Conclusioni dell'avvocato generale Fennelly del 16 settembre 1999. - Estée Lauder Cosmetics GmbH & Co. OHG contro Lancaster Group GmbH. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Landgericht Köln - Germania. - Libera circolazione delle merci - Commercializzazione di un prodotto cosmetico recante la denominazine "lifting" - Artt. 30 e 36 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica artt. 28 CE e 30 CE) - Direttiva 76/768/CEE. - Causa C-220/98.
raccolta della giurisprudenza 2000 pagina I-00117
I - Introduzione
1 Le parti nel procedimento a quo che ha dato origine al presente rinvio pregiudiziale da parte del Landgericht di Colonia (in prosieguo: il «giudice nazionale») sono società controllate tedesche di società multinazionali di cosmetici tra loro concorrenti. Oggetto della controversia è la crema facciale antirughe «Monteil Firming Action Lifting Extreme Creme» (in prosieguo: la «crema facciale»), prodotta nel Principato di Monaco e distribuita in tutta Europa da società del gruppo Lancaster (1). La convenuta nel procedimento a quo è la consociata tedesca di tale gruppo ed è responsabile dell'organizzazione della distribuzione della crema facciale, non soltanto sul mercato tedesco, ma nell'ambito dell'intero sistema selettivo di distribuzione della Lancaster.
2 L'attrice nel procedimento a quo, controllata tedesca del gruppo Estée Lauder, sostiene che l'indicazione «lifting» contenuta nella denominazione della crema facciale è ingannevole, in quanto crea nel pubblico la convinzione che il prodotto produca effetti durevoli equiparabili a quelli di un'operazione di lifting facciale. E' pacifico che la crema facciale non produce alcun effetto durevole, sebbene la convenuta nel procedimento a quo affermi che essa è efficacissima nel combattere le rughe. L'azione è stata proposta, ai sensi della normativa tedesca sulla ripercussione della concorrenza sleale, anzitutto come misura cautelativa con cui la ricorrente intende tutelare la propria posizione sul mercato, in quanto, come è emerso all'udienza, un altro organo giudicante tedesco, il Kammergericht di Berlino, aveva accolto il ricorso di un'organizzazione per la protezione dei consumatori emanando un provvedimento con cui si inibiva all'attrice nel procedimento a quo l'uso del termine «lifting» per la sua crema facciale antirughe (2).
3 La convenuta nel procedimento a quo nega che la crema facciale possa suscitare nel pubblico le asserite aspettative di effetti durevoli. Essa fa valere che il provvedimento, qualora venisse concesso, ostacolerebbe la libera circolazione delle merci garantita dal diritto comunitario, imponendo spese aggiuntive di commercializzazione per la ridenominazione ed il riconfezionamento del prodotto per il solo mercato tedesco. Essa sostiene inoltre che il detto provvedimento sarebbe sproporzionato, considerato il rischio minimo che i consumatori siano indotti in errore.
4 Il giudice nazionale ha ritenuto, in mancanza di perizie, di non poter negare che «sussista pericolo di inganno per una parte non irrilevante di consumatori». Esso cita una sentenza del Bundesgerichtshof del 12 dicembre 1996, che confermava la precedente decisione con cui il Kammergericht di Berlino aveva accolto il ricorso contro Estée Lauder e secondo cui l'uso del termine «lifting» poteva essere ingannevole (3). Tuttavia, non è chiaro se il diritto comunitario imponga di derogare alla regola elaborata dalla giurisprudenza tedesca, secondo cui l'uso di un termine può essere inibito qualora possa indurre in errore almeno il 10-15% dei potenziali consumatori. In particolare, il giudice nazionale chiede se, alla luce di pronunce come la sentenza Mars, tale soglia costituisca uno standard di protezione eccessivamente rigoroso (4).
5 Di conseguenza, esso ha sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se gli artt. 30 e 36 del Trattato CE e/o l'art. 6, n. 3, della direttiva del Consiglio 27 luglio 1976, 76/768/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici siano da interpretare nel senso che essi ostano all'applicazione di norme nazionali in materia di concorrenza sleale che consentono di impedire l'importazione e la commercializzazione di un prodotto cosmetico legalmente fabbricato o distribuito in un uno Stato membro dell'Unione europea a motivo del fatto che l'indicazione "lifting", relativa all'effetto di tale prodotto, potrebbe trarre in inganno i consumatori facendo loro immaginare un effetto durevole, mentre lo stesso prodotto, in altri paesi membri dell'Unione europea, è legalmente e pacificamente smerciato con tale indicazione sulla confezione».
II - Contesto giuridico
6 La legge tedesca sulla repressione della concorrenza sleale (Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb) 7 giugno 1909 (in prosieguo: l'«UWG») ha dato origine, per via dei suoi possibili effetti sul commercio di beni, a varie domande di rinvio pregiudiziale alla Corte e, in particolare, per quanto rileva ai fini del presente procedimento, al rinvio pregiudiziale nella cosiddetta causa «Clinique» (5). L'art. 3 dell'UWG così dispone:
«A chiunque, nei rapporti commerciali, fornisca, ai fini della concorrenza sui termini dell'offerta, indicazioni ingannevoli [circa le caratteristiche dei prodotti] (...) può essere ingiunto di astenersi dal fornire tali indicazioni».
Una norma analoga è contenuta nella normativa tedesca sui prodotti destinati ai consumatori. L'art. 27, n. 1, della legge 15 agosto 1974, relativa ai prodotti alimentari ed ai generi di prima necessità (Lebensmittel- und Bedarfsgegenständegesetz; in prosieguo: l'«LMBG»), recita:
«E' vietato commercializzare a titolo professionale prodotti cosmetici con una denominazione ingannevole o con indicazioni o una presentazione ingannevoli (...). Sussiste in particolare inganno quando:
1. si attribuiscano a prodotti cosmetici effetti (...) che non sono sufficientemente dimostrati dal punto di vista scientifico (...)».
A norma dell'art. 27, n. 3, dell'LMBG, una denominazione è ingannevole qualora «siano utilizzate denominazioni (...) idone[e] ad indurre in errore (...) riguardo ad altri elementi determinanti al momento della valutazione».
7 Oltre agli artt. 30 e 36 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 28 CE e 30 CE), occorrerà richiamarsi non solo alla direttiva 76/768/CEE (6), menzionata dal giudice nazionale, ma altresì alla direttiva 84/450/CEE, relativa alla pubblicità ingannevole (7).
