Conclusioni dell'avvocato generale Sir Gordon Slynn del 29 settembre 1987. - COMMISSIONE DELLE COMUNITA'EUROPEE CONTRO REPUBBLICA ITALIANA. - TRIBUTI NAZIONALI IN CONTRASTO COL DIRITTO COMUNITARIO - RIPETIZIONE DELL'INDEBITO - PROVA DEL MANCATO TRASFERIMENTO DEI TRIBUTI SUL PREZZO DELLE MERCI - PARZIALE RINUNCIA AGLI ATTI DOPO LA CHIUSURA DELLA FASE ORALE. - CAUSA 104/86.
raccolta della giurisprudenza 1988 pagina 01799
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Signor Presidente,
signori Giudici,
L' art . 19 del decreto legge italiano 30 settembre 1982, n . 688 ( GU della Repubblica italiana, del 30 . 9 . 1982, n . 270, pag . 7072 ), convertito in legge 27 novembre 1982, n . 873 ( GU della Repubblica italiana, del 29 . 11 . 1982, n . 328, pag . 8599 ), dispone :
" Chi ha indebitamente corrisposto diritti doganali all' importazione, imposte di fabbricazione, imposte di consumo o diritti erariali, anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ha diritto al rimborso delle somme pagate quando prova documentalmente che l' onere relativo non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti, salvo in caso di errore materiale .
La prova documentale di cui al comma precedente dev' essere fornita anche quando le merci in relazione alle quali il pagamento è stato operato siano state cedute dopo lavorazione, trasformazione, montaggio, assemblaggio o adattamento di esse .
Le merci si presumono cedute nei casi previsti dall' art . 53, comma 1 e 2, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n . 633 . I rimborsi delle somme pagate per imposta sul valore aggiunto rimangono regolati unicamente dalle disposizioni concernenti detta imposta ."
L' articolo citato è sostanzialmente simile all' art . 10 del decreto legge italiano 10 luglio 1982, n . 430 ( GU della Repubblica italiana del 13 . 7 . 1982, n . 190, pag . 4931 ), di cui si trattava nella causa 199/82, Amministrazione delle finanze dello Stato / San Giorgio ( Racc . 1983, pag . 3595 ) e che decadde per la mancata conversione in legge . Nella sentenza emessa nella causa 199/82 la Corte di giustiza ha affermato chiaramente che disposizioni come quelle del predetto art . 10 sono in contrasto con il diritto comunitario .
La Commissione comunicava per iscritto alle autorità italiane i suoi dubbi circa la compatibilità dell' art . 19 del decreto legge n . 688 col diritto comunitario . Le autorità italiane non rispondevano nel merito, ma dichiaravano di essere in attesa di una pronuncia della Corte costituzionale italiana . In seguito la Commissione emetteva un parere motivato a norma dell' art . 169 del trattato CEE, ma non riceveva alcuna risposta sostanziale dalle autorità italiane .
Il 2 maggio 1986 la Commissione ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia un ricorso inteso a far dichiarare che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi impostile dagli artt . 5,9 e segg . e 95 del trattato CEE col trasferire sul contribuente l' onere di provare che oneri e tasse nazionali indebitamente corrisposti, perché contrari agli artt . 9 e segg . e 95 del trattato CEE, non sono stati traslati ad altri soggetti, con l' ammettere a questo proposito solo la prova documentale e con l' attribuire a dette disposizioni nazionali effetto retroattivo . Essa ha chiesto anche di dichiarare che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi impostile dall' art . 5 del trattato CEE e dal regolamento ( CEE ) n . 1430/79 ( GU 1979, n . L 175, pag . 1 ), legiferando in materia di rimborso dei dazi stabiliti dalla tariffa doganale comune e dei diritti all' importazione e all' esportazione stabiliti nell' ambito della politica agricola comune .
