CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

G. FEDERICO MANCINI

del 2 luglio 1986

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

Nel quadro di una controversia che oppone la Federatie Nederlandse Vakbeweging (di seguito: «FNV») allo Stato dei Paesi Bassi, il Gerechtshof dell'Aia vi chiede di interpretare l'articolo 4, paragrafo 1, direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, n. 79/7, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24). Al centro della causa principale è la legittimità comunitaria di una norma della disciplina olandese sull'assistenza ai disoccupati, per cui le donne coniugate che non abbiano la qualifica di capofamiglia sono escluse dal diritto alla prestazione di disoccupazione. Il giudice a quo vuole soprattutto sapere se si debba riconoscere efficacia diretta al principio della parità di trattamento in rapporto alle caratteristiche del disposto che lo sancisce e alla mancata recezione della direttiva da parte dei Paesi Bassi nel termine concesso agli Stati membri per conformarvisi (22 dicembre 1984).

Conviene anzitutto richiamare, se pure brevemente, la legislazione olandese in tema di prestazioni per disoccupazione. Essa è contenuta in tre fonti distinte. La « Werkloosheidswet » (« WW »), o legge sulla disoccupazione, in vigore dal 1° luglio 1952, è fondata su un sistema contributivo e al lavoratore disoccupato attribuisce, per i sei mesi che seguono l'inizio dello stato di disoccupazione, una prestazione il cui ammontare si fonda sull'ultimo compenso percepito. Spirato il semestre, entra in scena la « Wet Werkloosheidsvoorziening » (« WWV »), o legge sull'assistenza ai disoccupati, vigente dal 1° gennaio 1965 (Stb. 485) e finanziata dal tesoro: a sua stregua, lo stesso lavoratore ha titolo per due anni ad una prestazione egualmente riferita al livello dell'ultima retribuzione. V'è infine la « Algemene Bijstandswet » (« ABW ») o legge generale sull'assistenza, vigente dal 1° gennaio 1965 e anch'essa posta a carico del bilancio statale: le sue norme riguardano il disoccupato che non benefici delle prime due leggi e gli danno diritto a una prestazione il cui importo è determinato unicamente dai bisogni del suo nucleo familiare.

Il disposto controverso è l'articolo 13, paragrafo 1, n. 1) della WWV ed esclude dal « diritto a prestazioni il lavoratore (...) che, come donna coniugata, non può essere considerata capofamiglia in base a norme adottate dal ministro competente, sentita la commissione centrale, o che non viva permanentemente separata dal coniuge (...) ». Esso va ovviamente valutato alla luce della citata direttiva 79/7, e in special modo dei suoi articoli 4, paragrafo 1, 5 e 8. Ai sensi del primo, il principio della parità di trattamento « implica l'assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia ». Il secondo stabilisce che gli Stati membri sono tenuti a prendere le misure necessarie « affinché siano soppresse le disposizioni (...) contrarie al principio della parità di trattamento ». Il terzo concede ai detti Stati un termine di sei anni, a partire dalla notifica della direttiva (23 dicembre 1978), per mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ad attuarlo.

2. 

Secondo quanto risulta dalla sentenza di rinvio il governo olandese intendeva in un primo tempo, nel quadro di un'ampia riforma del sistema di previdenza sociale, far coincidere la trasposizione della direttiva con una fusione tra la WW e la WWV. Essa avrebbe dovuto comportare la soppressione del trattamento discriminatorio a cui dà luogo l'articolo 13 estendendo il dettato di quest'ultimo agli uomini coniugati che non siano capofamiglia (cfr. le interrogazioni scritte nn. 508/84 e 715/84 dell'on. Ien van den Heuvel alla Commissione, in GU 1984, C 256, pag. 30, e 1985, C 4, pag. 6).

