alcune categorie di persone: persone che hanno la residenza in zone di frontiera, lavoratori transfrontalieri, personale dei mezzi di trasporti impiegati nel traffico transfrontaliero.
La regolamentazione svedese
12. Il valore complessivo di ecu 175 indicato dall'art. 47 del regolamento n. 918/83 è stato calcolato dalla Generaltullstyrelsen (direzione generale delle dogane svedesi) e in seguito confermato dal Tullverket come equivalente a SEK 1 700 . Un provvedimento del servizio locale dell'amministrazione delle dogane ha indicato in 20 kg a persona la quantità di riso che può essere importata per uso personale in franchigia dai dazi doganali.
13. La Varusmugglingslagen (1960:418) (legge svedese sul contrabbando delle merci) prevede all'art. 1 che chiunque intenzionalmente e senza effettuarne la dichiarazione alle competenti autorità introduca nel Regno, ovvero esporti, merci per le quali sono dovuti all'erario diritti di confine o altre tasse o tributi, ovvero merci di cui è vietata l'importazione o l'esportazione in forza di disposizioni legislative o costituzionali, è punito con la multa o la reclusione sino a 2 anni di carcere. L'art. 8 della stessa legge dispone che per il tentativo di contrabbando si applica il capitolo 23 del brottsbalken (codice penale), secondo il quale è punito per tale tentativo chiunque, nei casi specificamente previsti, abbia iniziato l'esecuzione di un reato senza concluderla, qualora sussista il pericolo che l'azione possa condurre alla consumazione del reato ovvero l'evento non si verifichi per circostanze meramente fortuite.
Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali
14. Il 7 aprile 1998 il signor Kenny Lyckeskog (in prosieguo: il «Lyckeskog» o l'«imputato»), in provenienza dalla Norvegia con 500 kg di riso, veniva fermato alla frontiera svedese mentre passava dal corridoio verde della dogana al valico di Svinesund e rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Strömstad per tentato contrabbando di 460 kg di riso per un valore di SEK 3 564. I capi di imputazione erano fondati sugli artt. 1 e 8 della legge sul contrabbando, nonché sull'art. 1 del capitolo 23 del codice penale.
15. Nel corso del procedimento dinanzi al Tribunale l'imputato ha ammesso i fatti, ma ha contestato l'imputazione di contrabbando sostenendo che il riso era destinato al consumo personale suo e della sua famiglia. In particolare, il Lyckeskog ha spiegato che, dovendo recarsi per altri motivi in Norvegia accompagnato dalla moglie, si era informato prima del viaggio sulla possibilità di importare legalmente in Svezia merci per un valore massimo di SEK 1 700 a persona. In occasione del viaggio egli aveva quindi acquistato 25 sacchi di riso da 20 kg ciascuno per un totale di NKR 3 400, pagando perciò circa 145 corone norvegesi a fronte delle 240 che avrebbe pagato in Svezia al prezzo corrente in tale Stato. Per contestare l'accusa di contrabbando, l'imputato ha fatto valere che la moglie è di origine asiatica, che con lui vivono anche i tre figli minori, che la famiglia consuma almeno 25 kg di riso al mese e che essi ricevono spesso la visita di una figlia maggiorenne con la relativa famiglia, i cui componenti consumano ugualmente una grande quantità di riso. Per questi motivi, egli poteva stimare che il quantitativo di riso in causa, la cui data limite per il consumo era il novembre 2000, sarebbe stato sufficiente per circa un anno e mezzo.
16. Il Tribunale, dopo aver rilevato che non vi erano elementi atti a porre in dubbio l'affermazione dell'imputato secondo cui il riso era destinato al consumo personale e a quello della sua famiglia, ha riconosciuto che il riso faceva parte del bagaglio personale dell'imputato, ai sensi dell'art. 45 del regolamento n. 918/83, in quanto era stato caricato nella sua autovettura privata. Per quanto però riguarda la condizione prevista dalla medesima disposizione, secondo cui «tali merci non debbono riflettere, per la loro natura o quantità, alcun intento di carattere commerciale», il Tribunale ha ritenuto che essa andasse intesa nel senso che la natura e la quantità delle merci considerate oggettivamente non devono dare adito a dubbi in merito alla qualificazione dell'importazione. Proprio questa sarebbe, del resto, la ratio del provvedimento degli uffici doganali periferici che ha fissato in 20 kg a persona il quantitativo normalmente esente nel caso di importazioni private di riso. Tenuto conto in effetti del considerevole volume di importazioni di riso dalla Norvegia e della necessità di evitare incertezze, il Tribunale ha considerato inevitabile ed anche opportuno che le autorità doganali avessero predeterminato un quantitativo esente da dazi di valore inferiore al limite altrimenti applicabile. Il Tribunale ha quindi concluso nel senso che la circostanza che il riso non fosse destinato alla rivendita - e quindi che fosse destinato ad un uso non commerciale - non costituiva di per sé un'esimente a favore dell'imputato e lo ha condannato ad una multa per tentativo di contrabbando, oltre a disporre la confisca del riso.
17. L'imputato ha impugnato la sentenza del Tribunale chiedendo l'annullamento della condanna, nonché la revoca del provvedimento di confisca. A suo parere, il Tribunale avrebbe erroneamente introdotto, tra l'utilizzo a fini di consumo personale e quello a fini commerciali della merce, una nozione intermedia, cioè l'utilizzo a fini non commerciali, e fissato a tal fine una diversa franchigia. Ma il regolamento n. 918/83 prevede unicamente una franchigia per un importo massimo ecu 175 e pone per essa la sola condizione che le merci siano riservate all'uso personale o familiare. Pertanto le autorità svedesi non avrebbero potuto fissare autonomamente limiti inferiori a quelli stabiliti nel regolamento, né introdurre una nozione di uso a fini non commerciali.
18. Posto di fronte ad una questione che comportava l'interpretazione di disposizioni di diritto comunitario, lo Hovrätten si è chiesto preliminarmente, nell'ordinanza di rinvio, se nella specie esso dovesse considerarsi come una giurisdizione di ultima istanza e quindi, come tale, destinataria dell'obbligo di sottoporre un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE. All'interrogativo lo stesso giudice ha dato risposta positiva, in quanto nell'ordinamento svedese l'impugnazione dinanzi alla Corte suprema è ammissibile soltanto alle condizioni previste dall'art. 10 del capitolo 54 del Rättegångsbalken, più sopra riportate, (paragrafo 3 ss.), cioè soltanto qualora la questione giuridica sia di tale complessità da poter presentare interesse come precedente giurisprudenziale ai fini dell'interpretazione uniforme del diritto, ovvero quando lo Hovrätten abbia giudicato in modo totalmente erroneo la questione di diritto. Un errore non grave nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto comunitario non costituisce invece di per sé, conclude l'ordinanza, un motivo di ammissibilità dell'impugnazione.
19. Essendosi dunque qualificato come una «giurisdizione di ultima istanza» ai sensi dell'art. 234, terzo comma CE, il giudice svedese si è allora posto un ulteriore interrogativo, cioè se fosse davvero necessario sottoporre alla Corte di giustizia le questioni emerse nella causa innanzi ad esso pendente. Lo Hovrätten ricorda, infatti, che proprio la Corte ha ammesso, con la nota giurisprudenza CILFIT, una limitazione dell'obbligo di rinvio di una questione di diritto comunitario quando il giudice nazionale abbia constatato che «la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa [abbia] già costituito oggetto di [interpretazione] da parte della Corte, ovvero che la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi» . Nel caso specifico, però, lo Hovrätten ritiene che le questioni di diritto comunitario sollevate nel procedimento principale non siano del tipo di quelle evocate nella richiamata sentenza, e tuttavia la loro soluzione gli appare ugualmente chiara. Esso si chiede quindi se, nel caso venisse confermata la sua natura di giurisdizione di ultima istanza, sarebbe tenuto ugualmente ad effettuare il rinvio pregiudiziale, pur ritenendo di essere in grado di dirimere la controversia senza l'aiuto della Corte.
20. Alla luce di queste considerazioni, lo Hovrätten ha quindi deciso di sottoporre alla Corte i seguenti quesiti pregiudiziali:
«1) Se un organo giurisdizionale nazionale, che in pratica costituisce il giudice di ultima istanza in una causa in cui l'impugnazione dinanzi alla Corte Suprema nazionale è subordinata ad un esame di ammissibilità, costituisca una "giurisdizione" ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
2) Se una "giurisdizione" ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE possa omettere di chiedere una pronuncia pregiudiziale qualora ritenga chiaro il modo in cui le questioni di diritto comunitario devono essere decise anche se tali questioni non rientrano nella dottrina dell'"acte clair" o "acte éclairé".
Qualora la Corte di giustizia CE risolva in senso negativo la questione sub 1), ovvero risolva in senso affermativo la questione sub 1) e in senso negativo la questione sub 2), lo Hovrätten chiede (ma in caso contrario non ritiene necessario) che vengano risolte i seguenti quesiti:
3) Ai sensi dell'art. 45, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 28 marzo 1983, n. 918, relativo alla fissazione del regime comunitario delle franchigie doganali, fatti salvi gli artt. 46-49, sono ammesse in franchigia dai dazi all'importazione le merci contenute nel bagaglio personale dei viaggiatori provenienti da un paese terzo, purché si tratti di importazioni prive di qualsiasi carattere commerciale. Se ciò comporti che la natura e la quantità delle merci, oggettivamente considerate, non devono dare adito a dubbi sulla natura dell'importazione; ovvero se debbano essere prese in considerazione le abitudini e lo stile di vita dei singoli.
4) Quale rilevanza giuridica abbiano le disposizioni amministrative nazionali che fissano il quantitativo esente da dazi di una determinata merce alla quale si applica il regolamento (CEE) 28 marzo 1983, n. 918, relativo alla fissazione del regime comunitario delle franchigie doganali».
21. Nel corso del procedimento innanzi alla Corte, hanno depositato osservazioni i governi danese, finlandese, svedese e del Regno Unito nonché la Commissione. Delle loro posizioni darò conto via via nell'esame dei singoli quesiti, che passo a svolgere seguendo l'ordine proposto dall'ordinanza di rinvio.
22. Prima però devo ancora segnalare che, per una migliore comprensione della prima questione, la Corte di giustizia ha chiesto al giudice del rinvio di chiarire se il Rättegångsbalken o la pratica giurisdizionale si opponga a che lo Högsta Domstolen possa sollevare una questione pregiudiziale nel corso di una procedura di dichiarazione di ammissibilità di un'impugnazione contro una decisione del lo Hovrätten. Quest'ultimo ha risposto che tale possibilità non è preclusa, anche se la questione non è stata finora affrontata dalla giurisprudenza.
