CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

W. VAN GERVEN

presentate il 26 gennaio 1993 ( *1 )

Signor Presidente,

Signori giudici,

1. 

La presente causa concerne una domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dalla House of Lords e vertente sull'interpretazione dell'art. 6 della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro ( 1 ) (in prosieguo: la «direttiva»). Le questioni sottoposte alla Corte sono state sollevate nell'ambito di una controversia tra la signorina Marshall (ricorrente nella causa principale) e la South West Hampshire Area Health Autorithy (convenuta nella causa principale; in prosieguo: ľ «Authority»).

L'art. 6 della direttiva così recita:

«Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici interni le misure necessarie per permettere a tutti coloro che si ritengano lesi dalla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, ai sensi degli articoli 3, 4 e 5, di far valere i propri diritti per via giudiziaria, eventualmente dopo aver fatto ricorso ad altre istanze competenti».

Antefatti

2.

In una sentenza emanata il 26 febbraio 1986, la Corte ha risolto una questione pregiudiziale sottopostale dalla Court of Appeal in merito all'art. 5, n. 1, della direttiva. Tale articolo vieta ogni discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro e le condizioni dello stesso. La Corte ha affermato che un singolo può far valere l'art. 5, n. 1, nei confronti di un'autorità di uno Stato che agisca in qualità di datore di lavoro, per escludere l'applicazione di qualsiasi disposizione nazionale non conforme al detto art. 5, n. 1, ( 2 ). La signorina Marshall, che era stata vittima di una discriminazione vietata dall'art. 5, n. 1, era ricorrente nella causa principale all'origine di tale sentenza.

Dopo la sentenza 26 febbraio 1986, la Court of Appeal rinviava la causa dinanzi all'Industriai Tribunal, giudice competente per quanto riguarda le discriminazioni in materia di lavoro, affinché esso stabilisse l'importo dell'indennizzo da corrispondere alla signorina Marshall. Ancor prima che il Tribunale statuisse in merito alla domanda della signorina Marshall, l'Authority le versava un indennizzo di 6250 UKL. Ai sensi dell'art. 65, n. 2, del Sex Discrimination Act del 1975 (legge britannica del 1975 relativa alle discriminazioni basate sul sesso; in prosieguo: lo «SDA») tale era l'importo massimo dell'indennizzo che un Industriai Tribunal poteva corrispondere.

Tale ultimo giudice corrispondeva però alla signorina Marshall un indennizzo di 19405 UKL, compresa la somma di 7710 UKL a titolo di interessi ( 3 ) e un importo di 1000 UKL a titolo di risarcimento del danno morale. Dopo tale decisione, l'Authority corrispondeva ancora alla signorina Marshall la somma di 5445 UKL, portando così a 11695 UKL il totale dell'indennizzo concesso. L'Authority presentava però ricorso contro la concessione, a titolo di interessi, di una somma di 7710 UKL, ricorso che l'Employment Appeal Tribunal dichiarava fondato.

La signorina Marshall si appellava dinanzi alla Court of Appeal contro tale decisione dell'Employment Appeal Tribunal. Anche in tale sede, il suo ricorso veniva però respinto con la motivazione secondo cui non era possibile far valere la pretesa efficacia diretta dell'art. 6 della direttiva per escludere l'applicazione del limite massimo imposto dall'art. 65, n. 2, dello SD A.

3.

Infine, la domanda della signorina Marshall giungeva alla House of Lords, la quale ha proposto alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali. Nella relazione d'udienza se ne troverà il testo integrale, nonché una più dettagliata illustrazione dei fatti di causa.

Benché il ricorso presentato dinanzi alla House of Lords verta esclusivamente sul punto se l'Industriai Tribunal sia competente a corrispondere interessi, emerge dall'esposizione dei fatti contenuta nell'ordinanza di rinvio che per la House of Lords è del pari in discussione il massimale stabilito all'art. 65, n. 2, dello SD A. Infatti «se applicato al risarcimento riconosciuto alla signorina Marshall, l'art. 65, n. 2, dovrebbe esaurire ogni sua pretesa in fatto di interessi, in quanto l'importo in linea capitale della perdita economica subita già eccedeva il limite massimo normativamente imposto»(punto 12). In altre parole, la concessione di interessi nella fattispecie è resa impossibile anche dal fatto dell'esistenza di tale massimale, e non solamente in quanto l'Industriai Tribunal è incompetente a riconoscere interessi [incompetenza la quale peraltro è, in diritto nazionale, controversa; v. punto 8, sub 5), dell'esposizione dei fatti]. In considerazione di tali argomenti fatti valere propongo alla Corte di non seguire il suggerimento del governo del Regno Unito e di quello irlandese, i quali la invitano a pronunciarsi unicamente in merito alla validità di un eventuale divieto di concedere interessi a titolo di indennizzo, ma di esaminare anche la validità di un massimale legale in materia di indennizzo.

Se i singoli possano far valere l'art. 6 della direttiva dinanzi ai giudici nazionali

4.

Incomincerò con l'esaminare la terza questione pregiudiziale. Con essa, la House of Lords intende accertare se chi ha subito una discriminazione vietata dalla direttiva possa far valere l'art. 6 della medesima dinanzi ad un giudice nazionale nei confronti di un'autorità dello Stato membro di cui egli è cittadino, al fine di escludere l'applicazione dei limiti imposti dalla normativa nazionale all'ammontare di un indennizzo ( 4 ).

5.

Efficacia diretta (verticale) dell'art. 6 nei limiti in cui contempla un rimedio giurisdizionale. La questione vertente sull'efficacia diretta dell'art. 6 della direttiva è già stata affrontata dalla Corte nella sentenza emanata il 15 maggio 1986 nella causa Johnston ( 5 ). La Corte ha distinto due elementi nell'art. 6: l'obbligo posto in capo agli Stati membri di predisporre una tutela giurisdizionale effettiva e quello di irrogare sanzioni in caso di illecita discriminazione. In merito a tale primo elemento, la Corte ha dichiarato che:

«[punto 18 della motivazione] Il sindacato giurisdizionale (imposto dall'art. 6 della direttiva) costituisce espressione di un principio giuridico generale su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Detto principio è stato del pari sancito dagli artt. 6 e 13 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (...)

[punto 19 della motivazione] A norma dell'art. 6 della direttiva, interpretato alla luce del predetto principio generale, qualsiasi persona ha il diritto di esperire un ricorso effettivo dinanzi a un giudice competente avverso gli atti che essa ritenga contrastanti col principio della parità di trattamento fra uomini e donne stabilito dalla direttiva 76/207. Tocca agli Stati membri garantire un sindacato giurisdizionale effettivo sul rispetto delle vigenti disposizioni del diritto comunitario e della normativa nazionale destinata ad attuare i diritti contemplati dalla direttiva.

[punto 58 della motivazione] (...) In quanto da detto articolo, interpretato alla luce del principio generale ivi espresso, risulta che chiunque si ritenga leso da una discriminazione basata sul sesso deve poter esperire un rimedio giurisdizionale effettivo, tale disposizione è sufficientemente precisa e assoluta per poter essere fatta valere nei confronti dello Stato membro che non abbia provveduto a darle piena attuazione nel suo ordinamento giuridico interno».

6.

Se l'art. 6 manchi di efficacia diretta (verticale) nei limiti in cui esso impone che le eventuali discriminazioni vengano sanzionate, ed esista un mero obbligo di interpretare il diritto nazionale in modo conforme alla direttiva. Per quanto riguarda, invece, l'obbligo di sanzionare le discriminazioni vietate dalla direttiva, la Corte, nella medesima sentenza Johnston, ha dichiarato che, al riguardo, la direttiva non implicava alcun obbligo assoluto e sufficientemente preciso che potesse essere fatto valere dai singoli, in mancanza di provvedimenti d'attuazione adottati entro i termini, al fine di ottenere un determinato risarcimento in forza della direttiva, qualora una conseguenza del genere non fosse contemplata o consentita dal diritto nazionale ( 6 ). La Corte con tale presa di posizione ha confermato due precedenti sentenze, le sentenze von Colson e Harz, in cui essa aveva già formulato identiche considerazioni ( 7 ) (v. infra, paragrafo 10).

