CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

W. VAN GERVEN

presentate il 28 aprile 1993 ( *1 )

Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. 

Ai sensi dell'art. 95, n. 3, del regolamento di procedura della Corte di giustizia delle Comunità europee 19 giugno 1991 ( 1 ), la Seconda Sezione ha rinviato la causa in esame dinanzi al Plenum della Corte. Con ordinanza 9 dicembre 1992 le parti che hanno depositato osservazioni scritte dinanzi alla Corte sono state anche invitate a rispondere all'udienza a tre quesiti ( 2 ).

In queste seconde conclusioni esaminerò principalmente le osservazioni presentate all'udienza del 9 marzo 1993 e verificherò se esse modificano le conclusioni alle quali ero giunto nelle mie prime conclusioni del 18 novembre 1992. Per quanto riguarda i fatti della controversia, possiamo richiamarci alle menzionate conclusioni ed alla relazione d'udienza. Appare sufficiente ricordare che nella specie si tratta di valutare la compatibilità con l'art. 30 del Trattato di un divieto nazionale di rivendita sottocosto.

Natura della disciplina della rivendita sottocosto

2.

Esaminerò anzitutto la terza questione sottoposta alla Corte, vale a dire se un divieto di rivendita sottocosto costituisca uno strumento diretto alla repressione di un mezzo di promozione delle vendite o se faccia parte di un regime nazionale di disciplina dei prezzi. La richiesta di chiarimenti della Corte mi sembra ispirata dalla giurisprudenza elaborata dalla Corte medesima in materia di regimi nazionali di disciplina dei prezzi. La Corte ha infatti più volte rilevato che

«provvedimenti nazionali che disciplinano la fissazione dei prezzi, da applicare indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati, non costituiscono di per sé una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, ma possono tuttavia divenire tali qualora, a causa del livello di prezzo stabilito, essi svantaggino i prodotti importati, in particolare perché il vantaggio concorrenziale che risulta dal minore prezzo di costo viene neutralizzato o perché il prezzo massimo è fissato ad un livello talmente basso che — tenuto conto della situazione generale dei prodotti rispetto a quella dei prodotti nazionali — gli operatori i quali intendano importare i prodotti di cui trattasi nello Stato membro considerato possono farlo soltanto in perdita» ( 3 ).

In altri termini, tale giurisprudenza non ravvisa nei regimi nazionali di disciplina dei prezzi una misura di effetto equivalente vietata dall'art. 30, salvo che tali regimi ostacolino o impediscano lo smercio dei prodotti importati o lo rendano più difficile rispetto ai prodotti nazionali, privando i prodotti importati del vantaggio risultante da un prezzo di rivendita inferiore, ovvero costringendo eventuali importatori a procurarsi il prodotto sottocosto ( 4 ).

3.

Come era lecito attendersi, la risposta unanime delle parti è stata che la normativa francese contestata, che non mira ad incidere sulla formazione normale dei prezzi, non costituirebbe parte di un regime nazionale di disciplina dei prezzi stessi. Difficilmente, del resto, le cose potrebbero essere diverse, atteso che la Francia ha provveduto ad abolire il proprio regime di disciplina dei prezzi — salvo qualche eccezione — per mezzo del decreto 1o dicembre 1986 ( 5 ). Lo stesso decreto ha inoltre istituito, all'art. 32, il regime, attualmente vigente, di divieto della rivendita sottocosto, contestato nella specie ( 6 ).

Il quesito posto dalla Corte non ha mancato di provocare da parte del governo francese una serie di considerazioni sulla natura della rivendita sottocosto e della sua disciplina al fine di distinguere le fattispecie oggetto di cause quali la causa Oosthoek e Buet rispetto alla fattispecie ora in esame. Sinteticamente riassunta, la tesi del detto governo è che la disciplina francese non costituisce uno strumento diretto alla repressione di un determinato metodo di promozione delle vendite, bensì un mezzo di repressione contro una forma di concorrenza sleale tra i rivenditori ( 7 ).

