CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE SIMONE ROZÈS

del 31 gennaio 1984 ( 1 )

Signor presidente,

signori giudici,

Le questioni sottopostevi dai tribunali del lavoro di Hamm (causa 14/83) e di Amburgo (causa 79/83) sollevano il problema delle conseguenze giuridiche che il diritto nazionale deve attribuire alla trasgressione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne, in particolare in occasione dell'accesso al lavoro, principio attuato dalla direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976 n. 76/207 ( 2 ). Premesso che i due giudici non hanno alcun dubbio sulla sussistenza della discriminazione che le attrici hanno subito a causa del loro sesso, gli antefatti delle due cause si possono riassumere come segue:

nella causa 14/83, Sabine von Colson ed Elisabeth Kamann erano candidate a due posti di assistente sociale vacanti in un istituto di pena del Land Nordrhein-Westfalen. Benché classificate ai primi posti dal consiglio degli assistenti sociali, esse venivano retrocesse dall'ufficio responsabile che in definitiva dava la preferenza a due candidati di sesso maschile; secondo il tribunale del lavoro di Hamm, l'atteggiamento dell'ufficio competente indica chiaramente che le due candidate sono state discriminate a causa del sesso;

il tribunale del lavoro di Amburgo giunge alla stessa conclusione nella causa intentata da Dorit Harz: proprio perché era una donna la Deutsche Tradax GmbH l'ha esclusa dal posto che chiedeva in considerazione di determinate particolarità dello stesso.

La trasgressione della parità di trattamento fra lavoratori di sesso femminile e quelli di sesso maschile in occasione dell'accesso al lavoro appare quindi provata: i dubbi dei giudici tedeschi riguardano la natura del risarcimento attribuito ai danneggiati dall'art. 611 bis, n. 2, del Bürgerliches Gesetzbuch (BGB — codice civile tedesco). Questo articolo è stato inserito nel codice civile dalla legge 13 agosto 1980 (BGBl. 1980 I, pag. 1308), adottata per l'attuazione della legislazione comunitaria del lavoro: dopo aver posto nel n. 1 il principio del divieto di qualsiasi discriminazione a causa del sesso, in particolare in occasione dell'instaurazione di un rapporto di lavoro, il n. 2 stabilisce che,

«qualora il rapporto di lavoro non venga instaurato a causa di una trasgressione del principio della parità di trattamento di cui al n. 1, imputabile al datore di lavoro, questi è tenuto a risarcire il danno subito dal lavoratore il quale ritenga in buona fede che tale trasgressione non osterà all'istaurarsi del rapporto di lavoro».

Il legislatore tedesco contempla quindi, per il candidato non prescelto a causa del sesso, il risarcimento del danno derivante dal fatto che la sua fiducia nell'osservanza da parte del datore di lavoro del principio di non discriminazione a causa del sesso è stata tradita. Non, gli viene espressamente attribuito alcun diritto all'assunzione: viene risarcito solo l'interesse negativo («Vertrauensschaden»). Di conseguenza, l'indennizzo che gli può essere attribuito coprirà solo le spese della candidatura (francobollo — busta — spese di trasferta, per compilare la pratica) che in genere ammontano a qualche DM. I giudici proponenti si chiedono se un risarcimento così ridotto sia conforme alla direttiva comunitaria n. 76/207. Le loro questioni pregiudiziali, formulate in modo analogo, si possono così riassumere:

1. 

Se la trasgressione del principio della parità di trattamento dei lavoratori di sesso femminile e di quelli di sesso maschile in fatto di accesso al lavoro, principio posto dalla direttiva n. 76/207,

a)

attribuisca alla candidata discriminata il diritto alla stipulazione di un contratto di lavoro che punisca il datore di lavoro contumace (14 e 79/83, questione n. 1),

b)

in caso negativo, se detta trasgressione implichi una sanzione economicamente rilevante, ad esempio un indennizzo pari a sei mesi di retribuzione e/o eventualmente, l'applicazione di sanzioni penali o di altro genere (79/83, questione n. 3, e 14/83, questione n. 5),

c)

in entrambi i casi, entro quali limiti ed in qual modo il giudice nazionale debba tener conto dei titoli della candidata discriminata, tanto nei confronti del candidato prescelto quanto, eventualmente, nei confronti degli altri candidati e candidate, del pari non prescelti (14/83, questioni nn. 2-4, e 79/83, questioni nn. 2 e 4).