Analisi giuridica
Sul primo quesito
23. Con la prima questione, dunque, lo Hovrätten chiede se, nella situazione sopra descritta, esso possa essere considerato come una giurisdizione di ultima istanza e se quindi abbia l'obbligo di sottoporre un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
1. Gli argomenti delle parti
24. Sulla questione in esame hanno preso posizione tutte le parti intervenute nel procedimento.
25. Per una risposta positiva al quesito si è pronunciato il governo danese, preoccupato del fatto che diversamente si rischierebbe di pregiudicare le finalità perseguite dall'art. 234, terzo comma, CE. Per quel governo, quindi, le giurisdizioni nazionali le cui decisioni possono formare oggetto d'appello solo dopo una dichiarazione di ammissibilità vanno considerate giurisdizioni di ultima istanza ai sensi di detta disposizione.
26. La tesi opposta è sostenuta invece dal governo finlandese e da quello svedese, sulla base anzitutto del formale riferimento da parte dell'art. 234, terzo comma, CE, alle giurisdizioni di ultima istanza. In effetti, secondo quei governi, il semplice fatto che le decisioni dello Hovrätten siano suscettibili di impugnazione è sufficiente ad escludere tali giurisdizioni dall'ambito di applicazione di detta disposizione, in quanto l'esigenza di una dichiarazione di ammissibilità limita, ma non esclude, la possibilità che l'impugnazione venga esaminata dall'istanza superiore. Inoltre, fanno notare quei governi, se l'obiettivo perseguito dall'art. 234 è di evitare che nel diritto nazionale si formi una giurisprudenza incompatibile con il diritto comunitario, va considerato che nel sistema giudiziario svedese la funzione di garanzia dell'uniformità giurisprudenziale è svolta dalla Corte suprema, non dalle corti d'appello. I due governi aggiungono che comunque la soluzione da essi suggerita non presenta rischi per l'uniformità del diritto comunitario. Anzitutto, perché le corti d'appello hanno comunque la facoltà di sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, il che già riduce i rischi di difformità, ma soprattutto perché i casi in cui viene in rilievo l'interpretazione del diritto comunitario e in cui non esiste già una giurisprudenza della Corte di giustizia possono essere considerati in linea generale come casi nei quali la dichiarazione di ammissibilità si impone, con la conseguenza che nel successivo giudizio la Corte suprema dovrà all'occorrenza effettuare essa stessa il rinvio pregiudiziale. Il governo finlandese sottolinea che nel suo paese accade proprio questo e che anzi, secondo la dottrina, la Corte suprema potrebbe decidere il rinvio già da quando comincia l'esame della domanda di ammissibilità dell'impugnazione. D'altra parte, obietta sempre detto governo, se la Corte d'appello fosse considerata anch'essa come una giurisdizione di ultima istanza, si rischierebbe che rispetto al medesimo caso siano destinatarie dell'obbligo del rinvio pregiudiziale non una, ma due giurisdizioni.
27. Anche il governo del Regno Unito fa valere che la sola esigenza di una dichiarazione di ammissibilità di un'impugnazione dinanzi alla Corte suprema non è di per sé sufficiente a trasformare la Corte d'appello in una giurisdizione di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE. Se l'obiettivo specifico di tale disposizione è di evitare che si formi, all'interno di uno Stato membro, una giurisprudenza nazionale non conforme al diritto comunitario, questo obiettivo può essere pienamente realizzato imponendo alla giurisdizione che statuisce sulla dichiarazione di ammissibilità l'obbligo del rinvio pregiudiziale. Ciò vale, dice il Regno Unito, allargando il quadro dell'analisi ad altri sistemi giuridici, incluso appunto quello britannico, tanto se a decidere sull'ammissibilità dell'impugnazione sia competente la stessa giurisdizione che ha emesso la decisione che si vuole impugnare («leave to appeal»), quanto se lo sia invece la giurisdizione suprema («permission to appeal»), o se lo siano prima l'una e poi l'altra. In tutti questi casi, ove risulti necessaria una decisione su una questione di diritto comunitario, la giurisdizione che decide in ultima istanza sull'ammissibilità dovrebbe alternativamente accordare l'autorizzazione o rinviare la questione di diritto comunitario alla Corte di giustizia. Secondo il governo del Regno Unito, quindi, il primo quesito merita una risposta negativa, a condizione che l'ordinamento in causa permetta al giudice di ultima istanza di tener conto dell'obbligo di cui all'art. 234, terzo comma, CE e quel giudice vi si conformi effettivamente in sede di esame dell'autorizzazione.
28. Più articolata è l'analisi che la Commissione sviluppa sul quesito in esame, dato che essa immagina di sposare entrambe le possibili risposte al quesito per meglio valutarne le implicazioni. E' vero, osserva quindi la Commissione collocandosi anzitutto nell'ottica di una risposta positiva, che la necessità di una dichiarazione di ammissione significa che comunque esiste la possibilità di sottomettere il caso ad un nuovo esame. Se però in pratica la proporzione delle richieste accolte è troppo bassa perché è difficile ottenere il riesame del caso, e se l'ammissione non è un diritto perché è sottoposta a determinate condizioni, se ne deve dedurre che in realtà non esiste un diritto di ricorso effettivo. Se si segue questa impostazione, lo Hovrätten, come tutte le giurisdizioni le cui decisioni sono suscettibili d'impugnazione solo a seguito di una dichiarazione di ammissibilità della stessa, sarebbe destinatario dell'obbligo di cui all'art. 234, terzo comma, CE. Il fatto però che un'istanza superiore, lo Högsta Domstolen o il suo equivalente in altri Stati membri, possa accordare una dichiarazione di ammissibilità o di autorizzazione dell'impugnazione comporta che al rispetto di detto obbligo potrebbe essere tenuta anche questa istanza. Ma ciò non dovrebbe creare problemi particolari perché una siffatta eventualità è stata presa in considerazione dalla stessa Corte nella sentenza Parfums Christian Dior, nella quale, come vedremo, essa ha chiarito che, anche se una giurisdizione è obbligata allo stesso titolo di un'altra al rispetto dell'art. 234, terzo comma, CE, non per questo la prima può sottrarsi all'obbligo di rinviare una questione identica o simile alla Corte . Ove dunque si accogliesse questa soluzione, osserva la Commissione, il giudice e le parti avrebbero sì l'assoluta certezza che almeno un'istanza giudiziaria nazionale è tenuta a sollevare davanti alla Corte una questione pregiudiziale, ma ciò aumenterebbe considerevolmente il numero delle giurisdizioni destinatarie di tale obbligo.
29. Nell'ottica di una risposta negativa, invece, la Commissione osserva che, per quanto incerta e condizionata, la possibilità di ottenere la dichiarazione di ammissibilità comunque esiste e dovrebbe indurre quindi a ritenere che un mezzo di ricorso ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE sia previsto. La Commissione riconosce che in tal modo resta incerto individuare la giurisdizione destinataria dell'obbligo del rinvio, ma ritiene che la soluzione dei dubbi vada ricercata negli stessi ordinamenti nazionali, specie in relazione ai margini di libertà da essi concessi, ai fini del rispetto di quell'obbligo, al giudice competente a decidere in ultima istanza sull'ammissione del ricorso. Secondo la Commissione, infatti, è questo giudice che deve garantire, avendo ben presente il principio del primato del diritto comunitario e l'obbligo di proteggere le situazioni giuridiche fondate su tale diritto, che una questione di interpretazione del diritto comunitario sia stata o sia trattata correttamente. Ciò significa che se ritiene che così non sia avvenuto, la giurisdizione competente a pronunciarsi sull'ammissibilità dell'impugnazione deve alternativamente o rinviare la causa alla giurisdizione inferiore, se ciò è ammesso nell'ordinamento de quo, o decidere essa stessa oppure prendere un'altra misura nei limiti consentiti dal proprio ordinamento. In tale contesto essa può quindi decidere direttamente il rinvio alla Corte di giustizia, sia già in sede di esame dell'ammissibilità dell'impugnazione, sia, all'occorrenza, in sede di esame del merito della stessa. Dal punto di vista del diritto comunitario, comunque, l'aspetto più importante, secondo la Commissione, non è tanto sapere quale giurisdizione sia obbligata ad effettuare il rinvio, quanto se esista nel corso della procedura, come vuole la Corte di giustizia, una giurisdizione in grado di garantire che sia assicurata un'interpretazione uniforme del diritto comunitario.
30. In conclusione, pur riconoscendo che entrambe le ipotesi prospettate presentano vantaggi e svantaggi, la Commissione ritiene che, al fine di evitare un aumento eccessivo del numero delle giurisdizioni destinatarie dell'obbligo di cui all'art. 234, terzo comma, CE, occorra dare preferenza alla seconda, e quindi pronunciarsi nel senso che la giurisdizione che decide sull'ammissione dell'impugnazione deve, nei limiti delle possibilità offerte dal proprio ordinamento, assicurare il rispetto del diritto comunitario e quindi essere considerata come giurisdizione di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
2. Lo stato della giurisprudenza comunitaria
31. Prima di prendere posizione sul quesito in esame e sulle soluzioni prospettate dalle parti, mi pare opportuno svolgere un rapido excursus della giurisprudenza della Corte rilevante al riguardo.
32. A tal fine, devo anzitutto ricordare che, per gli aspetti che qui interessano, l'interpretazione dell'art. 234, terzo comma, CE è stata oggetto inizialmente di due opposti orientamenti. Una parte consistente della giurisprudenza degli Stati membri e della dottrina ritenne infatti che l'obbligo del rinvio concernesse solo le giurisdizioni al vertice della piramide giudiziaria dell'ordinamento di appartenenza, vale a dire le corti supreme, in ragione del loro specifico ruolo di garanti dell'uniforme interpretazione della legge e dell'unità del diritto nazionale. Sul fronte opposto, si sostenne invece che l'obbligo in questione trovasse la propria ragion d'essere nella necessità di evitare il formarsi di giudicati definitivi che portino ad un'applicazione differenziata del diritto comunitario. Secondo questa tesi, quindi, per garantire l'effetto utile dell'art. 234, terzo comma, CE occorreva riferire l'obbligo in esso previsto a qualsiasi giudice che si pronunciasse con una decisione definitiva, indipendentemente dalla sua collocazione nella gerarchia dell'ordinamento giudiziario nazionale.
