CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

F. G. JACOBS

presentate il 29 aprile 1997 ( *1 )

1. 

Nella presente causa, il Bundesgerichtshof (la Corte di giustizia federale tedesca) chiede alla Corte indicazioni per interpretare la nozione di «confusione» tra marchi di impresa ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della prima direttiva del Consiglio sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa (la «direttiva sui marchi di impresa» o semplicemente «la direttiva») ( 1 ). È questa la prima volta in cui la Corte è chiamata ad interpretare detto concetto ai sensi della direttiva in questione ( 2 ) precedentemente essa aveva già affrontato il problema della confusione, ma in maniera marginale e riguardo agli artt. 30 e 36 del Trattato ( 3 ).

Fatti e procedimento nazionale

2.

La società olandese SABEL BV (in prosieguo: la «SABEL»), titolare del marchio IR 540894, ha presentato domanda di registrazione nella Repubblica federale di Germania ( 4 ).

3.

Il marchio in questione consiste in un felino maculato, in apparenza un ghepardo, che salta (o meglio corre) verso destra e nella dicitura SABEL posta sotto l'immagine dell'animale:

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La SABEL intendeva registrare questo marchio di impresa con riferimento alle seguenti categorie di oggetti:

«14

Articoli di gioielleria, ivi compresi orecchini, catenine, fermagli e spille.

18

Cuoio e imitazioni del cuoio, prodotti di queste materie non inclusi in altre categorie; borse e borsette.

25

Indumenti, ivi compresi collant, maglieria, cinture, sciarpe, cravatte/foulard e bretelle; calzature; cappelli.

26

Articoli di moda non inclusi in altre categorie quali passamaneria, fasce e fermagli per capelli, mollette per capelli, forcine e ornamenti simili per capelli».

4.

La Puma Aktiengesellschaft Rudolf Dassler Sport (in prosieguo: la «Puma»), proprietaria di due marchi emblematici anteriori, si è opposta alla domanda di registrazione della SABEL. Il suo marchio numero 1106066 è anch'esso la raffigurazione di un felino che corre verso destra ma, a differenza del marchio della SABEL, esso riproduce solo la sagoma dell'animale. L'animale che si intendeva rappresentare è presumibilmente un puma piuttosto che un ghepardo. Indicherò quindi il marchio in questione come il marchio del «puma in corsa».

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Esso è registrato, fra l'altro, per cuoio ed imitazioni del cuoio, prodotti di queste materie (borse) e articoli d'abbigliamento.

5.

L'altro marchio della Puma, numero 1093901, consiste esso pure nella raffigurazione di un felino il quale, però, spicca un balzo in alto verso sinistra anziché correre verso destra. Si tratta anche qui di una sagoma che intende presumibilmente raffigurare un puma. Questo marchio, che indicherò d'ora in poi come il marchio del «puma che balza», è registrato, fra l'altro, per gioielli e soprammobili.

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6.

La sezione di controllo per la categoria 18 IR presso l'Ufficio tedesco dei brevetti non ha riscontrato alcuna somiglianza, ai sensi della legge sui marchi di impresa, tra il marchio della SABEL e quelli della Puma, e ha quindi respinto l'opposizione presentata da quest'ultima, che ha allora proposto ricorso dinanzi al Bundespatentgericht (tribunale federale competente in materia di brevetti). Il ricorso è stato respinto per la parte relativa al marchio del «puma che balza», mentre è stato invece parzialmente accolto per quanto concerne il marchio del «puma in corsa». Il Bundespatentgericht ha ritenuto che, ai sensi della legge sui marchi di impresa, esiste una somiglianza tra il marchio SABEL ed il marchio del «puma in corsa» con riferimento alle merci rientranti nelle categorie 18 e 25, che esso ha considerato come identiche o simili alle merci per le quali era stato registrato il marchio del «puma in corsa». La SABEL ha presentato ricorso, di fronte al Bundesgerichtshof, contro questo parziale rifiuto di tutela del suo marchio nella Repubblica federale di Germania.

7.

La direttiva è stata attuata in Germania con il Gesetz über den Schutz von Marken und sonstigen Kennzeichen del 25 ottobre 1994 ed è entrata in vigore il 1o gennaio 1995 ( 5 ). L'art. 9, primo e secondo capoverso, della legge tedesca riflette da vicino i termini dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva: esso prevede infatti che può essere negata tutela a un marchio in Germania se, in ragione della somiglianza con un marchio di impresa anteriore nonché in ragione della identità o somiglianza dei prodotti ai quali i due marchi si riferiscono, possa crearsi un rischio di confusione il quale includa il rischio di associazione tra i due marchi. (La legge tedesca come pure la versione tedesca della direttiva parlano di «rischio» di confusione, mentre la versione inglese della direttiva parla di «probabilità» di confusione).

8.

Il Bundesgerichtshof ritiene che, ai sensi della legge sui marchi di impresa, non esista rischio di confusione tra il contrassegno SABEL e alcuno dei due marchi Puma. Quest'organo illustra i principi alla base di questa conclusione nella maniera che segue.

Impressione generale

9.

Il Bundesgerichtshof ritiene che si debba prendere in considerazione l'impressione generale prodotta dai rispettivi contrassegni; sebbene un suo singolo elemento possa avere un particolare «carattere distintivo» e possa, quindi, contraddistinguerlo nel suo complesso, non sarebbe tuttavia ammissibile concentrare l'attenzione su un elemento isolato del contrassegno del convenuto e stabilirne per ciò solo la somiglianza con quello dell'attore.

10.

Il Bundesgerichtshof, esaminata la motivazione della pronuncia del Bundespatentgericht, conclude che non si può criticare quest'ultimo per l'importanza da esso attribuita al motivo emblematico contenuto nel marchio SABEL a scapito dell'elemento testuale.

Carattere distintivo

11.

Un secondo principio accolto dal Bundesgerichtshof riguarda il «carattere distintivo» del contrassegno tutelato. Quest'organo ritiene che un contrassegno possa avere «carattere distintivo» sia intrinsecamente (con il che si riferisce probabilmente all'originalità del nome inventato) sia come risultato dell'importanza commerciale del contrassegno. Secondo il Bundesgerichtshof, maggiore è il «carattere distintivo» di un contrassegno, maggiore è il rischio di confusione; dalla notorietà di un contrassegno non si può dedurre che contrassegni che costituiscono variazioni dello stesso tema possano essere più facilmente distinguibili. Comunque il Bundesgerichtshof sottolinea che nel presente caso non si pone il problema di sapere se un contrassegno anteriore abbia uno speciale «carattere distintivo», perché nessuna richiesta in questo senso è stata fatta. Con ciò esso intende presumibilmente osservare che non è stato asserito né che il «puma in corsa» sia un marchio particolarmente ben conosciuto né che il «puma che balza» sia una rappresentazione figurativa di particolare originalità.

Segni descrittivi

12.