8 La direttiva 76/768 stabilisce le condizioni per la commercializzazione dei prodotti cosmetici. Dal secondo `considerando' emerge che uno dei principali obiettivi della direttiva è agevolare il libero commercio dei prodotti cosmetici. Così, a norma dell'art. 7, n. 1, gli Stati membri non possono «rifiutare, vietare o limitare l'immissione sul mercato dei prodotti cosmetici conformi alle disposizioni della presente direttiva e dei suoi allegati». L'art. 6, n. 3, come modificato dalla direttiva 88/667/CEE, costituisce la norma chiave nella presente causa (8). Esso dispone:
«Gli Stati membri adottano tutte le disposizioni adeguate affinché in sede di etichettatura, di presentazione alla vendita e di pubblicità dei cosmetici non vengano impiegati diciture, denominazioni, marchi, immagini o altri segni, figurativi o meno, che attribuiscano ai prodotti stessi caratteristiche che non possiedono».
9 La direttiva 84/450/CEE contiene le norme comunitarie generali sulla pubblicità ingannevole. L'art. 2, n. 2, di questa direttiva definisce «pubblicità ingannevole» «qualsiasi pubblicità che in qualsiasi modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, dato il suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il comportamento economico di dette persone o che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente». L'art. 3 contiene un elenco degli elementi di cui occorre tenere conto per stabilire se la pubblicità sia ingannevole, comprese le caratteristiche dei prodotti o dei servizi pubblicizzati. L'art. 7 autorizza gli Stati membri a mantenere o ad adottare norme nazionali che abbiano lo scopo di garantire «una più ampia tutela dei consumatori (...)».
III - Osservazioni
10 Hanno presentato osservazioni scritte l'attrice e la convenuta nel procedimento a quo, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica francese, la Repubblica finlandese e la Commissione, e tutte, ad eccezione di Germania e Finlandia, hanno presentato anche osservazioni orali.
IV - Analisi
11 Nell'attuale fase del procedimento nazionale a quo, il giudice nazionale non ha ancora adottato una posizione definitiva circa l'asserito uso potenzialmente fuorviante del termine «lifting». Esso chiede un chiarimento in merito al grado di protezione che, conformemente al diritto comunitario, la legge nazionale può garantire ai consumatori di prodotti cosmetici quali la crema facciale controversa. Poiché dall'ordinanza di rinvio emerge che i prodotti in questione sono stati importati dal Principato di Monaco, paese terzo, è opportuno precisare lo status dei prodotti importati direttamente da tale paese ai sensi del diritto comunitario.
A - La questione monegasca
12 L'art. 227 del Trattato CE (divenuto art. 299 CE) non include il Principato di Monaco tra i territori soggetti all'applicazione del Trattato. Pertanto, come hanno giustamente osservato all'udienza la Commissione ed il governo francese, ai sensi del diritto comunitario esso costituisce un paese terzo. Tuttavia, esso ha formato parte del territorio doganale della Comunità almeno dal 1968, allorché l'art. 2 del regolamento (CEE) del Consiglio 27 settembre 1968, n. 1496, relativo alla definizione del territorio doganale della Comunità, ha stabilito che taluni territori, compreso il Principato di Monaco, «situati fuori dal territorio degli Stati membri», ma ricompresi nell'elenco dell'allegato al regolamento, dovevano essere «considerati come parte del territorio doganale della Comunità» (9). La normativa pertinente non precisa le conseguenze giuridiche dell'inclusione del Principato di Monaco nel territorio doganale della Comunità (10). Tuttavia, poiché al commercio tra il Principato di Monaco e la Comunità non possono applicarsi dazi doganali o misure di effetto equivalente, ad una prima analisi sembrerebbe conseguirne che le merci ivi prodotte ed esportate direttamente in uno Stato membro dovrebbero essere trattate come merci originarie della Comunità.
13 La base giuridica più convincente di tale interpretazione risiede nell'analogia con la nozione di prodotti che si trovano in «libera pratica in uno Stato membro», di cui agli artt. 9 e 10 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 23 CE e 24 CE), per effetto della quale i prodotti provenienti da paesi terzi, per i quali siano state adempiute le formalità di importazione in uno specifico Stato membro per l'ingresso nel territorio doganale della Comunità e siano stati riscossi i dazi esigibili in forza della tariffa doganale comune (TDC), sono considerati in «libera pratica» in tale Stato membro. Nella sentenza Donckerwolcke e Schou la Corte ha dichiarato che «i prodotti messi in "libera pratica" sono totalmente e definitivamente assimilati ai prodotti d'origine comunitaria»; conseguenza di tale assimilazione è il fatto che «le disposizioni dell'art. 30, relative alla soppressione delle restrizioni quantitative e di ogni altra misura di effetto equivalente, si applicano indistintamente ai prodotti di origine comunitaria e a quelli messi in libera pratica in uno degli Stati membri, indipendentemente dalla provenienza originaria dei prodotti stessi» (11). Nella stessa sentenza, la Corte ha aggiunto che tale assimilazione può «essere pienamente efficace solo se per [i prodotti] valgono le stesse condizioni di importazione, doganali e commerciali, indipendentemente dallo Stato membro nel quale è stata effettuata la messa in libera pratica» (12). Tuttavia, non si è lasciato intendere che rimangano differenze nella politica commerciale o doganale per quanto riguarda le importazioni di prodotti cosmetici nella Comunità. Infatti, le regole generali vigenti, contenute nel regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 1994, n. 3285, relativo al regime comune applicabile alle importazioni e che abroga il regolamento (CE) n. 518/94 (13), dispongono espressamente (v. art. 1, n. 2) che l'importazione da paesi terzi cui il regime è applicabile «è libera, ossia non è sottoposta ad alcuna restrizione quantitativa, fatte salve le misure di salvaguardia che possono essere adottate ai sensi del titolo V» (14).