33. La giurisprudenza della Corte di giustizia si orientò subito verso questa seconda tesi. Già nel famoso caso Costa-ENEL, adita in via pregiudiziale dal giudice conciliatore di Milano, competente in prima ed unica istanza in ragione del valore della lite, la Corte affermò incidentalmente che, a norma dell'art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE) «i giudici nazionali le cui sentenze, come nel caso di specie, non sono impugnabili, devono chiedere alla Corte di statuire in via pregiudiziale sull'"interpretazione del Trattato", qualora venga dinanzi ad essi sollevata una questione vertente su detta interpretazione» .
34. Ma ancor più significativa è la successiva sentenza Hoffmann-La Roche, nella quale la Corte fu chiamata a pronunciarsi su una questione di interpretazione dell'art. 177, terzo comma, del Trattato CE sollevata da un giudice tedesco nell'ambito di un procedimento sommario mirante all'adozione di un provvedimento urgente (einstweilige Verfügung). Il fatto che avverso le decisioni emanate nell'ambito di tale procedimento non sussistesse alcun rimedio giurisdizionale, ancorché le parti potessero successivamente promuovere in via ordinaria un'azione avente lo stesso oggetto, aveva indotto il giudice tedesco a chiedere alla Corte se esso fosse tenuto a sollevare la questione pregiudiziale. La Corte affermò che «[n]ell'ambito dell'art. 177, il quale mira a garantire che il diritto comunitario sia interpretato ed applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri, il 3° comma deve particolarmente impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie. Nel caso dei procedimenti sommari e d'urgenza, come quello in esame, relativi a provvedimenti cautelativi, le esigenze imposte da detto scopo sono rispettate se vi è la possibilità di riesame di qualsiasi questione risolta provvisoriamente nel procedimento sommario, nel corso di un giudizio di merito normale, indipendentemente dal fatto che il giudizio debba essere iniziato in ogni caso ovvero solo ad iniziativa del soccombente. In questa situazione è rispettata la finalità specifica dell'art. 177, 3° comma, poiché l'obbligo di rinvio pregiudiziale insorge nell'ambito del giudizio di merito» .
35. Lo stesso orientamento è stato seguito nella sentenza Morson e Jhanjan, nella quale la Corte ribadì, sempre nel quadro di un procedimento d'urgenza, che «lo scopo specifico dell'art. 177, 3º comma, è fatto salvo se l'obbligo di sottoporre alla Corte le questioni pregiudiziali sussiste nell'ambito di un procedimento di merito, anche se questo si svolge dinanzi ad un giudice di una giurisdizione diversa da quella del procedimento sommario, purché, ai sensi dell'art. 177, vi sia la possibilità di sottoporre alla Corte le questioni di diritto comunitario sollevate» .
36. Appare dunque chiaro che la principale preoccupazione della Corte è di salvaguardare la finalità della disposizione in esame, individuata nella necessità di «impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie», come tale idoneo a pregiudicare l'interpretazione e l'applicazione uniforme del diritto comunitario. Proprio per questo motivo, però, detta finalità non deve essere tutelata in modo astratto e formale, ma avendo riguardo alla natura, definitiva o meno, della decisione che viene in rilievo, perché si tratta appunto di evitare che i giudici nazionali prendano posizione su questioni di diritto comunitario senza interrogare la Corte di giustizia nei casi in cui non vi siano successivamente altre istanze competenti a farlo .
37. Se tale esigenza è soddisfatta, perde di importanza anche la questione di sapere in quale procedimento nazionale la questione viene sollevata nei casi in cui più giurisdizioni siano in principio abilitate a farlo. In concreto, com'è noto, una tale ipotesi si è prospettata nel ricordato caso Parfums Christian Dior, nel quale sia pure a titolo diverso, e per ragioni che non occorre qui approfondire, venivano in rilievo sia la giurisdizione della Corte suprema nazionale (lo Hoge Raad) che quella della Corte di giustizia del Benelux. Nella relativa sentenza, sopra citata, la Corte ha constatato che entrambe le corti dovevano essere considerate come giurisdizioni di ultima istanza e quindi destinatarie dell'obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia di cui all'art. 177, terzo comma CE. Ma essa ha altresì chiarito, per l'ipotesi che una di esse si fosse già rivolta alla Corte, che «[t]ale obbligo diventa privo di causa e quindi di contenuto quando la questione sollevata è materialmente identica a una questione già decisa in via pregiudiziale nell'ambito della medesima causa nazionale» (punto 31). Nelle conclusioni presentate nel medesimo caso, l'avvocato generale Jacobs aveva a sua volta sottolineato che, per soddisfare le condizioni poste dal terzo comma dell'art. 177, la Corte deve essere stata adita in una fase del procedimento che sia anteriore alla decisione definitiva del giudice nazionale, in quanto «[l']obiettivo delle norme del Trattato è di impedire che un giudice di uno degli Stati membri, le cui decisioni siano definitive, possa statuire su una questione di diritto comunitario senza che questa Corte si sia pronunciata in via pregiudiziale. In quest'ottica, è scarsamente rilevante in quale procedimento venga chiesta la pronuncia pregiudiziale» .
38. Quanto infine all'individuazione del carattere definitivo di una pronuncia e dei mezzi di impugnazione la cui previsione preclude la definitività della sentenza, la giurisprudenza della Corte non ha avuto occasione di fornire indicazioni di carattere generale. Mi sembrano però molto significative le osservazioni svolte in proposito dall'avvocato generale Capotorti nella citata causa Hoffmann-La Roche. Dopo aver sottolineato che il concetto di mezzo di impugnazione non è affatto univoco nei vari ordinamenti nazionali, l'avvocato generale escludeva da detta nozione sia le impugnazioni di soggetti diversi dalle parti, come ad esempio l'opposizione di terzo o il ricorso del pubblico ministero nell'interesse della legge, sia i c.d. mezzi straordinari di ricorso, come la revocazione della sentenza, per concludere che «le decisioni alle quali si riferisce l'articolo 177, 3º comma, sono tutte quelle che hanno carattere definitivo, nel senso di non dar luogo ad alcun riesame della causa, in fatto o anche soltanto in diritto, su istanza dell'una o dell'altra delle parti e senza bisogno che si verifichino circostanze nuove o presupposti eccezionali» .
3. Valutazione
39. Mi pare che l'ampia indagine fin qui svolta offra tutti gli elementi utili per una risposta al quesito, una risposta - aggiungo - che anche a mio avviso può valere sia in relazione allo specifico sistema svedese, nel quale solo la Corte suprema può dichiarare l'ammissibilità dell'impugnazione, sia in relazione ai sistemi giuridici, cui ho prima accennato, nei quali è (solo o anche) lo stesso giudice che ha reso la decisione oggetto dell'impugnazione a pronunciarsi sull'ammissibilità di quest'ultima.
40. Credo anzitutto anch'io, come quasi tutte le altre parti intervenute nel presente giudizio, che, per quanto l'esigenza di una dichiarazione di ammissibilità limiti la possibilità di un'impugnazione contro le decisioni degli Hovrätter, sia nondimeno incontestabile che tale possibilità sussiste. Aggiungo che ciò è tanto più rilevante ai presenti fini, in quanto, come ricordano sia il governo svedese che quello finlandese, detta impugnazione non si configura come un mezzo straordinario o eccezionale di ricorso, ma come «un'impugnazione in senso stretto», cioè come «una vera via di ricorso ordinaria» nel quadro dei rimedi giurisdizionali apprestati dall'ordinamento; ciò è del resto confermato anche dal fatto, sottolineato dal governo finlandese, che le sentenze degli Hovrätter possono considerarsi definitive solo dopo che è stata respinta la richiesta di autorizzazione all'impugnazione. D'altra parte, lo stesso governo svedese ha ricordato che in alcuni casi (segnatamente in materia penale) perfino l'impugnazione delle sentenze dei tribunali (Tingsrätter) è soggetta ad autorizzazione delle corti d'appello, senza, evidentemente, che sia messo in causa il carattere ordinario di tale via di ricorso. Non c'è dunque alcun motivo perché l'alea della decisione sull'ammissione del ricorso sia invocata nel suo aspetto negativo, cioè per oscurare il dato oggettivo che comunque una possibilità di impugnazione esiste, ed ignorata invece nelle sue implicazioni positive, cioè per mettere quanto meno in dubbio, se non addirittura, per escludere, la natura degli Hovrätter come giudici di ultima istanza. Mi pare al contrario che, in presenza dell'indicata possibilità, questi ultimi non potrebbero essere qualificati, né in senso tecnico né alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte poc'anzi ricordata, come giudici di ultima istanza.
41. In realtà però, come si è visto più sopra, il problema che si pone, in questo come negli analoghi casi poc'anzi ricordati, non è tanto di individuare quale tra le giurisdizioni che vengono in considerazione debba essere formalmente qualificata come giurisdizione di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE, quanto di evitare che, scegliendo la soluzione che individua nella Corte suprema tale giurisdizione, sia messa a rischio la più volte richiamata finalità, perseguita dall'art. 234 CE, di «impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie», come tale atto a pregiudicare l'interpretazione e l'applicazione uniforme del diritto comunitario. Ciò che infatti suscita preoccupazione è la garanzia del rispetto di questa finalità in relazione ad ipotesi, come quelle in esame, nelle quali il giudice competente a decidere l'autorizzazione potrebbe rifiutarla, e quindi mettere la parola fine all'intera procedura, senza che la Corte abbia avuto modo di pronunciarsi sulle questioni di diritto comunitario eventualmente sollevate nel corso della stessa. Da qui le riserve sulle soluzioni che comportano un tale rischio e la ricerca di rimedi idonei a rimuoverlo ove a siffatte soluzioni non si possa sfuggire. E' quanto del resto chiaramente emerge dalle osservazioni di quasi tutte le parti intervenute nel presente giudizio, malgrado la loro concorde valutazione sul fatto che la possibilità di un'impugnazione dinanzi alla Corte suprema escluda in capo allo Hovrätten la natura di giurisdizione di ultima istanza. Direi anzi che lo stesso governo danese, più che un vero dissenso su questa valutazione, ha inteso esprimere una preoccupazione per i rischi che ne potrebbero derivare per l'uniformità di interpretazione del diritto comunitario negli Stati membri.