Sulla base di tale giurisprudenza, si potrebbe risolvere la terza questione pregiudiziale nel senso che chi sia stato vittima di una discriminazione vietata dalla direttiva non può far valere l'art. 6 di quest'ultima, anche nei confronti di (un'autorità di) uno Stato membro onde ottenere la disapplicazione da parte del giudice nazionale del limite massimo di indennizzo fissato dalla normativa nazionale. Dalle considerazioni che seguono (v. infra, paragrafo 11) potrà apparire chiaramente che sono di parere diverso.

7.

Quanto precede non significa che i singoli i quali subiscono l'applicazione del citato limite massimo non possano trarre alcun motivo di diritto dall'attuale giurisprudenza della Corte. Quest'ultima infatti ha notevolmente rafforzato, per altre vie, la tutela giurisdizionale dei privati, in particolare imponendo ai giudici nazionali l'obbligo di interpretare il loro diritto in conformità al diritto comunitario. Al fine di definire la portata di tale obbligo, è innanzitutto opportuno ricordare la giurisprudenza della Corte, che precisa le disposizioni di diritto comunitario relative alle sanzioni da dare alle disposizioni comunitarie.

Alla base della suddetta giurisprudenza sta l'idea secondo cui gli Stati membri sono tenuti ad assicurare la piena efficacia del diritto comunitario, ed in particolare delle direttive. Ciò significa che essi hanno l'obbligo di reprimere la violazione dei divieti posti dalle direttive con sanzioni a seconda dei casi penali, amministrative o civili. La Corte basa tale obbligo sul dovere di lealtà che incombe agli Stati membri in forza dell'art. 5 del Trattato:

«Qualora un regolamento comunitario non contenga alcuna disposizione specifica che preveda una sanzione in caso di trasgressione, ma faccia rinvio, al riguardo, alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nazionali, l'art. 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutti i provvedimenti atti a garantire la portata e l'efficacia del diritto comunitario» ( 8 ).

Anche in riferimento alla direttiva di cui trattasi nel caso di specie, la Corte ha confermato che

«la parità effettiva di possibilità non può essere ottenuta senza un sistema adeguato di sanzioni. Questa conseguenza discende non solo dallo scopo stesso della direttiva, ma più precisamente dall'art. 6, il quale, attribuendo un'azione giurisdizionale ai candidati che siano stati discriminati, attribuisce loro dei diritti che possono essere fatti valere dinanzi al giudice» ( 9 ).

8.

L'art. 189, terzo comma, del Trattato lascia peraltro gli Stati membri liberi di scegliere i mezzi e i metodi idonei all'attuazione delle direttive. In merito all'obbligo di sanzioni, contenuto all'art. 6 della direttiva, la Corte ha rilevato che

«Detti provvedimenti possono, ad esempio, comprendere disposizioni che prescrivano al datore di lavoro di assumere il candidato discriminato o contemplino un adeguato risarcimento pecuniario, il tutto sanzionato da un sistema di ammende. Va tuttavia rilevato che la direttiva non impone una sanzione determinata, bensì lascia agli Stati membri la libertà di scegliere fra le varie soluzioni atte a conseguire lo scopo» ( 10 ).

Tale libertà degli Stati membri non è peraltro senza limiti. Infatti come risulta dall'ultima frase citata al precedente paragrafo, dalla finalità della direttiva e dall'art. 6 della medesima discende che gli Stati membri debbono predisporre «un sistema adeguato di sanzioni», il che implica, come proseguono le sentenze von Colson e Harz,

«che la sanzione stessa sia tale da garantire la tutela giurisdizionale effettiva ed efficace. Essa deve inoltre avere per il datore un effetto dissuasivo reale. Ne consegue che, qualora lo Stato membro decida di reprimere la trasgressione del divieto di discriminazione mediante un indennizzo, questo deve essere in ogni caso adeguato al danno subito.

Si deve quindi ritenere che la legge nazionale la quale limiti il risarcimento di coloro che siano stati discriminati nell'accesso al lavoro ad un indennizzo puramente simbolico, come ad esempio il risarcimento delle spese causate dalla candidatura, non è conforme alle esigenze di efficace trasposizione della direttiva» ( 11 ).

Per quanto riguarda le sanzioni penali, la Corte ha successivamente precisato che gli Stati membri hanno libertà di scelta, ma che esse debbono avere un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo ( 12 ).

9.

La Corte ha altresì affermato che le trasgressioni al diritto comunitario debbono essere oggetto di sanzioni che siano non soltanto «sufficientemente cogenti», ma anche «comparabili» con quelle applicabili a corrispondenti violazioni del diritto nazionale, vale a dire a condizioni sostanziali e procedurali analoghe:

«Inoltre, le autorità nazionali devono procedere, nei confronti delle violazioni del diritto comunitario, con la stessa diligenza usata nell'esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali» ( 13 ).

Peraltro, non solamente le sanzioni propriamente dette ma anche le modalità procedurali che portano all'applicazione delle medesime devono rispondere ai detti criteri ed essere «sufficientemente cogenti» e «comparabili». Tali modalità non possono essere «meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale né adeguate in maniera tale da rendere praticamente impossibile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario» ( 14 ).

10.

Pertanto, anche se in tema di norme in materia di sanzioni i singoli non possono direttamente far valere l'art. 6 della direttiva (precedente paragrafo 6, ma v. anche il seguente paragrafo 11), in mancanza di attuazione nei termini, o in caso di attuazione incompleta o erronea della disposizione di in una direttiva priva di efficacia diretta, spetta ancora al giudice nazionale interpretare le sanzioni previste dal diritto interno conformemente alle regole di diritto comunitario derivanti dall'art. 6 della direttiva e sopra descritte.

Tale obbligo a carico del giudice nazionale, «in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale» ( 15 ), di interpretare le disposizioni nazionali — successive, ma anche precedenti alla direttiva ( 16 ) — nel modo più conforme possibile anche ad una direttiva sprovvista di efficacia diretta ( 17 ), non è assoluto. In particolare, il suddetto obbligo non gli impone, ad esempio nel caso di una disposizione che contempli una specifica sanzione, di interpretare il proprio diritto nazionale «contra legem» ( 18 ). Nondimeno, il giudice nazionale deve interpretare in armonia con il diritto comunitario una disposizione ambigua, come, a quanto viene detto, quelle che proibiscono all'Industriai Tribunal di corrispondere interessi ( 19 ). Inoltre, qualora sia consentito dalle norme nazionali di interpretazione, egli può essere tenuto a sostituire una disciplina di diritto (nazionale) comune, più consona alla direttiva, ad una disciplina specifica, che con essa sia in contrasto ( 20 ).

11.

L'obbligo di imporre sanzioni, di cui all'art. 6 della direttiva ha però efficacia diretta. Il giudice nazionale non potrà pertanto sempre giungere per via interpretativa al risultato voluto dal diritto comunitario. Quindi, se si vuol rendere sufficientemente concludente l'obbligo di una sanzione, imposto dall'art. 6 della direttiva, tale obbligo, proprio come quello relativo ad una tutela giurisdizionale contenuto nella medesima norma (v. precedente paragrafo 5), va concepito come una disposizione provvista di efficacia diretta almeno nei confronti degli Stati membri. Ritengo che vi siano tutti i motivi per sostenere tale punto di vista.

Già nelle sentenze von Colson e Harz, la Corte ha dichiarato che dalla finalità e dall'art. 6 della direttiva consegue che la parità di possibilità sancita dalla direttiva non può essere ottenuta senza un adeguato sistema di sanzioni (v. precedente paragrafo 7). Dalla giurisprudenza della Corte si possono inoltre ricavare (v. precedenti paragrafi 8-9) i criteri da prendere in considerazione ai fini della creazione di tale adeguato sistema di sanzioni. Tali criteri, sufficientemente precisi, sono stati dedotti dalla Corte dai principi del diritto comunitario. Perciò mi sembra che risulti subito evidente che l'obbligo di sanzioni derivante dalla direttiva possiede, per effetto di tali principi di diritto comunitario, efficacia diretta nei riguardi degli Stati membri e delle autorità che ne sono emanazione.