Da ultimo, il Bundesgerichtshof considera necessario interpretare restrittivamente il concetto di rischio di confusione ai sensi della legge sui marchi di impresa, quando le componenti di un contrassegno sono meramente descrittive e di scarso contenuto inventivo. Esso sostiene che detto principio si applica tanto alle espressioni verbali, quanto alle rappresentazioni della natura e ricorda di avere ripetutamente affermato, nella propria giurisprudenza, che il commercio, di fronte a un marchio basato su una nozione molto generale, non tende normalmente a considerarlo come indicativo dell'origine aziendale.

13.

Il Bundesgerichtshof osserva che la raffigurazione del felino in corsa è un motivo tratto dalla natura e riproduce un movimento tipico di questi animali. Esso considera che le particolarità del disegno del felino in corsa nel contrassegno Puma, per esempio la sua rappresentazione come «silhouette», la cui ripetizione potrebbe costituire una somiglianza in base alle norme sui marchi di impresa, non si riscontrano nel marchio SABEL. Esso conclude pertanto che la similarità di contenuto («felino in corsa») tra l'elemento grafico del marchio SABEL e quello del marchio Puma non può essere addotta a fondamento di un rischio di confusione ai sensi del diritto dei marchi di impresa.

14.

Tuttavia, il Bundesgerichtshof, ritenendo necessario fissare «una interpretazione uniforme dei concetti di somiglianza e rischio di confusione», quali sono menzionati nella direttiva, ha sollevato la seguente questione «di interpretazione dell'art. 4, n. 1, lett. b)» della direttiva stessa:

«Se per affermare l'esistenza del rischio di confusione di un marchio composto di parola e d'immagine con un marchio registrato esclusivamente come immagine per merci uguali e somiglianti, il quale non gode di alcuna particolare notorietà commerciale, sia sufficiente che entrambe le immagini rappresentino la stessa idea (nella fattispecie: “un felino in corsa”).

Quale significato debba essere attribuito in tale contesto alla formulazione della direttiva, secondo cui il rischio di confusione comporta anche un rischio di associazione tra un marchio ed un altro ad esso anteriore».

15.

Osservazioni sono state depositate da parte della Puma, da parte dei governi francese, olandese e britannico e da parte della Commissione. Inoltre, rappresentanti della SABEL, della Commissione e dei governi belga, francese, lussemburghese e britannico, erano presenti all'udienza.

Le disposizioni della direttiva

16.

La direttiva sui marchi di impresa è stata emanata sulla base dell'art. 100 A del Trattato. Il suo scopo non era di «procedere ad un ravvicinamento completo delle legislazioni degli Stati membri», ma semplicemente di ravvicinare le «disposizioni nazionali che hanno un'incidenza più diretta sul funzionamento del mercato interno» (terzo ‘considerando’).

17.

A norma del sesto ‘considerando’ la direttiva «non esclude che siano applicate ai marchi di impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori».

18.

Il decimo ‘considerando’ recita:

«considerando che la tutela che è accordata dal marchio di impresa registrato e che mira in particolare a garantire la funzione d'origine del marchio di impresa, è assoluta in caso di identità tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi; che la tutela è accordata anche in caso di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi; che è indispensabile interpretare la nozione di somiglianza in relazione al rischio di confusione; che il rischio di confusione, la cui valutazione dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notorietà del marchio di impresa sul mercato, dall'associazione che può essere fatta tra il marchio di impresa e il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati, costituisce la condizione specifica della tutela; che le norme procedurali nazionali che non sono pregiudicate dalla presente direttiva disciplinano i mezzi grazie a cui può essere constatato il rischio di confusione, e in particolare l'onere della prova».

19.

L'ultimo ‘considerando’ conclude che «tutti gli Stati membri della Comunità sono parti contraenti della convenzione di Parigi per la tutela della proprietà industriale» e che «è necessario che le disposizioni della presente direttiva siano in perfetta armonia con quelle della convenzione di Parigi». Dichiara che «la presente direttiva non pregiudica gli obblighi degli Stati membri derivanti da detta convenzione» e che «ove necessario, è applicabile l'art. 234, secondo comma del Trattato».

20.

L'art. 1 della direttiva prevede che la direttiva «si applica ai marchi di impresa di prodotti o di servizi individuali, collettivi, di garanzia o certificazione che hanno formato oggetto di una registrazione o di una domanda di registrazione in uno Stato membro o presso l'ufficio dei marchi del Benelux o che sono oggetto di una registrazione internazionale che produce effetti in uno Stato membro».

21.

L'art. 2 della direttiva prevede quanto segue:

«Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese».

22.

L'art. 4, n. 1, prevede:

«Un marchio di impresa è escluso dalla registrazione o, se registrato, può essere dichiarato nullo:

a)

se il marchio di impresa è identico a un marchio di impresa anteriore e se i prodotti o servizi per cui il marchio di impresa è stato richiesto o è stato registrato sono identici a quelli per cui il marchio di impresa anteriore è tutelato;

b)

se l'identità o la somiglianza di detto marchio di impresa col marchio di impresa anteriore e l'identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dai due marchi di impresa può dar adito a un rischio di confusione per il pubblico comportante anche un rischio di associazione tra il marchio di impresa ed il marchio di impresa anteriore».

23.

Il significato di «marchi anteriori» è precisato all'art. 4, n. 2.

24.

L'art. 4, n. 3, recita:

«Un marchio di impresa è altresì escluso dalla registrazione o, se registrato, può essere dichiarato nullo se esso è identico o simile ad un marchio di impresa comunitario anteriore ai sensi del paragrafo 2 e se è stato destinato ad essere registrato o è stato registrato per prodotti o servizi i quali non sono simili a quelli per cui è registrato il marchio di impresa comunitario anteriore quando il marchio di impresa comunitario anteriore gode di notorietà nella Comunità e l'uso del marchio di impresa successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa comunitario anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi».

25.

L'art. 4, n. 4, contiene una disposizione simile con riferimento ai marchi nazionali (nella loro qualità di marchi distinti dai marchi comunitari) i quali godano di notorietà all'interno di uno Stato membro; tuttavia gli Stati membri hanno il potere discrezionale di decidere se applicare o meno questa disposizione.

26.

L'art. 5 specifica i diritti conferiti dal marchio di impresa:

«1.   Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a)

un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

b)

un segno che, a motivo dell'identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell'identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa.

2.   Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello Stato membro e se l'uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi.

(...)

5.   I paragrafi da 1 a 4 non pregiudicano le disposizioni applicabili in uno Stato membro per la tutela contro l'uso di un segno fatto a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti o servizi, quando l'uso di tale segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi».

27.

Disposizioni praticamente identiche a quelle degli artt. 4, n. 1, e 5, n. 1, si ritrovano nel regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario («il regolamento sul marchio comunitario» o semplicemente «il regolamento») ( 6 ). Lo scopo di questo regolamento è di rendere possibile l'applicazione di un unico «marchio comunitario» valido per tutta la Comunità ( 7 ). Le richieste di registrazione devono essere indirizzate all'Ufficio del marchio comunitario (l'Ufficio) ( 8 ).

28.