42. A me sembra però che per rispondere a questa legittima e fondata preoccupazione non occorra forzare la natura delle decisioni degli Hovrätter per trasformarle in decisioni di ultima istanza, o appellarsi alle statistiche sul numero dei ricorsi ammessi, o comunque evocare argomenti estranei all'essenza della questione in discussione. La risposta va invece ricercata nello stesso art. 234 CE e nella natura della collaborazione che esso organizza tra la Corte e le giurisdizioni nazionali. In altri termini, occorre aver presente che questa collaborazione, pur risolvendosi normalmente nel rapporto tra la Corte e il singolo giudice del rinvio, investe in realtà l'intero sistema giudiziario nazionale nella sua organicità e globalità. E' quindi al quadro complessivo del sistema giudiziario in causa e non alla singola giurisdizione che occorre aver riguardo in caso di incertezze o di difficoltà come quelle in esame, onde verificare se tale sistema offra gli strumenti idonei a soddisfare le finalità dell'art. 234 CE. E' proprio seguendo questa linea che, ad esempio, la Corte ha risolto il ricordato caso Parfums Christian Dior, e sempre seguendo questa linea credo che vada risolto anche il caso in esame. Intendo dire, insomma, che quel che qui interessa non è tanto svolgere un astratto esercizio di definizione della natura della giurisdizione che viene in rilievo, quanto verificare se e come, alla luce di una considerazione complessiva del sistema giurisdizionale in causa, quest'ultimo permetta di assicurare il rispetto delle finalità dell'art. 234 CE.
43. Tornando allora alla preoccupazione che ho esposto negli ultimi paragrafi, a me pare che un punto vada fissato con assoluta chiarezza, cioè che in via di principio giurisdizioni come la Corte suprema svedese, in quanto appunto giurisdizioni di ultima istanza, sono pienamente tenute al rispetto dell'obbligo sancito dall'art. 234, terzo comma, CE, a meno che lo stesso ordinamento di appartenenza non offra loro la possibilità di sottrarsi a tale obbligo senza violare quella disposizione. Sarebbe questo, ad esempio, il caso in cui fosse consentito a tali giurisdizioni, una volta rilevata la sussistenza di una questione di diritto comunitario, di non procedere direttamente al rinvio pregiudiziale, ma di rimettere la causa al giudice inferiore perché vi provveda. In tal caso, evidentemente, non si porrebbero problemi di rispetto dell'art. 234 CE, perché, ripeto, quel che interessa al diritto comunitario è che la finalità perseguita da detta disposizione sia comunque assicurata, non che ad assicurarla sia quel determinato giudice o un altro. Ma a parte ipotesi siffatte, l'obbligo del rinvio pregiudiziale si impone a quelle giurisdizioni senza riserve, perfino se l'ordinamento di appartenenza non prevedesse per esse la possibilità di procedervi nell'ambito di determinate procedure. In questi casi, invero, quale che sia lo stato del diritto nazionale, l'obbligo del rinvio discenderebbe direttamente dall'art. 234 CE e dal primato del diritto comunitario, dato che quelle giurisdizioni, come ha insistentemente sottolineato la Corte di giustizia, sono comunque tenute ad assicurare il rispetto dell'obbligo in questione.
44. Alla luce di quanto precede e degli elementi emersi in corso di causa, mi sembra che sia ora più agevole rispondere allo specifico quesito sollevato nel presente caso. In primo luogo, ricordo che, ai sensi del suo stesso diritto nazionale, la Corte suprema svedese deve dichiarare l'ammissibilità di un'impugnazione quando questa coinvolga questioni che mettono in causa l'applicazione uniforme del diritto in quell'ordinamento. Ora, è evidente che una questione di interpretazione del diritto comunitario ricade proprio in questa ipotesi, come hanno del resto espressamente confermato tanto il governo svedese quanto quello finlandese; quest'ultimo ha addirittura segnalato l'esistenza di una prassi e di orientamenti della dottrina in tal senso.
45. Aggiungo poi che, rispondendo ad un apposito quesito posto dalla Corte di giustizia, il giudice del rinvio ha chiarito che, anche se non vi sono ancora precedenti in tal senso, non esistono preclusioni nell'ordinamento svedese a che, qualora sorga una questione pregiudiziale di diritto comunitario nel corso dell'esame di ammissibilità di un'impugnazione contro una decisione dello Hovrätten, lo Högsta Domstolen si rivolga direttamente alla Corte di giustizia. Non è invece chiaro se esso possa, in tale sede, rifiutare l'autorizzazione, e al tempo stesso rimettere la causa allo Hovrätten perché proceda esso al rinvio. Se anche così fosse, comunque, il rispetto dell'art. 234 CE sarebbe salvaguardato.
46. Fatta salva però quest'ultima ipotesi, nulla autorizza lo Högsta Domstolen, come ho detto, a sottrarsi all'obbligo di rivolgersi alla Corte di giustizia se una questione di diritto comunitario è sollevata innanzi ad esso e sempre beninteso che ricorrano le altre condizioni prescritte dall'art. 234, terzo comma, CE e precisate dalla giurisprudenza della Corte. Esso potrà procedervi ovviamente in sede di esame del merito dell'impugnazione, ove abbia accolto la richiesta di ammissione della stessa. Ma potrà anche procedervi già in sede di esame di tale richiesta, specie se fosse orientato a respingerla. In questo caso, anzi, ove la successiva risposta della Corte non fosse conforme alla decisione dello Hovrätten, e una remissione della causa a quest'ultimo non fosse possibile, lo Högsta Domstolen sarebbe addirittura tenuto ad ammettere l'impugnazione onde dar seguito all'interpretazione della Corte. Ciò sia a motivo degli obblighi che in tal senso derivano dall'art. 234 CE, sia perché la stessa legge svedese impone alla Corte suprema di ammettere l'impugnazione se è importante per l'applicazione uniforme del diritto.
47. Nell'uno o nell'altro caso, dunque, il rispetto dell'art. 234 CE sarebbe assicurato e nessun rischio deriverebbe perciò dalla soluzione appena illustrata in relazione alle finalità perseguite da questa disposizione, o, almeno, non più di quanti se ne prospettino nelle analoghe e meno problematiche situazioni.
48. Alla luce degli argomenti esposti propongo quindi di rispondere al primo quesito nel senso che una giurisdizione nazionale le cui decisioni possono essere impugnate subordinatamente ad un esame di ammissibilità dell'impugnazione non costituisce in linea di principio una giurisdizione di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
Sul secondo quesito
1. Premessa
49. Con tale quesito, e muovendo appunto dall'ipotesi che nella specie gli incomba l'obbligo di cui al terzo comma dell'art. 234 CE, lo Hovrätten si chiede se esso possa nondimeno omettere di procedere al rinvio pregiudiziale qualora ritenga, come nella specie ritiene, che le questioni di diritto comunitario sollevate nella causa dinanzi ad esso pendente siano «chiare», e ciò anche se, prosegue lo Hovrätten con evidente allusione alla ricordata giurisprudenza CILFIT, non ricorrano nella specie le condizioni indicate in tale sentenza, in particolare se le questioni non rientrino nella dottrina dell'«acte clair» o «acte éclairé».
2. Gli argomenti delle parti
50. Su tale quesito hanno preso posizione solo il governo danese e la Commissione, e sia l'uno che l'altra hanno colto a pretesto la genericità e la sommarietà del quesito medesimo per suggerire una riconsiderazione, più o meno ampia, della giurisprudenza CILFIT.
51. Il governo danese auspica in effetti, per ragioni sia di principio che pratiche, un riesame di tale giurisprudenza da parte della Corte, tanto più che essa risale ormai a circa venti anni fa. A tal fine, quel governo sposa integralmente le conclusioni dell'avvocato generale Jacobs nel caso Wiener , nelle quali si sottolineava come l'espansione del diritto comunitario a nuovi campi e il notevole incremento della relativa legislazione comportino inevitabilmente anche un aumento dei rinvii pregiudiziali alla Corte. Tuttavia, come osservava l'avvocato generale, un eccesso di siffatti rinvii rischierebbe di pregiudicare la qualità, la coerenza e perfino l'accessibilità della giurisprudenza comunitaria e potrebbe addirittura rivelarsi controproducente dal punto di vista dell'obiettivo, perseguito dall'art. 234 CE, di garantire l'applicazione uniforme del diritto comunitario nell'insieme dell'Unione. Per contro, la limitazione dell'obbligo del rinvio non solo non metterebbe necessariamente a repentaglio la certezza del diritto, ma potrebbe addirittura giovarle; inoltre, essa presenterebbe il vantaggio di alleggerire il carico di lavoro della Corte e di ridurre i tempi delle procedure. Per questi motivi, e muovendo dalla premessa che la funzione della Corte ex art. 234 CE non è tanto di assicurare che il diritto comunitario sia correttamente applicato ogni volta che una questione ad esso relativa si ponga in un giudizio nazionale, quanto che esso si applichi in modo uniforme in tutta la Comunità, l'avvocato generale Jacobs proponeva di limitare i rinvii ai casi in cui esista «un'autentica necessità di applicazione uniforme del diritto in tutta la Comunità perché la questione è di interesse generale» (paragrafo 50). In effetti, considerato che i giudici nazionali sono diventati sempre più familiari con il diritto comunitario e che questo è oggetto ormai di un'ampia e consolidata giurisprudenza, cui quei giudici possono far autonomamente ricorso, è possibile ipotizzare, secondo l'avvocato generale Jacobs, un'autolimitazione dei rinvii pregiudiziali sia da parte degli stessi giudici nazionali, eventualmente sulla base di linee guida elaborate dalla stessa Corte, sia anche da parte di quest'ultima, che potrebbe «esercitare un'autolimitazione, attenendosi a problemi più generali di interpretazione» (paragrafo 45). Senza dunque, almeno per l'essenziale, rimettere in discussione la giurisprudenza CILFIT, l'avvocato generale concludeva nel senso che le condizioni da essa indicate «dovrebbero applicarsi solo nei casi in cui un rinvio è davvero opportuno per raggiungere gli obiettivi dell'art. 177, vale a dire quando si è in presenza di una questione generale e quando sussiste un'autentica necessità di un'interpretazione uniforme» (paragrafo 64).