14 Occorre rilevare che l'assimilazione delle merci esportate in Germania direttamente dal Principato di Monaco, paese terzo, alla nozione di merci in libera pratica, applicata ai prodotti già importati da un paese terzo, comporta un ampliamento di tale nozione. Tale approccio, infatti, presuppone l'applicazione del divieto di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative nei confronti della Germania, mentre non esiste un accordo reciproco che possa essere fatto valere nella situazione inversa, ossia di esportazione diretta dalla Germania nel Principato di Monaco. All'udienza, l'agente del governo francese ha ammesso che in alcuni casi la mancanza di un accordo internazionale con il Principato di Monaco (15) può creare problemi (16). A tale quadro potrebbe contrapporsi la situazione creata per quanto riguarda la Repubblica di San Marino. Come il Principato di Monaco, San Marino è stata considerata parte del territorio doganale della Comunità sin dal 1968, ma dal 1992 i suoi rapporti commerciali con la Comunità sono disciplinati da un apposito accordo internazionale (17). Nonostante la mancanza di un regime completo che disciplini gli scambi tra il Principato di Monaco e la Comunità, ritengo che la semplice circostanza che il primo è parte del territorio doganale comunitario sia di per sé sufficiente a giustificare che le merci originarie del Principato di Monaco beneficino delle norme relative alla libera pratica. A mio parere, il fatto che ai fini doganali il Principato di Monaco sia parte della Comunità fornisce all'ampliamento della nozione di cui trattasi un fondamento più solido rispetto a quello suggerito all'udienza dalla convenuta nel procedimento a quo, secondo cui il fatto che i prodotti di cui trattasi (presumibilmente come la maggior parte dei prodotti esportati dal Principato di Monaco) transitino fisicamente attraverso la Francia, diretti da Monaco in Germania, sarebbe di per sé sufficiente a determinare l'applicabilità del diritto comunitario. Ciò condurrebbe ad un anomalo trattamento differenziato dei prodotti esportati via mare dal Principato di Monaco, ad esempio, in Spagna e in Italia. Dall'art. 10 del Trattato e dalla sentenza Donckerwolcke e Schou emerge chiaramente che i prodotti dei paesi terzi, per poter essere considerati in libera pratica, devono essere importati fisicamente e per essi devono essere state espletate le relative formalità della TDC in uno Stato membro, compresa la riscossione dei dazi esigibili. Lo status giuridico del Principato di Monaco, quale parte del territorio doganale della Comunità, rende superflui questi requisiti. Pertanto, ritengo che la portata giuridica della decisione del legislatore comunitario di attribuire al Principato di Monaco lo status di territorio doganale della Comunità implichi che, ai fini commerciali, i prodotti monegaschi, anche se esportati in uno Stato membro, debbano essere equiparati ai prodotti in libera pratica.
15 Ne consegue che il fatto che i prodotti in discussione nel procedimento a quo vengano importati in Germania direttamente dal Principato di Monaco non incide sull'analisi della questione relativa alla compatibilità con il diritto comunitario del provvedimento che il giudice nazionale intende concedere.
B - Sul merito
16 Non sorprende che le osservazioni scritte e orali presentate alla Corte nella presente causa non rivelino alcun contrasto sostanziale quanto ai principi applicabili per la soluzione della questione deferita dal giudice nazionale. Gli aspetti giuridici principali sono stati precisati da una giurisprudenza relativamente recente. Nella specie, la questione sostanziale è fino a che punto sia possibile applicare la normativa tedesca per la tutela dei consumatori e in particolare una disposizione in forza della quale si presuma che la possibilità di indurre in errore il 10-15% dei consumatori sia sufficiente a giustificare una restrizione alla vendita di un prodotto, nonostante i suoi effetti negativi sugli scambi intracomunitari e ancorché le norme relative ai prodotti nel settore considerato siano state armonizzate a livello comunitario. Soltanto la Finlandia suggerisce, sostenuta in parte dalla Francia all'udienza, che, nonostante la direttiva 76/768, gli Stati membri possono mantenere in vigore norme proprie più rigorose per la tutela dei consumatori.
17 Anzitutto, è pacifico che la concessione da parte del giudice nazionale di un provvedimento che ponga restrizioni allo smercio della crema facciale soltanto perché nella sua denominazione viene impiegato il termine «lifting» costituirebbe una misura di effetto equivalente ad una restrizione alle importazioni, vietata, in linea di principio, dall'art. 30 del Trattato, nonché una restrizione al commercio di prodotti cosmetici contraria all'art. 7, n. 1, della direttiva 76/768 (18). La crema facciale è largamente commercializzata in condizioni analoghe in altri Stati membri, con la conseguenza che il rispetto delle norme specifiche tedesche implicherebbe per l'esportatore, come nella causa Clinique, spese aggiuntive per l'etichettatura e la pubblicità per il solo mercato tedesco (19). Pertanto, occorre stabilire entro quali limiti tale restrizione sia nondimeno consentita.
18 E' principio altrettanto consolidato nella giurisprudenza della Corte, enunciato in particolare nella sentenza Clinique, che la direttiva 76/768 «ha (...) operato un'armonizzazione esauriente delle norme nazionali in materia di imballaggio e di etichettatura dei prodotti cosmetici» (20). Essa «definisce le misure che debbono essere adottate a tutela dei consumatori e a difesa della lealtà nelle transazioni commerciali, e che rientrano tra le esigenze imperative enunciate dalla giurisprudenza della Corte ai fini dell'applicazione dell'art. 30 del Trattato» (21). In altre parole, tale specifica esigenza imperativa è stata formalmente riconosciuta dalla direttiva 76/768, la quale definisce esaustivamente le norme volte a soddisfarla.
19 A norma dell'art. 7, n. 1, della direttiva del 1976, gli Stati membri non possono vietare o limitare l'immissione sul mercato dei prodotti cosmetici conformi alle disposizioni della direttiva. Nella specie, è pacifico che la crema facciale è confezionata ed etichettata in conformità delle dette disposizioni. La questione sollevata è se la Germania possa, ciò nonostante, limitarne la vendita nel proprio territorio in forza dell'art. 6, n. 3.
20 Nella presente causa, quindi, la discussione è incentrata sull'obbligo imposto agli Stati membri dall'art. 6, n. 3, di garantire che i prodotti non vengano etichettati o presentati in modo da «[attribuire loro] caratteristiche che non possiedono». La direttiva 76/768 lascia agli Stati membri la scelta delle misure intese ad ottemperare a tale obbligo. Ciò non deve stupire, in quanto sarebbe impossibile fissare a priori criteri applicabili in tutti i casi per stabilire se le indicazioni relative alle caratteristiche dei prodotti siano inesatte. Tuttavia, la direttiva 76/768 dev'essere interpretata nel senso che essa contiene norme esaustive applicabili al fine di tutelare i consumatori da pratiche di vendita o di commercializzazione che attribuiscano ai prodotti cosmetici, anche implicitamente, caratteristiche che essi non possiedono. In altre parole, lo standard di protezione è stabilito a livello comunitario e va semplicemente applicato caso per caso dagli Stati membri. Pertanto, questi ultimi non possono legiferare in materia, ma possono agire soltanto secondo lo schema tracciato dalle norme di armonizzazione (22).