Infatti, nella sentenza Johnston, in merito all'obbligo, imposto dall'art. 6 della direttiva, di prevedere un'effettiva tutela giurisdizionale, la Corte aveva riconosciuto l'efficacia diretta di tale art. 6 in quanto «detto articolo, interpretato alla luce del principio generale ivi espresso» costituisce una disposizione «sufficientemente precisa e assoluta per poter essere fatta valere nei confronti dello Stato membro che non abbia provveduto a darle piena attuazione nel suo ordinamento giuridico interno» (ν. precedente paragrafo 5). Ritengo che l'obbligo di una sanzione di cui all'art. 6 (v. precedente paragrafo 6) abbia ora anch'esso efficacia diretta nei riguardi degli Stati membri, in quanto i principi generali di diritto comunitario sui quali si fonda tale obbligo sono stati nel frattempo più precisamente definiti dalla Corte di giustizia nella giurisprudenza precedentemente commentata (e nella sentenza che verrà emanata nella presente causa) ( 21 ). La posizione assunta dalla Corte nelle sentenze von Colson, Harz e Johnston mi pare quindi su questo punto superata.

Riconoscere un'efficacia diretta (verticale) anche all'obbligo di una sanzione contenuta nell'art. 6 favorirebbe naturalmente l'uniformità del diritto comunitario, in quanto la risoluzione della questione se il giudice nazionale possa interpretare il diritto del suo paese in armonia con il diritto comunitario non verrebbe più a dipendere dalle norme nazionali di interpretazione. Peraltro, nella sentenza Zuckerfabrik, la Corte, in riferimento a norme nazionali relative alla sospensione dell'esecuzione di atti amministrativi interni, ha riconosciuto che tale uniformità in materia di coattività dei diritti derivanti per i singoli dalla normativa comunitaria costituiva un'esigenza fondamentale dell'ordinamento giuridico comunitario ( 22 ). Per tale ragione, la Corte, nella sentenza sopra citata, si è trovata pronta a definire in modo uniforme le condizioni in presenza delle quali il giudice nazionale avrebbe potuto concedere la sospensione dell'esecuzione di atti amministrativi interni.

12.

Nel corso della fase orale è stata menzionata la seguente anomalia: i lavoratori alle dipendenze di enti pubblici (nel senso lato che la giurisprudenza della Corte ha dato a tale termine) possono far valere a loro vantaggio, contro il datore di lavoro, le disposizioni sufficientemente precise e assolute di una direttiva — anche per ottenere, come nella fattispecie, un indennizzo ( 23 ) — mentre tale rimedio contro il datore di lavoro non è concesso ai lavoratori del settore privato. Come emerge dalla sentenza Harz ( 24 ), questi ultimi lavoratori possono far valere dinanzi al giudice nazionale unicamente l'obbligo, precedentemente menzionato, di dare al diritto nazionale un'interpretazione conforme alla direttiva.

Ai fini della soluzione della presente controversia — riguardante un lavoratore alle dipendenze di un ente pubblico — non è strettamente necessario affrontare tale problema. Ci sia comunque consentito dire, per scrupolo di completezza, che se la Corte riconoscesse ora anche un'efficacia diretta orizzontale a disposizioni di una direttiva che siano sufficientemente precise e incondizionate, ne risulterebbe a mio avviso avvantaggiata la coerenza della sua giurisprudenza. La giurisprudenza della Corte relativa alla tutela dei singoli in ordine a casi di mancata attuazione nei termini, o di attuazione in modo incompleto o non corretto di direttive, presenta, considerata nel suo complesso, un quadro soddisfacente. A seguito del carattere singolare del processo di interpretazione giudiziale del diritto, che evolve di caso in caso, tale quadro non è tuttavia totalmente al riparo da incoerenze e distorsioni. Ne ricorderò tre. Innanzitutto, dall'interpretazione estensiva della nozione di Stato membro consegue che le norme contenute nelle direttive hanno efficacia diretta (verticale) nei riguardi degli enti e delle imprese pubblici, ma non nei confronti di enti o imprese privati (con cui i primi sono pur sempre in concorrenza ( 25 )), e ciò malgrado il fatto che la negligenza «dello» Stato membro nell'attuazione delle direttive sia altrettanto poco imputabile ai primi quanto alle seconde. In secondo luogo, in virtù dell'obbligo loro incombente di interpretare il diritto nazionale in armonia con le direttive, i giudici nazionali, in caso di negligenza del legislatore nazionale, sono tenuti a spingersi fino ai limiti delle loro possibilità e competenze onde consentire un corretto inserimento della direttiva nel loro ordinamento giuridico nazionale ( 26 ). Ciò può causare problemi di delimitazione delle competenze giurisdizionali nell'ambito dei relativi ordinamenti nazionali. Infine, in seguito alla sentenza che la Corte ha emanato nella causa Francovich ( 27 ), qualora delle direttive vengano attuate in modo erroneo, lo Stato che sia responsabile di tale inadempimento può, a determinate condizioni, essere citato in giudizio per risarcimento danni. Siffatta evoluzione, in sé e per sé positiva, non impedisce però che dei privati che siano occupati in uno Stato membro il quale abbia correttamente attuato la direttiva, e che quindi siano già soggetti agli obblighi che per essi ne derivano, vengano a trovarsi svantaggiati rispetto a quelli (forse loro concorrenti) che siano occupati in uno Stato membro il quale non abbia ancora dato corretta attuazione alla direttiva.

Mi sembra possibile porre rimedio a tali incongruenze e distorsioni riconoscendo efficacia diretta alle disposizioni di una direttiva che siano sufficientemente precise e incondizionate anche nei confronti di privati cittadini ai quali la direttiva avrebbe imposto obblighi se avesse ricevuto corretta attuazione ( 28 ).

13.

Conclusione. In base alle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di risolvere la terza questione pregiudiziale nel modo seguente. L'obbligo di imporre una sanzione, derivante dall'art. 6 della direttiva — obbligo di cui la giurisprudenza della Corte ha nel frattempo precisato la portata basandosi su principi generali di diritto comunitario — può in ogni caso essere fatto valere dai privati contro lo Stato membro di cui trattasi nonché contro gli enti e le imprese pubblici di quest'ultimo. Nel caso in cui la Corte non riconosca tale diretta efficacia, spetterebbe comunque al giudice nazionale interpretare ed applicare il suo diritto nazionale in modo quanto più possibile conforme al sistema di sanzioni previsto dall'art. 6, così come precisato dalla giurisprudenza della Corte.

Se sia compatibile con l'art. 6 della direttiva un limite massimo di indennizzo legislativamente previsto

14.

L'art. 65, n. 1, del Sex Discrimination Act del 1975 dispone che qualora un Industriai Tribunal accerti che un ricorso per illegittima discriminazione sul lavoro in base al sesso è fondato, esso può pronunciare una condanna al pagamento di un indennizzo. Ai sensi dell'art. 65, n. 2, dello SD A, l'ammontare dell'indennizzo da corrispondere non può però eccedere un determinato limite massimo. All'epoca in cui l'Industriai Tribunal trattò la domanda proposta dalla signorina Marshall, tale limite massimo era di 6250 UKL. Esso è stato nel frattempo più volte aumentato, ed ammonta oggi a 10000 UKL.

Con la sua prima questione, la House of Lords intende accertare se tale limite massimo sia compatibile con l'art. 6 della direttiva. Con la seconda, esso vuole sapere se una corretta applicazione di tale articolo richieda che l'indennizzo da corrispondere non sia inferiore all'ammontare della perdita pecuniaria effettivamente subita, e che esso includa gli interessi maturati sull'importo capitale dell'indennizzo dalla data dell'illegittima discriminazione a quella del pagamento dell'indennizzo stesso.

15.

Prima di risolvere tali questioni, vorrei far presente il nesso esistente fra i due criteri accolti dalla Corte in tema di norme nazionali volte a fornire di sanzioni disposizioni di diritto comunitario. Tali criteri sono quelli, in precedenza menzionati (paragrafo 9), del carattere sufficientemente cogente della sanzione e della sua comparabilità. Essi sono cumulativi. In altri termini, non è sufficiente che una trasgressione del diritto comunitario venga colpita da una sanzione equivalente a quella applicabile ad una analoga trasgressione del diritto nazionale, qualora risulti che in entrambi i casi le sanzioni previste non siano in grado di garantire una effettiva ed efficace tutela giurisdizionale, o non abbiano sufficiente effetto dissuasivo, e che non siano quindi proporzionate al danno subito. A mio avviso, ciò è una conseguenza dell'obbligo di applicare uniformemente il diritto comunitario (v. precedente paragrafo 11), in base al quale la stessa violazione del diritto comunitario deve essere sanzionata in modo sufficientemente efficace e dissuasivo in tutti gli Stati membri.

Analizzerò ora, nell'ordine, i due criteri in connessione con la presente causa.