2. 

Se la direttiva n. 76/207, e più precisamente gli articoli 1-3, sia direttamente efficace (14/83, questione n. 6 e 70/83, questione n. 5).

Da queste serie di questioni si desume che il problema essenziale è anzitutto se la direttiva n. 76/207 imponga agli stati membri di comminare sanzioni determinate. Nel caso in cui quest'esame non desse risultati si dovrebbe in secondo luogo accertare se il diritto comunitario imponga agli stati membri particolari obblighi per quanto riguarda la garanzia dell'osservanza delle direttive.

I — La direttiva n. 76/207 impone agli stati membri sanzioni di un tipo determinato?

Per risolvere la questione, che è l'oggetto principale delle domande di pronunzia pregiudiziale, occorre ricordare anzitutto che la direttiva, a norma dell'art. 189 del trattato,

«vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi».

1.

L'esatta estensione della competenza statuale di attuazione dev'essere quindi valutata in relazione al risultato da conseguirsi: è questo l'orientamento che avevate adottato nella sentenza Lee, in cui si trattava di accertare se la direttiva n. 72/159, riguardante l'ammodernamento delle aziende agricole ( 3 ), obbligasse gli stati membri a consentire l'impugnazione dei provvedimenti amministrativi relativi alle provvidenze che ne derivavano ( 4 ). In via generale, si deve esaminare il programma stabilito dalla direttiva per determinare l'esatta consistenza dell'obbligo di risultato imposto allo stato membro e, di conseguenza, l'ampiezza del margine discrezionale di cui dispone nell'adempimento dello stesso.

2.

Applichiamo questo criterio alla direttiva n. 76/207: essa si propone «l'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale e le condizioni di lavoro». Questo scopo ricompare nell'art. 1, mentre l'art. 2 definisce il principio della parità di trattamento ed i suoi limiti. Gli articoli 3-8 consentono di delimitare la portata del principio sopra definito, il quale ha un duplice significato:

a)

esso implica anzitutto l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per ciascuno dei campi per i quali la direttiva è stata adottata ( 5 ), in particolare «per quanto riguarda le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro qualunque sia il settore o il ramo d'attività, e a tutti i livelli della gerarchia professionale» ( 6 )

b)

esso implica poi l'obbligo per gli stati membri di adottare «le misure necessarie» affinché:

siano soppresse le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative o quelle contenute in contratti e regolamenti delle imprese che siano in contrasto col principio ( 7 );

sia permesso «a tutti coloro che si ritengano lesi dalla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, ai sensi degli artt. 3, 4 e 5, di far valere i propri diritti per via giudiziaria, eventualmente dopo aver fatto ricorso ad altre istanze competenti» ( 8 ) l'art. 7 completa questa disposizione: essa obbliga infatti gli stati a tutelare contro le rappresaglie sotto forma di licenziamento i lavoratori che si siano valsi di questi rimedi giuridici: l'art. 8 contempla l'obbligo per gli stati membri di provvedere ad informare i lavoratori. Infine l'art. 9 stabilisce il termine per l'attuazione della direttiva e l'art. 10 l'obbligo per gli stati membri di fornire alla Commissione tutti i dati che le consentano di redigere la relazione che essa sottoporrà al Consiglio dei ministri sull'applicazione della direttiva.

Nessuna delle disposizioni della direttiva contempla quindi espressamente l'obbligo per gli stati membri di comminare per l'inosservanza del principio della parità di trattamento una qualsivoglia sanzione né, a fortiori, una sanzione determinata. Solo gli artt. 6 e 7 fanno supporre che questa trasgressione non resterà impunita sul piano nazionale: tuttavia, la possibilità di azione giudiziaria e l'imporre la tutela di chi se ne valga non influiscono sulla scelta definitiva del tipo di sanzione da adottare.

3.