52. Nel far proprie tali conclusioni, il governo danese ricorda altresì che in senso analogo si è pronunciato lo stesso gruppo di esperti istituito dalla Commissione nell'autunno del 1999 per svolgere una riflessione sul futuro del sistema giurisdizionale delle Comunità europee. Nella sua relazione conclusiva , infatti, tale gruppo ha ugualmente raccomandato, da un lato, di incoraggiare le giurisdizioni nazionali ad applicare più spesso esse stesse il diritto comunitario e, dall'altro, di limitare l'obbligo imposto alle giurisdizioni di ultima istanza ai casi in cui «la questione rivesta sufficiente importanza per il diritto comunitario» e sussistano sulla sua soluzione, dopo l'esame da parte delle giurisdizioni inferiori, «dubbi ragionevoli». Ad avviso del governo danese, la Corte dovrebbe ispirarsi a tali criteri, attenuando i criteri eccessivamente restrittivi della sentenza CILFIT, sia in generale sia in rapporto alle specificazioni di tali criteri sviluppate nella stessa sentenza. In particolare, ciò vale per l'affermazione secondo cui il giudice nazionale può astenersi dal rinvio ove maturi il convincimento che la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con evidenza e che con la stessa evidenza essa «si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte di giustizia» (CILFIT, punto 16). Un siffatto criterio, infatti, non presuppone, secondo il governo danese, l'assenza di «dubbi ragionevoli», ma l'assenza di dubbi tout court. Richiamandosi infine ancora una volta alle conclusioni dell'avvocato generale Jacobs nel caso Wiener (paragrafo 65), il governo danese sollecita la Corte a sopprimere anche il criterio, indicato sempre nella sentenza CILFIT, secondo cui il giudice nazionale dovrebbe essere convinto dell'evidenza della soluzione della questione interpretativa tenendo presente anche la difficoltà di comparare le diverse versioni linguistiche di una disposizione comunitaria.
53. Dal canto suo, la Commissione ritiene di non dover rimettere in discussione le condizioni stabilite dalla Corte nel caso CILFIT, ad eccezione del criterio secondo cui l'interpretazione del diritto comunitario s'imponga «con tale evidenza» da non lasciare alcun dubbio ragionevole al riguardo. In proposito, essa ricorda le recenti modifiche apportate all'art. 104, n. 3, del regolamento di procedura della Corte , al fine di autorizzare quest'ultima a rispondere con ordinanza motivata ad un rinvio pregiudiziale non solo, come prima stabilito, qualora «una questione pregiudiziale sia [manifestamente] identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito», ma anche «qualora la soluzione di tale questione possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o qualora la soluzione della questione non dia adito a ragionevoli dubbi». Il fatto che l'ultima condizione posta dall'art. 104, n. 3, non sia accompagnata dalla precisazione che la mancanza di dubbi ragionevoli deve risultare «con evidenza», come dice la sentenza CILFIT, potrebbe essere considerato un indizio nel senso che quest'ulteriore condizione non sia più necessaria e che si potrebbe quindi fare riferimento solo all'assenza di «dubbi ragionevoli». Ciò tanto più, osserva la Commissione, che l'esperienza prova che i giudici nazionali esitano a riconoscere l'«evidenza» di una situazione e che il criterio dell'evidente assenza di ogni ragionevole dubbio pare impossibile da rispettare.
54. Venendo al caso di specie, e dopo aver sottolineato che le deroghe ai principi stabiliti dal Trattato vanno interpretate restrittivamente, la Commissione osserva che il giudice del rinvio non ha precisato in che senso e in che modo la questione di interpretazione del diritto comunitario si ponga in questo caso con «chiarezza». In ogni caso, esso deve attenersi al principio secondo cui la sua risposta non deve lasciare alcun ragionevole dubbio, tenuto conto delle diverse versioni linguistiche, della terminologia e delle nozioni giuridiche, così come degli obiettivi e dello stadio di evoluzione del diritto comunitario. Solo in presenza di tali condizioni il giudice può astenersi dal rinvio e risolvere la questione sotto la propria responsabilità ai sensi della giurisprudenza CILFIT, ma la sussistenza di queste condizioni deve essere motivata in modo da consentirne una verifica obiettiva, al fine di assicurare che le finalità dell'art. 234 non siano eluse. La Commissione propone quindi di rispondere in senso negativo al secondo quesito, cioè nel senso che un giudice di ultima istanza non può astenersi dall'obbligo del rinvio se sussiste un dubbio ragionevole quanto alla soluzione di una questione di applicazione del diritto comunitario, tenuto conto delle diverse versioni linguistiche facenti ugualmente fede, della terminologia, delle finalità e dello stadio di evoluzione del diritto comunitario.
3. La giurisprudenza CILFIT
55. Prima di passare ora alla valutazione delle tesi in campo, mi pare opportuno richiamare rapidamente, ma più puntualmente, i termini della giurisprudenza CILFIT qui rilevanti ed il contesto nel quale essa è stata definita.
56. Com'è noto, tale giurisprudenza è nata sotto la spinta di contrastanti esigenze tra le quali ha tentato di trovare un ragionevole punto di equilibrio, anche se non è riuscita a comporre definitivamente, come conferma ancora questo caso, le discordanti valutazioni. Da un lato, in nome delle esigenze d'ordine pratico più sopra ricordate, si sottolineava la necessità di evitare un eccessivo afflusso di rinvii pregiudiziali, eventualmente facendo leva sul fatto che l'uso del termine «questione» nell'art. 234 CE sottintenderebbe comunque l'esistenza di un dubbio interpretativo, oppure ricorrendo al noto principio «in claris non fit interpretatio» o, sulle orme della giurisprudenza francese, alla teoria c.d. dell'«acte clair» o «acte éclairé». Dall'altra parte, si insisteva sulla fondamentale funzione dell'art. 234 di assicurare l'uniformità dell'interpretazione del diritto comunitario, per denunciare il rischio che eventuali crepe nel meccanismo del rinvio avrebbero potuto portare, per la loro inevitabile tendenza espansiva e per il rischio di una loro diversificata utilizzazione nella prassi, ad un progressivo indebolimento dell'intero sistema.
57. Questa divergenza, emersa in modo più vivace già nei primi anni di applicazione del Trattato CE, si attenuò col tempo ed in pratica non riemerse fino appunto alla sentenza CILFIT. Il che non vuol dire che nel frattempo tutto fosse andato per il verso giusto; al contrario, la prassi delle giurisdizioni nazionali risultò tutt'altro che lineare ed in alcuni casi rivelò elusioni anche clamorose dell'obbligo di cui al terzo comma dell'art. 234 CE. Dal canto suo, anche la Corte sembrò col tempo attenuare l'iniziale atteggiamento di assoluta rigidità, per un insieme di ragioni sulle quali non occorre qui soffermarsi se non per segnalare che tra di esse c'era anche, ma non solo, il consistente incremento che rapidamente subirono il numero e la complessità dei rinvii pregiudiziali. D'altra parte, l'idea che l'art. 234 CE implichi non una sovraordinazione, ma una collaborazione tra Corte e giudici nazionali - idea inizialmente apparsa più sfocata e poi insistentemente valorizzata nella giurisprudenza comunitaria in senso autenticamente bilaterale e come qualificante dell'intero sistema - incoraggiava a sua volta un'interpretazione dell'obbligo del rinvio pregiudiziale in termini meno meccanici ed automatici e portava quindi necessariamente a riconoscere un ruolo più attivo e coinvolgente ai giudici nazionali, anche se di ultima istanza.
58. E' in questo contesto e da queste premesse che trae origine la giurisprudenza CILFIT. Anzitutto, quindi, essa ha cercato di far fronte alla segnalata esigenza di evitare rinvii superflui che avrebbero inutilmente appesantito l'attività della Corte e pregiudicato l'efficace esercizio del compito affidatole dall'art. 234 CE. A questo fine si è ritenuto opportuno, malgrado la rigida formulazione del terzo comma della disposizione, lasciare ai giudici nazionali di ultima istanza un qualche margine di apprezzamento per permettere loro di valutare l'effettiva necessità del rinvio. Conseguentemente, come ho già ricordato, la Corte ha ammesso la possibilità di limitare l'obbligo di questi giudici di sottoporre in via pregiudiziale una questione di diritto comunitario quando si constati che «la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa abbia già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte ; ovvero che la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi» .
59. Proprio con riferimento a quest'ultima condizione, tuttavia, la Corte ha introdotto una serie di cautele, tese a contenere il margine di discrezionalità delle giurisdizioni nazionali e a salvaguardare quindi, malgrado gli spiragli che la giurisprudenza CILFIT apriva, l'obiettivo fondamentale dell'art. 234 CE di garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri e più in particolare, per quanto concerne il terzo comma della disposizione, di «evitare che si producano divergenze giurisprudenziali all'interno della Comunità su questioni di diritto comunitario» . Nel riconoscere quindi che «la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata», la Corte avvertiva che «(p)rima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte di giustizia» (punto 16). Non solo, ma «la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all'interno della Comunità» (punto 21). In particolare, va «considerato che le norme comunitarie sono redatte in diverse lingue e che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura: l'interpretazione di una norma comunitaria comporta quindi il raffronto di tali versioni». Ma «anche nel caso di piena concordanza delle versioni linguistiche [va osservato] che il diritto comunitario impiega una terminologia che gli è propria. D'altronde, va sottolineato che le nozioni giuridiche non presentano necessariamente lo stesso contenuto nel diritto comunitario e nei vari diritti nazionali.
Infine, ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell'insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi» (punti 18-20).
4. Valutazione
60. Venendo ora al caso di specie, devo anzitutto ribadire che la sommarietà dell'ordinanza di rinvio su questo punto non agevola l'esatta comprensione del quesito posto dallo Hovrätten. Dal contesto del giudizio a quo è comunque evidente che, pur con qualche ambiguità, delle tre condizioni indicate in CILFIT lo Hovrätten ha in mente la terza. E' infatti fuori discussione la pertinenza della questione interpretativa dell'art. 45, n. 1, del regolamento n. 918/83 ai fini della soluzione del caso pendente davanti al giudice svedese; d'altro canto, non esiste una giurisprudenza della Corte sulla norma in questione .
61. Ma con ciò non si è detto ancora niente, perché in realtà lo Hovrätten si interroga sulla sussistenza dell'obbligo del rinvio alla Corte ex art. 234, terzo comma, CE in riferimento ad una questione di diritto comunitario «chiara», preoccupandosi tuttavia di precisare che tale ipotesi non rientrerebbe tra i casi - come per esempio quello dell'«atto chiaro» - nei quali una giurisdizione di ultima istanza può, ai sensi della giurisprudenza della Corte, astenersi dal rinvio. Il riferimento a CILFIT è dunque evidente, tuttavia l'ipotesi considerata dallo Hovrätten, a suo stesso dire, si differenzierebbe da quella, evocata appunto in CILFIT, di una questione la cui soluzione «si impone con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata». Si tratterebbe qui, infatti, semplicemente di una questione la cui soluzione è «chiara».