16.

Il criterio del carattere sufficientemente cogente della sanzione. In merito, la Corte ha dichiarato che «qualora lo Stato membro decida di reprimere la trasgressione del divieto di discriminazione mediante un indennizzo, questo deve essere in ogni caso adeguato al danno subito». «Un indennizzo puramente simbolico, come ad esempio il risarcimento delle spese causate dalla candidatura», non è sufficiente (v. il brano delle sentenze von Colson e Harz citato alla fine del precedente paragrafo 8).

Dalla frase secondo la quale la sanzione per violazione del divieto di discriminazione deve «in ogni caso» essere adeguata al danno subito, la Commissione sembra dedurre che una norma nazionale contenente un limite massimo quale quello previsto dall'art. 65, n. 2, dello SDA non può soddisfare i criteri definiti dalla Corte. Tale argomento non mi convince ( 29 ). Come il governo del Regno Unito e quello irlandese hanno fatto osservare, l'intenzione non può essere quella di escludere categoricamente ogni limite all'indennizzo, certo non ora che anche un certo numero di direttive del Consiglio — elencate dalla Commissione stessa nelle sue osservazioni scritte — prevede tale limite massimo ( 30 ). Affermando che l'indennizzo dev'essere «in ogni caso» adeguato al danno subito, la Corte vuole invece rilevare che l'indennizzo puramente simbolico non è sufficiente, come del resto emerge anche dal punto immediatamente successivo al punto delle dette sentenze sopra citato.

17.

Tuttavia, il fatto che l'indennizzo debba essere «adeguato» al danno subito significa altresì, a mio parere, che la Corte — allo stato attuale del diritto comunitario, e quindi in mancanza di norme volte all'armonizzazione delle divergenti norme nazionali in tema di responsabilità — è disposta ad ammettere un indennizzo inferiore alla totalità del danno. In altre parole, il risarcimento deve essere adeguato al danno subito, ma non deve necessariamente essere in misura pari ad esso.

Tale concezione non viene contraddetta, ma al contrario confermata nella sentenza Francovich, che la Corte ha recentemente pronunciato in relazione alla responsabilità degli Stati membri in seguito ad una violazione del diritto comunitario in generale, e ad una non corretta trasposizione di una direttiva in particolare. In merito a tale seconda questione, la Corte ha fissato taluni requisiti minimi uniformi in materia di responsabilità degli Stati membri. Uno di essi è costituito dall'«e-sistenza di un nesso di causalità fra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi ( 31 )». Non se ne possono dedurre, però, regole uniformi relative alla natura o all'entità del danno. Al contrario, «in mancanza di una disciplina comunitaria», nella sentenza la Corte fa esplicito rinvio al diritto degli Stati membri, affermando che «è nell'ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato» ( 32 ). Ciò vale più in particolare, come emerge dal punto successivo, per «le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni». Viene tuttavia precisato al riguardo che tali legislazioni «non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna, e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento» ( 33 ).

Tali ultime condizioni restrittive poste dalla sentenza Francovich alle legislazioni nazionali in materia di responsabilità non divergono sostanzialmente dai criteri in precedenza citati, quello della «comparabilità» e quello della «sanzione sufficientemente cogente» ( 34 ). Per quanto riguarda qui il secondo criterio considerato, la posizione espressa dalla sentenza Francovich corrisponde a mio parere alla concezione sopra riferita, secondo cui un «adeguato indennizzo» — ripeto: allo stato attuale del diritto comunitario — non deve per forza di cose essere pari al risarcimento della totalità del danno subito. Infatti, la corresponsione di un «adeguato indennizzo» non è a mio parere tale «da rendere praticamente impossibile (...) ottenere il risarcimento». La disposizione che contempli un «adeguato indennizzo» (anziché un indennizzo integrale) contenuta in una normativa nazionale (avente, nella fattispecie, carattere specifico) può infatti considerarsi come una delle «condizioni sostanziali in materia di risarcimento», in merito alle quali la sentenza Francovich fa rinvio agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Dato che tale adeguato indennizzo, come precedentemente definito, non rende «praticamente impossibile» il risarcimento del danno subito, esso è sufficiente in base al diritto comunitario ( 35 ).

18.

Allo stato attuale della normativa comunitaria, definire un limite massimo di indennizzo sul piano interno non mi pare sia quindi incompatibile con il diritto comunitario, a condizione però che tale limite venga stabilito ad un livello sufficientemente alto per non privare la sanzione del suo carattere «effettivo, proporzionato e dissuasivo» e per non impedirle di essere «adeguata» al danno normalmente subito a seguito di un'infrazione.

Ritengo tuttavia di non potermi limitare a tale analisi di carattere generale. Allo scopo di accertare, con maggiore esattezza ancora, se la sanzione pecuniaria consistente in un indennizzo, scelta da uno Stato membro, sia adeguata al danno subito, il risarcimento deve essere tale da fornire adeguata riparazione tenuto conto delle principali componenti del danno, quali tradizionalmente prese in considerazione dalle normative in materia di responsabilità. Mi riferisco al riguardo alla perdita di beni materiali («damnum emergens»), al mancato guadagno («lucrum cessans»), al danno morale e al danno risultante dalla mora del danno ( 36 ). In prosieguo parlerò più dettagliatamente di tale ultima componente.

In merito a tali quattro componenti del danno, quanto detto in precedenza non implica necessariamente che una normativa nazionale che non preveda espressamente un risarcimento per ciascuna di esse sia in contrasto con il diritto comunitario. Ritengo tuttavia che il giudice nazionale, nel valutare se il risarcimento sia adeguato al danno subito, debba prenderle in considerazione tutte. In mancanza di una normativa comunitaria più dettagliata, spetta a lui, infatti, valutare in concreto se il risarcimento sia adeguato, in considerazione dei limiti che il diritto interno pone a tale risarcimento. Se tali limiti sono tali che normalmente una delle quattro categorie di danni (nella misura in cui esse sono applicabili al tipo di infrazione verificatasi) non è oggetto di alcun risarcimento, o lo è in modo irrilevante, non si può affermare che il risarcimento nel suo complesso sia adeguato al danno subito.

19.

Nella fattispecie, l'Industriai Tribunal ha stimato in 19405 UKL il danno realmente subito dalla signorina Marshall, includendovi 1000 UKL per danno morale, 8220 UKL per perdita di retribuzione, 2475 UKL tra l'altro per perdita pensionistica, e 7710 UKL di interessi sulle somme perdute. In ordine a tali interessi, per quanto mi è dato valutare, si tratta di interessi scaduti tra la data in cui si è verificata l'illegale discriminazione e quella della decisione dell'Industriai Tribunal del 21 giugno 1988.

L'indennizzo massimo ottenibile dalla signorina Marshall in forza dell'art. 65, n. 2, ammontava a 6250 UKL, il che approssimativamente corrisponde a un terzo del danno subito, compresi gli interessi maturati fino alla sentenza dell'Industriai Tribunal, ovvero alla metà del danno esclusi gli interessi. Indubbiamente, si tratta di qualcosa di più di una somma simbolica. Mi permetto però di dubitare che il limite applicato consenta anche un risarcimento adeguato al danno subito, così come richiede l'art. 6 della direttiva. Tale importo infatti esclude vuoi il risarcimento di almeno una delle citate componenti, vale a dire la totalità degli interessi maturati fino alla sentenza del Tribunal (e, a maggior ragione, gli interessi dovuti per il periodo successivo; su tale punto, v. il seguente paragrafo 26), vuoi quello delle altre tre componenti.

La somma aggiuntiva di 5445 UKL versata dall'Authority in via equitativa è inoltre da considerarsi un ulteriore indizio del fatto che il limite massimo applicato non consente un adeguato risarcimento. Grazie a tale somma aggiuntiva, il risarcimento sarà forse stato adeguato, nella fattispecie, al danno subito fino alla data della sentenza dell'Industriai Tribunal (e cioè in rapporto di due a tre), ma ciò non risulta dall'applicazione del limite massimo legislativamente previsto. Un altro indizio dell'insufficienza della sanzione vigente al momento dei fatti potrebbe dedursi dal fatto che, nel Regno Unito, le persone che siano attualmente vittime di licenziamenti discriminatori possono far valere nuovi rimedi giuridici, di portata rilevante ( 37 ).

20.