21 Alla direttiva 76/768 può quindi contrapporsi la direttiva 84/450/CEE, che si limita ad un'armonizzazione parziale delle normative nazionali in materia di pubblicità ingannevole fissando criteri minimi ed obiettivi in base ai quali è possibile determinare che una pubblicità è ingannevole (23). Pertanto, non posso condividere la tesi avanzata dalla Finlandia e sostenuta dalla Francia all'udienza, secondo cui l'art. 6, n. 3, della direttiva 76/768 dovrebbe essere interpretato alla luce della direttiva 84/450/CEE. Gli Stati membri, pur rimanendo responsabili in via principale per il controllo sull'uso di indicazioni ingannevoli, devono applicare gli standard prescritti dall'art. 6, n. 3, ossia vietare indicazioni false o fuorvianti che attribuiscano ad un prodotto cosmetico caratteristiche che non possiede. Pertanto, la tesi della Finlandia, basata su un'analogia con l'art. 7 della direttiva 84/450/CEE, secondo cui gli Stati membri potrebbero applicare standard di protezione del consumatore più elevati, non è corretta. Tutti gli Stati membri devono applicare lo stesso standard previsto dal diritto comunitario.
22 Come ha rilevato la Corte nella sentenza Clinique, la direttiva 76/768, «al pari di ogni normativa di diritto derivato, deve essere interpretata alla luce delle norme del Trattato relative alla libera circolazione delle merci» (24). Per giurisprudenza costante, il divieto di restrizioni quantitative nonché di misure d'effetto equivalente vale non solo per i provvedimenti nazionali, ma del pari per quelli adottati dalle istituzioni comunitarie (25). L'art. 6, n. 3, è contenuto in una direttiva volta ad agevolare, mediante norme di armonizzazione, la libera circolazione dei prodotti cosmetici. Di conseguenza, si deve ritenere ch'essa persegua il duplice obiettivo del libero commercio e della tutela dei consumatori. Nel dare applicazione alle norme nazionali che traspongono tali obiettivi, in caso di conflitto tra di esse, i giudici nazionali devono ovviamente cercare un equilibrio. La funzione della Corte, nel risolvere questioni come quella deferita nella specie dal giudice nazionale, è, come sostengono a ragione Germania e Francia, quella di fornire criteri interpretativi utili e chiari che assistano il giudice nazionale nell'assolvimento di questo compito.
23 Alla luce delle suesposte osservazioni preliminari, tenterò di delineare i criteri in base ai quali la Corte deve affrontare la questione sottopostale dal giudice nazionale. Come si ricorderà, nella detta questione si rileva, anzitutto, come la crema facciale sia «regolarmente fabbricat[a] e distribuit[a] in uno Stato membro [la Germania] dell'Unione europea (...) mentre (...), in altri paesi dell'Unione europea, è legalmente e pacificamente smerciat[a] con tale indicazione sulla confezione», e, in secondo luogo, che la legge tedesca sulla repressione della concorrenza sleale può vietarne la vendita e la distribuzione «per via del fatto che l'indicazione "lifting", relativa all'effetto di tale prodotto, potrebbe trarre in inganno i consumatori facendo loro immaginare un effetto durevole (...)». Quest'antitesi evidenzia il problema fondamentale sollevato nella fattispecie che, a mio parere, consiste nell'adottare uno standard di protezione dei consumatori idoneo ad evitare ch'essi vengano ingannati o indotti in errore da indicazioni non veritiere. Mentre il diritto tedesco consente di proibire lo smercio di un prodotto che potrebbe indurre in errore dal 10 al 15% dei consumatori, il giudice nazionale rileva, richiamandosi alla sentenza Mars, come il diritto comunitario consideri i consumatori sufficientemente attenti e sensibili e, quindi, non bisognosi di tutela contro indicazioni che potrebbero trarre in inganno solo una percentuale così bassa di essi. L'attrice nel procedimento a quo, nelle sue osservazioni scritte, descrive con chiarezza i profondi contrasti esistenti nella dottrina tedesca in ordine al livello adeguato di protezione. Ad un estremo della scala, si afferma che il diritto a pari opportunità economiche esige che gli artt. 30 e 36 del Trattato non vengano interpretati avendo presente un consumatore maturo e dotato di senso critico, in quanto ciò sarebbe discriminatorio nei confronti dei consumatori con capacità intellettive limitate! (26). All'altro estremo, si afferma che il diritto comunitario impone lo standard del consumatore ben informato e che la legge tedesca sulla repressione della concorrenza sleale dovrebbe desistere «dal tentativo, tanto stupido quanto inutile, di proteggere praticamente l'ultimo dei "sempliciotti" ("Trottel") dal rischio di essere ingannato dalla pubblicità» (27).
24 A mio avviso, l'individuazione dello standard adeguato di tutela dei consumatori deve basarsi sul principio enunciato dalla giurisprudenza costante della Corte, secondo cui la libera circolazione dei beni tra gli Stati membri costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario (28). Il ricorso ad una delle deroghe previste dall'art. 36 del Trattato o ad un'esigenza imperativa dev'essere considerato come un'eccezione al detto principio. Gli effetti di tali eccezioni non devono andare «al di là di quanto è necessario per la protezione degli interessi che [l'art. 36] mira a tutelare; i provvedimenti adottati (...) non devono ostacolare le importazioni in misura sproporzionata ai suddetti scopi» (29). Come la Corte ha esplicitamente ammesso, richiamando le sentenze Clinique e Mars, i provvedimenti di tutela contro il «rischio di inganno dei consumatori [possono] prevalere sulle esigenze della libera circolazione delle merci e quindi giustificare ostacoli agli scambi solo qualora [il rischio] sia sufficientemente grave (...)» (30). L'obbligo di «rispettare il principio di proporzionalità» vale anche per «le misure che gli Stati membri devono adottare ai fini dell'attuazione» dell'art. 6, n. 3, della direttiva 76/768 (31). Pertanto, l'interesse comunitario alla tutela dei consumatori, che la direttiva riconosce, può incidere sulla libera circolazione dei prodotti cosmetici solo nella misura in cui ciò sia palesemente necessario per perseguire tale interesse.