L'esperienza francese dell'accertamento e della repressione della vendita sottocosto evidenzierebbe infatti che tale tipo di vendita costituisce soprattutto una tecnica aggressiva applicata dalle grandi reti di distribuzione — fortemente concentrate nel paese. Inoltre, la maggior parte dei divieti di rivendita sottocosto non riguarderebbero, nella pratica, prodotti nuovi lanciati sul mercato, bensì prodotti di consumo noti (detersivi, caffè, bibite, conserve) il cui prezzo normale è conosciuto al consumatore. Da tali considerazioni emergerebbe come la disciplina della vendita sottocosto, a differenza delle discipline oggetto delle cause Oosthoek (divieto di un sistema di omaggi) e Buet (divieto di vendita di materiale pedagogico mediante la vendita porta a porta), costituisca una disciplina generale del mercato il cui fine non è quello di incidere sui flussi commerciali tra gli Stati membri, bensì rappresenta la conseguenza di una scelta di politica economica, vale a dire la realizzazione di un determinato livello di trasparenza e di lealtà nei meccanismi della concorrenza.

4.

Tali considerazioni, ancorché utili a chiarire la situazione del mercato e della concorrenza in Francia, nulla tolgono alla constatazione che la rivendita sottocosto costituisce una tecnica di vendita idonea, in presenza di talune circostanze ben determinate, a rendere impossibile o più difficoltoso lo smercio dei prodotti importati, cosa che cercherò di spiegare nuovamente in prosieguo.

Il governo francese ravvisa soprattutto nella vendita sottocosto una strategia di eliminazione della concorrenza. L'analogia più volte rilevata con il fenomeno del dumping ( 8 ) evidenzia come il detto governo pensi alla situazione di un'impresa, nella maggior parte dei casi di grandi dimensioni, che cerchi di eliminare i propri concorrenti, al livello del commercio al dettaglio, vendendo sottocosto per un certo periodo al fine, una volta eliminata la concorrenza, di utilizzare la posizione dominante così acquisita per imporre prezzi superiori ai consumatori.

Come già osservato nelle nostre prime conclusioni, tale strategia può effettivamente manifestarsi in modo ben specifico nella vendita sottocosto, la cui repressione può essere ritenuta necessaria da uno Stato membro al fine di garantire la lealtà dei negozi commerciali — riconosciuta dalla Corte quale esigenza imperativa ai sensi dell'art. 30 — ovvero al fine di impedire che venga falsata la concorrenza. Il diritto comunitario non pone alcun problema al riguardo. Nelle mie precedenti conclusioni avevo anche riconosciuto che l'applicazione di analoga giustificazione, questa volta con riguardo a finalità di tutela del consumatore, non poteva essere negata alla disciplina di un altro tipo di vendita sottocosto, vale a dire quella che si è inteso chiamare «tecnica di richiamo» (o «loss-leadering»): tale tecnica consiste nell'attirare i clienti per mezzo di prodotti venduti sottocosto o con un margine di utile estremamente basso, al fine di indurli, una volta entrati nei locali di vendita, ad acquistare anche altri prodotti che — al fine di compensare la perdita subita sul primo — sono offerti a prezzo più elevato ( 9 ).

5.

Tali forme di vendita sottocosto costituiscono metodi di promozione delle vendite che si incontrano soprattutto a livello del commercio al dettaglio. Nondimeno, la vendita sottocosto costituisce spesso per un fabbricante, un importatore o un grossista — vale a dire non solo a livello del commercio al dettaglio — un metodo efficace per lanciare un nuovo prodotto o per penetrare su un nuovo mercato. Piuttosto che ad una tecnica aggressiva o di «richiamo», la vendita sottocosto equivale, in presenza di tali presupposti, ad una strategia di marketing consistente nell'introdurre presso la clientela un prodotto nuovo per mezzo di prezzi ridotti, sulla presunzione che la perdita subita nel corso della vendita promozionale sarà recuperata a seguito delle più elevate vendite dello stesso prodotto successivamente, a prezzo leggermente superiore. Sono soprattutto gli operatori economici stranieri che possono avvalersi di tale metodo di promozione delle vendite al fine di penetrare su un altro mercato nazionale. Qualora una strategia di tal genere sia perseguita a livello di produttori, importatori o grossisti, assume certamente rilievo anche sotto il profilo del diritto comunitario ( 10 ).