Da quest'esame traggo due conclusioni:

A —

Gli stati membri hanno un potere discrezionale circa la scelta del tipo di sanzioni da comminarsi per la trasgressione del principio sancito dalla direttiva: questo punto non è stato discusso nelle osservazioni depositate nelle due cause. Il diritto comparato, che la Commissione ha riassunto, indica del resto la diversità degli orientamenti seguiti: solo l'Italia contempla il diritto all'assunzione, mentre tutti gli stati membri, eccettuati la Repubblica federale di Germania e i Paesi-Bassi, stabiliscono almeno due tipi di sanzioni, civili penali o amministrative ( 9 ). Quindi, la direttiva n. 76/207 non obbliga gli stati membri a comminare sanzioni del genere del diritto alla stipulazione del contratto o dell'indennizzo pari a sei mesi, un anno o due anni di retribuzione o qualsiasi altro tipo di sanzioni.

Di conseguenza, le questioni 2-4 (causa 14/83) come pure le questioni 2 e 4 (causa 79/83), essendo state poste solo per il caso di soluzione affermativa, sono divenute prive di oggetto; si deve solo rilevare che, secondo la costante giurisprudenza, ritenete che spetti esclusivamente al giudice nazionale il valutare i fatti e le norme di procedura da applicare nella lite dinanzi a lui pendente ( 10 ).

B —

La questione dell'efficacia diretta della direttiva o di talune delle sue disposizioni non è più pertinente: come ho rilevato, la direttiva non implica alcun obbligo assoluto e sufficientemente preciso atto ad obbligare gli stati membri ad adottare un determinato comportamento, nel nostro caso a scegliere sanzioni di questo o di qui tipo ( 11 ) questo punto non è stato discusso dalle parti.

Sono quindi indotta a concludere che la direttiva n. 76/207 non impone agli stati membri di comminare sanzioni di un tipo determinato in caso di trasgressione del principio di non discriminazione fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile. Ciò non significa tuttavia cha gli stati membri siano liberi di comminare una sanzione qualsiasi; non vi è in ciò alcuna contraddizione: si deve a questo punto rifarsi alle esigenze che gli stati membri devono rispettare nell'attuare una norma di diritto comunitario.

II — Il diritto comunitario impone agli stati membri obblighi particolari nell'attuazione delle direttive?

Abbiamo visto che gli stati membri hanno come obbligo di risultato l'attuazione del principio della parità di trattamento nei settori contemplati dalla direttiva n. 76/207. Quest'obbligo deve concretarsi nell'abolizione delle discriminazioni in atto; esso è completato dalla possibilità di adire le vie legali, possibilità tutelata dalle leggi nazionali.

La garanzia dell'osservanza dell'obbligo così attuato non si limita a queste disposizioni di carattere processuale: l'efficacia pratica del principio attuato negli stati membri dipende infatti del pari dalla sanzione per l'eventuale trasgressione. Benché la direttiva taccia su questo punto, lasciando quindi alle autorità nazionali la cura di adottare gli opportuni provvedimenti ( 12 ), ciò non significa che si possa perdere di vista qui la natura degli obblighi generali che loro incombono nel-l'adempiere qualsiasi norma comunitaria. L'art. 5 del trattato stabilisce in proposito che

«gli stati membri adottano tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità».

La vostra giurisprudenza mi consente di precisare la portata di questo precetto generale.

1.

A proposito della parità di trattamento fra uomini e donne, nella sentenza 61/81 avete affermato che la direttiva 10 febbraio 1975 n. 75/117 aveva lo scopo di mettere in pratica il principio della parità di retribuzione fra i lavoratori di sesso femminile e quelli di sesso maschile, principio posto dall'art. 119 del trattato ( 13 ), e ne avete dedotto«che spetta in primo luogo agli stati membri garantire l'applicazione di tale principio mediante idonee disposizioni legislative, regolamentari e amministrative, in modo da consentire a tutti i lavoratori della Comunità di fruire di una tutela in proposito» ( 14 ).

Nella stessa causa vi siete richiamati ( 15 ) all'art. 6 della direttiva di cui trattasi il quale stabilisce che gli stati membri

«conformemente alle loro situazioni nazionali ed ai loro sistemi giuridici, ... adottano le misure necessarie per garantire l'applicazione del principio della parità delle retribuzioni. Essi si rendono garanti della disponibilità di efficaci strumenti che consentano di provvedere all'osservanza di tale principio».

Ne avete concluso che la legislazione del Regno Unito, la quale lasciava al datore di lavoro la possibilità di opporsi a qualsiasi sistema di classificazione professionale, impedendo quindi al lavoratore di accertare l'equivalenza del lavoro effettuato ai fini dell'applicazione del principio della parità di retribuzione, non era conforme agli scopi della direttiva. In questo caso, l'omissione del Regno Unito comprometteva l'efficacia pratica del principio della parità di retribuzione fra i lavoratori di sesso femminile e quelli di sesso maschile.