25 Il diritto comunitario, nel suo approccio alla tutela dei consumatori, ha preferito porre l'accento sull'esigenza di diffusione di informazioni, tramite la pubblicità, l'etichettatura o altri mezzi ancora, quale migliore strumento per favorire il libero commercio in mercati apertamente concorrenziali. Si presume che i consumatori si informino circa la qualità ed il prezzo dei prodotti e che operino scelte intelligenti. All'epoca della cosiddetta sentenza «Cassis de Dijon», la Corte indicava l'etichettatura informativa come alternativa preferibile al divieto d'immissione in commercio (32). Tale affidamento sulla disponibilità e sull'utilità delle informazioni è particolarmente evidente nella causa della «legge di purezza della birra», in cui la Germania cercava di difendere, tra l'altro con motivazioni attinenti alla tutela dei consumatori, la norma in base alla quale nel suo territorio potevano essere commercializzati come «birra» soltanto prodotti fabbricati con malto d'orzo, luppolo, lievito e acqua (33). La Corte, pur riconoscendo la legittimità del voler dare ai consumatori «che attribuiscono proprietà particolari alle birre fabbricate con determinate materie prime la possibilità di effettuare la loro scelta in considerazione di tale elemento», ha ritenuto che tale obiettivo potesse essere conseguito con un sistema di prescrizioni per l'informazione del consumatore che avrebbe consentito «al consumatore di operare la propria scelta in piena cognizione di causa (...)»; in tal modo, i produttori di birra avrebbero dovuto apporre un'etichetta indicante le materie prime utilizzate e, per quanto riguarda le birre servite alla spina, avrebbero dovuto garantire che «le necessarie informazioni (...) [figurassero] sui fusti o sui sifoni» (34). Alcuni anni dopo, nella sentenza Pall, la Corte ha negato che la circostanza che i consumatori tedeschi potessero essere tratti in inganno circa il luogo in cui era stato depositato un marchio recante il simbolo «(R)» apposto a prodotti importati fosse in sé sufficiente a giustificare che si consentisse di vietare l'uso di tale indicazione in forza dell'UWG e ha dichiarato che, «anche se per ipotesi i consumatori o una parte di essi potessero venire indotti in errore su tale punto, questo rischio non può giustificare un ostacolo così grave alla libera circolazione delle merci, poiché i consumatori sono più interessati alla qualità del prodotto che al luogo in cui il marchio è depositato» (35). La Corte ha quindi sottolineato che «la politica comunitaria (...) crea uno stretto legame tra la protezione e l'informazione del consumatore» (36).
26 A mio parere, tuttavia, dalla giurisprudenza più recente della Corte emerge un modello dell'ipotetico consumatore medio che nei casi di asserita confusione potrebbe risultare estremamente utile sia ai giudici nazionali sia alla stessa Corte, la quale potrebbe evitare di dover decidere tali controversie caso per caso. La Germania è stata la prima a sottolineare l'importanza della conclusione secondo cui il «consumatore normalmente avveduto» (37) avrebbe potuto trarre quanto alla questione se un prodotto avesse proprietà profilattiche o curative, difendendo con successo la tesi delle autorità tedesche, la cui validità nella specie era stata contestata dalla Commissione, secondo la quale i detergenti per gli occhi potevano essere considerati medicinali e, pertanto, essere assoggettati alla procedura di autorizzazione preventiva all'immissione in commercio (38). Nella sentenza Meyhui, del 1994, la Corte ha confermato una norma di diritto comunitario che, in forza di una direttiva del 1969 (39), impone ai produttori di vetro rientrante in determinate categorie («vetro sonoro superiore» e «vetro sonoro») di utilizzare soltanto denominazioni redatte nella lingua o nelle lingue degli Stati membri in cui il prodotto viene venduto, in quanto «(...) la differenza di qualità del vetro utilizzato non è agevolmente percepibile dal consumatore medio, che non acquista frequentemente prodotti di vetro cristallo» e pertanto «lo si deve informare nel modo più chiaro possibile relativamente a quanto acquista, onde evitare che confonda un prodotto [rientrante nelle suddette categorie] con un prodotto delle categorie superiori e, pertanto, non paghi un prezzo ingiustificato» (40).
27 Tale individuazione del livello di protezione richiesto dal consumatore medio è stata cristallizzata nella sentenza Mars del 1995. La causa Mars verteva su un reclamo secondo cui l'applicazione di una dicitura «+ 10%», che occupava una superficie superiore al 10% di quella totale della confezione di barre di gelato, era in contrasto con l'art. 3 della UWG, in quanto dava al consumatore l'impressione che il prodotto fosse aumentato in peso o in volume di oltre il 10%. Per la prima volta, la Corte si è avvalsa della nozione di «consumatore munito di un normale potere di discernimento» che «sappia che non sussiste necessariamente una connessione tra la dimensione delle diciture pubblicitarie relative ad un aumento della quantità del prodotto e l'entità dell'aumento stesso» (41).
28 Da allora, tale criterio si è consolidato, in particolare per opera di due pronunce recenti. La causa Gut Springenheide (42) verteva su un ricorso proposto ad un tribunale tedesco avverso una presunta indicazione ingannevole contenuta in un marchio e in un foglietto illustrativo inserito negli imballaggi di uova e contraria, nella specie, alla normativa comunitaria (43). Il giudice nazionale aveva espressamente chiesto se occorresse prendere in considerazione il punto di vista «del consumatore medio attento ed accorto oppure del consumatore disattento ed acritico». La sentenza della Corte è suscettibile di applicazione generale: essa ha posto particolare attenzione all'esistenza di analoghe disposizioni relative alla tutela dei consumatori in altre norme comunitarie e ha fatto riferimento a diverse pronunce precedenti, tra cui le citate sentenze GB-INNO-BM, Pall, Clinique e Mars. La Corte ha poi enunciato (punti 31-32) il seguente criterio:
«Da tali sentenze risulta che, per stabilire se la denominazione, il marchio o la dicitura pubblicitaria di cui trattasi fossero o meno idonei a indurre l'acquirente in errore, la Corte ha preso in considerazione l'aspettativa presunta di un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, senza aver disposto una perizia o un sondaggio di opinioni.
Così, i giudici nazionali dovrebbero in genere essere in grado di valutare, nelle medesime condizioni, l'eventuale effetto ingannevole di una dicitura pubblicitaria».
Per quanto presentato come criterio già applicato dalla stessa Corte, è evidente che esso era inteso principalmente come criterio da applicarsi ad opera dei giudici nazionali. Ciò, a mio avviso, emerge con chiarezza dalla sentenza Sektkellerei Kessler (44). Questa causa verteva su un rischio di confusione che si asseriva determinato dalla denominazione di un vino spumante tedesco. La Corte ha sottolineato (punto 33) l'esigenza di accertare, «sulla base delle idee o delle abitudini dei consumatori di cui trattasi, se esista un rischio reale di influenza sulle loro scelte economiche», e ha poi ribadito (punto 36) il criterio della sentenza Gut Springenheide e Tusky :
«(...) spetta [al giudice nazionale] verificare, sulla base dei fatti, se, in considerazione dei consumatori a cui è diretto, un marchio e i suoi elementi siano tali da creare confusione, totale o parziale, con la denominazione di taluni vini. A tal proposito, emerge del pari dalla giurisprudenza della Corte che il giudice nazionale deve prendere come punto di riferimento l'aspettativa presunta di un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento (...)».