Non ravviso quindi alcuna ragione che imponga di operare una distinzione, ai fini dell'applicazione dell'art. 30, tra taluni metodi di carattere più duraturo, quali l'offerta congiunta, la vendita porta a porta e la vendita per corrispondenza, ed un metodo quale la vendita sottocosto, in cui l'accento è posto sul carattere provvisorio, promozionale ( 11 ). A termini della sentenza Dassonville ( 12 ), si tratta di accertare se una normativa nazionale che disciplini siffatti metodi di vendita o di promozione delle vendite sia idonea ad ostacolare «direttamente o indirettamente, in atto o in potenza» il commercio intracomunitário. Esaminerò tale questione nel paragrafo successivo.

A tal riguardo, appare tutto sommato irrilevante la questione se il regime nazionale di cui trattasi costituisca o meno una disciplina dei prezzi. Qualora il regime costituisca una disciplina dei prezzi, occorrerà sempre accertare se si tratti di un regime idoneo ad impedire o ostacolare lo smercio dei prodotti importati. Al pari di un divieto di rivendita sottocosto, una disciplina dei prezzi può infatti privare, in caso di importazione, un produttore straniero del vantaggio derivante da un proprio prezzo di costo inferiore e può in tal caso risultare incompatibile con il divieto di cui all'art. 30 ( 13 ).

La questione se la disciplina della rivendita sottocosto produca effetti «diretti o indiretti o semplicemente ipotetici» sugli scambi intracomunitari

6.

La Corte ha inoltre chiesto alle parti che hanno depositato osservazioni chiarimenti in merito agli effetti della disciplina della rivendita sottocosto sugli scambi intracomunitari. Essa si è richiamata al riguardo alla sua più recente sentenza in materia di chiusura domenicale dei negozi, la sentenza B Sc Q 16 dicembre 1992, in cui essa ha affermato quanto segue:

«Nel vagliare la proporzionalità di una disciplina nazionale che persegue uno scopo legittimo sotto il profilo del diritto comunitario occorre contemperare l'interesse nazionale all'attuazione di tale scopo con l'interesse comunitario alla libera circolazione delle merci. Al riguardo, per accertare che gli effetti restrittivi della disciplina in questione sugli scambi intracomunitari non eccedano la misura di quanto è necessario per raggiungere lo scopo prefisso, occorre esaminare se tali effetti siano diretti, indiretti o meramente ipotetici e se essi non ostacolino lo smercio dei prodotti importati più di quello dei prodotti nazionali» ( 14 ).

7.

Le parti che sono intervenute dinanzi alla Corte hanno reagito in senso diverso. Secondo il governo francese, gli effetti sugli scambi intracomunitari sarebbero puramente ipotetici. La Commissione ritiene che gli effetti siano indiretti ovvero ipotetici e riconosce che nessun elemento del fascicolo consente di affermare che la disciplina della rivendita sottocosto produca effetti diretti sugli scambi intracomunitarí. Secondo i difensori del signor Mithouard, infine, la disciplina de qua produce certamente effetti restrittivi.

8.

Nel prendere posizione su tale punto controverso, parto dal presupposto che la Corte si attenga all'ampia formulazione della giurisprudenza Dassonville. Desidero ricordare che, nelle conclusioni presentate nella prima causa relativa alla chiusura domenicale dei negozi ( 15 ), proposi alla Corte di accogliere una tesi più restrittiva con riguardo alle discipline nazionali che, al pari della normativa di cui trattasi nella specie o nella menzionata causa relativa alla chiusura domenicale, non mirino a disciplinare il commercio tra gli Stati membri. La nostra proposta consisteva, infatti, nel non dichiarare applicabile il divieto di cui all'art. 30 a normative di tal genere se non nel caso in cui esse producessero un effetto di compartimentazione del mercato, vale a dire qualora compromettessero l'interpenetrazione dei mercati nazionali ( 16 ).