L'art. 8 del regolamento prevede:

«1.   In seguito all'opposizione del titolare di un marchio anteriore il marchio richiesto è escluso dalla registrazione:

a)

se esso è identico al marchio anteriore e se i prodotti o servizi per i quali il marchio è stato richiesto sono identici ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio anteriore è tutelato;

b)

se a causa dell'identità o della somiglianza di detto marchio col marchio anteriore e dell'identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore.

(...)

5.   In seguito all'opposizione del titolare di un marchio anteriore ai sensi del paragrafo 2, la registrazione del marchio depositato è altresì esclusa se il marchio è identico o simile al marchio anteriore e se ne viene richiesta la registrazione per prodotti o servizi non simili a quelli per i quali è registrato il marchio anteriore, qualora, nel caso di un marchio comunitario anteriore, quest'ultimo sia il marchio che gode di notorietà nella comunità o, nel caso di un marchio nazionale anteriore, quest'ultimo sia un marchio che gode di notorietà nello Stato membro in questione e l'uso senza giusto motivo del marchio richiesto possa trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o recare pregiudizio agli stessi».

29.

Il significato di «marchi anteriori» è precisato all'art. 8, n. 2.

30.

L'art. 52, n. 1, prevede che un marchio comunitario sia dichiarato nullo, su domanda presentata all'Ufficio o su domanda riconvenzionale in un'azione per contraffazione, fra l'altro quando «esiste un marchio anteriore ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 2, e ricorrono le condizioni di cui al paragrafo 1 o al paragrafo 5 di tale articolo».

Giurisprudenza precedente

31.

La Corte, come ho detto precedentemente nell'introduzione, ha già avuto modo di trattare il tema della confusione contemplata dalla legislazione sui marchi di impresa; ciò è avvenuto in relazione agli artt. 30 e 36 del Trattato e prima dell'entrata in vigore della direttiva sui marchi. Il principio secondo cui la confusione tra marchi di impresa è in generale una ragione sufficiente per opporsi all'importazione di prodotti, è stato enunciato per la prima volta nella causa Terrapin/Terranova ( 9 ) e confermato poi nelle cause «Hag II» ( 10 ), Deutsche Renault ( 11 ) e IHT Internationale Heiztechnik e Danziger ( 12 ). Nella causa Deutsche Renault la Corte ha ricordato che l'oggetto specifico del diritto sui marchi di impresa consiste nella tutela del titolare del marchio contro i rischi di confusione atti a far sì che terzi traggano indebito vantaggio dalla reputazione dei prodotti di detto titolare. La Corte ha ritenuto che il criterio per stabilire se ci fosse o no un rischio di confusione faceva parte delle modalità di tutela del marchio di impresa che erano, a quell'epoca, fatto salvo il disposto della seconda frase dell'art. 36, di competenza del legislatore nazionale; inoltre che il diritto comunitario non imponeva alcun criterio di interpretazione restrittiva del rischio di confusione. Queste osservazioni sono state successivamente riprese nella sentenza IHT Internationale Heiztechnik e Danziger, in cui la Corte ha messo l'accento (al punto 19) sulla seconda frase dell'art. 36, la quale, in particolare, vieta ai tribunali nazionali di effettuare valutazioni sulla somiglianza dei prodotti tali da creare una discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri. Sebbene questi due casi siano stati decisi in relazione alla situazione esistente prima che la direttiva sui marchi di impresa entrasse in vigore, potrebbero tuttavia, come dirò più tardi, essere di aiuto nel trattare questo caso.

32.

Si è fatto riferimento anche a precedenti pronunce con cui la Corte ha dichiarato che un marchio di impresa serve come garanzia di origine. La SABEL ed il Regno Unito si richiamano a tali pronunce per avvalorare la tesi secondo cui le norme sulla tutela dei marchi di impresa non possono andare oltre quanto è necessario a garantire tale funzione. Questa tesi mi sembra avere un certo fondamento. Senza dubbio la Corte ha chiarito, in generale, come non fosse sua intenzione definire in maniera esaustiva lo scopo della tutela dei marchi di impresa. Nella causa Hoffmann-La Roche/Centrafarm ( 13 ), per esempio, essa ha dichiarato che la funzione consistente nel garantire l'origine del prodotto marchiato è la funzione sostanziale del marchio di impresa (la stessa formulazione si ritrova nel decimo ‘considerando’della direttiva secondo il quale lo scopo della tutela del marchio di impresa è, «in particolare» quello di garantire la funzione d'origine del marchio) ( 14 ). La Corte, come già detto, ha anche definito l'«oggetto specifico» di un marchio di impresa come consistente «segnatamente nel garantire al titolare il diritto esclusivo di utilizzare il marchio per la prima messa in commercio e nel tutelarlo, in tal modo, dai concorrenti che volessero abusare della posizione e della reputazione del marchio vendendo prodotti abusivamente contrassegnati con questo» ( 15 ). Inoltre, riconoscendo nella causa Bristol Myers-Squibb e a. ( 16 ) il diritto del titolare di un marchio di impresa di opporsi ad un riconfezionamento difettoso, di cattiva qualità o grossolano del prodotto e quindi atto a nuocere alla sua reputazione, la Corte sembra aver manifestamente ammesso che le norme sui marchi di impresa non si limitano a tutelare l'interesse giuridico ad evitare qualsiasi confusione circa l'origine del prodotto (questo tema è stato affrontato nelle mie conclusioni nella causa Parfums Christian Dior) ( 17 ). Tuttavia l'accento posto dalla Corte sul concetto di confusione può risultare importante, perfino nell'interpretare la direttiva.

La questione sottoposta alla Corte

33.

Il Bundesgerichtshof ritiene che la difficoltà, in questo caso, riguardi il fatto di accertare se la pura associazione concettuale che il pubblico opera con i due contrassegni attraverso l'immagine del «felino in corsa» sia sufficiente a giustificare, nella Repubblica federale di Germania, il rifiuto di tutelare il marchio 540894 per i prodotti identici della categoria 18 e per i prodotti della categoria 25 che il Bundespatentgericht considera somiglianti. Questa difficoltà nasce in particolare, secondo il Bundesgerichtshof, dalla formulazione ambigua dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva sui marchi, in base alla quale il rischio di confusione comporta anche un rischio d'associazione tra il marchio di impresa ed il marchio di impresa anteriore.

34.

In primo luogo tratterò dunque la seconda parte della questione posta dal Bundesgerichtshof, la quale solleva il problema più generale di chiarire il significato dell'art. 4, n. 1, lett. b), nella parte in cui si riferisce «a un rischio di confusione per il pubblico comportante anche un rischio di associazione tra il marchio di impresa ed il marchio di impresa anteriore». Ciò sarà di aiuto al momento di trattare la prima parte della questione posta; questa concerne il fatto se possa aversi confusione allorché la stessa idea sia espressa da due marchi emblematici (di cui uno include una scritta).

Il concetto di «associazione» nel diritto degli Stati del Benelux

35.