La riforma, tuttavia, apparve d'impossibile attuazione nei sei anni previsti dalla fonte comunitaria. Il governo presentò allora un disegno di legge contenente alcune norme transitorie tra cui appunto figurava l'estensione dell'articolo 13 nel senso anzidetto; ma il 13 dicembre 1984 esso fu respinto dalla seconda camera degli Stati generali. Cinque giorni più tardi il segretario di Stato per gli affari sociali e l'occupazione annunciò al presidente della seconda camera che il governo si proponeva di formulare un nuovo disegno, ¡e cui norme avrebbero dovuto retroagire al 23 dicembre 1984 per attuare in termini la direttiva. Il Parlamento fu sollecitato ad approvarlo entro il 1° marzo 1985 (progetto n. 18849 presentato il 6 febbraio 1985).

Tuttavia, il 21 dicembre 1984 (e cioè due giorni prima che il termine posto dalla direttiva venisse a scadenza) una circolare indirizzata dal medesimo segretario alle amministrazioni comunali precisò che, in attesa dell'intervento legislativo, i disposti della WWV, e perciò anche l'articolo 13, avrebbero dovuto continuare ad essere applicati. A questo punto, la FNV, che per statuto tutela i lavoratori e le loro famiglie, convenne in un procedimento d'urgenza dinanzi al presidente dell'Arrondissementsrechtbank dell'Aia, lo Stato dei Paesi Bassi e chiese che esso fosse condannato ad abrogare o quanto meno a disapplicare fino all'entrata in vigore della riforma progettata la condizione relativa allo status di capofamiglia prevista dalla norma controversa. Con sentenza 17 gennaio 1985, il presidente accolse la domanda ingiungendo allo Stato di modificare l'articolo 13 entro il 1° marzo 1985. Sia l'amministrazione che la FNV interposero appello contro questa pronuncia.

La sentenza di rinvio ci informa inoltre che entrambe le parti del giudizio principale concordano nel considerare il disposto incompatibile col principio della parità di trattamento sancito dall'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva. In sede d'appello — si aggiunge — la FNV ha accusato lo Stato di aver agito illegittimamente mantenendo in vigore o rifiutandosi di disapplicare l'articolo 13 oltre il 23 dicembre 1984 e anzi imponendo alle amministrazioni comunali di continuare ad applicarlo, secondo la centrale, infatti, l'efficacia diretta dell'articolo 4, importa che, a decorrere da quella data, la detta norma cessi di avere effetto.

Ritenendo non chiara la portata della direttiva, la terza sezione del Gerechtshof dell'Aia, con sentenza 13 marzo 1985, sospese il procedimento e, ai sensi dell'articolo 177 trattato CEE, pose alla Corte tre quesiti pregiudiziali che, per maggiore chiarezza, riformulerò nei termini seguenti:

1)

l'articolo 4 della direttiva n. 79/7 ha efficacia diretta a partire dal 23 dicembre 1984 con la conseguenza che da tale data l'articolo 13, paragrafo 1, prima frase e n. 1), della « Wet Werkloosheidsvoorziening » sia da disapplicare e che i lavoratori di sesso femminile esclusi dal beneficio delle prestazioni ai sensi di tale norma acquistino il relativo diritto?

2)

è rilevante stabilire se, per attuare la direttiva e neutralizzare i relativi oneri finanziari, lo Stato avesse possibilità alternative all'abrogazione pura e semplice della norma citata, quali l'assoggettamento del diritto a prestazioni a requisiti più rigorosi o la riduzione dei benefici nei confronti dei disoccupati non ancora trentacinquenni?

3)

È altresì rilevante il fatto che, insieme all'abrogazione della norma, sia necessaria una disciplina transitoria da scegliere tra più alternative?

Ricordo ancora che il 24 aprile 1985 il Parlamento olandese ha modificato la WWV (Stb. 230). La nuova legge abroga con effetto retroattivo al 23 dicembre 1984 l'articolo 13, paragrafo 1, n. 1), e prevede, a titolo transitorio e al fine di assicurare la copertura finanziaria, che la durata massima delle prestazioni sia ridotta per i disoccupati non ancora trentacinquenni. Essa stabilisce inoltre che l'articolo 13 resta in vigore nei confronti del lavoratore il cui stato di disoccupazione preceda il 23 dicembre 1984, a meno che egli benefìci a questa data di una prestazione in base alla WW o di un assegno previsto da una disciplina applicabile — così mi pare di capire — alle persone titolari di un rapporto di lavoro, ma considerate non occupate ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, punti a) e b) della WW.