La Sesta Sezione della Corte non ha accolto il mio suggerimento. Nella sentenza la Corte ha implicitamente mantenuto la formula Dassonville riconoscendo che il contemperamento dei rispettivi interessi, che deve essere effettuato in considerazione di tale ampia formulazione, nell'ambito del principio di proporzionalità sancito dall'art. 30, compete al giudice nazionale ( 17 ). Nella seconda e, ancora più chiaramente, nella terza delle sentenze precedentemente menzionate relative alla chiusura domenicale dei negozi, la Corte, pronunciandosi in seduta plenaria, ha rivisto la propria giurisprudenza in ordine a quest'ultimo punto, ma non al primo ( 18 ). Come emerge dal passo della terza sentenza sopra richiamata (paragrafo 6), la Corte ha infatti valutato la compatibilità della normativa nazionale contestata con l'esigenza di proporzionalità, il che significa che ha riconosciuto l'applicazione di principio dell'art. 30.

Ritengo, quindi, che l'ampia portata della giurisprudenza Dassonville continui a rappresentare la pietra angolare della giurisprudenza della Corte relativa alla sfera di applicazione dell'art. 30 del Trattato CEE. Al fine di evitare qualsiasi confusione, la Corte è tenuta, a mio parere, a confermare tale tesi ai giudici nazionali in termini di assoluta chiarezza.

9.

Applicando parimenti la giurisprudenza Dassonville nella causa in esame, non si potrà escludere che un divieto legale di rivendita sottocosto del genere esistente in Francia sia idoneo a ostacolare «direttamente o indirettamente, in atto o in potenza» il commercio intracomunitário. Anche se il divieto francese non trova applicazione a livello di vendita da parte di un fabbricante (nazionale o straniero), sussistono quantomeno due ostacoli potenziali, come sottolineato nelle mie prime conclusioni ( 19 ): da un lato, la normativa è idonea a creare ostacolo a un rivenditore che, senza l'aiuto del produttore straniero, intenda lanciare sul mercato francese un prodotto importato da un altro Stato membro vendendolo temporaneamente sottocosto, vale a dire al di sotto del prezzo fatturatogli dal produttore straniero; dall'altro, è possibile che un importatore/rivenditore di un prodotto straniero, ancorché venda in Francia al proprio prezzo di costo o ad un prezzo superiore, si trovi collocato in una posizione concorrenziale sfavorevole rispetto ad un fabbricante nazionale che può vendere sottocosto senza restrizione, atteso che il divieto francese non si estende alla sfera dei fabbricanti.

10.

Le mie prime conclusioni relative alla causa in esame risalgono al 18 novembre 1992 e sono quindi anteriori all'ultima sentenza della Corte in tema di chiusura domenicale dei negozi. Mi chiedo se con tale sentenza la Corte abbia modificato la propria giurisprudenza relativa alla libera circolazione delle merci in senso più restrittivo.

La risposta mi sembra essere negativa. Se la Corte avesse voluto restringere la portata di principio del divieto dell'art. 30 del Trattato CEE, essa avrebbe indubbiamente cominciato con il riferirsi espressamente ai principi giurisprudenziali della sentenza Dassonville per restringerli successivamente e giungere, ad esempio, alla conclusione che la normativa in contestazione relativa alla chiusura domenicale dei negozi (in ordine alla quale il giudice di rinvio aveva rilevato che essa incideva sullo smercio dei prodotti importati) non costituiva una misura d'effetto equivalente ( 20 ). Al contrario, la Corte ha confermato, come già fatto nelle precedenti sentenze relative alla chiusura domenicale (sentenze Torfaen, Conforama e Marchandise), che una siffatta normativa poteva produrre conseguenze negative sul volume delle vendite di taluni negozi, ancorché essa incidesse in egual misura sulla vendita sia dei prodotti nazionali sia di quelli di importazione e non rendesse quindi lo smercio dei prodotti provenienti da altri Stati membri più difficile rispetto a quello dei prodotti nazionali ( 21 ). Inoltre, la Corte ha di nuovo esaminato se la finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi potesse costituire valida giustificazione concludendo, infine, il proprio ragionamento con l'esame della proporzionalità della normativa medesima.

11.