La Commissione sostiene che il precitato art . 19 si riferisce tanto ai tributi istituiti dalle leggi nazionali quanto a quelli istituiti dalla normativa comunitaria ( tariffa doganale comune e regolamenti in materia agricola ). Quanto ai tributi istituiti dalle leggi nazionali, l' art . 19 sarebbe incompatibile con il diritto comunitario, in particolare con gli artt . 5, 9 e segg . e 95 del trattato, poiché impone al contribuente l' onere di provare che le tasse indebitamente corrisposte non sono state trasferite ad altri soggetti e poiché ammette a questo proposito solo la prova documentale : ( vedasi sentenza San Giorgio, punto 14 della motivazione ). Inoltre, l' art . 19 è retroattivo ( punto non esaminato nella sentenza San Giorgio ), il che aggraverebbe l' infrazione del diritto comunitario e renderebbe il rimborso ancora più dificile poiché gli operatori non avrebbero potuto prevedere precedentemente quale prova sarebbe stata loro richiesta in base all' articolo di cui trattasi . Quanto ai tributi istituiti dalla normativa comunitaria, l' art . 19 costituirebbe un' illecita interferenza in un settore disciplinato dal diritto comunitario, in particolare dal regolamento del Consiglio n . 1430/79 .
Per quanto attiene ai tributi nazionali riscossi in violazione del diritto comunitario, il governo italiano ribatte che l' esclusione del rimborso qualora il tributo sia stato trasferito dal contribuente ad altri soggetti non è incompatibile con il diritto comunitario ( causa 68/79, Just / Ministero delle imposte ed accise, Racc . 1980, pag . 501 ). In ossequio alla sentenza San Giorgio il governo italiano ammette che il diritto comunitario vieta presunzioni iuris et de iure quanto al trasferimento dell' onere nonché qualsiasi criterio di prova che abbia l' effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il rimborso di detti oneri e che la prova del trasferimento dev' essere fornita dall' amministrazione . Tuttavia, esso sostiene anche che il contribuente deve confutare la prova del trasferimento del tributo anche qualora detta prova sia dedotta da presunzioni iuris et de iure . Esso è anche dell' avviso che debba essere possibile verificare il mancato trasferimento del tributo nella documentazione commerciale dell' interessato, poiché la prova orale non è sufficiente ed è difficile da verificare .
Il principale argomento difensivo del governo italiano si basa però sulla sentenza della Corte costituzionale italiana 8 giugno 1984, n . 170, in cui è dichiarato che, in caso di conflitto fra una norma comunitaria avente efficacia diretta e una norma italiana, la norma italiana dev' essere disapplicata, e sulla sentenza della stessa Corte 28 aprile 1985, n . 113, secondo cui la giurisprudenza della Corte di giustizia comporta la disapplicazione di qualsiasi disposizione nazionale confliggente e la sentenza S . Giorgio comporta la disapplicazione dell' art . 19 di cui si tratta nella fattispecie . A questa giurispudenza - fa ancora notare il governo italiano - si è attenuta in varie sentenze la Corte di cassazione italiana, la quale, in base ai principi stabiliti nella sentenza San Giorgio, ha dichiarato inapplicabile l' art . 19 . In pratica, quindi, l' art . 19 non sarebbe applicato in Italia nel caso di ricorsi per il rimborso di tributi nazionali riscossi in contrasto col diritto comunitario .
Per quanto attiene ai tributi istituiti dalla normativa comunitaria, il governo italiano asserisce che l' art . 19 non è mai stato applicato nell' ambito di ricorsi per rimborso . Sottolinea che il Ministero delle finanze, con circolare 17 novembre 1982, n . 5346/IX ( GU della Repubblica italiana, del 2 giugno 1984, n . 151, pag . 4594 ), ha precisato che l' art . 19 si applica esclusivamente ai tributi nazionali ( esclusa l' IVA ) e non alle risorse proprie . In ogni caso, la questione sarebbe stata risolta dalla sentenza della Corte costituzionale n . 170/84, che ha affermato il principio della non applicabilità delle disposizioni nazionali confliggenti con il diritto comunitario, con la conseguenza che la materia rimane disciplinata esclusivamente dal diritto comunitario .
Nella sentenza Just la Corte di giustizia ha considerato che specifiche disposizioni di diritto danese relative all' arricchimento senza giusta causa e al lucro cessante erano compatibili con il diritto comunitario e, nella sentenza San Giorgio, ha ammesso che il diritto comunitario non impedisce a sistemi giuridici nazionali di negare la restituzione di tributi indebitamente riscossi qualora ciò comporti un arricchimento senza giusta causa dell' avente diritto, in particolare "qualora sia appurato che la persona tenuta al pagamento del tributo lo ha di fatto riversato su altri soggetti" ( punto 13 della motivazione ).
D' altra parte, le norme adottate non devono essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il rimborso, in particolare stabilendo criteri di prova o presunzioni che impongano al ricorrente l' onere di dimostrare che i tributi non sono stati trasferiti ( punto 14 ).