Il criterio della comparabilità. Come ho detto, tale criterio e quello precedente vanno applicati cumulativamente. Ciò comporta che, se per analoghe infrazioni al diritto nazionale è contemplato un risarcimento più elevato — ad esempio uno integrale — rispetto a quello, adeguato, imposto dal diritto comunitario, tale più elevato risarcimento. deve valere anche per infrazioni al diritto comunitario. Al fine di stabilire se la normativa britannica (anche) in tale settore sia o meno manchevole, è opportuno esaminare il sistema di sanzioni contemplato dallo SDA all'epoca dei fatti.

Mentre la direttiva ha ad oggetto soltanto la parità di trattamento tra uomini e donne in relazione all'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e alle condizioni di lavoro, lo SDA tocca anche altre materie. Così, ad esempio, un locatore che desideri stipulare contratti unicamente con persone di un determinato sesso può venire condannato sulla base della normativa dello SDA ma non sulla base di quella contenuta nella direttiva. Nonostante lo SDA si estenda quindi ad un numero maggiore di materie, esso compie, in tema di sanzioni, una distinzione tra la discriminazione sul lavoro e quella operata in altri ambiti. Per il primo tipo di discriminazione è competente, in forza di tale normativa, l'Industriai Tribunal ( 38 ), che può concedere solo un risarcimento che non ecceda il limite massimo di legge, e che inoltre non ha una competenza, almeno per legge, in ordine alla corresponsione di interessi. Gli altri tipi di discriminazione possono dar luogo a giudizi dinanzi alla Country Court, la quale può irrogare le stesse sanzioni di una High Court ( 39 ), il che significa in pratica che qui la legge non prevede alcun limite massimo per eventuali risarcimenti, e che possono concedersi interessi ( 40 ). Per tali altri tipi di discriminazione, trova quindi applicazione il principio del risarcimento integrale ( 41 ).

21.

A prima vista, potrebbe dedursi da quanto sopra che il Regno Unito intervenga meno energicamente per una violazione del diritto comunitario (discriminazione fondata sul sesso e in materia di lavoro) che nei riguardi di un'analoga violazione del diritto nazionale (discriminazione fondata sul sesso in altri ambiti). A mio parere, tale deduzione non è giustificata. Esiste infatti un motivo decisivo che spiega la distinzione operata dal Regno Unito: gli Industriai Tribunal, creati nel 1965, conoscono dei ricorsi per licenziamento senza giusta causa («unfair dismissal»), illecito contemplato dalla legge («statutory tort») e introdotto dall'Employment Protection (Consolidation) Act del 1978. Così, l'Industriai Tribunal è competente anche per ricorsi in tema di discriminazione razziale sul lavoro, e i risarcimenti che possono essere concessi in tali casi sono soggetti a massimali identici a quelli stabiliti dall'art. 65, n. 2, dello SDA ( 42 ).

Il legislatore britannico, invece di optare per un sistema giuridico che attribuisca ad un'unico giudice la competenza a conoscere di ogni tipo di azione per discriminazione basata sul sesso (sia sul lavoro sia in altri ambiti), ha preferito un meccanismo in cui, in materia di lavoro, tutti i ricorsi per licenziamento senza giusta causa vengono decisi da un giudice unico sulla base di specifiche norme sostanziali e procedurali. Al riguardo, si tratta del licenziamento senza giusta causa in materia di lavoro, a prescindere dal fatto che esso sia causato da una discriminazione in base al sesso, alla razza, o da altri criteri illegittimi, ovvero sia illegittimo per altri motivi, e a prescindere dal fatto che il ricorso sia basato sul diritto nazionale o su quello comunitario. Tali due scelte mi sembrano equivalenti. Pertanto, dalla scelta operata dal Regno Unito non si può neppure dedurre che in tale paese la sanzione prevista dal diritto comunitario sia meno efficace di quella prevista dal corrispondente diritto nazionale.

Per quanto riguarda il criterio della sanzione comparabile, concludo quindi nel senso che il limite massimo di risarcimento di cui all'art. 65, n. 2, dello SDA non è in contrasto con l'art. 6 della direttiva.

Se sia compatibile con l'art. 6 della direttiva l'eventuale incompetenza del giudice a riconoscere interessi

22.

Dall'«esposizione dei fatti» allegata alla domanda di rinvio pregiudiziale risulta che «all'epoca dei fatti l'Industriai Tribunal non aveva il potere — o comunque la normativa inglese in materia era ambigua sul punto se sussistesse o meno tale potere — di riconoscere interessi sull'indennizzo, o come elementi dell'indennizzo stesso, nel caso di atti di illegittima discriminazione sul lavoro in base al sesso».

Mi preme ricordare, innanzitutto, che il giudice nazionale il quale rilevi l'ambiguità del suo diritto nazionale è in ogni caso tenuto ad interpretarlo e ad applicarlo in modo da renderlo conforme alle norme contenute nella direttiva, nella fattispecie con l'art. 6 della direttiva in esame. È assodato che tale obbligo vale anche nei confronti delle norme nazionali già esistenti antecedentemente alla direttiva in un settore da essa successivamente disciplinato (v. precedente paragrafo 10). Ciò vale anche nel caso in cui l'art. 6 della direttiva sia sprovvisto di efficacia diretta (verticale, per non parlare di quella orizzontale) in tema di sanzioni. Se però la disciplina in materia di sanzioni di cui all'art. 6 della direttiva ha efficacia diretta, naturalmente una disciplina che contrasti con tale norma non dovrà, così come in precedenza esposto (v. il precedente paragrafo 11 e seguenti), trovare applicazione in alcun caso.

23.

Interessi compensativi opposti agli interessi giudiziali. Come emerge dalla frase citata nel precedente paragrafo, la domanda di pronuncia pregiudiziale ha ad oggetto interessi riconosciuti «sull'indennizzo, o come elementi dell'indennizzo». Alla lettera b) della seconda questione pregiudiziale, la House of Lords intende, infatti, accertare se una corretta applicazione dell'art. 6 della direttiva richieda che l'indennizzo da concedere includa gli interessi maturati sull'importo capitale dalla data della discriminazione illegittima fino alla data del pagamento dell'indennizzo.

Per rispondere a tale questione bisogna, a mio avviso, distinguere due periodi, e quindi anche due tipi di interessi. In primo luogo, stanno gli interessi, in prosieguo denominati giudiziali, i quali, di norma ( 43 ), decorrono dalla pronuncia della sentenza (nei limiti in cui essa trova eventualmente conferma in sede di appello) che determina l'importo del risarcimento da corrispondersi a tale data. Si tratta degli interessi sull'indennizzo stabilito dal giudice nella sua decisione. In secondo luogo, stanno gli interessi, in prosieguo denominati compensativi, che costituiscono parte integrante dell'indennizzo complessivo per l'illecito commesso, indennizzo il cui importo, come ho detto, viene stabilito dal giudice. La soluzione della questione se tali ultimi interessi siano dovuti dipende dalla misura in cui il giudice che ha stabilito l'ammontare del danno ha potuto tener conto dell'evoluzione del medesimo fino al giorno della pronuncia della sua sentenza (in primo grado, ed eventualmente in appello). Se egli conclude la stima del danno ad una data anteriore, ad esempio perché non è in possesso di dati affidabili che gli consentano di determinare l'importo del danno sino al giorno della sentenza, o, come nella fattispecie, perché il danno sofferto ha unicamente ad oggetto un periodo già (da tempo) trascorso al momento della pronuncia della sentenza ( 44 ), aggiungerà (è ciò che ha fatto l'Industriai Tribunal nella fattispecie) all'importo del danno subito, gli interessi per tutto il periodo trascorso fino alla pronuncia della sentenza. Siffatti interessi costituiscono un elemento dell'indennizzo.

Insisto su tale distinzione perché ritengo che la risposta da fornire alla questione sollevata differisca a seconda del tipo di interessi. Prima di affrontare tale punto, voglio brevemente esaminare se sia possibile ricavare elementi utili dalla giurisprudenza della Corte in materia di riconoscimento di interessi ( 45 ).

24.