Per capire le difficoltà provocate da questa locuzione, è necessario comprendere i differenti modi di affrontare il tema della protezione dei marchi di impresa adottati dagli Stati del Benelux, da un lato, e dalla maggior parte degli altri Stati membri, dall'altro. È accertato che il riferimento al «rischio di associazione» presente nella direttiva, è tratto dal diritto degli Stati del Benelux. Secondo la Legge uniforme degli Stati del Benelux sui marchi di impresa (in prosieguo: la «Legge degli Stati del Benelux») ( 18 ), e in ogni caso prima dell'attuazione della direttiva, il titolare di un marchio registrato poteva impedire qualsiasi uso di un marchio identico o simile al suo, che riguardasse prodotti identici o simili a quelli per i quali il suo proprio marchio era stato registrato ( 19 ). La somiglianza tra i marchi era quindi elemento sufficiente; contrariamente alla situazione esistente in altri Stati membri, la legge degli Stati del Benelux non richiedeva un rischio di confusione. Non faceva neppure espresso riferimento al rischio di associazione. Questo concetto fu introdotto dalla Corte di giustizia del Benelux nella causa «Union/Union Soleure» del 1983 ( 20 ). La Corte di giustizia del Benelux dichiarò che c'è somiglianza tra un marchio ed un segno quando, tenuto conto delle circostanze particolari del caso, incluso il carattere distintivo del marchio, il marchio e il segno, considerati di per sé e in relazione reciproca, presentino a livello fonetico, visuale o concettuale, una somiglianza tale da creare un'associazione tra il segno ed il marchio. La Corte di giustizia del Benelux non seguì le conclusioni del suo avvocato generale il quale riteneva necessario il rischio di confusione in merito all'origine del prodotto.

36.

Neppure nella legislazione adottata dagli Stati del Benelux per attuare la direttiva si fa riferimento al concetto di confusione. Un protocollo del 2 dicembre 1992 (entrato in vigore il 1o gennaio 1996) ha modificato l'art. 13 A, n. 1, della legge degli Stati del Benelux in termini tali da prevedere che, quando nella mente del pubblico esista un «rischio di associazione» tra il contrassegno ed il marchio, il titolare di un marchio di impresa può opporsi, in virtù del suo diritto esclusivo, ad ogni impiego commerciale dello stesso marchio o di un contrassegno simile, per prodotti identici o simili a quelli per i quali il marchio è stato registrato.

37.

La differenza tra la legge degli Stati del Benelux e la legislazione degli altri Stati membri potrebbe, tuttavia, non essere così grande come sembra. Infatti, secondo il governo britannico, vi è in concreto poca differenza tra il concetto di associazione quale si ritrova negli Stati del Benelux e il concetto di confusione quale si ritrova negli altri Stati membri, giacché quest'ultimo viene interpretato in maniera molto estensiva.

38.

In realtà, il concetto di confusione include in taluni Stati membri come la Germania e l'Austria, non solo la confusione in senso stretto, cioè l'errata supposizione che i prodotti in questione provengano dalla stessa impresa, ma anche la confusione in senso ampio, cioè l'errata supposizione che ci sia un legame organizzativo o economico tra le imprese che commerciano i due prodotti; tuttavia non condivido la tesi del governo britannico secondo cui ci sarebbe, in pratica, solo una piccola differenza tra la tutela accordata al marchio di impresa nella legislazione degli Stati del Benelux e quella accordata dalla legislazione degli altri Stati membri. Persino la confusione di cui sopra, intesa in senso ampio, comprende la confusione relativa all'origine del prodotto. Il diritto degli Stati del Benelux sembra andare oltre quello che è il diritto in tema di marchi di impresa esistente negli altri Stati membri: il primo, infatti, protegge il titolare del marchio di impresa contro l'uso di segni identici o simili in circostanze nelle quali il consumatore non è confuso in quanto all'origine del prodotto, fornendo così una protezione anche contro i danni causati dalla cosiddetta degradazione e diluizione dei marchi di impresa. Questi concetti sono stati ben spiegati nella causa Claeryn/Klarein ( 21 ) sottoposta alla Corte di giustizia del Benelux dai governi olandese, belga e lussemburghese. A norma del secondo comma dell'art. 13 A, n. 1, della legge degli Stati del Benelux, nel testo in vigore a quel tempo, il titolare di un marchio di impresa poteva opporsi ad ogni uso del marchio o di un segno simile quando, nell'ambito del commercio e senza giustificata ragione, tale uso fosse suscettibile di arrecare danno al marchio stesso. La causa in questione aveva ad oggetto il marchio «Claeryn» (un gin olandese) e il marchio «Klarein» (un liquido per la pulizia), che in lingua olandese si pronuncerebbero nella stessa maniera.

39.

La Corte di giustizia del Benelux ritenne in questo caso che la capacità di stimolare il desiderio di acquistare i prodotti per i quali il marchio è registrato, la quale costituisce uno dei vantaggi del marchio di impresa, potrebbe venire compromessa dall'uso del marchio, o di segni simili, per prodotti di altra specie. La stessa Corte individuò due situazioni nelle quali ciò avverrebbe: quando l'attenuazione del carattere distintivo del marchio comporti il venire meno dell'immediata associazione con i prodotti per i quali il marchio è registrato ed usato (che è presumibilmente ciò che si intende per «diluizione» del marchio di impresa); o quando le merci per le quali il marchio in accusa viene impiegato, operano, nella mente del pubblico, un richiamo tale da pregiudicare la forza attrattiva del marchio di impresa (che è presumibilmente ciò che si intende per «degradazione» del marchio di impresa). La possibilità che la somiglianza tra i due marchi suscitasse nel consumatore che beveva il gin «Claeryn» l'idea del prodotto di pulizia, indusse a ritenere che il marchio «Klarein» violava il diritto del marchio «Claeryn», sebbene non si fosse constatato alcun rischio che il consumatore potesse considerare i due prodotti come provenienti dalla stessa società o da società collegate. D'ora innanzi mi riferirò ad «associazione non concernente l'origine» come a quel tipo di associazione che non comporta alcuna confusione in quanto all'origine ( 22 ).

40.

Un altro esempio è quello citato in udienza dal governo belga e riguardante i marchi «Monopoli» e «Antimonopoli» ( 23 ). In questo caso lo Hoge Raad (la Corte Suprema) olandese permise al titolare del marchio di impresa «Monopoli» (il noto gioco di società) di opporsi all'uso del segno «Antimonopoli»; quest'ultimo si riferiva ad un gioco che, in deliberato contrasto con il primo, era anticapitalistico. Nonostante che la Corte olandese sembri aver accertato, nel corso del procedimento, che una parte significante del pubblico avrebbe fatto confusione tra i due, questo caso è stato preso come esempio di una situazione in cui non esisteva un rischio di confusione essendo l'uno non soltanto il contrario, ma addirittura la negazione dell'altro ( 24 ).

41.

In conclusione sembra che il concetto di «associazione» negli Stati del Benelux, permetta al titolare di un marchio di impresa di opporsi all'uso di segni i quali «facciano venire in mente» il suo marchio, anche se non esiste alcun rischio che il consumatore possa comunque istituire un legame tra il titolare del marchio di impresa e i prodotti recanti il segno concorrente.