29 E' dunque chiaro che il criterio da applicare nei casi di restrizione alla vendita o alla commercializzazione di un prodotto per motivi attinenti alla tutela del consumatore contro etichettature o altre indicazioni ingannevoli consiste nell'accertare se la presentazione di questo prodotto possa indurre in errore su una sua caratteristica fondamentale l'ipotetico consumatore così definito. A mio avviso, l'obbligo dei giudici nazionali di applicare scrupolosamente tale criterio è particolarmente importante nei casi in cui la fonte dell'obiettivo di tutela del consumatore sia costituita da una direttiva, come la direttiva 76/768, che viene in esame in caso di controversia sulla commercializzazione di prodotti cosmetici. Il criterio dovrebbe consentire al giudice nazionale di valutare i fatti, in ogni singolo caso, avendo riguardo a tale standard e in base al proprio autonomo giudizio circa le possibili conseguenze per i consumatori. Lo standard in questione, basato sulla somma di quattro fattori, costituisce senza dubbio uno standard elevato. Tenuto conto delle circostanze particolari della fattispecie, e soprattutto delle modalità di vendita utilizzate dal venditore, il giudice nazionale dev'essere convinto che sarebbe indotto in errore il consumatore medio, ragionevolmente informato ed attento al prodotto di cui trattasi e ragionevolmente accorto nell'impiego del proprio senso critico per valutare le indicazioni ivi contenute o ad esso relative. Non si tratta pertanto di un criterio statistico. Le indagini di mercato possono, in taluni casi, essere utili, ma occorre rammentare che esse presentano limiti inerenti alla formulazione di questionari e che spesso il loro esito è suscettibile di interpretazioni diverse (45). Di conseguenza, esse non esimono il giudice nazionale dall'obbligo di esercitare la propria capacità di giudizio in base allo standard del consumatore medio definito dal diritto comunitario. In conclusione, ciò che conta è che attualmente esiste un criterio univoco di diritto comunitario e che, pertanto, sarebbe inopportuno che il giudice nazionale fondasse la propria decisione finale circa l'esistenza di un rischio di confusione su una prova di natura statistica relativa al probabile effetto sul 10-15% dei potenziali consumatori.
30 Nella specie, per fornire al giudice nazionale un ulteriore chiarimento, può essere utile ricordare brevemente gli elementi di cui esso deve tenere conto per stabilire se il consumatore medio della crema facciale controversa possa essere indotto in errore dall'implicito richiamo al lifting, o in generale alla chirurgia estetica, contenuto nel termine «lifting» utilizzato nella denominazione del prodotto. Anzitutto, dalle notevoli similitudini tra i fatti e le questioni sollevate nella causa Clinique e quelli oggetto della presente causa risulta evidente che il giudice nazionale deve tenere conto del fatto che la crema facciale è chiaramente commercializzata e venduta come prodotto cosmetico, è in vendita solo nelle profumerie e nei reparti di cosmetici dei grandi magazzini ed è stata commercializzata in altri Stati membri apparentemente senza trarre in inganno i consumatori (46). Inoltre, il diritto comunitario riconosce, come la Corte ha confermato in particolare nella sentenza Graffione, che le differenze linguistiche, culturali e sociali tra gli Stati membri possono far sì che un marchio che non è idoneo a indurre in inganno il consumatore in uno Stato membro può esserlo in un altro (47). Il giudice nazionale potrebbe quindi dover valutare se, dal punto di vista linguistico, l'impiego del termine inglese «lifting», anziché di una parola tedesca avente una connotazione identica o analoga, sia atto ad indurre in errore i consumatori tedeschi. Tuttavia, egli deve anche tener conto del fatto che l'uso del termine non sembra aver destato preoccupazione in altri Stati membri, compresi quelli in cui il tedesco è lingua nazionale o ampiamente diffusa. Quanto ai fattori sociali e culturali, nell'ordinanza di rinvio il giudice nazionale non ha indicato elementi particolari secondo i quali i consumatori tedeschi sarebbero più facilmente tratti in inganno dal termine «lifting» rispetto ai consumatori di altri Stati membri, ma esso deve accertare se tali fattori effettivamente esistano e, in caso affermativo, valutare se influiscano sul giudizio che i consumatori si formano nel leggere tale parola. Il giudice nazionale potrebbe altresì considerare se il semplice fatto che la crema facciale sia specificamente indicata per un impiego regolare, o addirittura quotidiano, così da richiedere una spesa continua ai consumatori che intendano ottenere gli effetti desiderati sulla pelle, chiarisca sufficientemente che tali effetti hanno natura effimera e transitoria, in modo da escludere qualsiasi possibilità che dal termine «lifting» venga tratta la conclusione opposta. In altre parole, come la Corte ha ammesso, in particolare, riguardo alla possibile confusione tra marchi, il giudice nazionale deve, per valutare se sia stato raggiunto lo standard comunitario di confusione, adottare una «valutazione globale» del rischio (48).
31 Raccomanderei che la Corte, oltre a precisare il criterio che il giudice nazionale deve applicare, chiarisca, seguendo lo schema sopra indicato, i fattori di cui quest'ultimo può tenere conto nell'applicazione del detto criterio, in modo tale da disporre di tutti gli elementi rilevanti per poter stabilire se nella specie la concessione dell'inibitoria sia compatibile con il diritto comunitario. Tuttavia, come ha suggerito l'avvocato generale Gulmann nella causa Clinique, nel fare questo esso non deve «[legare] troppo strettamente la sua interpretazione dell'art. 30 alle circostanze concrete della specie» (49). Condivido anche l'osservazione che, «secondo il sistema del Trattato», il compito di assicurare un'applicazione uniforme di norme di carattere generale come quelle di cui alla direttiva 76/768 «spetta (...) al giudice nazionale» (50). Pertanto, nonostante in passato la Corte abbia talora voluto, «ogni volta che le è parso che gli atti a sua disposizione fossero sufficienti e che la soluzione si imponesse», decidere «essa stessa (...) su tale punto, invece di rimetterne al giudice nazionale la valutazione definitiva», sono convinto che tale scostamento dalla normale ripartizione delle competenze tra giudici nazionali e Corte di giustizia nelle cause pregiudiziali è inopportuno e superfluo, considerata l'esistenza a livello di diritto comunitario di un criterio che consente ai giudici nazionali di determinare il giusto grado di protezione dei consumatori (51). In casi come quello di cui al procedimento a quo, la Corte deve quindi limitarsi ad interpretare il diritto comunitario e a fornire al giudice nazionale delle linee guida per la sua applicazione. L'applicazione effettiva del diritto comunitario e, quindi, la decisione finale sulle presunte indicazioni ingannevoli o fuorvianti spetta al giudice nazionale.