Indubbiamente la direttiva n. 76/207 non contiene disposizioni analoghe all'art. 6 della direttiva n. 75/117, ma essa esige cionondimeno che gli stati adottino tutte le «misure necessarie» per l'adempimento della direttiva. I provvedimenti nazionali che si propongono di attuare una direttiva devono servire all'adempimento effettivo dell'obbligo di risultato imposto allo stato membro ( 16 ). È chiaro in proposito che l'efficacia pratica del principio stesso della parità di trattamento, sancito dall'art. 119 CEE, ne dipende. Mi sembra possibile precisare ulteriormente l'ampiezza dell'obbligo che grava quindi sugli stati membri.

2.

In via più generale, se si accantona per un momento l'attuazione dell'art. 119 CEE, il rinvio al diritto nazionale non è infatti illimitato.

In fatto di ripetizione dell'indebito, nella sentenza Fromme avete affermato che

«l'applicazione del diritto nazionale non deve pregiudicare né la portata né l'efficacia del diritto comunitario, rendendo praticamente impossibile il recupero di somme indebitamente pagate»,

e nemmeno deve assoggettarlo

«a condizioni o a modalità meno favorevoli di quelle che si applicano ai procedimenti simili puramente nazionali e le autorità nazionali devono procedere, in materia, con la stessa diligenza impiegata nella messa in opera delle legislazioni nazionali corrispondenti, in modo da evitare qualsiasi pregiudizio per l'efficacia del diritto comunitario».

Infine, nello stabilire tali limiti al rinvio, avete affermato,

«per quanto riguarda i rapporti con i procedimenti di risoluzione delle controversie dello stesso genere, ma puramente nazionali, che l'applicazione delle norme nazionali in forza del rinvio deve avvenire in modo non discriminatorio rispetto ai suddetti procedimenti» ( 17 ).

Da questa pronuncia, che riassume la vostra giurisprudenza, si desume, come l'avvocato generale VerLoren van Themaat ha rilevato ( 18 ), una triplice esigenza:

a)

i provvedimenti nazionali ai quali viene fatto rinvio, non devono mai sminuire l'efficacia delle norme comunitarie;

b)

essi non possono quindi essere meno efficaci della «prassi d'attuazione nazionale», per ripetere l'espressione usata dall'avvocato generale, a proposito delle analoghe norme di diritto nazionale ( 19 )

e)

quindi, per non essere discriminatori non possono trattare gli amministrati in modo meno favorevole che nel caso d'applicazione delle norme nazionali.

Riassumendo essi, pure essendo neutri nei confronti del diritto comunitario, devono essere altrettanto efficaci delle norme nazionali d'attuazione e non discriminatori per i cittadini comunitari. Queste condizioni cumulative precisano i confini degli obblighi che incombono allo stato membro ogni volta che il diritto comunitario gli lascia un certo margine discrezionale per. l'adempimento delle norme comunitarie. Non desterà quindi sorpresa il fatto che questa Corte le abbia applicate in modo particolarmente chiaro nel caso delle sanzioni che uno stato membro può comminare per la trasgressione delle formalità amministrative di controllo degli stranieri.

3.

Gli stati membri hanno infatti conservato, per quanto riguarda la libera circolazione delle persone, il potere di controllare la presenza nel loro territorio di cittadini stranieri ( 20 ). Perciò essi possono fra l'altro imporre loro l'osservanza delle formalità amministrative prescritte dalla direttiva del Consiglio n. 68/360 «relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli stati membri e delle loro famiglie all'interno della Comunità» ( 21 ), come il possesso di determinati documenti d'identità o di soggiorno ( 22 ) o l'obbligo di segnalazione contemplato dall'art. 8 n. 2 ( 23 ). Cionondimeno, benché da ciò derivi la facoltà per gli stati membri di comminare sanzioni per l'inosservanza delle norme nazionali adottate in forza della direttiva, ciò non significa che essi possano fissare una sanzione qualsiasi: le sanzioni devono infatti essere «analoghe a quelle che si applicano per illeciti nazionali della stessa importanza» e proporzionate alla natura dell'illecito commesso, in modo da non fare ostacolo al principio della libera circolazione delle persone ( 24 ).