La storia dei negoziati della direttiva

42.

Gli Stati del Benelux sostengono che la direttiva intendeva includere il loro concetto di «associazione» nel diritto comunitario sui marchi di impresa: su questo si erano battuti durante i negoziati precedenti l'adozione della direttiva. Nel ripercorrere la storia dei negoziati, essi attirano l'attenzione su una dichiarazione contenuta, secondo quanto sostengono, in un verbale non pubblicato del Consiglio con la quale «il Consiglio e la Commissione rileverebbero che “il rischio di associazione” è un concetto che è stato sviluppato, in particolare, dalla giurisprudenza degli Stati del Benelux». Un articolo scritto da due dei rappresentanti degli Stati del Benelux nei negoziati della direttiva ( 25 ) descrive il dibattito che ebbe luogo in riferimento al termine «associazione». Verso la fine dell'articolo gli autori affermano:

«All'inizio l'Olanda aveva cercato di far riprendere, tale e quale, il testo dell'art. 13 A, punto 1, della legge del Benelux sui marchi di impresa come disposizione facoltativa. Siccome ciò non venne accettato, si cercò di far passare il concetto di “rischio di associazione”, quale era stato sviluppato dalla Corte di giustizia del Benelux, come alternativa al concetto di “rischio di confusione”. Dal momento che neppure questa idea trovò appoggio, gli Stati del Benelux, tenuto conto della versione finale del preambolo nonché della dichiarazione nel verbale del Consiglio, (...) e visti altresì i risultati già ottenuti su altri punti, accettarono la proposta finale di compromesso riguardo all'art. 3, sezione 1, lett. b), del progetto di direttiva: (...) “il rischio di confusione per il pubblico, che include il rischio di associazione con il marchio di impresa anteriore”».

43.

Questo resoconto sembra in sintonia con le spiegazioni che sono state date dai governi francese e britannico in merito all'inclusione di questo termine. Tuttavia, pur avendo riguardo alla storia dei negoziati e alla presunta dichiarazione inclusa nel verbale del Consiglio, mi sembra che le informazioni da ciò ricavabili siano quanto meno ambigue. Per quanto concerne la presunta dichiarazione, non credo che si possa contare su di essa ( 26 ) ma il contenuto di quella dichiarazione non è comunque in discussione. Ciò che è controverso è l'esatta portata, ai sensi della direttiva, del riferimento al rischio di associazione, e sotto questo aspetto la dichiarazione non è di alcun aiuto. Con riferimento alla storia dei negoziati è significativo che essa sia utilizzata, a fini opposti, tanto dai sostenitori di una interpretazione estensiva del concetto di associazione ai sensi della direttiva, quanto dai fautori di una interpretazione restrittiva. Si può concludere dicendo che tutto ciò non ci aiuta nell'interpretare la direttiva.

I termini della direttiva

44.

La soluzione della questione posta dal Bundesgerichtshof risulta chiara dai termini stessi della direttiva, senza alcuna necessità di cercare aiuto in fonti esterne. Tanto l'art. 4, n. 1, lett. b), quanto l'art. 5, n. 1, lett. b), ci dicono che il rischio di confusione «include» il rischio di associazione e non viceversa. È chiaro quindi che anche se, secondo il diritto degli Stati del Benelux, il concetto di associazione può comprendere casi che vanno oltre quelli di confusione diretta o indiretta, ciò non è invece possibile ai sensi della direttiva. Gli Stati del Benelux non hanno cercato di sostenere che l'associazione non concernente l'origine equivalga alla confusione, quanto piuttosto che sia contemplata dalla direttiva. È però difficile vedere come l'associazione non comprendente la confusione possa essere fatta rientrare nella direttiva, dal momento che quest'ultima richiede un rischio di confusione che «include» il rischio di associazione. Il giudice Laddie ha colto chiaramente questo aspetto nella causa Wagamama, un caso inglese che tratta, giustamente, di questo problema: sarebbe «un uso del linguaggio assai insolito ritenere che il più ristretto (il rischio di confusione) contenga il più ampio (il rischio di associazione)» ( 27 ).

45.

Nello stesso senso si esprimono i ‘considerando’. Il decimo, già citato ( 28 ), afferma che il rischio di confusione «costituisce la condizione specifica» della tutela accordata dal marchio e sembra inoltre suggerire che l'associazione sia uno degli elementi da prendere in considerazione nel valutare il rischio di confusione. Oltre a ciò, sempre il decimo ‘considerando’, nel sostenere che la tutela del marchio di impresa mira in particolare a garantire la funzione di origine del marchio stesso, rispecchia, come già detto prima, la stessa giurisprudenza della Corte. Non vi è riferimento ad alcun altro scopo. Si può semmai ragionevolmente dedurne che la tutela contro il rischio di confusione concernente l'origine costituisca un utile strumento di interpretazione al momento di valutare le norme che regolano la possibilità di registrare un marchio.

46.

Sembra inoltre che, prima dell'entrata in vigore della direttiva, solo gli Stati del Benelux accogliessero all'interno del proprio diritto sui marchi di impresa il concetto di associazione non concernente l'origine. Di conseguenza, introdurre tale concetto nella direttiva sarebbe stato un passo rilevante. Il giudice Laddie, nella causa Wagamama, espresse assai incisivamente questo punto osservando che, dal momento che ciò avrebbe significativamente esteso i diritti del marchio di impresa e di conseguenza avrebbe ristretto in maniera rilevante la libertà di concorrenza commerciale, una simile estensione avrebbe «dovuto essere espressa con parole chiare e precise in maniera tale che i. commercianti di tutta l'Unione Europea potessero rendersi conto che i loro legislatori avevano dato vita ad un nuovo ampio monopolio». Poiché la maggior parte degli Stati membri non hanno accolto nel loro diritto sui marchi di impresa il concetto di associazione non concernente l'origine e siccome l'accoglimento di questo concetto pregiudicherebbe il libero scambio, sono d'accordo nel sostenere che, in assenza di una formulazione chiara in quel senso, non si può presumere che la normativa comunitaria abbia inteso accogliere tale concetto. Ciò costituirebbe inoltre un significativo distacco dalla giurisprudenza della Corte sugli artt. 30 e 36 del Trattato la quale, come abbiamo visto, è basata essenzialmente sulla nozione di confusione. Ancora una volta, sarebbe stata necessaria una formulazione più chiara se si fosse voluto quel risultato.

47.

Tuttavia, contrariamente a quanto è stato suggerito, ciò non significa che le parole «comportante anche un rischio di associazione» siano superflue. Come detto sopra, il termine confusione può essere interpretato in maniera restrittiva o estensiva. Perciò ai fini delle norme sul diritto di marchio il riferimento al termine «associazione» potrebbe essere stato introdotto semplicemente per chiarire che il concetto di confusione non comprende solo il fatto che un consumatore possa scambiare un prodotto per un altro, ma include anche gli altri tipi di confusione descritti sopra al paragrafo 38.