32 In conclusione, quindi, ritengo che il giudice nazionale non debba concedere il provvedimento richiesto dalla ricorrente nella causa a qua, a meno che ritenga che il consumatore tedesco medio della crema facciale controversa, che è ragionevolmente informato, attento ed avveduto, tenuto conto delle circostanze in cui essa viene venduta, possa essere indotto ad attribuirle proprietà che non possiede dall'impiego del termine «lifting» nella sua denominazione o nelle istruzioni.
V - Conclusione
33 Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di risolvere come segue la questione deferita dal Landgericht di Colonia:
«Gli artt. 30 e 36 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 28 CE e 30 CE), in combinato disposto con la direttiva del Consiglio 27 luglio 1976, 76/768/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici, e in particolare ai suoi artt. 6, n. 3, e 7, n. 1, ostano all'applicazione di norme nazionali in materia di repressione della concorrenza sleale che consentano di impedire l'importazione e la commercializzazione di un prodotto cosmetico regolarmente distribuito senza restrizioni in altri Stati membri e che soddisfi i requisiti di presentazione prescritti dalla direttiva del Consiglio 76/768/CEE, a meno che nel detto Stato membro il consumatore medio del prodotto di cui trattasi, che è ragionevolmente informato, attento ed avveduto, tenuto conto delle circostanze in cui il prodotto viene venduto, possa essere indotto ad attribuirgli proprietà che non possiede dalle indicazioni contenute nella sua denominazione o nelle istruzioni».
(1) - Dalle informazioni fornite alla Corte dalla convenuta nel procedimento a quo risulta che la crema facciale viene importata direttamente dal Principato di Monaco in un centro di distribuzione a Wiesbaden, in Germania, da cui viene spedita ai vari distributori autorizzati, sia all'interno sia all'esterno della Comunità.
(2) - V. causa 25 U 2991/93.
(3) - Causa 1 ZR 7/94, NJW-RR 1997, pag. 931.
(4) - Sentenza 6 luglio 1995, causa C-470/93, Mars (Racc. pag. I-1923; in prosieguo: la «sentenza Mars»).
(5) - Sentenza 2 febbraio 1994, causa C-315/92, Verband Sozialer Wettbewerb (Racc. pag. I-317; in prosieguo: la «sentenza Clinique»).
(6) - Direttiva del Consiglio 27 luglio 1976, 76/768/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici (GU L 262, pag. 169; in prosieguo: la «direttiva 76/768»).
(7) - Direttiva del Consiglio 10 settembre 1984, 84/450/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità ingannevole (GU L 250, pag. 17).
(8) - Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1998, 88/667/CEE, recante quarta modifica della direttiva 76/768/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici (GU L 382, pag. 46). Un'altra frase è stata aggiunta dall'art. 1, n. 9, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/35/CEE, recante sesta modifica della direttiva 76/768/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai prodotti cosmetici (GU L 151, pag. 32), ma non è pertinente al presente procedimento.
(9) - GU L 238, pag. 1.
(10) - L'attuale disposizione, contenuta all'art. 3, n. 3, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1), come modificato dall'art. 1, lett. b), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 19 dicembre 1996, n. 82/97, che modifica il regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 17, pag. 1), è così formulata: «(...) sebbene sia situato al di fuori del territorio della Repubblica francese, viene considerato come facente parte del territorio doganale della Comunità anche il territorio del Principato di Monaco, quale viene definito dalla convenzione doganale firmata a Parigi il 18 maggio 1963».
(11) - Sentenza 15 dicembre 1976, causa 41/76 (Racc. pag. 1921, punti 17-18). V. anche sentenza 13 marzo 1979, causa 119/78, Peureux (Racc. pag. 975), in cui la Corte ha dichiarato, riguardo all'art. 30, che «il divieto di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative nel commercio intracomunitario ha lo stesso contenuto per le merci importate da un altro Stato membro, dopo che ivi sono state messe in libera pratica, e per quelle originarie dello Stato membro suddetto» (punto 26).
(12) - Sentenza Donckerwolcke e Schou (citata alla nota 11), punto 25.
(13) - GU L 349, pag. 53.
(14) - A norma dell'art. 1, n. 1, il regolamento n. 3285/94 si applica alle importazioni di prodotti originari di paesi terzi, ad eccezione dei prodotti tessili e dei prodotti originari di alcuni paesi terzi, che non comprendono il Principato di Monaco; v. allegato I del regolamento (CE) del Consiglio 7 marzo 1994, n. 519, relativo al regime comune applicabile alle importazioni da alcuni paesi terzi e che abroga i regolamenti (CEE) n. 1765/82, (CEE) n. 1766/82 e (CEE) n. 3420/83 (GU L 67, pag. 89).
(15) - V. Snyder, International Trade and Customs Law of the European Union (1998), pag. 504, nota 3.
(16) - Ella ha osservato che il Principato di Monaco è effettivamente tenuto a quanto risulta dall'accordo doganale bilaterale tra Principato di Monaco e Francia del 18 maggio 1963, ratificato dalla Francia con decreto 24 settembre 1963, n. 63-982, JORF pag. 8879 a rispettare norme comunitarie quali la direttiva 76/768. La Corte è stata informata del fatto che si pongono ancora problemi e che, considerato l'orientamento adottato dalle autorità francesi e monegasche, la Commissione sta attualmente prendendo in considerazione l'esigenza di negoziare un accordo internazionale con il Principato di Monaco.
(17) - V. decisione del Consiglio 27 novembre 1992, 92/561/CEE, relativa alla conclusione dell'accordo interinale di commercio e di unione doganale tra la Comunità economica europea e la Repubblica di San Marino (GU L 359, pag. 13). L'accordo istituisce un'unione doganale tra la Comunità e San Marino (art. 1), nel cui ambito (art. 8) sono espressamente vietate le restrizioni quantitative e le misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative nel commercio tra le parti contraenti.
(18) - Sebbene l'UWG e l'LMBG si applichino allo stesso modo ai prodotti tedeschi e a quelli importati, la concessione di un'inibitoria costituirebbe chiaramente una «norma relativa ai prodotti» ai sensi della sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e C-268/91, Keck e Mithouard (Racc. pag. I-6097), e pertanto la restrizione al commercio ch'essa implicherebbe dovrebbe essere giustificata.
(19) - V. sentenza Clinique, punto 19.