Ritengo che la sentenza B & Q fornisca certamente una precisazione importante quanto alle modalità con cui la Corte procede al proprio sindacato di proporzionalità. La Corte riconosce, infatti, per la prima volta in termini chiari che, al fine di poter verificare se una normativa non vada al di là di quanto sia necessario per il raggiungimento dell'obiettivo (giustificato con riguardo al diritto comunitario), occorre esaminare soprattutto se gli effetti restrittivi della normativa di cui trattasi sugli scambi comunitari siano «diretti, indiretti, o semplicemente ipotetici». In altri termini, laddove appaia che il preteso effetto sulle importazioni (ovvero la connessione con le medesime) sia a tal punto incerto ed ipotetico da non potersi minimamente affermare che la disposizione nazionale de qua costituisca ostacolo agli scambi tra gli Stati membri, non esisterà incompatibilità con l'art. 30 ( 22 ).

Tale precisazione non incide tuttavia minimamente, a mio parere, sul risultato finale cui son giunto nelle mie prime conclusioni con riguardo alla questione del sindacato di proporzionalità. L'elemento essenziale della valutazione della proporzionalità resta quello che gli effetti restrittivi di una normativa nazionale non possono andare al di là di quanto sia necessario ai fini del raggiungimento dell'obiettivo giustificato con riguardo al diritto comunitario. Orbene, considerato che il divieto francese di rivendita sottocosto si estende anche a situazioni che non rientrano nelle esigenze imperative riconosciute dalla Corte — e la fattispecie precedentemente evocata del lancio di un nuovo prodotto importato ne costituisce un esempio —, nessuna causa di giustificazione comunitaria potrà essere invocata a sostegno del divieto e la Corte non avrà quindi, in linea di principio, alcun motivo che imponga di valutare il divieto nazionale alla luce del principio di proporzionalità ( 23 ). In tali fattispecie, gli effetti restrittivi di un divieto legale del genere di cui trattasi nella specie possono essere del resto difficilmente qualificati come «semplicemente ipotetici».

12.

Come già rilevato nelle mie prime conclusioni, ciò non significa che in un caso del genere il regime debba essere dichiarato nel suo complesso incompatibile con l'art. 30. Un'incompatibilità sussisterà solamente laddove il detto regime non possa essere fondato su una giustificazione prevista dal diritto comunitario — e non possa essere quindi nemmeno soggetto in linea di principio a un sindacato di proporzionalità. Nella specie, ciò significa in termini concreti che il giudice nazionale non è tenuto a disapplicare il divieto francese di rivendita sottocosto: la fattispecie oggetto della controversia principale riguarda, infatti, casi di rivendita sottocosto verificatisi unicamente a livello di distribuzione al dettaglio ( 24 ). Come rilevato dal governo francese, si tratta sempre di un responsabile francese di un supermercato stabilito in Francia (è pur vero, in zona frontaliera) che ha posto in vendita sottocosto un prodotto di consumo specifico, caffè (Sati rouge) nel primo caso, birra (Picon Bière) nel secondo. Appare evidente che una siffatta fattispecie non ha nulla a che vedere con l'ipotesi precedentemente analizzata del lancio di un nuovo prodotto — con riguardo al quale non sia nemmeno accertata la provenienza da un altro Stato membro —, bensì si colloca piuttosto tra le altre figure di rivendita sottocosto sia come mezzo per eliminare un concorrente sia per attirare i clienti ( 25 ).

13.

In considerazione dell'ultima osservazione sopra esposta, desidero precisare il risultato al quale sono giunto nelle mie prime conclusioni. A tal proposito, muovo dal principio che spetta alla Corte, nell'ambito di una questione pregiudiziale, fornire al giudice nazionale tutti gli elementi, ma unicamente quelli, necessari per il giudice medesimo ai fini della soluzione delle controversia dinanzi ad esso pendente. In tal senso, appare sufficiente dichiarare al detto giudice che un divieto legale di rivendita sottocosto non è incompatibile con l'art. 30 del Trattato CEE, essendo emerso che i fatti da cui è scaturita la controversia principale si sono verificati nell'ambito del commercio al dettaglio, vale a dire ad un livello con riguardo al quale la normativa può essere validamente fondata su una causa di giustificazione riconosciuta, e che a tale livello non vi è influenza, se non semplicemente ipotetica, sul commercio tra gli Stati membri, e certamente nessun ostacolo se non ipotetico sui flussi commerciali ( 26 ).