Sulla base della sentenza San Giorgio non è possibile, a mio avviso, affermare che una norma relativa all' arricchimento senza giusta causa non possa essere affatto applicata nella fattispecie, anche se, come l' avvocato generale Mancini si è adoperato a far notare, si deve aver cura di non consentire che norme di tal genere siano adottate per vanificare diritti conferiti dal diritto comunitario . Il semplice fatto che, come risulta verificarsi in diritto italiano, un lungo termine di prescrizione consenta la proposizione di molti ricorsi relativi a casi risalenti fino a dieci anni prima non è di per sé una giustificazione per norme siffatte . Il rimedio, se si vuole rimediare, consiste nell' abbreviare il termine di prescrizione, anche se si deve ricordare che coloro che risentono maggiormente dell' imposizione di un tributo illegittimo sono gli operatori la cui competitività sotto il profilo dei prezzi è ridotta a causa di detta imposizione .
E' evidente che la disciplina contenuta nell' art . 19, la quale limita il diritto al rimborso, è in contrasto col diritto comunitario quale risulta dalla sentenza San Giorgio ( in particolare dal punto 14 ) sia per quanto attiene all' onere di provare il fatto negativo sia per quanto riguarda il requisito della prova documentale . La retroattività della disposizione, che non fu esaminata nella sentenza San Giorgio, aggrava chiaramente l' infrazione del diritto comunitario, in particolare in quanto i requisiti di cui sopra si applicano ad operazioni effettuate in un' epoca in cui gli operatori non potevano essere a conoscenza della prova che in seguito sarebbe stata loro richiesta .
Giustamente il governo italiano ha rilevato che grava inizialmente sull' amministrazione l' onere di provare la traslazione dei tributi e il conseguente arricchimento senza giusta causa . Non può, tuttavia, essere giusto che la semplice asserzione da parte dell' amministrazione sia sufficiente a trasferire l' onere della prova sul ricorrente o a creare presunzioni, iuris tantum o iuris et de iure, della traslazione del tributo . Solo qualora l' amministrazione fornisca la prova della traslazione può essere trasferito sul ricorrente l' onere di produrre la prova contraria o di contrattaccare dimostrando di aver subito, nonostante la traslazione, una perdita di profitto, provando cioé che non si è verificato, in tutto o in parte, un arricchimento senza giusta causa . Una norma categorica che prescriva di corroborare siffatta controdeduzione con una prova documentale ( come, mi sembra, si sostiene ) sarebbe tanto restrittiva quanto la norma censurata nel punto 14 della sentenza San Giorgio . Spetta al giudice nazionale decidere in base all' insieme delle prove prodotte, siano esse orali o documentali, se in ultima analisi vi sia stato arricchimento senza giusta causa .
Rimane la questione se il governo italiano possa basarsi sulla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana per giustificare il mantenimento in vigore di una disposizione che è chiaramente incompatibile con il diritto comunitario . A norma dell' art . 5 del trattato CEE, gli Stati membri devono adottare tutti i provvedimenti idonei a garantire l' adempimento degli obblighi derivanti dal trattato e devono astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del trattato . "Stato" in tale contesto, significa ogni organo dello Stato : esecutivo, legislativo e giurisdizionale . Senza voler in alcun modo sminuire l' importanza di quelle pietre miliari che sono le sentenze della Corte costituzionale nn . 170 e 113 ( sopramenzionate ), ritengo che anche il potere esecutivo e quello legislativo siano tenuti ad adeguare la normativa nazionale al diritto comunitario .
La possibilità che le autorità amministrative continuino ad applicare l' art . 19 e la confusione ingenerata nei cittadini quanto ai loro diritti, abbinate alla necessità, in cui i cittadini possano trovarsi, di adire le vie legali, elementi menzionati dalla Commissione, non possono essere interamente ignorate . Per un' applicazione corretta non vi è niente che possa sostituire una chiara disposizione conforme al diritto comunitario . A mio parere, nonostante la giurisprudenza nazionale citata, lo Stato membro resta tenuto ad adeguare la sua normativa al diritto comunitario ( causa 29/84, Commissione / Repubblica federale di Germania, punto 23, Racc . 1985, pag . 1667 ) e non è esonerato da detto obbligo dalla diretta efficacia del diritto comunitario vigente nella materia di cui trattasi ( causa 159/78, Commissione / Repubblica italiana, Racc . 1979, pag . 3247, punto 22 ).