62. Prescindo per ora dai pur giusti rilievi della Commissione sulla estrema genericità del quesito e sull'assenza di ogni motivazione dello stesso, e prescindo altresì dal fatto che, come vedremo più avanti, le questioni di merito sollevate nell'ordinanza di rinvio non appaiono affatto così «chiare» come questa pretende. Quel che mi preme qui sottolineare è che lo Hovrätten sembra proporre una sorta di ulteriore articolazione o di specificazione della terza condizione enunciata in CILFIT prospettandone una versione più limitata e direi più «soggettiva», perché imperniata sulla semplice convinzione del giudice nazionale di essere in grado di risolvere autonomamente una questione, in quanto priva di difficoltà interpretative e quindi di «chiara» soluzione.
63. Bastano già queste osservazioni per giustificare le forti perplessità che susciterebbe una eventuale risposta positiva al quesito in esame. Perplessità che derivano, da un punto di vista generale, dal fatto che una siffatta risposta finirebbe con l'estendere sensibilmente l'area della discrezionalità del giudice nazionale e, di conseguenza, con il ridurre ulteriormente la portata dell'obbligo del rinvio imposto ai giudici di ultima istanza dal terzo comma dell'art. 234 CE; esse derivano però ancor più specificamente dal fatto che ciò avverrebbe introducendo, in modo del tutto arbitrario, forti elementi di incertezza e di soggettività, e quindi di confusione, nell'applicazione di quella disposizione.
64. Per giustificare ed anzi rafforzare tali perplessità, credo sia opportuno ricordare che il principio dell'obbligatorietà del rinvio pregiudiziale per i giudici di ultima istanza non è frutto di una scelta estemporanea della Corte, ma trova il suo preciso e formale fondamento direttamente nel Trattato e costituisce anzi, per le sue finalità e per le sue implicazioni, uno dei principi fondamentali e più qualificanti, direi quasi un principio strutturale, dell'ordinamento giuridico comunitario. Inutile dire, quindi, che ogni eventuale deroga allo stesso deve essere di rigorosa interpretazione. Proprio muovendo da tale assunto, del resto, si è di recente autorevolmente sottolineato che, dopo la giurisprudenza CILFIT, sarebbe difficile per la Corte allentare ulteriormente il rigore del principio in questione restando allo stesso tempo fedele alla lettera e allo spirito del Trattato .
65. Ora, a parte il fatto che nel caso in esame non sono chiari il senso e la portata dell'ulteriore deroga che si vorrebbe apportare al principio, devo dire che comunque di una siffatta deroga non solo non si avverte in alcun modo né l'utilità né la necessità, ma si avvertono, al contrario, tutti i rischi in essa insiti. La giurisprudenza CILFIT, in effetti, ha inteso offrire un complesso coerente e responsabile di indicazioni utili ad orientare con ragionevole equilibrio i giudici nazionali; tuttavia credo che neppure la Corte si illudesse di aver con ciò individuato criteri sicuri e definitivi, per non dire infallibili, per la definizione dell'obbligo di cui all'art. 234, terzo comma, CE. Malgrado tale giurisprudenza, infatti, è la natura stessa del problema a precludere soluzioni siffatte, perché l'applicazione della disposizione si presta oggettivamente nella prassi - né potrebbe essere altrimenti - a sopportare margini di «elasticità» e quindi a lasciare comunque aperto qualche spiraglio, anche al di là delle intenzioni dei giudici, a possibili elusioni dell'obbligo del rinvio. Il fatto che questo non sempre emerga o non sempre porti a sviluppi significativi non vuol dire che nella prassi tutto proceda alla perfezione, ma dipende piuttosto dalla circostanza che talvolta l'elusione resta sconosciuta o appare di rilievo minore, e soprattutto dipende dall'assenza di un efficace meccanismo di controllo e di reazione o, meglio, dal carattere puramente teorico, nella specie, di quello esistente. E' infatti noto che la Commissione (e non solo essa) considera giustamente poco praticabile e ancor meno opportuna, in questi casi, la via del ricorso per inadempimento ai sensi dell'art. 226 CE. Ma, ripeto, il problema esiste ed anzi di tanto in tanto riaffiora in modo anche vistoso . Ora, proprio le difficoltà oggettive cui dà luogo già di per sé l'applicazione della giurisprudenza CILFIT dovrebbero sconsigliare l'introduzione di ulteriori elementi di incertezza e di ambiguità nella materia e soprattutto di passare da una linea interpretativa ancorata a criteri di valutazione per quanto possibile obiettivi ad un'altra che lasci comunque spazio ad apprezzamenti subiettivi, per non dire arbitrari, da parte dei giudici nazionali. Non credo di drammatizzare se osservo che, diversamente, si imboccherebbe la via verso una rottura progressiva dell'unità e dell'uniformità del diritto comunitario e, in definitiva, del suo stesso primato.
66. Detto questo, potrei anche considerare conclusa la mia analisi se non si rendesse necessario spendere ancora qualche parola sugli argomenti svolti dalla Danimarca, ma in qualche misura anche dalla Commissione, sulla necessità di rivedere la giurisprudenza CILFIT. Come ho prima ampiamente ricordato, infatti, nella sua memoria tale governo, riecheggiando le preoccupazioni espresse dall'avvocato generale Jacobs e riprese dalla citata relazione del gruppo di riflessione sul futuro del sistema giurisdizionale delle Comunità europee, sollecita apertamente un'attenuazione dei criteri della giurisprudenza CILFIT, considerati troppo rigidi e quindi inidonei ad evitare i rischi di un eccessivo afflusso di rinvii pregiudiziali. In particolare, esso ripropone l'idea di limitare l'obbligo imposto alle giurisdizioni di ultima istanza dall'art. 234 CE ai casi in cui «la questione rivesta sufficiente importanza per il diritto comunitario e sussistano dubbi ragionevoli sulla sua soluzione».
67. Non intendo in via di principio contestare la fondatezza delle preoccupazioni che sono alla base delle proposte in esame e neppure l'utilità di alcune di queste, a cominciare, in particolare, da quelle relative alle giurisdizioni che non si pronunciano in ultima istanza (penso ad esempio all'esigenza di incoraggiare un'autolimitazione nei rinvii da parte di tali giudici). Vorrei anzitutto ricordare però che, successivamente alle proposte in esame, sono intervenute le importanti modifiche del regolamento di procedura della Corte che più sopra ho ricordato (paragrafo 53) e che almeno in parte tali modifiche vanno appunto incontro alle segnalate preoccupazioni, dato che, come la prassi già si sta incaricando di dimostrare, consentono di risolvere con procedure più semplici e più rapide una serie di questioni per così dire meno problematiche.
68. D'altra parte, credo che queste preoccupazioni non vadano neppure esagerate, specie se si ha riguardo al contesto generale e ai problemi cui quasi tutte le giurisdizioni moderne devono far fronte. In effetti, il numero complessivo dei rinvii pregiudiziali è ancora contenuto rispetto alla grande e crescente quantità dei casi in cui nei giudizi nazionali si pone una questione di diritto comunitario e lo è ancor più se si considera l'elevato numero delle giurisdizioni abilitate al rinvio e dei giudizi instaurati innanzi ad esse. Ma queste preoccupazioni mi appaiono addirittura fuori luogo quando le si riferisca, come accade in questo caso, alle giurisdizioni di ultima istanza, perché il numero dei rinvii pregiudiziali decisi da tali giurisdizioni è sempre stato, e tuttora è, molto ridotto, e ciò sia in assoluto sia in percentuale rispetto al numero complessivo di questi rinvii .
69. Mi pare quindi che non sia in tale direzione che si possa utilmente incidere per far fronte alle segnalate preoccupazioni e che comunque i vantaggi che se ne trarrebbero sarebbero davvero troppo modesti per giustificare, se mai fosse possibile o lo si volesse, le implicazioni negative ed i rischi insiti in dette proposte. Basti pensare al pericolo di rendere ancor più difficile agli interessati ottenere un'ordinanza di rinvio da parte di giurisdizioni che, come prova l'esperienza, non dimostrano una spiccata vocazione ad assecondare siffatte richieste e che già hanno (o si prendono) di fatto sufficienti spazi di autonomia. Il che rischierebbe non solo di limitare la tutela giurisdizionale dei privati, ma si rifletterebbe inevitabilmente sulla stessa interpretazione ed applicazione uniforme del diritto comunitario. Proprio la Corte ha però più volte ricordato che il sistema del rinvio pregiudiziale costituisce la vera chiave di volta per la salvaguardia del carattere comunitario del diritto istituito dai trattati, perché ne tutela l'unità e gli consente di esplicare gli stessi effetti in tutta l'Unione, garantendo al tempo stesso l'effettiva tutela giurisdizionale dei privati . Può anche darsi allora che la Corte incontri o sia destinata ad incontrare problemi per l'afflusso di rinvii pregiudiziali; è mia ferma convinzione tuttavia che esigenze di carattere pratico e contingente, per quanto legittime e comprensibili, non possono essere soddisfatte a scapito dei principi e della coerenza del sistema e ancor meno inducendo la Corte ad abdicare dalle responsabilità ad essa imposte dal Trattato.
70. Le perplessità d'ordine generale fin qui manifestate si accrescono poi quando si passa a considerare le proposte in esame nel loro specifico merito. In effetti, il criterio che fa leva sulla «sufficiente importanza» della questione pregiudiziale di diritto comunitario mi pare, come del resto almeno in parte riconoscono gli stessi suoi fautori, così vago ed incerto che viene fin troppo naturale immaginare il rischio cui esso si presterebbe di dare adito a ricorrenti contenziosi e soprattutto di lasciare eccessivo spazio alla discrezionalità dei giudici nazionali (e ricordo che parliamo qui dei giudici di ultima istanza). Devo aggiungere che mi riesce anche difficile comprendere quella che resta, a mio parere, la più seria motivazione di tale proposta, cioè l'idea che alla Corte non spetta di garantire che il diritto comunitario sia applicato correttamente nei singoli giudizi, ma solo che esso sia applicato in modo uniforme. Mi chiedo infatti se sia possibile scindere i due aspetti, applicazione corretta e interpretazione uniforme; se sia cioè possibile ipotizzare una corretta applicazione del diritto comunitario in un caso concreto senza che vi sia stata, ove necessario, una previa interpretazione uniforme dello stesso.