Le penalità nazionali fissate dagli stati membri hanno lo scopo di garantire l'osservanza delle prescrizioni amministrative che consentono di controllare la regolarità della presenza, della circolazione e dello stabilimento nel loro territorio dei cittadini comunitari non nazionali. Trasferendo in questo campo la triplice esigenza sopra indicata, diremo che la portata di queste penalità è doppiamente limitata :

essa presuppone anzitutto che le sanzioni siano equivalenti a quelle comminate per analoghi illeciti del diritto interno,

essa implica poi che le sanzioni stesse non devono essere tali, a causa della sproporzione rispetto alla gravità dell'illecito, da sminuire l'efficacia dei principi della libera circolazione e della parità di trattamento.

Questa proposizione — sanzione efficace se proporzionata ed equivalente ad una penalità nazionale — si spiega con le seguenti considerazioni: le formalità cui la direttiva n. 68/360 sottopone i lavoratori migranti costituiscono un adeguamento necessario del principio fondamentale della loro libera circolazione; il potere di controllo attribuito agli stati membri deve quindi essere interpretato in modo particolarmente restrittivo onde evitare che tali prescrizioni si risolvano nel rendere praticamente nulli i diritti attribuiti ai cittadini comunitari dallo stesso trattato (artt. 7 e 48) ( 25 ).

4.

Viceversa, la stessa proposizione ci induce a dare la preferenza all'esigenza d'efficacia quando le sanzioni nazionali sono destinate a garantire l'osservanza di un principio fondamentale posto dal trattato, come il principio della parità di trattamento fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ( 26 ). Per essere atte a garantire l'adempimento dell'obbligo imposto dal trattato e ripetuto dall'art. 2 della direttiva n. 76/207, in conformità all'esigenza generale posta dall'art. 5, primo comma del trattato, queste sanzioni devono essere efficaci, cioè dissuasive: altrimenti sarebbe compromesso il duplice scopo, tanto economico quanto sociale ( 27 ), dell'art. 119, consentendo alle imprese di trasgredire senza rischio il precetto comunitario e privando i lavoratori di sesso femminile della tutela cui hanno diritto in forza dello stesso trattato. Quanto alla natura delle sanzioni, a mio parere essa deve possedere i due requisiti che voi avete stabilito per l'effetto cogente delle sanzioni comminate per la trasgressione delle formalità amministrative in fatto di libera circolazione. L'esigenza di equivalenza e proporzionalità sussiste infatti, trattandosi di sanzioni, ma essa è qui al servizio della loro efficacia, trattandosi di sanzioni destinate a garantire l'osservanza di un principio fondamentale della Comunità. Di conseguenza, per essere adeguate, le sanzioni nazionali stabilite da uno stato membro per l'inosservanza del principio della parità di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile devono essere

analoghe a quelle applicate ad illeciti della stessa entità,

proporzionate alla gravità dell'illecito commesso, costituito dalla trasgressione di un principio fondamentale della Comunità.

Sono questi i criteri in base ai quali si deve valutare la forza dissuasiva delle sanzioni comminate da una determinata normativa nazionale.

5.

Giungiamo così ad esaminare l'art. 611 bis, n. 2, del BGB, oggetto delle presenti cause. Dinanzi a voi le ricorrenti e l'agente del governo tedesco si sono a questo proposito impegnati in una discussione intesa ad accertare il potere di valutazione dei giudici nazionali rispetto a questa disposizione, in particolare la possibilità di derogam per applicare il diritto comune del risarcimento in diritto civile; la Commissione ha espresso dei dubbi circa l'efficacia di un'elaborazione giurisprudenziale di questo genere. Le parti hanno poi a lungo discusso sulla natura delle sanzioni alternative atte a sostituire l'indennizzo contemplato dall'art. 611 bis, n. 2, citando il diritto alla stipulazione di un contratto nonché, in mancanza, il risarcimento in danaro di entità economicamente rilevante, in base alle varie disposizioni nazionali vigenti in materia.