Segnalo infine che nel nostro procedimento hanno presentato osservazioni scritte le parti del giudizio principale, la Commissione delle Comunità europee e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.

3. 

Col primo quesito il giudice a quo vi chiede se l'articolo 4 della direttiva 79/7 possieda efficacia diretta a decorrere dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per adeguarvisi. La FNV, la Commissione e il Regno Unito vi suggeriscono di rispondere affermativamente, mentre in senso contrario si pronunciano i Paesi Bassi. Dico subito che la mia opinione coincide con quella dei primi tre soggetti. L'argomento del governo olandese, che si fonda sulla discrezionalità riservata agli Stati rispetto ai modi di attuare il principio della parità di trattamento, è infatti sicuramente infondato.

L'efficacia delle direttive in generale e, in ¡specie, la possibilità che esse dispieghino effetti diretti sono temi troppo noti perché valga qui la pena affrontarli funditus. Mi limiterò pertanto a ricordare che, secondo la vostra costante giurisprudenza, escludere in principio l'invocabilità dei diritti corrispondenti agli obblighi da esse imposti sarebbe incompatibile con la forza vincolante di cui le munisce l'articolo 189. Specie nei casi in cui il Consiglio o la Commissione abbiano prescritto agli Stati di adottare un certo comportamento, l'efficacia pratica della diretriva sarebbe ridotta se fosse precluso agli amministrati farla valere in giudizio e ai giudici nazionali prenderla in considerazione come « elemento del diritto comunitario ».

Di conseguenza, lo Stato membro che nel termine concessogli non abbia emanato i provvedimenti pretesi dalla direttiva non può opporre ai privati il proprio inadempimento dei relativi obblighi. I privati potranno dunque far leva sui disposti che, dal punto di vista sostanziale, appaiano incondizionati e sufficientemente precisi, per contestare l'applicabilità delle norme interne incompatibili con la direttiva o per rivendicare i diritti di cui essi li investano nei confronti dello Stato (sentenze 6 ottobre 1970, causa 9/70, Grad, Race. 1970, pag. 839; 4 dicembre 1974, causa 41/74, Van Duyn, Racc. 1974, pag. 1349; 1° febbraio 1977, causa 51/76, Verbond van Nederlandse Ondernemingen, Race. 1977, pag. 128; 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti, Race. 1979, pag. 1629; 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker, Race. 1982, pag. 53 e, da ultimo, 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Race. 1986, pag. 723).

Ciò premesso, occorre verificare se, considerato in sé e per sé, l'articolo 4, paragrafo 1, corrisponda ai requisiti di cui s'è detto: se sia cioè incondizionato e sufficientemente preciso. Come sappiamo, la norma dispone che « il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specialmente per quanto riguarda: il campo di applicazione dei regimi (di sicurezza sociale) e le condizioni di ammissione ad essi, (...) il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge o le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni (...) ».

Ebbene — osserva la Commissione — si legga il divieto così definito alla luce dell'obbligo di risultato posto dagli articoli 1 e 8, paragrafo 1, della medesima fonte: sarà impossibile non considerarlo chiaro, completo e preciso. Lo si colleghi poi — continua la FNV — alla norma dell'articolo 5 che obbliga gli Stati a « sopprimere » le disposizioni contrastanti col principio di parità: il suo carattere incondizionato, e dunque l'inesistenza di un potere discrezionale degli Stati per quanto riguarda l'attuazione del risultato che la direttiva ha di mira, apparirà altrettanto evidente.

Ho già detto che da questa lineare argomentazione dissente il solo governo dell'Aia. A suo avviso, l'articolo 4 non possiede efficacia diretta perché non détta agli Stati le modalità a cui stregua realizzare il principio della parità di trattamento: per esempio, la norma controversa — che, si ammette, è sicuramente discriminatoria — è modificabile in almeno quattro modi diversi, ma tutti idonei a rendere effettiva l'eguaglianza uomo-donna pretesa dalla direttiva. Un simile ventaglio di soluzioni dimostra quanto ampio sia il margine di apprezzamento lasciato agli Stati.