71. Ma non mi convince neppure l'altra proposta che viene avanzata in materia, quella cioè di escludere l'obbligo del rinvio solo nelle ipotesi in cui la soluzione della questione di diritto comunitario non sollevi «dubbi ragionevoli», senza che sia altresì necessario, come emerge dalla sentenza CILFIT, che l'insussistenza di tali dubbi risulti «con evidenza». Vorrei anzitutto chiarire in proposito che l'esigenza di tale evidenza non costituisce una condizione ulteriore, una sorta di requisito aggiuntivo che la Corte richiede al fine di esimere la giurisdizione dall'obbligo del rinvio; si tratta invece di una qualificazione del «dubbio ragionevole», tesa a sottolineare non solo che tale dubbio deve davvero esserci, ma che esso non deve essere meramente soggettivo. Si tratta cioè di una specificazione che, allo stesso modo di quella sulla comparazione delle versioni linguistiche dei testi, di cui dirò tra breve, vuole richiamare l'attenzione sulla particolare cautela che si impone al giudice nazionale prima di escludere la sussistenza di ogni ragionevole dubbio. Sopprimere nella citata sentenza l'inciso «di tale evidenza» non renderebbe quindi più «ragionevole» il dubbio, ma lo esporrebbe solo ad un più alto tasso di soggettività e discrezionalità . Proprio questo, però, mi sembra essere in ultima analisi - anche al di là delle intenzioni dei suoi sostenitori - il risultato della proposta in esame, altrimenti non credo che varrebbe la pena ingaggiare una battaglia lessicale in una situazione in cui la sentenza CILFIT ha comunque già concesso ai giudici di ultima istanza un significativo margine di apprezzamento.
72. Ora, sul fatto che tale margine sia già sufficientemente ampio e che sia rischioso estenderlo ulteriormente, mi sono già pronunciato più volte in precedenza. Quel che vorrei qui sottolineare è che a valutazioni non diverse era pervenuto lo stesso committente della ricordata relazione del gruppo di riflessione, cioè la Commissione europea, malgrado la posizione più possibilista che essa ha invece preso nella presente causa. I vantaggi delle proposte in esame, osservava infatti la Commissione, sono molto limitati quanto al carico di lavoro della Corte, mentre reali sono invece, specie nella prospettiva dell'allargamento dell'Unione, i rischi per l'applicazione uniforme del diritto comunitario, e concludeva quindi sollecitando il mantenimento del testo attuale dell'art. 234, terzo comma, CE, il che, com'è noto, è puntualmente avvenuto con il Trattato firmato a Nizza il 26 febbraio dello scorso anno .
73. Nella presente causa, come ho già ricordato, la Commissione condivide invece l'opportunità di attenuare il rigore della giurisprudenza CILFIT sul punto dell'evidenza dell'esistenza di un dubbio ragionevole, facendo leva tra l'altro sulle recenti modifiche apportate all'art. 104, n. 3, del regolamento di procedura della Corte, che regola i casi in cui quest'ultima è autorizzata a rispondere con una semplice ordinanza motivata ad una questione pregiudiziale (v. sopra, paragrafo 53). In particolare, la Commissione sottolinea che tale facoltà può essere altresì utilizzata dalla Corte qualora «la soluzione [della] questione possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o qualora la soluzione della questione non dia adito a ragionevoli dubbi». Il fatto dunque che in quest'ultimo passaggio non sia ripresa integralmente la formula CILFIT, segnatamente il punto nel quale si sottolinea che la corretta interpretazione del diritto comunitario deve imporsi «con tale evidenza» da non lasciare adito a ragionevoli dubbi, potrebbe avallare la proposta di riconoscere un più ampio margine di apprezzamento a favore del giudice nazionale.
74. Devo dire però che, anche a prescindere da un'analisi letterale delle segnalate modifiche, non riesco a vedere il collegamento fra tale proposta e la nuova formulazione dell'art. 104, n. 3, del regolamento di procedura. Nel primo caso, infatti, si ha riguardo, per così dire, alla qualità e alla consistenza dei dubbi che il giudice nazionale deve nutrire rispetto ad una questione di diritto comunitario al fine di decidere se sottoporla o meno alla Corte di giustizia; nel secondo, invece, si considerano i dubbi che la soluzione della questione può eventualmente suscitare nella Corte ai fini della scelta della procedura da seguire per la risposta . E' quindi evidente che i presupposti e le finalità del terzo comma dell'art. 234 CE e dell'art. 104, n. 3, del regolamento di procedura sono, e non potrebbero non essere, del tutto diversi e che di conseguenza non si può invocare l'uno ai fini dell'altro e viceversa.
75. Da ultimo, credo si debba respingere anche l'altra critica che il governo danese formula nei confronti della giurisprudenza CILFIT, segnatamente sul punto in cui questa esige che il giudice nazionale maturi la propria convinzione circa l'evidenza di una questione interpretativa tenendo conto anche della difficoltà di comparare le diverse versioni linguistiche di una disposizione comunitaria. Come ho poc'anzi accennato, infatti, a me pare che non si tratti qui dell'imposizione di una condizione ulteriore da parte della Corte, ma della sottolineatura della particolare cautela che si impone al giudice nazionale prima di escludere la sussistenza di ogni ragionevole dubbio. Mi sembra cioè che quel che la Corte esige è non tanto che il giudice nazionale ponga ogni volta a raffronto le varie versioni linguistiche di una disposizione, quanto che ricordi di trovarsi di fronte ad una disposizione che produce i medesimi effetti giuridici in tutte quelle versioni, e che quindi prima di dare per scontata un'interpretazione debba quanto meno essere sicuro che essa non sia tale per ragioni legate meramente al testo della disposizione. In questo senso, mi pare che depongano, sebbene siano state invece evocate dal governo danese a sostegno della propria tesi, anche le menzionate conclusioni dell'avvocato generale Jacobs, nelle quali per l'appunto si afferma che il richiamo nella sentenza CILFIT alla pluralità delle versioni linguistiche «si dovrebbe meglio considerare (...) come una cautela essenziale contro l'adozione di un'interpretazione troppo letterale delle disposizioni comunitarie che rafforza l'argomento per cui esse debbono esser interpretate alla luce del loro contesto e del loro scopo come definiti nel preambolo piuttosto che sulla sola base del loro testo» . Per mio conto aggiungo che il confronto tra le diverse versioni linguistiche è un metodo di interpretazione che deve considerarsi connaturato a qualsiasi norma redatta in più lingue, sia essa di fonte statale (negli Stati a regime multilinguistico), sia di fonte comunitaria, sia, infine, di fonte internazionale.
76. Propongo dunque di rispondere al secondo quesito che l'art. 234, terzo comma, CE va interpretato nel senso che, anche qualora il giudice nazionale avverso la cui decisione non sia proponibile un ricorso di diritto interno ritenga che una questione di diritto comunitario sia chiara, egli è comunque tenuto a rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, a meno che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi, tenendo conto a tal fine delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all'interno della Comunità.
Sul terzo quesito
77. Con la terza questione, lo Hovrätten chiede alla Corte di giustizia di quali elementi di valutazione occorra tenere conto per determinare i casi in cui l'importazione di merci contenute nel bagaglio personale dei viaggiatori provenienti da un paese terzo possa essere considerata priva di qualsiasi carattere commerciale ai sensi dell'art. 45, n. 1, del regolamento n. 918/83. In particolare, viene chiesto se questa disposizione comporti che la natura e la quantità delle merci, oggettivamente considerate, non debbano dare adito a dubbi sul carattere dell'importazione, ovvero se debbano essere presi in considerazione anche le abitudini e lo stile di vita dei singoli.
78. Il governo finlandese ricorda che ai sensi dell'art. 45 del regolamento n. 918/83 la franchigia per le merci non enumerate nell'art. 46 dello stesso è limitata per valore. Nei limiti di tale valore (ecu 175 per viaggiatore), stabilito dall'art. 47 del regolamento, è pertanto possibile importare come bagaglio personale anche una quantità considerevole di merci di scarso valore economico. Allo scopo tuttavia di accertare anche in tal caso l'applicabilità del regime in franchigia è essenziale stabilire se l'importazione rivesta finalità commerciale o se sia destinata all'uso personale o familiare del viaggiatore; a questo scopo occorre tener conto in ciascun caso specifico non tanto della natura e della quantità delle merci importate quanto del modo di vita e delle abitudini del viaggiatore, perché è in relazione a questi che va qualificata la natura commerciale o meno dell'importazione.
79. A sua volta, il governo svedese ritiene che, per valutare se l'importazione sia priva di carattere commerciale ai sensi dell'art. 45, n. 2, lett. b), del regolamento n. 918/83, occorre tenere conto dell'insieme delle circostanze di specie, e quindi sia della natura e della quantità delle merci importate che delle circostanze economiche e personali del viaggiatore; inoltre, l'importazione deve essere occasionale.
80. Quanto infine alla Commissione, anch'essa ritiene che l'art. 45 del regolamento n. 918/83 non contenga alcun elemento dal quale si possa dedurre che la quantità e la natura delle merci sono determinanti per valutare se l'importazione riveste o meno carattere commerciale. Essa considera quindi contrario al diritto comunitario fissare per un tipo particolare di merci una quantità determinata, al di là della quale non può essere accordata la franchigia; le autorità nazionali devono invece valutare caso per caso le condizioni richieste dal regolamento per la concessione della franchigia.
81. Come abbiamo visto in precedenza, il n. 1 dell'art. 45, del regolamento n. 918/83 ammette in franchigia dai dazi all'importazione, fatti salvi gli artt. 46-49, le merci contenute nei bagagli personali dei viaggiatori provenienti da un paese terzo, purché non si tratti di importazioni di carattere commerciale. Per godere del beneficio, devono dunque ricorrere cumulativamente due condizioni: che per l'appunto le merci siano contenute nel bagaglio personale del viaggiatore e che l'importazione sia priva di qualsiasi carattere commerciale. I limiti all'importazione di merci in franchigia sono poi fissati dagli artt. 46 e 47. Mentre per alcune categorie di merci - prodotti del tabacco, bevande alcoliche, profumi e medicinali - l'art. 46 limita la franchigia per ciascun viaggiatore a determinate quantità, per le altre merci l'art. 47 fa riferimento al valore complessivo della merce, fissando il limite a ecu 175 per ciascun viaggiatore. Ne deriva che, entro tale limite, e sempre che ricorrano le due condizioni indicate dell'art. 45, n. 1, non può essere a priori esclusa la possibilità di importare anche un quantitativo considerevole di merci di scarso valore economico.