La giurisprudenza della Corte in materia di riconoscimento di interessi. Rivolgerò innanzitutto la mia attenzione alla giurisprudenza in materia di concessione di interessi nell'ambito dei procedimenti ex artt. 178 e 215 del Trattato CEE. Tale giurisprudenza consolidata non lascia adito a dubbi sulla ricevibilità di una domanda volta alla concessione di interessi. Così, nella sentenza Sofrimport, la Corte ha rilevato che

«Trattandosi di responsabilità extracontrattuale della Comunità ai sensi dell'art. 215, secondo comma, la domanda va esaminata alla luce dei principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, ai quali rinvia tale disposizione. In base a questi principi, la domanda relativa agli interessi è in linea generale ammissibile. Secondo i criteri adottati dalla Corte in cause analoghe, l'obbligo di corrispondere gli interessi sorge dalla data della presente sentenza, in quanto essa dichiara l'obbligo di risarcire il danno (...)» ( 46 ).

Tale sentenza non precisa se si tratti di interessi compensativi o di interessi giudiziali nel senso che ho precedentemente dato a tali espressioni. A mio parere, siamo in presenza di una mescolanza delle due figure (e quindi a interessi moratori in senso generale ( 47 )), poiché gli interessi cominciano a decorrere dalla data della sentenza che dichiara l'obbligo dell'indennizzo, data che, nelle cause basate sull'art. 215, non coincide necessariamente con quella in cui, in mancanza di un accordo delle parti circa l'importo del danno, la Corte stessa determina la portata di quest'ultimo.

Occorre ancora considerare che il tasso degli interessi riconosciuti nella citata giurisprudenza è variabile. All'inizio, veniva applicato un tasso di interesse del 6%, successivamente, nella citata sentenza Sofrimport (punto 32 della motivazione), tale tasso è stato portato all'8%. Nella sentenza Mulder, precedentemente citata in nota (punto 35 della motivazione), la Corte ha aggiunto che tale tasso non avrebbe potuto in alcun modo essere «superiore a quello richiesto nelle conclusioni del ricorso». In un'altra causa, avente ad oggetto una sospensione dell'esecuzione basata sull'art. 39 del Trattato CECA (e non quindi un ricorso ex artt. 178 e 215 del Trattato CEE), il presidente ha concesso la sospensione

«purché la richiedente provveda alla previa costituzione di una garanzia bancaria per il pagamento dell'ammenda (...) e degli eventuali interessi di mora calcolati, ai fini della presente ordinanza, al tasso di sconto della Banca di Francia aumentato dell'1%». ( 48 ).

25.

Benché le cause del personale siano soggette al regime speciale di cui allo Statuto del personale, non è mia intenzione trascurare del tutto tale branca della giurisprudenza della Corte, poiché essa applica, nondimeno, anche altre norme del diritto comunitario.

Così, emerge segnatamente da tali sentenze emanate che considerazioni di equità possono avere una certa importanza in tema di riconoscimento degli interessi. Già in una sentenza del 1978 ( 49 ), la Corte aveva dichiarato, ad esempio, che

«[punto 35 della motivazione] (...) appare giusto fissare la data di decorrenza degli interessi moratori al 1o settembre 1968 (...);

[punto 37 della motivazione] infine, l'applicazione di un tasso annuo dell'8% a titolo di interessi moratori per gli anni di cui sopra, ai fini del calcolo del risarcimento danni appare, nel caso di specie, giustificata dal carattere forfettario di detto tasso e dal notevole ritardo con cui è stata definita la pratica relativa all'infortunio» (il corsivo è mio).

Inoltre, tali sentenze confermano il fatto che chi vanta diritto ad un indennizzo sulla base di una decisione della Corte può pretendere anche interessi moratori. La Commissione menziona a tal riguardo la causa Samara ( 50 ). Tale causa aveva ad oggetto una decisione della Commissione annullata con sentenza della Corte 15 gennaio 1985 ( 51 ), che verteva sull'inquadramento di un dipendente in un determinato grado e scatto. La Commissione aveva ottemperato solo parzialmente e tardivamente a tale sentenza, e pertanto la Corte, con sentenza 17 febbraio 1987, riconosceva alla signora Samara interessi moratori sulla differenza di stipendio che le spettava a seguito dell'attribuzione nei suoi confronti di uno scatto più alto:

«[punto 9 della motivazione] Così stando le cose, la corretta esecuzione della sentenza esige, onde porre l'interessata nella situazione cui aveva diritto, che si prenda in considerazione il danno da essa subito per il fatto che la regolarizzazione della situazione è avvenuta solo dopo un periodo più o meno lungo e che essa non ha potuto disporre delle somme spettantile alle scadenze normali. A tal fine è opportuno liquidare alla ricorrente interessi di mora valutati a forfait al tasso dell'8% annuo, dalle rispettive scadenze fino al saldo».

26.

Se la concessione di interessi sia obbligatoria in applicazione dell'art. 6 della direttiva La giurisprudenza della Corte in precedenza esaminata dimostra in ogni caso che il diritto comunitario consente il riconoscimento di interessi per il tempo trascorso dal momento in cui il giudice ha accertato l'illecito all'origine dell'obbligo di indennizzo, e quindi, certamente, a far data dalla decisione giudiziaria che fissa l'importo del danno. Ma esiste anche un obbligo al riconoscimento di interessi?

In merito a tale questione, ha rilevanza la distinzione tra interessi compensativi e interessi giuridiziali. Prenderò innanzi tutto in esame il caso di questi ultimi (su cui l'Industriai Tribunal non si è pronunciato). A mio parere, dall'obbligo di tutela giurisdizionale stabilito dall'art. 6 della direttiva — che, secondo l'attuale giurisprudenza della Corte, ha comunque diretta efficacia nei confronti degli Stati membri; v. precedente paragrafo 5 — consegue che il riconoscimento di interessi giudiziali è obbligatorio, senza alcuna limitazione, dalla data della sentenza con cui il giudice di primo grado ha stabilito l'importo del danno subito, sempreché la suddetta sentenza trovi poi conferma in via definitiva. In merito a tali interessi non può quindi esser fatto valere alcun massimale legale per limitare l'indennizzo. Come la Corte ha dichiarato nella sentenza Johnston (già citata al precedente paragrafo 5), si è infatti in presenza di «un principio giuridico generale», di cui «il sindacato giurisdizionale che il succitato articolo (6 della direttiva) vuole sia garantito costituisce espressione», principio in base al quale «qualsiasi persona ha il diritto di esperire un ricorso effettivo dinanzi a un giudice competente» contro le discriminazioni vietate dalla direttiva. Ebbene, tale principio generale posto dal diritto comunitario richiede anche a mio avviso che, nei limiti in cui l'ordinamento giuridico nazionale consente ad una persona di appellarsi contro la sentenza del giudice di primo grado o di impugnarla, essa debba poter far uso di tali strumenti senza subire un pregiudizio finanziario. Ciò significa che tale persona va risarcita del ritardo con il quale le viene versato l'indennizzo dovuto a seguito dell'appello, o dell'impugnazione. Decidere diversamente significherebbe penalizzare economicamente il ricorrente qualora egli decida di interporre appello contro una sentenza a lui sfavorevole, inducendolo persino, eventualmente, a rinunciare a tale proposito sulla base di considerazioni estranee al diritto. Ciò significherebbe anche incoraggiare la parte condannata in primo grado ad un indennizzo ad interporre appello contro tale sentenza in ragione del vantaggio economico che potrebbe trarne.

Le precedenti considerazioni sono particolarmente rilevanti nella fattispecie. Già con sentenza 26 febbraio 1986 la Corte ha interpretato l'art. 5, n. 1, della direttiva in modo tale che se ne poteva dedurre l'esistenza di una discriminazione nei riguardi della signorina Marshall. Conseguentemente, in data 22 luglio 1986, la Court of Appeal rinviava la causa dinanzi all'Industriai Tribunal, affinché esso statuisse sull'indennizzo da concedere. Il 21 giugno 1988, l'Industriai Tribunal fissava l'importo di tale indennizzo in 19405 UKL, importo che la Court of Appeal poi riduceva in applicazione del massimale contemplato dalla legge, nei limiti in cui tale somma non fosse già stata corrisposta dall'Authority (ν. precedente paragrafo 2). Il caso in esame verte sull'applicazione di tale limite massimo contemplato dalla legge. Se dovesse risultare che tale limite è stato illegittimamente applicato, è certo, a mio avviso, che andrebbero corrisposti interessi giudiziali sull'importo indebitamente ridotto (a meno che il danno risultante dal pagamento tardivo non venga riparato con una successiva decisione giudiziale, o in altri modi) e ciò a decorrere dalla data della sentenza dell'Industriai Tribunal.

27.