La tesi così riassunta, tuttavia, confonde tra il problema dell'effetto diretto e quello del potere discrezionale di cui lo Stato dispone nell'opera intesa a trasporre la direttiva. Come ho detto, i precetti chiari e non condizionati che figurano in quest'ultima possono sovrapporsi alle norme nazionali contrarie ed escludere o limitare la loro applicabilità. Ciò non implica, tuttavia, che questa soluzione sia obbligatoria. Così, lo Stato che la ritenga troppo onerosa potrà modificare il proprio ordinamento prevedendo modalità diverse, purché conformi al risultato voluto dalla fonte comunitaria. Legiferando in tal modo, anzi, esso non farà che adempiere puntualmente l'obbligo da cui è astretto.

In particolare, è da escludere che sull'effetto diretto dell'articolo 4 possano incidere le « difficoltà finanziarie » a cui, secondo il governo olandese, darebbe luogo l'abrogazione dell'articolo 13, paragrafo 1, n. 1), WWV. Posta dinanzi ad un argomento analogo, la Corte rilevò che tali « difficoltà (...) sono dovute al mancato rispetto, da parte dello Stato membro, del termine impartito per l'attuazione della direttiva (...). Le conseguenze di tale situazione devono essere assunte (...) dall'amministrazione e non possono venir trasferite in capo ai soggetti che fanno valere un obbligo preciso, incombente sullo Stato, in forza del diritto comunitario (...) » (sentenza Becker cit., punto 47).

La conclusione a cui inducono questi rilievi è ovvia. Dal 23 dicembre 1984 le donne che il regime nazionale discrimina hanno diritto di opporsi alla sua ulteriore applicazione; possono cioè pretendere gli assegni di disoccupazione alle condizioni previste per l'uomo coniugato e, in ogni caso, senza che si faccia riferimento allo status di capofamiglia.

4. 

Il secondo e il terzo quesito sono diretti a stabilire se, per adeguare il proprio ordinamento ai princìpi della direttiva, lo Stato membro possa battere strade non coincidenti con l'abrogazione tout court della norma incompatibile e, in particolare, se sia necessaria una disciplina transitoria. Confesso che sull'ammissibilità di queste domande ho più d'un dubbio: escluso infatti che la Corte sia competente a decidere sulla conformità di una norma nazionale al diritto comunitario (cfr. sentenza 21 marzo 1972, causa 82/71, Pubblico ministero/SAIL, Racc. 1972, pag. 119, punto 3), mi sembra evidente che essa non possa pronunciarsi neppure su astratte ipotesi di recepimento della direttiva.

Ammettiamo comunque che il giudice miri ad ottenere un'interpretazione del diritto comunitario e in particolare vi chieda di definire la portata delle direttive; per rispondergli, basterebbe richiamare la sentenza Becker, secondo cui il potere discrezionale degli Stati in fatto di forme e di mezzi necessari all'adempimento dell'obbligo di risultato non impedisce il riconoscimento dell'efficacia diretta ad uno o più disposti della direttiva (punto 30).

5. 

Per tutte le considerazioni che precedono suggerisco alla Corte di rispondere come segue ai quesiti pregiudiziali rivoltile dal Gerechtshof dell'Aia con sentenza pronunciata il 13 marzo 1985 nella causa fra la Federatie Nederlandse Vakbeweging e lo Stato dei Paesi Bassi:

1)

A partire dal 23 dicembre 1984, dies ad quem del termine stabilito per la trasposizione della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, n. 79/7, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, l'articolo 4, paragrafo 1, che vieta qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, ha efficacia diretta. I privati possono far valere in giudizio i diritti soggettivi di cui esso li investe opponendosi a normative nazionali non adeguate e confliggenti col principio della parità di trattamento.

2)

Le ipotesi prospettate nel secondo e nel terzo quesito non incidono sull'efficacia diretta dell'articolo 4, paragrafo 1.