Di conseguenza ritengo che il ricorso della Commissione vada accolto per quanto attiene ai tributi nazionali riscossi in violazione del diritto comunitario .
Quanto ai tributi istituiti dal diritto comunitario, il regolamento del Consiglio n . 1430/79 mira a garantire la restituzione di imposte comunitarie indebitamente riscosse e contempla, a questo scopo, un procedimento specifico ( sentenza San Giorgio, punto 21 ). Detto regolamento si applica ai vari diritti all' importazione o all' esportazione derivanti dall' applicazione della politica agricola comune o dall' applicazione delle disposizioni del trattato relative all' unione doganale ( vedasi ultimo punto della motivazione del regolamento ). Conformemente a ciò, nell' art . 1, n . 2, del regolamento si considerano come "diritti all' importazione" e "diritti all' esportazione", da un lato, i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente e, dall' altro, i prelievi agricoli e le altre imposizioni all' importazione o all' esportazione contemplate nell' ambito della politica agricola comune o in quello dei regimi specifici che si applicano, in forza dell' art . 235 del trattato, a talune merci derivanti dalla trasformazione di prodotti agricoli .
L' art . 19 del decreto legge italiano è redatto in termini generali e si riferisce in particolare ai "diritti doganali all' importazione" in senso lato . E' quindi evidente che esso mira a regolare un settore già disciplinato dal regolamento n . 1430/79 . A tenore dell' art . 189 del trattato, un regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile e, ai sensi dell' art . 5, gli Stati membri devono astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del trattato . L' adozione dell' art . 19 da parte della Repubblica italiana costituisce inadempimento di detto obbligo in quanto l' art . 19 si applica a settori disciplinati dal regolamento n . 1430/79 .
La diramazione della circolare ministeriale n . 5346/IX non è sufficiente a sanare detto inadempimento . Secondo la costante giurisprudenza della Corte, l' incompatibilità della normativa nazionale con il diritto comunitario può essere definitivamente soppressa solo mediante disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare, e prassi amministrative, per natura modificabili a piacimento dell' amministrazione, non possono essere considerate valido adempimento degli obblighi imposti dal trattato ad uno Stato membro ( vedasi, ad esempio, la sentenza 15 ottobre 1986, causa 168/85, Racc . pag . 2945, Commissione delle Comunità europee / Repubblica italiana, punto 13 ). Questa conclusione non è modificata dal fatto che la circolare di cui trattasi è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana . Il mantenimento in vigore dell' art . 19 crea una situazione ambigua in quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di avvalersi del diritto comunitario e costituisce quindi inadempimento, da parte della Repubblica italiana, degli obblighi impostile dal trattato ( loc . cit ., punto 11; vedasi anche causa 159/78, Commissione delle Comunità europee / Repubblica italiana, già citato punto 22 della motivazione ).
Infine il fatto - se ciò costituisce un fatto - che, in ossequio alle sentenze della Corte costituzionale italiana, i giudici italiani non applicheranno l' art . 19 e faranno prevalere il regolamento n . 1430/79 in caso di conflitto fra i due testi normativi non può giustificare il mantenimento in vigore dell' art . 19 . Il diritto dei cittadini della Comunità di invocare dinanzi ai giudici nazionali disposizioni di diritto comunitario direttamente efficaci - siano esse del trattato, di regolamenti o persino di direttive - è solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare una più agevole applicazione del diritto comunitario . Gli Stati membri devono anche rendere chiari i diritti attribuiti dalla legge ai cittadini, abrogando o adeguando ogni normativa nazionale incompatibile ( causa 159/78, Commissione delle Comunità europee / Repubblica italiana, già citato punto 22 della motivazione, causa 102/79, Commissione delle Comunità europee / Regno del Belgio, Racc . 1980, pag . 1473, punto 12, e causa 168/85, Commissione / Repubblica italiana, punto 11 della motivazione ). Alla luce di questa consolidata giurisprudenza non si può sostenere, come la Repubblica italiana ha fatto nel caso presente, che il ricorso della Commissione equivale ad esigere un provvedimento nazionale volto a "recepire" il diritto comunitario direttamente efficace o che detto ricorso sminuisce ad ogni modo l' efficacia diretta delle norme di diritto comunitario .
Di conseguenza ritengo che il ricorso della Commissione debba essere accolto e che il governo italiano debba essere condannato alle spese della presente causa .
(*) Tradotto dall' inglese .