Con ciò viene risolta in modo soltanto parziale la questione pregiudiziale formulata dalla House of Lords. Essa riguarda infatti tutti gli interessi dovuti, dalla data dell'illecita discriminazione fino a quella del pagamento del risarcimento. Occorre quindi esaminare ancora in che misura il diritto comunitario imponga il riconoscimento di interessi compensativi come elemento costitutivo del risarcimento accordato dal giudice di primo grado. Come ho detto in precedenza, la somma di 7710 UKL concessa dall'Industrial Tribunal configura tali interessi compensativi. Essa infatti riguarda il danno subito dalla signorina Marshall sino alla data della sentenza del Tribunale.

Tali interessi costituiscono, nel pieno senso di tale termine, un elemento del danno subito dalla signorina Marshall in conseguenza dell'accertata discriminazione e a partire da essa, sino alla stima del danno da parte dell'Industriai Tribunal. A proposito di tale danno, ho in precedenza sostenuto in via generale che un limite massimo all'indennizzo posto dalla normativa nazionale non rende possibile nei confronti di chi sia stato vittima di una discriminazione, l'adeguato risarcimento del danno richiesto dall'art. 6 della direttiva, in quanto tale limite non consente il risarcimento di una componente essenziale del danno mediante la concessione di interessi compensativi.

28.

Per scrupolo di completezza, dirò due parole circa i tassi di interesse. Si tratta, in linea di massima, di un problema che, in mancanza di disposizioni comunitarie, andrà deciso dal giudice nazionale. Tuttavia, per costituire un adeguato risarcimento, l'interesse da applicare dovrà essere commisurato alla perdita di potere d'acquisto subita dal creditore a seguito del decorso del tempo. Ciò significa, a mio parere, che il tasso di interesse può variare da paese a paese visto che è collegato all'inflazione esistente nel paese interessato e alla remunerazione del capitale ivi abituale.

Conclusione

29.

Propongo pertanto alla Corte di risolvere le questioni sollevate dalla House of Lords nell'ordine in cui sono state precedentemente esaminate, e nei seguenti termini:

«1)

Se risulta che la normativa di uno Stato membro non prevede un adeguato sistema di sanzioni, così come richiesto sia dallo scopo della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, che dall'art. 6 della medesima, chi sia stato vittima di una discriminazione vietata da tale direttiva può in ogni caso invocare direttamente le disposizioni dell'art. 6 nei confronti di un'autorità di tale Stato membro.

2)

Se la legislazione nazionale di uno Stato membro prevede che chi sia stato vittima di una discriminazione vietata dalla direttiva 76/207/CEE può richiedere giudizialmente il versamento di un indennizzo a titolo di riparazione, tale Stato membro, allo stato attuale del diritto comunitario, non è automatica-mente inadempiente all'obbligo, a suo carico, di dare attuazione all'art. 6 della direttiva di cui sopra, qualora il suo diritto interno ponga al risarcimento un limite massimo.

3)

Siffatto limite massimo è tuttavia in contrasto con l'art. 6 della direttiva 76/207/CEE, se ne consegue che l'indennizzo corrisposto non sia adeguato al danno subito, tenuto conto delle componenti essenziali dell'indennizzo, e segnatamente degli interessi compensativi. Inoltre, dal suddetto limite massimo non può conseguire che le violazioni del diritto comunitario siano soggette a sanzioni meno efficaci rispetto alle violazioni del corrispondente diritto nazionale.

4)

L'obbligo di una tutela giurisdizionale, stabilito dall'art. 6 della direttiva 76/207/CEE, che può essere direttamente fatto valere dai singoli, implica che, in caso di appello o di altra impugnazione, vadano corrisposti interessi giudiziali a decorrere dalla data della pronuncia della sentenza con cui il giudice di primo grado ha determinato l'importo del danno, sempreché tale sentenza sia successivamente confermata in via definitiva».


( *1 ) Lingua originale: l'olandese.

( 1 ) GU 1976, L 39, pag. 40.

( 2 ) Sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall (Racc, pag. 723).

( 3 ) Nell'«esposizione dei fatti» allegata all'ordinanza della House of Lords si menziona «una somma di 7700 UKL a titolo di interessi». Deduco peraltro dal punto 11 di tale «esposizione dei fatti», secondo il quale l'«Authority pagava pertanto l'importo di 5445 UKL, equivalente al saldo della somma riconosciuta in linea capitale alla signorina Marshall dall'Industrial Tribunal», che tale primo importo è frutto di un errore materiale. Nelle osservazioni scritte da essi sottoposte alla Corte, sia la Commissione che il Regno Unito menzionano del resto un importo di 7710 UKL.

( 4 ) Già nel 1982 la Corte ha statuito che, a talune condizioni, i singoli potevano far valere direttamente dinanzi ad un giudice nazionale le disposizioni di una direttiva nei confronti dei pubblici poteri (v. sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker, Racc. pag. 53, punto 25 della motivazione).

( 5 ) Sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84 (Race. pag. 1651). V. anche sentenza 15 ottobre 1987, causa 222/86, Hcylcns (Race. pag. Ί097, punto 14 della motivazione).

( 6 ) Sentenza Johnston, punto 58 della motivazione.

( 7 ) Sentenza 10 aprile 1984, causa 14/83, von Colson (Race. pag. 1891, punto 27 della motivazione); sentenza 10 aprile 1984, causa 79/83, Harz (Race. pag. 1921, punto 27 della motivazione).

( 8 ) V. sentenze 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia (Racc. pag. 2965, punto 23 della motivazione), sentenza 10 luglio 1990, causa C-326/88, Hansen (Race. pag. I-2911, punto 17 della motivazione), sentenza 2 ottobre 1991, causa C-7/90, Vandevenne (Racc. pag. I-4371, punto 11 della motivazione). Si può trovare un avvio di tale giurisprudenza già nella sentenza 2 febbraio 1977, causa 50/76, Amsterdam Bulb (Racc. pag. 137, punti 32-33 della motivazione).

( 9 ) Sentenze von Colson e Harz, punto 22 della motivazione. V. altresì il punto 15 della motivazione.

( 10 ) Sentenze von Colson e Harz, punto 18 della motivazione.

( 11 ) Sentenze von Colson c Harz, punti 23-24 della motivazione.

( 12 ) V. le sentenze citate in precedenza alla nota 8: Commissione/Grecia, punto 24 della motivazione; Hansen, punto 17 della motivazione e Vandevenne, punto 11 della motivazione.

( 13 ) Sentenze Commissione/Grecia, punti 24-25 della motiva-zione; Hansen, punto 17 della motivazione e Vandcvenne, punto 11 della motivazione. Nonostante tali sentenze abbiano ad oggetto le sanzioni penali, il criterio della comparabilità della sanzione vale anche per le sanzioni civili: v. sentenza 19 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90, Francovich e Bonifaci (Racc. pag. I-5357, punto 43 della motivazione).

( 14 ) Sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott (Racc. pag. I-4269, punto 16 della motivazione).

( 15 ) Sentenze von Colson e Harz, punto 28 della motivazione.

( 16 ) Sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing (Racc. pag. I-4135, punto 8 della motivazione).

( 17 ) Naturalmente nell'osservanza dei principi generali del diritto, come quello della certezza e della irretroattività: v. sentenza 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen (Race. pag. 3969, punto 13 della motivazione).

( 18 ) Y. Galmot e J. C. Bonichot, «La Cour de justice des Communautés européennes et la transposition des directives en droit national», in Rev. fr. droit adm. 1988, 1, in particolare pagg. 20 e seguenti.

( 19 ) Ciò è quanto risulta dal punto 8, sub 5), dell'esposizione dei fatti (già citata al precedente punto 3).

( 20 ) Come ha fatto il giudice tedesco dopo la sentenza von Colson, Arbeitsgericht Hamm, sentenza 6 settembre 1984, Der Betrieb, Racc. pag. 2700.

( 21 ) Emerge dalla giurisprudenza della Corte che, in materia di disposizioni di diritto nazionale, la portata di una norma legislativa va vista in connessione con l'interpretazione datane nelle decisioni giudiziarie: v. recente sentenza 16 dicembre 1992, cause C-132/91, C-138/91 e C-139/91, Katsikas e a. (Racc. pag. I-6577, punto 39 della motivazione); v. sentenza 16 aprile 1991, causa C-347/89, Eurim-Pharm (Racc. pag. I-1747, punto 15 della motivazione).