14.

Ciò non vuol dire che la Francia non farebbe meglio, come sottolineato nelle mie prime conclusioni, a modificare la propria normativa per renderla più conforme al diritto comunitario. Anche se fosse esatto, come sostenuto dal governo francese all'udienza, che nella pratica le sole infrazioni alla normativa de qua finora perseguite riguardavano il settore della distribuzione, precedentemente menzionato, la certezza del diritto esige che il divieto legale sia precisato in termini tali da essere limitato a fattispecie che non rientrino nell'ambito del diritto comunitario. È infatti costante giurisprudenza della Corte che

«i principi della certezza del diritto e della tutela dei privati, esigono che, nelle materie disciplinate dal diritto comunitario, la normativa degli Stati membri abbia una formulazione non equivoca, si da consentire agli interessati di conoscere i propri diritti ed obblighi in modo chiaro e preciso, ed ai giudici di garantirne l'osservanza» ( 27 ).

Il fatto che la disposizione di cui trattasi non troverebbe o, quantomeno, troverebbe molto raramente applicazione non conforme al diritto comunitario non può quindi costituire un argomento che esima dal dovere di procedere al suo adeguamento ( 28 ). Nelle more di una modifica normativa, spetta peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte, al giudice nazionale

«dare al diritto interno, in tutti i casi in cui questo gli lascia un margine discrezionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario e, qualora una siffatta interpretazione conforme non sia possibile, disapplicare le norme nazionali incompatibili» ( 29 ).

Conclusione

15.

Suggerisco quindi alla Corte di risolvere la questione pregiudiziale nei seguenti termini:

«In presenza di una fattispecie del genere oggetto della causa principale, l'art. 30 del Trattato CEE non osta ad un divieto legale di rivendita sottocosto».


( *1 ) Lingua originale: l'olandese.

( 1 ) GU 1991, L 176, pag. 7.

( 2 ) Per quanto riguarda la formulazione esatta di tali quesiti, v. addendum alla relazione d'udienza.

( 3 ) V. sentenza 7 giugno 1983, causa C-78/82, Commissione/Italia (Race. pag. 1955, punto 16 della motivazione); v., in particolare, anche le sentenze 5 aprile 1984, cause riunite C-177/82 e C-178/82, Van der Haar (Racc. pag. 1797, punto 19 della motivazione), 29 gennaio 1985, causa 231/83, Cullet/Leclerc (Racc. pag. 305, punto 23 della motivazione), c 7 maggio 1991, causa C-287/89, Commissione/Belgio (Race. pag. I-2233, punto 17 della motivazione).

( 4 ) V. sentenze 29 novembre 1983, causa 181/82, Roussel Laboratoria (Racc. pag. 3849, punto 17 delia motivazione), 19 marzo 1991, causa 249/88, Commissione/Belgio (Race, pag. I-1275, punto 15 della motivazione).

( 5 ) V. decreto 1° dicembre 1986, n. 86-1243, relativo alla libertà dei prezzi e della concorrenza, in JORF 9 dicembre 1986.

( 6 ) L'art. 32 del decreto modifica in particolare l'art. 1, I, della legge finanziaria 2 luglio 1963, n. 63-628.

( 7 ) Si fa richiamo al riguardo anche alla collocazione data al divieto legale nell'ambito del decreto 1o dicembre 1986, vale a dire nel titolo IV, nel capitolo intitolato «Della trasparenza e delie pratiche restrittive».

( 8 ) 11 governo francese ha effettuato tale accostamento sia alla prima che alla seconda udienza.

( 9 ) V. paragrafo 8 delle mie prime conclusioni.

( 10 ) Desidero sottolineare, inoltre, che nella sentenza Van Tiggele, richiamata dal governo francese nelle proprie osservazioni scritte, la Corte ha semplicemente affermato la non applicabilità dell'art. 30 con riguardo ad una disposizione nazionale che vieti la «vendita al dettaglio» sottocosto: v. sentenza 24 gennaio 1978, causa 82/77 (Race. pag. 25, punto 16 della motivazione). In altri termini, in tale sentenza la Corte non si è pronunciata, a dire il vero, con riguardo ad una normativa nazionale che si estenda anche ad altri livelli del commercio, cosa che, in considerazione dei fatti oggetto della causa principale (la vendita al dettaglio di ginepro a prezzo inferiore ai prezzi minimi fissati), non era d'altronde necessaria.