48.

Si è inoltre sostenuto che altre disposizioni della direttiva, prescindendo dall'elemento della confusione, garantirebbero, a certe condizioni, una tutela al marchio di impresa anche nel caso di prodotti non simili; di conseguenza, si afferma, non si può considerare la confusione come un requisito nel caso di prodotti simili. La tesi non convince in quanto la fattispecie a cui queste altre disposizioni si riferiscono è sufficientemente differente da giustificare l'assenza dell'espresso requisito della confusione. Si tratta infatti dell'ipotesi in cui il marchio anteriore «gode di notorietà nello Stato membro in questione ( 29 ) e l'uso del marchio di impresa successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi»: art. 4, n. 4, lett. a). Si è affermato che se la confusione non costituisce un requisito nel caso di prodotti non simili, allora, a fortiori, non può esserlo nel caso di prodotti simili. La tesi è inconciliabile con il dettato della direttiva, la quale richiede espressamente il requisito della confusione nel caso di prodotti simili. Inoltre è evidente che l'art. 4, n. 4, lett. a), fornisce semplicemente un differente criterio rispetto a quello della confusione; ciò avviene col richiedere la prova che l'uso del marchio successivo trarrebbe vantaggio dal marchio anteriore o recherebbe pregiudizio a quest'ultimo; è anche evidente che questo criterio è appropriato allo specifico scopo delle disposizioni, che è quello di tutelare un marchio notorio. Dal mancato riferimento alla confusione in questi casi non si può desumere che la direttiva, in contrasto con il suo dettato espresso, non richieda il requisito della confusione nella situazione completamente differente di marchi ordinari riguardanti prodotti simili.

49.

È vero che l'art. 4, n. 4, lett. a), si applica solo quando i prodotti non sono simili. Da ciò non si può tuttavia concludere che, se la confusione non è requisito necessario nel caso di prodotti non simili, non possa neppure esserlo nel caso di prodotti simili ex art. 4, n. 1, lett. b). Come ha sottolineato il Regno Unito, la ragione per la quale l'art. 4, n. 4, lett. a), si applica solo quando i prodotti non sono simili, è senza dubbio che sarebbe difficile immaginare una situazione nella quale non ci sia rischio di confusione allorché i prodotti sono simili a prodotti coperti da un marchio notorio. Un possibile esempio, come suggerito, è quello della causa «Antimonopoli» a cui già si è fatto riferimento: in questo caso fu concesso al proprietario del marchio «Monopoli» di opporsi all'uso del segno «Antimonopoli» nonostante che, dato il contrasto intenzionale tra i due marchi, non ci dovesse essere rischio di confusione. Eppure anche in questo caso, come detto sopra, ci si trovò di fronte ad elementi che sembravano provare l'esistenza di un rischio di confusione.

Lo scopo della direttiva

50.

Anche nel caso non si volesse considerare il dettato della direttiva come probante ai fini della mia tesi, cioè che la direttiva richieda la confusione per tutte le fattispecie ricadenti all'interno dell'art. 4, n. 1, lett. b), questa sarebbe comunque avvalorata dallo scopo della direttiva. Sarebbe poco coerente con lo scopo di una direttiva approvata sulla base dell'art. 100 A del Trattato fornirne un'interpretazione che, ampliando l'ambito di applicazione della tutela dei marchi in molti Stati membri, avrebbe come effetto una restrizione degli scambi. Come sottolineato dalla Commissione, le direttive approvate sulla base dell'art. 100 A sono dirette a conseguire gli obiettivi fìssati nell'art. 7 A, in particolare a garantire la libera circolazione di beni e servizi nel mercato interno. Il primo ‘considerando’della direttiva richiama questi obiettivi ricordando che «le legislazioni che si applicano attualmente ai marchi di impresa negli Stati membri presentano disparità che possono ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi» e che «nella prospettiva dell'instaurazione e del funzionamento del mercato interno è dunque necessario ravvicinare le legislazioni degli Stati membri». La Commissione conclude, a ragione mi sembra, che questi obiettivi si pongono contro una interpretazione estensiva del rischio di confusione, la quale porterebbe a una restrizione ingiustificata del libero flusso di beni e servizi.

51.

Inoltre la direttiva va letta in quanto direttiva che fissa requisiti comuni sulla base dei quali i differenti sistemi nazionali possano coesistere. I requisiti dunque non dovrebbero essere fissati ad un livello troppo alto. In questo senso la direttiva si differenzia, forse, dalle misure di armonizzazione tipiche di altri settori dove può essere auspicabile, nell'interesse generale, un alto livello di protezione e dove ciò che è essenziale al fine di garantire il libero scambio è semplicemente il fatto che siano stabiliti gli stessi requisiti per tutti gli Stati membri. La direttiva sui marchi, se interpretata in maniera troppo restrittiva, porterebbe all'isolamento dei mercati nazionali. In assenza di indicazioni chiare al riguardo, essa non andrebbe quindi letta nel senso di imporre i requisiti più restrittivi tra quelli esistenti nelle legislazioni degli Stati membri.

Il contesto della direttiva

52.

A questo punto è anche importante considerare l'istituzione del marchio di impresa comunitario a norma del regolamento sul marchio di impresa comunitario ( 30 ), il quale, come detto sopra, contiene disposizioni relative alla confusione tra marchi che sono praticamente identiche a quelle contenute nella direttiva. Sarebbe ovviamente opportuno interpretare le disposizioni della direttiva in maniera coerente con le corrispondenti disposizioni del regolamento. Dal momento che un marchio comunitario può essere concesso solo in rapporto all'intero territorio della Comunità, ne deriva che un conflitto fosse pure con un solo marchio in un solo Stato membro, è sufficiente ad impedire la registrazione di un segno come marchio comunitario. Opposizione alla domanda di registrazione di un marchio può farsi sulla base di un marchio comunitario già esistente, di un marchio registrato in uno qualunque degli Stati membri o, a certe condizioni, sulla base di un diritto non registrato riconosciuto in uno Stato membro ( 31 ). Una tutela troppo ampia dei marchi di impresa, sulla base del concetto di rischio di «associazione» con altri marchi, renderebbe assai difficile, per molti marchi, la registrazione a livello comunitario. Se si vuole che il marchio di impresa comunitario funzioni efficacemente, e se si vuole evitare che le domande di registrazione siano sommerse da procedimenti di opposizione, sembra essenziale che, in assenza di un vero e proprio comprovato rischio di confusione, il marchio possa essere registrato.

53.