82. Nel caso in esame il giudice del rinvio ci chiede per l'appunto di chiarire in che misura, nell'ambito della predetta franchigia, la natura e la quantità delle merci incidano ai fini della determinazione della qualificazione dell'importazione. A questo fine credo convenga partire dall'art. 45, n. 2, lett. b), ai sensi del quale si intendono come prive di carattere commerciale le importazioni che abbiano carattere occasionale e che riguardino merci destinate esclusivamente all'uso personale o familiare del viaggiatore oppure destinate ad essere regalate e che non riflettano per loro natura o quantità alcun intento di carattere commerciale. La norma fa dunque riferimento ad un complesso di elementi di tipo oggettivo e soggettivo. Tra i primi va collocata l'occasionalità dell'importazione, la natura e la quantità dei beni, tra i secondi la destinazione delle merci ad uso proprio o della propria famiglia e l'assenza di intenti di carattere commerciale.
83. Ciò posto, mi pare che nell'art. 45 del regolamento n. 918/83 non vi siano elementi che portino a ritenere che la natura o la quantità del bene siano elementi di per sé determinanti per stabilire se un'importazione rivesta o meno carattere commerciale. Se così fosse stato, il legislatore comunitario avrebbe indicato un limite quantitativo all'importazione di merci, anziché un limite di valore. Certamente non si può escludere che in determinati casi la natura o la quantità delle merci possano far sorgere il dubbio che l'importazione avvenga per motivi commerciali; tuttavia questa constatazione da sola non può portare ad una presunzione assoluta del carattere commerciale dell'importazione, tanto più che la natura e la quantità delle merci nell'art. 45, n. 2, lett. b), sono prese in considerazione solo in quanto possibili indizi dell'intento commerciale dell'operazione.
84. Credo invece, al pari di quasi tutte le parti che si sono pronunciate sul punto, che si debba qui tener conto di tutti i criteri indicati dalla disposizione in esame, quindi anche di quelli di carattere soggettivo, vale a dire la destinazione delle merci all'uso personale o familiare e l'assenza di intento commerciale nell'importazione. In altri termini, credo che occorra effettuare una valutazione delle circostanze specifiche di ciascun caso concreto, ed in particolare, trattandosi di valutare la destinazione all'uso personale o familiare del viaggiatore, che occorra tener conto del modo di vita e delle abitudini di quest'ultimo.
85. Di conseguenza, propongo di rispondere al giudice del rinvio che l'art. 45, n. 1, del regolamento n. 918/83 va interpretato nel senso che, ove la natura e la quantità delle merci facciano sorgere dubbi quanto alle finalità dell'importazione, il carattere non commerciale di questa deve essere valutato caso per caso, alla luce di una valutazione complessiva delle circostanze del caso di specie, che tenga conto del carattere occasionale dell'importazione, della destinazione delle merci all'uso personale o familiare del viaggiatore e quindi delle sue abitudini di vita, nonché dell'assenza nel viaggiatore di intenti di carattere commerciale.
Sul quarto quesito
86. Con il quarto quesito il giudice svedese vuole sapere quale rilevanza giuridica abbiano le disposizioni amministrative nazionali che fissano il quantitativo esente da dazi di una determinata merce alla quale si applica il regolamento n. 918/83.
87. In proposito, il governo finlandese ha ricordato che il regolamento n. 918/83 si propone di instaurare sull'intero territorio comunitario un regime uniforme delle franchigie doganali. Esso non attribuisce invece agli Stati membri il diritto di imporre restrizioni quantitative o presunzioni assolute non suscettibili di prova contraria per determinati prodotti. Disposizioni nazionali siffatte sarebbero contrarie al diritto comunitario, mentre non lo sarebbero atti non vincolanti contenenti istruzioni per le autorità doganali nei quali siano fissate quantità indicative al di sotto delle quali si presume il carattere non commerciale dell'importazione.
88. Dal canto suo, il governo svedese spiega che i provvedimenti dell'amministrazione doganale che fissano in 20 kg a persona la quantità di riso ammessa in franchigia non hanno carattere vincolante, ma sono mere raccomandazioni volte unicamente a dispensare i funzionari doganali dalla necessità di valutare caso per caso se sussistono le condizioni per l'ammissione alla franchigia. Per dimostrare la correttezza della propria posizione il governo svedese richiama la giurisprudenza della Corte nella quale, sempre con riguardo a questioni di dazi e franchigie doganali, si è affermato che «gli Stati membri conservano nella materia di cui è causa la sola competenza limitata che è loro riconosciuta» dagli atti comunitari rilevanti (nella specie la direttiva 69/169 , la quale - allo stesso modo del regolamento n. 918/83 qui oggetto di interpretazione - non prevede la facoltà di stabilire limiti quantitativi per merci non espressamente contemplati dalla stessa). Sulla base di questa premessa, la Corte ha ritenuto illegittimo un provvedimento nazionale con il quale era stato fissato un limite quantitativo all'ammissione alla franchigia di determinate merci in termini tali da determinare una presunzione assoluta del carattere commerciale dell'importazione . Da questa giurisprudenza il governo svedese deduce quindi a contrario che gli Stati membri possono adottare provvedimenti non vincolanti nei quali siano fissate quantità di merci ammesse alla franchigia, ferma restando la possibilità per il viaggiatore di provare il carattere non commerciale dell'importazione di una quantità di merci superiore a detto limite, ma rientrante nel limite di ecu 175 di cui all'art. 47 del regolamento.
89. Nello stesso senso si è pronunciata anche la Commissione, pur sottolineando che nella specie la natura vincolante o meno delle disposizioni svedesi non è chiara. Ma sul punto, osserva la Commissione, deve pronunciarsi il giudice nazionale, avendo appunto presente che le disposizioni in parola sono legittime solo se non hanno carattere vincolante.
90. Come si è appena visto, tutte le parti che si sono pronunciate concordano nel ritenere che gli Stati membri non possono emanare provvedimenti vincolanti per fissare limiti quantitativi alle franchigie o comunque una presunzione assoluta circa il carattere commerciale di un'importazione a motivo della quantità delle merci importate. Al più, sono consentite istruzioni di servizio adottate dall'autorità doganale mediante le quali viene indicata la quantità di una certa merce ammessa in franchigia, ferma restando la possibilità per il viaggiatore di provare che la quantità superiore non sia importata per fini commerciali.
91. A mio avviso questa conclusione è corretta e quindi non ho difficoltà a condividerla; credo tuttavia che se ne possa ulteriormente e coerentemente precisare la portata aggiungendo ancora qualche considerazione. Conviene infatti ricordare che il regolamento n. 918/83 muove dichiaratamente dalla constatazione della necessità di una disciplina comune nella materia che ne è oggetto, in conformità con le convenzioni internazionali di cui sono parti gli Stati membri; nasce cioè dall'esigenza di istituire «una disciplina comunitaria delle franchigie doganali tale da eliminare, in conformità delle esigenze dell'unione doganale, le divergenze per quanto riguarda l'oggetto, la portata e le condizioni d'applicazione delle franchigie prevista da tali convenzioni, permettendo così a tutte le persone interessate di trarre gli stessi vantaggi nell'intera Comunità» (quarto considerando). Se dunque è legittimo consentire a ciascuno Stato membro di emanare «istruzioni» o «raccomandazioni», anche se non vincolanti, ai funzionari doganali per fissare limiti quantitativi non previsti dal regolamento, ciò non deve portare a compromettere in punto di fatto l'applicazione uniforme del regime comunitario di franchigia doganale.
92. A questo fine, mi pare anzitutto che l'eventuale indicazione di un limite quantitativo all'importazione da parte di un provvedimento amministrativo nazionale dovrebbe corrispondere ad un livello ragionevole e proporzionale. Intendo con ciò dire che, una volta trasformato detto limite quantitativo in termini monetari, esso non dovrebbe essere troppo lontano dal limite di valore complessivo indicato dall'art. 47 del regolamento n. 918/83 in ecu 175. Sotto questo profilo, mi pare invece, con riguardo al caso di specie, che l'ammontare di 20 kg di riso a persona ammessi in franchigia e corrispondenti ad un prezzo di SEK 240, sia assai distante dal limite ecu 175 di cui all'art. 47 del regolamento, limite considerato dalle autorità svedesi come equivalente a SEK 1 700.
93. Credo inoltre, nella stessa prospettiva, che il viaggiatore dovrebbe essere posto in condizione di tutelare i propri interessi senza eccessive difficoltà sia per quanto riguarda la conoscenza dell'esatto contenuto del proprio diritto all'ammissione alla franchigia doganale quale definita dal regolamento n. 918/83, sia per quanto riguarda le prove che gli viene chiesto di fornire, che non dovrebbero essere eccessivamente rigorose o comunque tali da metterlo nell'impossibilità materiale di dimostrare il carattere non commerciale dell'importazione.
94. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, ritengo quindi che l'art. 45 del regolamento n. 918/83 osti a normative o prassi amministrative nazionali per mezzo delle quali siano fissati in modo vincolante limiti quantitativi alle franchigie o comunque una presunzione assoluta circa il carattere commerciale dell'importazione a motivo della quantità delle merci importate.
Conclusioni
95. In conclusione, propongo di rispondere ai quesiti posti dallo Hovrätten för Västra Sverige nei seguenti termini:
«1) L'art. 234, terzo comma, CE deve essere interpretato nel senso che una giurisdizione nazionale le cui decisioni possono essere impugnate subordinatamente ad un esame di ammissibilità dell'impugnazione non costituisce in linea di principio una giurisdizione di ultima istanza ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE.
2) L'art. 234, terzo comma, CE va interpretato nel senso che, anche qualora il giudice nazionale avverso la cui decisione non sia proponibile un ricorso di diritto interno ritenga che una questione di diritto comunitario sia chiara, egli è comunque tenuto a rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, a meno che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta interpretazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi, tenendo conto a tal fine delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all'interno della Comunità.
3) L'art. 45, n. 1, del regolamento (CEE) n. 918/83 del Consiglio, del 28 marzo 1983, relativo alla fissazione del regime comunitario delle franchigie doganali, va interpretato nel senso che, ove la natura e la quantità delle merci facciano sorgere dubbi quanto alle finalità dell'importazione, il carattere non commerciale di questa deve essere valutato caso per caso, alla luce di una valutazione complessiva delle circostanze del caso di specie che tenga conto del carattere occasionale dell'importazione, della destinazione delle merci all'uso personale o familiare del viaggiatore e quindi delle sue abitudini di vita, nonché dell'assenza nel viaggiatore di intenti di carattere commerciale.
4) L'art. 45 del regolamento n. 918/83 osta a normative o prassi amministrative nazionali per mezzo delle quali siano fissati in modo vincolante limiti quantitativi alle franchigie o comunque una presunzione assoluta circa il carattere commerciale dell'importazione a motivo della quantità delle merci importate».