( 11 ) Quest'ultimo metodo di vendita era oggetto della causa Delattre: v. sentenza 21 marzo 1991, causa C-369/88 (Race, pag. I-1487).

( 12 ) V.sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74 (Race. pag. 837, punto 5 della motivazione).

( 13 ) Come già esposto nelle mie prime conclusioni ai capitoli 3 e seguenti, ritengo che, su tale punto specifico, non possa attribuirsi valore di precedente alla sentenza Van Tiggele, già precedentemente citata, nella parte in cui in essa si affermerebbe che il divieto di rivendita sottocosto non sarebbe incompatibile con l'art. 30 laddove si applichi indistintamente ai prodotti sia nazionali che di importazione. V., peraltro, il successivo passo di giurisprudenza della Corte riportato al paragrafo 2 delle dette conclusioni.

( 14 ) V. sentenza 16 dicembre 1992, causa C-169/91, Stoke-on-Trent and Norwich City Councils/B 8c Q (Race, pag. I-6635, punto 15 della motivazione).

( 15 ) V. conclusioni relative alla causa C-145/88, Torfaen (Race. 1989, pag. 3865 e seguenti).

( 16 ) A tal proposito, ma anche in ordine ad altre proposte dirette a limitare la portata dell'art. 30 del Trattato, v. la recente raccolta di J. Steiner, «Drawing the line: uses and abuses of Artide 30 CEE», C. M. L. Rev., 1992, 749-774. Lo stesso autore propone di conservare la formulazione utilizzata nella giurisprudenza Dassonville, in cui il criterio non è tuttavia quello di chiedersi se una normativa nazionale sia idonea a produrre effetti sul (volume) delle merci importate, bensì se la normativa di cui trattasi ostacoli (in atto o in potenza) il commercio intracomunitário.

( 17 ) V. sentenza 23 novembre 1989, causa C-145/88 (Race. pag. 3851).

( 18 ) Sia nelle sentenze 28 febbraio 1991, causa C-312/89, Conforama (Race. pag. I-997, punto 12 della motivazione), causa C-332/89, Marchandise (Race. pag. I-1027, punto 13 della motivazione), sia nella sentenza 16 dicembre 1992, B & Q, precedentemente citata, punto 16 della motivazione, la Corte ha infatti essa stessa applicato il criterio di proporzionalità.

( 19 ) V. paragrafo 5 delle dette conclusioni.

( 20 ) A tal riguardo la Corte avrebbe potuto seguire la tesiesposta nelle mie prime conclusioni in materia di chiusura domenicale (v. supra, paragrafo 8) o applicare la regola «de minimis» con riguardo all'art. 30, ma ciò avrebbe imposto una revisione dei principi affermati nella sentenza Van de Haar (menzionata alla nota 3), punto 13 della motivazione, in cui si legge che «qualora possa ostacolare le importazioni un provvedimento nazionale deve essere qualificato come misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, anche se l'ostacolo è di lieve entità e se esistono altre possibilità di smercio dei prodotti importati»; v. anche sentenze 14 marzo 1985, causa 269/83, Commissione/Francia (Race, pag. 837, punto 10 della motivazione); 5 maggio 1986, causa 103/84, Commissione/Italia (Race. pag. 1759, punto 18 della motivazione). Sull'argomento v. anche l'articolo di J. Steiner citato alla nota 16.

( 21 ) V. sentenze B & Q, punto 10 della motivazione, Torfaen, punto 11 della motivazione, Conforama, punti 7 e 8 della motivazione, e Marchandise, punti 9 e 10 della motivazione.