( 22 ) Sentenza 21 febbraio 1991, cause C-143/88 c C-92/89, Zuckerfabrik (Racc. pag. I-415, punto 25 c seguenti della motivazione).

( 23 ) Sentenza 12 luglio 1990, causa C-188/89, Foster (Racc. pag. I-3313, punto 22 della motivazione).

( 24 ) Nella causa decisa da tale sentenza, la discriminazione censurata dall'attrice proveniva a una società di diritto privato, c più precisamente da una GmbH tedesca.

( 25 ) V., in particolare, la già citata sentenza Foster.

( 26 ) In merito ai problemi che tale situazione causa in Gran Bretagna, v. G. de Burca, «Giving effect to European Community Directives», The Modern Law Review, 1992, pagg. 215-240.

( 27 ) V. nota 13.

( 28 ) V., in tale medesimo senso, F. Emmert, «Horizontale Drittwirkung von Richtlinien? Lieber ein Ende mit Schrecken als ein Schrecken ohne End», Europäisches Wirtschafts-& Steuerrecht — EWS 1992, pagg. 56 e seguenti. In tale articolo viene confutata l'errata opinione secondo cui, se si conferisse efficacia diretta orizzontale alle direttive alla scadenza del termine previsto dalla loro attuazione — non prima —, ciò farebbe venir meno la distinzione che l'art. 189 del Trattato compie tra regolamenti e direttive.

( 29 ) L'espressione «in ogni caso» («in any event», «in elk geval») non mi pare in nessun modo sinonimo dell'espressione «in ogni caso (particolare» [«in each (particular) case», «in ieder (afzonderlijk) geval»].

( 30 ) Si tratta delle direttive 20 ottobre 1980, 80/987/CEE (GU 1980, L 283, pag. 23), 25 luglio 1985, 85/374/CEE (GU 1985, L 210, pag. 29) e 13 giugno 1990, 90/314/CEE (GU 1990, L 158, pag. 59) aventi ad oggetto rispettivamente i crediti da retribuzione dei lavoratori dipendenti nei riguardi delle imprese insolventi, la responsabilità dei produttori e i viaggi «tutto compreso».

( 31 ) Sentenza Francovich e Bonifaci (già citata alla nota 13), punto 40 della motivazione.

( 32 ) Idem, punto 42 della motivazione.

( 33 ) Idem, punto 43 della motivazione.

( 34 ) Del resto, ciò è semplicemente logico. Il sistema di sanzioni imposto dall'art. 6 della direttiva può infatti riguardarsi come «lex specialis» —in particolare in materia di indennizzo per discriminazioni proibite dalla direttiva —rispetto alla regola in materia di responsabilità posta dalla sentenza Francovich, che costituisce la «lex generalis» segnatamente per quanto concerne !a non corretta trasposizione delie direttive.

( 35 ) Ciò non impedisce peraltro che le normative nazionali, come del resto l'art. 215 del Trattato CEE, prevedano per lo più, quale norma generale, l'obbligo di nsarcire integralmente (o quasi integralmente: v. nota 41) il danno subito. Riteniamo però che lo stato attuale del diritto comunitario non osti a che uno Stato membro stabilisca un limite legale all'indennizzo per quanto riguarda specifici ricorsi per risarcimento danni, a condizione però che siano rispettati i due principi, precedentemente trattati, della sanzione sufficientemente cogente c della compatibilità.

( 36 ) Secondo l' «esposizione dei fatti» allegata all'ordinanza di rinvio, un giudice ordinario può decidere di corrispondere un indennizzo per danno morale («injury to feelings»), nonché degli interessi.

( 37 ) Dalle osservazioni presentate dal Regno Unito — il quale non è stato contraddetto al riguardo da alcuna delle parti — emerge in particolare che tali persone possono oggi richiedere anche la loro reintegrazione in servizio. Se il datore di lavoro non ottempera ad un invito in tal senso da parte di un giudice, a tali persone spetterà un indennizzo supplementare fino ad un massimo di 10650 UKL.

( 38 ) Art. 63, n. 1, dello SDA

( 39 ) Art. 66, n. 4, dello SDA.

( 40 ) In base alle osservazioni scritte presentate dalla Commis-sione, l'Industrial Tribunal, al pari delle County Courts, può applicare anche altre sanzioni (disporre ad esempio la reintegrazione in servizio della persona discriminata, anche se tale provvedimento raramente viene emanato).

( 41 ) Il principio del risarcimento integrale (o quasi integrale: infatti sussistono divergenze tra gli ordinamenti giuridici nazionali, ad esempio in tema di risarcimento del danno morale c di danno imprevedibile) costituisce, a mio parere, il regime di diritto comune negli Stati membri. Ciò non impedisce che in tutti i paesi, c anche in seno al diritto comunitario stesso, (v. nota 30), esistano, per diversi motivi, limitazioni in merito a taluni tipi specifici di azioni di danni, come succede nel Regno Unito in ordine alla normativa in esame nel caso di specie. Una maggiore uniformità su questo piano può essere introdotta solo dal legislatore comunitario.

( 42 ) V. art. 54 del Race Relations Act 1976 (legge del 1976 sui rapporti iteretnici).

( 43 ) Dico «di norma» in quanto talvolta tali interessi vengono concepiti come decorrenti dalla data dell'atto introduttivo del giudizio.

( 44 ) Il danno patrimoniale stimato dalľlndustrial Tribunal com-prendeva essenzialmente, a parte eli interessi, i redditi da avoro dì cui la signorina Marshall si è vista privare per il periodo intercorrente tra il licenziamento discriminatorio all'età di 62 anni e il momento in cui avrebbe raggiunto ìl 65° anno (età alla quale sarebbe stata collocata a riposo se non vi fosse stata discriminazione), nonché la perdita di introiti pensionistici a seguito di tale prematuro licenziamento.

( 45 ) Nelle precedenti considerazioni, ho evitato di parlare di «interessi moratori». Tale espressione ha portata più generale: essa ricomprende infatti í due tipi di interessi precedentemente menzionati, vale a dire quelli compensativi e quelli giudiziali, c sì riferisce alla globalità degli interessi riconosciuti in ragione del tempo trascorso sia prima sìa dopo la sentenza.

( 46 ) Sentenza 26 giugno 1990, causa C-152/88, Sofrimport/Commissionc {Race. pag. I-2477, punto 32 della motivazione, ulteriormente confermata dalla sentenza 19 maggio 1992, cause C-104/89 e C-37/90, Mulder (Race. pag. I-3062, punto 35 della motivazione. Per il periodo precedente, v. anche la sentenza 4 ottobre 1979, causa 238/78, Ireks-Arkady/Consiglio c Commissione (Racc. pag. 2955, punto 20 della motivazione); sentenza 4 ottobre 1979, cause 241/78, 242/78, 245/78-250/78, DGV/Consiglio e Commissione (Racc. pag. 3017, punto 22 della motivazione); sentenza 4 ottobre 1979, cause 261/78 e 262/78, Interqucll e Stàrke-Chcmie/Consiglio c Commissione (Racc. pag. 3045, punto 23 della motivazione); sentenza 4 ottobre 1979, cause 64/76 e 113/76, 167/78 c 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier Frèrcs/Consiglio (Racc. pag. 3091, punto 25 della motivazione); sentenza 19 maggio 1982, cause 64/76 e 113/76, 167/78 c 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier Frèrcs/Consiglio (Racc. pag. 1733, punto 11 della motivazione); sentenza 18 maggio 1983, causa 256/81, Pauls Agriculture/Consiglio e Commissione (Racc. pag. 1707, punto 17 della motivazione); sentenza 13 novembre 1984, cause 256/80, 257/80, 265/80 e 267/80, 5/81 e 51/81 nonché 282/82, Birra Wührer/Consíglio e Commissione (Race. pag. 3693, punto 37 della motivazione).

( 47 ) V. nota 45.

( 48 ) Ordinanza del presidente della Corte 5 luglio 1983, causa 78/83 R, Usinor/Commissione (Racc. pag. 2183, punto 1 del dispositivo).

( 49 ) Sentenza 16 marzo 1978, causa 115/76, Leonardini/ Commissione (Racc. pag. 735).

( 50 ) Sentenza 17 febbraio 1987, causa 21/86, Samara/ Commissione (Racc. pag. 795).

( 51 ) Sentenza 15 gennaio 1985, causa 266/83, Samara/ Commissione (Racc. pag. 189).