Occorre aggiungere inoltre che nelle convenzioni internazionali di cui la Comunità e/o gli Stati membri sono parte non esiste alcun riferimento al concetto di associazione. Benché la direttiva sottolinei, nell'ultimo ‘considerando’, che le sue disposizioni devono essere «in perfetta armonia con quelle della Convenzione di Parigi» ( 32 ), questa Convenzione fa espresso riferimento solamente alla confusione. L'art. 10 bis, n. 3, punto 1, relativo alla concorrenza sleale, impone il dovere di proibire, tra l'altro, «tutti gli atti di natura tale da creare, con qualsiasi mezzo, una situazione di confusione con l'azienda, i prodotti, o le attività industriali o commerciali di un concorrente» ( 33 ). Inoltre, l'art. 6 bis, in relazione a marchi notoriamente conosciuti, dispone che i paesi dell'Unione si impegnano «a rifiutare o a cancellare la registrazione, e a proibire l'uso, di un marchio di impresa il quale costituisca riproduzione, imitazione, o traslazione, capace di creare confusione, di un marchio considerato, dalle competenti autorità dello Stato di registrazione o d'utilizzazione, come notoriamente conosciuto in quello stesso Stato (...) e impiegato per prodotti uguali o simili. Queste disposizioni si applicheranno anche nel caso che parte del marchio costituisca una riproduzione di uno qualsiasi di questi marchi notoriamente conosciuti o una imitazione capace con ciò di creare confusione» ( 34 ).

54.

Allo stesso modo, l'art. 16, n. 1, dell'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio («TRI-PS») ( 35 ) stabilisce che «il titolare di un marchio registrato ha il diritto esclusivo di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio segni identici o simili per prodotti o servizi identici o simili a quelli per i quali il marchio è stato registrato, qualora tale uso possa comportare un rischio di confusione. In caso di uso di un segno identico per prodotti o servizi identici si presume che vi sia un rischio di confusione (...)» ( 36 ). Non c'è contraddizione, dunque, tra il mio modo di vedere la direttiva e questi strumenti internazionali.

55.

Tenendo conto del linguaggio, dello scopo e del contesto della direttiva, penso quindi che, sebbene il rischio di associazione con un marchio anteriore sia un elemento da tenere in considerazione, non ci si possa opporre alla registrazione di un marchio se non è stata comprovata l'esistenza di un vero e proprio rischio di confusione riguardo all'origine dei prodotti o servizi in questione.

56.

Per quanto concerne la seconda parte della questione sottoposta alla Corte dal Bundesgerichtshof, concludo di conseguenza che l'uso che del termine «associazione» si fa nell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva sui marchi di impresa non comporta che la registrazione di un marchio possa essere rifiutata semplicemente per il motivo che, siccome l'idea che sta dietro all'uno e all'altro marchio è la stessa, esista il rischio che il pubblico li associ, vale a dire che l'uno faccia semplicemente ricordare l'altro senza che ci sia tuttavia alcun rischio di confusione per il consumatore.

57.

Ritornando alla prima parte della questione posta, il Bundesgerichtshof cerca di stabilire se, in presenza di due marchi, uno composto di parola e d'immagine e uno formato esclusivamente da un'immagine, i quali siano usati o registrati per prodotti uguali o simili, possa parlarsi di rischio di confusione allorché questi richiamino alla mente una stessa idea (in questo caso un felino in corsa). Viene specificato che il marchio registrato non «gode di alcuna particolare notorietà commerciale».

58.

Un primo elemento da sottolineare è che, come ho appena concluso, secondo la direttiva deve esistere il rischio che il consumatore sia tratto in inganno sull'origine del prodotto. Se, nel caso particolare, tale rischio esista o no, è sostanzialmente una questione di fatto di competenza del giudice nazionale. Tuttavia la domanda posta dal Bundesgerichtshof dà luogo a due questioni di diritto.

59.

In primo luogo, il Bundesgerichtshof ha incentrato il problema sul fatto che un marchio, a differenza dell'altro, include oltre ad un'immagine anche una parola; dal suo punto di vista ciò non impedisce che ci sia somiglianza tra i due marchi ai sensi della legislazione sui marchi di impresa, dal momento che ciò che conta è l'impressione generale richiamata alla mente da ognuno di essi. Il principio per cui si deve prestare attenzione all'impressione generale richiamata alla mente dal marchio di impresa, sembra essere di comune applicazione tra gli Stati membri; effettivamente questo principio è forse ovvio. Dato che il criterio essenziale è il rischio di confusione, dobbiamo ritenere che correttamente il Bundesgerichtshof abbia ritenuto importante l'impressione generale provocata dal marchio. Ne consegue che l'inclusione di un elemento verbale in uno dei due marchi emblematici non è di per sé sufficiente ad impedire che dalla somiglianza esistente tra i due marchi derivi un rischio di confusione. Spetta al giudice nazionale valutare, come questione di fatto, se in determinate circostanze l'inclusione di elementi verbali in un marchio sia sufficiente ad evitare il rischio di confusione derivante dalla somiglianza degli elementi figurativi dei due marchi.

60.

In secondo luogo, il Bundesgerichtshof cerca di stabilire se, in linea di principio, per affermare l'esistenza di un rischio di confusione sia sufficiente che «entrambe le immagini rappresentino la stessa idea (nella fattispecie: un felino in corsa)».

61.

Quando due marchi emblematici rappresentano la stessa idea, mi sembra che in taluni casi, anche se il marchio registrato non è un marchio noto ed anche se le due figure sono rappresentate nella maniera più diversa possibile, il pubblico possa nondimeno confondere i due marchi. Per esempio un marchio di impresa potrebbe essere formato da un'immagine insolita e inventata, o da una combinazione inedita di immagini naturali come ad esempio, rispettivamente, un puma che suona un violino oppure un puma insieme a un serpente e a un uccello. Non ritengo inconcepibile che tali marchi possano essere tutelati dalla legislazione sui marchi di impresa contro riproduzioni del concetto che essi trasmettono, per quanto diverso possa essere il disegno dei marchi concorrenti.

62.

Si potrebbe sostenere che i casi in cui la somiglianza è puramente concettuale devono essere lasciati alla normativa nazionale di ciascuno Stato membro in materia di concorrenza sleale. Non vedo tuttavia perché si debba interpretare la direttiva nel senso di escludere dall'ambito della tutela del marchio di impresa la somiglianza concettuale. La direttiva esige semplicemente che ci sia un rischio di confusione a causa della somiglianza tra i marchi. Essa non intende definire i modi in cui questa confusione possa sorgere. Inoltre la tutela del marchio di impresa in rapporto alla somiglianza concettuale non sembra essere cosa insolita tra gli Stati membri. Nonostante ciò, sarà difficile, a mio parere, provare il rischio di confusione sulla base della sola somiglianza concettuale quando il marchio anteriore non sia un marchio notorio e in particolare quando, come in questo caso, l'immagine in questione non sia particolarmente creativa o insolita.

63.

Suggerisco pertanto di risolvere la prima parte della questione posta dal Bundesgerichtshof nel senso che l'esistenza di un rischio di confusione può essere provata sulla base del fatto che le idee richiamate alla mente dagli elementi figurativi dei due marchi di impresa siano simili, purché sia comprovata l'esistenza di un vero e proprio rischio di confusione quanto all'origine dei prodotti o dei servizi in oggetto.

Conclusione

64.