( 22 ) La precedente giurisprudenza della Corte fornisce già un'anticipazione di tali tesi: v. sentenze 31 marzo 1982, causa 75/81, Blesgen (Racc. pag. 1211, punto 9 della motivazione); 25 novembre 1986, causa 148/85, Forest (Racc, pag. 3449, punto 19 della motivazione), 7 marzo 1990, causa C-69/88, Krantz (Racc. pag. I-583, punto 11 della motivazione), 11 luglio 1990, causa C-23/89, Quietlynn (Race, pag. I-3059, punti 10 e 11 della motivazione). V. anche le mie conclusioni nelle ultime cause relative alla questione della chiusura domenicale (causa C-306/88, C-304/90 c C-169/91) presentate l'8 luglio 1992 (Race. pag. I-6463, paragrafo 16).

( 23 ) Dico «in linea di principio» in quanto, per esigenze di semplicità, la Corte potrebbe limitarsi a rilevare che il regime risponde in termini generali al criterio di proporzionalità, senza esaminare se esista o meno una causa di giustificazione ammissibile sulla base del diritto comunitario. In un settore come quello dell'art. 30 in cui esiste grande confusione di idee, tale metodo non mi sembra tuttavia adeguato.

( 24 ) La Corte ha già precedentemente affermato che norme la cui sfera di applicazione sia limitata a livello del commercio al dettaglio non rientrano nel divieto enunciato dall'art. 30, sempreché gli scambi intracomunitari restino sempre possibili: v., al riguardo, sentenza 14 luglio 1981, causa 155/80, Oebel (Racc. pag. 1993, punto 20 della motivazione); sentenze Blcsgen, punto 9 della motivazione, e Quietlynn, punto 10 della motivazione.

( 25 ) Si deve inoltre osservare che secondo costante giurisprudenza della Corte, le disposizioni del Trattato non si applicano, quanto meno nella sfera della circolazione delle persone e dei servizi, alle attività di cui tutti gli elementi si collochino all'interno di un solo Stato membro: v., al riguardo, la recente sentenza 19 marzo 1992, causa C-60/91, Batista Morais (Racc. pag. I-2085, punto 7 della motivazione). La questione se tale ipotesi ricorra dipende dagli accertamenti di fatto che competono unicamente al giudice nazionale: v., in particolare, sentenza 18 marzo 1980, causa C-52/79, Debauve (Race. pag. 833, punto 9 della motivazione), e 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner c Elser (Race, pag. I-1979, punto 37 della motivazione).

( 26 ) Per quanto attiene alla distinzione tra influenza sul commercio tra gli Stati membri e l'ostacolo, nel senso di effetto dissuasivo («deterrente»), alle importazioni di prodotti provenienti da un altro Stato membro, v. l'articolo di J. Steiner, citato alla nota 16.

( 27 ) V. sentenza 21 giugno 1988, causa 257/86, Commissione/ Italia (Racc. pag. 3249, punto 12 della motivazione), v. anche sentenza 30 gennaio 1985, causa 143/83, Commissione/Danimarca (Racc. pag. 427, punto 10 della motivazione).

( 28 ) V. sentenza 7 febbraio 1984, causa 166/82, Commissione/ Italia (Race. pag. 459, punto 24 della motivazione). L'ambiguità di una normativa quanto alla sua compatibilità con il diritto comunitario produce già di per sé, quanto meno potenzialmente, un effetto dissuasivo sulla libera circolazione delle merci: v., per quanto riguarda l'art. 34 del Trattato CEE, la sentenza 7 febbraio 1985, causa 173/83, Commissione/Francia (Race. pag. 491, punti 7 e 8 della motivazione).

( 29 ) V. sentenza 4 febbraio 1988, causa 15/86, Murphy (Racc. pag. 673, punto 11 della motivazione, seconda frase). Benché tale sentenza riguardi l'art. 119 del Trattato CEE, il passo riportato vale indubbiamente anche per quanto riguarda l'interpretazione delle disposizioni nazionali alla luce di un'altra disposizione del Trattato direttamente applicabile, nella specie l'art. 30. Tale principio giurisprudenziale trova infatti applicazione già qualora si tratti di interpretare disposizioni nazionali alla luce di disposizioni di direttive non munite di efficacia diretta: v. la recente sentenza 16 gennaio 1992, causa C-373/90, X (Racc. pag. I-131, punto 7 della motivazione).