(20) - Loc. cit., punto 11. V. anche sentenza 28 gennaio 1999, causa C-77/97, Österreichische Unilever (Racc. pag. I-431, punto 24; in prosieguo: la «sentenza Unilever»), e la giurisprudenza ivi citata.
(21) - Sentenza Clinique, punto 15.
(22) - V. sentenze 19 marzo 1998, causa C-1/96, Compassion in World Farming (Racc. pag. I-1251, punto 47); 5 ottobre 1994, causa C-323/93, Centre d'Insémination de la Crespelle (Racc. pag. I-5077, punto 31), e 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti (Racc. pag. 1629, punti 36-38).
(23) - Sentenze 13 dicembre 1990, causa 238/89, Pall (Racc. pag. I-4827, punto 22); Clinique, citata, punto 10, e 9 luglio 1997, cause riunite da C-34/95 a C-36/95, De Agostini e TV-Shop (Racc. I-3843, punto 37).
(24) - Sentenza Clinique, punto 12.
(25) - V., in particolare, sentenze 17 maggio 1984, causa 15/83, Denkavit Nederland (Racc. pag. 2171, punto 15), e 9 agosto 1994, causa C-51/93, Meyhui (Racc. pag. I-3874, punto 11; in prosieguo: la «sentenza Meyhui»).
(26) - V. Reuthental, «Verstößt das deutsche Irreführungsgebot gegen Artikel 30 EGV?», WRP 12/97, pag. 1154, in particolare pag. 1160.
(27) - V. Emmerich, Das Recht des unlauteren Wettbewerbs, art. 12, 8, lett. b), quarta ed., 1995.
(28) - V. sentenze 28 aprile 1998, causa C-200/96, Metronome Musik (Racc. pag. I-1953, punto 14), e 22 settembre 1998, causa C-61/97, FDV (Racc. pag. I-5171, punto 13).
(29) - Sentenza 10 luglio 1984, causa 72/83, Campus Oil e a. (Racc. pag. 2727, punto 37).
(30) - V. sentenza 26 novembre 1996, causa C-313/94, Graffione (Racc. pag. I-6039, punto 24).
(31) - V. sentenze Unilever (citata alla nota 20), punto 27, e Clinique, citata, punto 16.
(32) - Sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe Zentral (Racc. pag. 649).
(33) - Sentenza 12 marzo 1987, causa 178/84, Commissione/Germania (Racc. pag. 1227).
(34) - Loc. cit., punti 35 e 36.
(35) - Citata alla nota 23, punto 19.
(36) - Sentenza 7 marzo 1990, causa C-362/88, GB-INNO-BM (Racc. pag. I-667, punto 14). Nella sentenza 18 maggio 1993, Yves Rocher (causa C-126/91, Racc. pag. I-2361), la Corte ha dichiarato che un divieto generale di pubblicità vistosa contenente confronti di prezzo, imposto dall'UWG tedesco, costituisce una restrizione sproporzionata, «in quanto colpisce pubblicità prive di qualsiasi natura ingannevole che contengano confronti fra prezzi realmente praticati, che possono essere molto utili onde consentire al consumatore di effettuare le proprie scelte con piena cognizione di causa» (punto 17; il corsivo è mio).
(37) - V. sentenza 20 maggio 1992, causa C-290/90, Commissione/Germania (Racc. pag. I-3317, punto 11). Alcuni mesi prima della sentenza Commissione/Germania, la Corte aveva evitato di prendere in considerazione i consumatori cui il messaggio nella specie, un messaggio assertivamente contenuto nella pubblicizzazione come «nuovi» di autoveicoli immatricolati prima di essere importati che non avevano mai circolato è rivolto; v. sentenza 16 gennaio 1992, causa C-373/90, Istruttoria X (Racc. pag. I-131, punto 15).
(38) - V. direttiva del Consiglio 26 gennaio 1965, 65/65/CEE, per il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative alle specialità medicinali (GU 1965, n. 22, pag. 369).
(39) - V. direttiva del Consiglio 15 dicembre 1969, 69/493/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al vetro cristallo (GU L 326, pag. 36).
(40) - Sentenza Meyhui, citata alla nota 25, punto 18 (il corsivo è mio).
(41) - Sentenza Mars, citata alla nota 4, punto 24.
(42) - Sentenza 16 luglio 1998, causa C-210/96, Gut Springenheide e Tusky (Racc. pag. I-4657; in prosieguo: la «sentenza Gut Springenheide»).
(43) - V. regolamento (CEE) del Consiglio 29 ottobre 1975, n. 2771, relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore delle uova (GU L 282, pag. 49), e art. 10 del regolamento (CEE) del Consiglio 26 giugno 1990, n. 1907, relativo a talune norme di commercializzazione applicabili alle uova (GU L 173, pag. 5), come modificato.
(44) - Sentenza 28 gennaio 1999, causa C-303/97 (Racc. pag. I-513; in prosieguo: la «sentenza Sektkellerei Kessler»).
(45) - Nella sentenza Sektkellerei Kessler la Corte, richiamandosi ai punti 35-37 della sua sentenza Gut Springenheide, ha anche espresso riserve circa la loro utilità: «Solo qualora incontri particolari difficoltà nel valutare il carattere ingannevole del marchio, e in mancanza di qualsiasi disposizione comunitaria in materia, il giudice nazionale può fare ricorso, alle condizioni previste dal proprio diritto, a provvedimenti istruttori quali un sondaggio di opinioni o una perizia, destinati a chiarire il suo giudizio (...)».
(46) - Sentenza Clinique, citata alla nota 5, punto 21.
(47) - Citata alla nota 30, punto 22. A mio parere, il fatto che la causa riguardasse un marchio non priva il rilievo della Corte di validità generale. Al paragrafo 10 delle sue conclusioni nella detta causa, l'avvocato generale Jacobs aveva rilevato come la denominazione «Cotonelle» fornisse «un ottimo esempio relativamente al fattore linguistico», in quanto esso avrebbe potuto «indurre qualcuno di lingua inglese, francese o italiana a credere che un prodotto [fosse] fatto di cotone [ma] difficilmente [avrebbe potuto] avere tale effetto su qualcuno che parla[sse] solo tedesco o spagnolo, poiché le espressioni che indicano il cotone in queste lingue sono "Baumwolle" e rispettivamente "algodón"».
(48) - Sentenza 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer (Racc. pag. I-3819, punti 25-26 e 28).
(49) - Paragrafo 9 delle conclusioni.
(50) - Loc. cit.
(51) - V. sentenza Gut Springenheide, punto 30. Tra le pronunce ivi citate, l'esempio più importante di siffatta impostazione è sicuramente fornito dalla sentenza Clinique.