Ritengo dunque che la questione posta dal Bundesgerichtshof debba essere risolta come segue:

«1)

L'art. 4, n. 1, lett. b), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa, deve essere interpretata nel senso che, sebbene il rischio di associazione con un marchio anteriore sia un fattore da prendere in considerazione, la registrazione di un marchio non può essere rifiutata, a meno che non sia stata comprovata l'esistenza di un vero e proprio rischio di confusione in quanto all'origine dei prodotti o dei servizi in questione.

2)

Non ci si può opporre alla registrazione di un marchio per il semplice motivo che, essendo la stessa l'idea che sta dietro all'uno e all'altro marchio, esiste il rischio che il pubblico li associ; cioè che, senza alcun rischio di confusione come descritto sopra, l'uno riporti semplicemente l'altro alla mente.

3)

Allorché ci sia una somiglianza tra due marchi emblematici, uno dei quali include un testo, l'inclusione di un elemento testuale in uno dei marchi non è di per sé sufficiente ad escludere l'esistenza di un rischio di confusione come descritto sopra.

4)

Ci si può opporre alla registrazione di un marchio di impresa per il motivo che le immagini richiamate alla mente dagli elementi figurativi dei due marchi di impresa sono simili, purché sia stata accertata l'esistenza di un rischio di confusione come descritto sopra».


( *1 ) Lingua originale: l'inglese.

( 1 ) Direttiva 21 dicembre 1988, 89/104/CEE (GU L 40 dell'11.2.1989, pag. 1).

( 2 ) A norma dell'art. 16, n. 1, il termine di attuazione della diret-tiva nel diritto nazionale era il 28 dicembre 1991. Tuttavia con decisione 92/10/CEE (GU L 6, pag. 35), il Consiglio, a norma dell'art.16, n. 2, della detta direttiva, ha prorogato il termine fino al 31 dicembre 1992.

( 3 ) Vedi infra, paragrafo 31.

( 4 ) Secondo l'Accordo di Madrid relativo alle registrazione internazionale dei marchi, un marchio IR è un marchio registrato a livello internazionale. Questo Accordo permette a colui che ha registrato un marchio nel suo Stato di residenza o nello Stato in cui svolge la sua attività economica di ottenere la stessa registrazione anche negli altri Stati contraenti a meno che questi, entro un detcrminato periodo c in accordo con la propria legge nazionale, non vi si oppongano.

( 5 ) BGBl. I, pag. 3082.

( 6 ) GU L 11 del 14.1.1994, pag. 1.

( 7 ) Art. 1.

( 8 ) Chiamato ambiguamente «Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno (marchi, disegni e modelli)», ma al quale generalmente ci si riferisce come all'Ufficio del marchio comunitario.

( 9 ) Sentenza 22 giugno 1976, causa 119/75 (Racc. pag. 1039).

( 10 ) Sentenza 17 ottobre 1990, causa C-10/89 (Racc. pag. I-3711).

( 11 ) Sentenza 30 novembre 1993, causa C-317/91 (Racc. pag. I-6227).

( 12 ) Sentenza 22 giugno 1994, causa C-9/93 (Racc. pag. I-2789).

( 13 ) Sentenza 23 maggio 1978, causa 102/77 (Race. pag. 1139).

( 14 ) V. paragrafo 18.

( 15 ) V, per esempio, la causa Hoffmann-La Roche/Centrafarm, citata alla nota 13, e le sentenze 11 luglio 1996 nelle seguenti cause: cause riunite C-427/93, C-429/93 e C-436/93, Bristol Myers-Squibb e a. (Race. pag. I-3457); cause riunite C-71/94, C-72/94 e C-73/94, Eurim-Pharm (Race, pag. I-3603), e causa C-232/94, MPA Pharma (Race, pag. I-3671).

( 16 ) Citata alla nota 15.

( 17 ) Conclusioni 29 aprile 1997, causa C-337/95, Parfums Christian Dior.

( 18 ) Allegata alla Convenzione del Benelux sui marchi di impresa del 19 marzo 1962.

( 19 ) Art. 13 A della legge degli Stati del Benelux.

( 20 ) Sentenza 20 maggio 1983, causa A 82/5, Jullien/Verschuere (conosciuta anche come la causa «Union/Union Soleure»), Giurisprudenza della Corte di giustizia del Benelux 1983, pag. 36.

( 21 ) Sentenza 1° marzo 1975, causa A 74/1 (Giurisprudenza della Corte di giustizia del Benelux 1975, pag. 472).

( 22 ) Questo è un termine usato dal giudice Laddie presso la High Court d'Inghilterra nella causa Wagamama Ltd/City Centre Restaurants Pic and Another, 1995, F. S. R. 713, di cui sotto.

( 23 ) Edor/General Mills Fun 1978, Ned. Jur. 83.

( 24 ) Vedi W. R. Cornish, Intellectual Property, terza edizione, pag. 622.

( 25 ) Fustner e Geuze, «Scope of Protection of the Trade Mark in the Benelux Countries and EEC-harmonization», ECTA Newsletter, marzo 1989, 215, citato da Cornish, op. cit., pag. 620, nota 44.

( 26 ) V. sentenza 26 febbraio 1991, causa C-292/89, Antonissen (Race. pag. I-745, punto 18); sentenza 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C-252/94, Bautiaa e Société française maritime (Race. pag. I-505, punto 51).

( 27 ) Citato alla nota 22, pag. 723.

( 28 ) Supra, paragrafo 18.

( 29 ) Oppure, nel caso di un marchio di impresa comunitario, notorietà nella Comunità: art. 4, n. 3.

( 30 ) Citato alla nota 6.

( 31 ) V. art. 8, nn. 1 c 2.

( 32 ) Convenzione di Parigi per la tutela della proprietà indu-striale del 20 marzo 1883, così come modificata a Stoccolma il 14 luglio 1967.

( 33 ) L'art. 6 prevede comunque che le «condizioni per la gestione delle pratiche e la registrazione di un marchio di impresa, verrà determinata, in ciascuno degli Stati dell'Unione, dalla propria legislazione interna» e l'art. 6 quinquies B, n. 1, prevede che può essere rifiutata o, nel caso, invalidata la registrazione dei marchi di impresa se, tra l'altro, «sono di natura tale da violare i diritti acquisiti da terzi nello Stato dove è stata richiesta la tutela». L'art. 5, n. 1, dell'Accordo di Madrid relativo alla registrazione internazionale dei marchi (v. supra, nota 4) prevede che il rifiuto opposto da una delle parti contraenti ad una domanda di tutela diretta alla registrazione internazionale, può fondarsi solo sui motivi che sono applicabili a norma della Convenzione di Parigi.

( 34 ) Secondo l'Accordo TRIPS questo articolo si applica mutatis mutandis ai servizi e, sotto certe condizioni, a beni e servizi non affini: art. 16, nn. 2 e 3, rispettivamente.

( 35 ) GU 1994, L 336, pag. 214.

( 36 ) Comunque l'art. 15, n. 2, dell'Accordo TRIPS prevede che i membri possano escludere dalla registrazione un marchio di impresa per altri motivi oltre quelli previsti in questo accordo (art. 15, n. 1), purché non si deroghi alle disposizioni della Convenzione di Parigi.