Non ci spetta, nell'ambito dell'art. 177, l'affrontare questioni che sono di esclusiva competenza dei giudici nazionali in quanto vertono sull'applicazione del diritto interno. Cionondimeno, a proposito delle sanzioni per l'inosservanza dei provvedimenti sul controllo degli stranieri, avete ammesso che il giudice nazionale, qualora si trovi di fronte al mancato adeguamento del diritto nazionale in fatto di sanzioni, «dovrà fare uso della libertà di valutazione riservatagli, al fine di pervenire all'applicazione di una pena adeguata alla natura ed allo scopo delle norme comunitarie di cui si vuole reprimere la trasgressione» ( 28 ). Lo stesso obbligo mi sembra sussistere per il giudice nazionale il quale, alla luce dei criteri elaborati dalla Corte, accerti l'inadeguatezza delle sanzioni comminate per la trasgressione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne di cui all'art. 119 del trattato, come è stato precisato dalla direttiva n. 76/207.

Tenuto conto di queste osservazioni e del complesso della giurisprudenza sopra ricordata, quale risposta possiamo dare ai giudici nazionali?

Si può, in primo luogo, rilevare che, nelle osservazioni, le parti nelle cause principali hanno ammesso che il risarcimento contemplato dall'art. 611 bis, n. 2 del BGB non è dissuasivo, in quanto hanno prospettato possibilità di sanzioni più gravi, in natura o in danaro.

In secondo luogo va osservato che il risarcimento dell'«interesse negativo» è tanto meno appropriato in quanto si rivela aleatorio: Dorit Harz ha infatti sostenuto, senza essere contraddetta, che lo scopo della disposizione nazionale criticata — indennizzare il legittimo affidamento deluso della candidata — può non implicare alcun risarcimento nel caso in cui il datore abbia chiaramente manifestato l'intenzione di non assumere candidati di sesso femminile.

L'insufficiente efficacia del risarcimento del semplice interesse negativo emerge chiaramente, da ultimo, dall'applicazione all'art. 611 bis, n. 2 dei criteri sopra indicati. All'udienza l'agente del governo tedesco ha infatti precisato che illeciti analoghi alla discriminazione a causa del sesso in occasione dell'accesso al lavoro, come fra l'altro le discriminazioni razziali o religiose, ovvero la frode o la corruzione nel reclutamento, danno luogo a sanzioni penali e civili, consistenti queste ultime nel risarcimento in natura o, in mancanza, nella corresponsione di un consistente risarcimento. L'indennizzo limitato alle spese sostenute dalla candidata discriminata non sarebbe quindi atto a garantire l'osservanza di un principio fondamentale come la parità di trattamento dei lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile, del resto sancito dalla legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, dal momento che illeciti analoghi danno luogo a sanzioni più dissuasive, proporzionate alla gravità dell'illecito commesso.

Concludendo, vi propongo quindi di risolvere le questioni pregiudiziali sottopostevi dai tribunali del lavoro di Hamm e di Amburgo dichiarando che

il rimborso delle spese sostenute da una candidata per rispondere ad un'offerta d'impiego non costituisce un risarcimento atto a garantire l'osservanza del principio della parità di trattamento fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, posto dall'art. 119 del trattato e dalla direttiva n. 76/207, dal momento che la normativa nazionale commina, per illeciti analoghi, sanzioni più rispondenti alla gravità dell'illecito commesso.


( 1 ) Traduzione dal francese.

( 2 ) GU L 39 del 14. 2. 1976, pag. 40.

( 3 ) GU L 96 del 23. 4. 1972, pag. 1.

( 4 ) Sentenza 6. 5. 1980, cuasa 152/79, Racc. 1980, pag. 1495, punto n. 12; si veda dei pari la sentenza 23. 11. 1977, Enka BV, causa 38/77, Racc. pag. 2203, punto n. 11.

( 5 ) Art. 3, n. 1; art. 4, 1o comma; art. 5, n. 1.

( 6 ) Direttiva n. 76/207, art. 3, n. 1.

( 7 ) Art. 3, n. 2; art. 4, lett. a), b), e); art. 5, n. 2.

( 8 ) Art. 6 (cfr. su questo punto la vostra sentenza 26. 11. 1983, Commissione/Italia, causa 163/82, non ancora pubblicata, punti 18-21, e le mie conclusioni, punto II, 2o ).

( 9 ) Relazione della Commissione 9. 2. 1981, pag. 201, COM(80) 832 finale.

( 10 ) Si veda ad esempio la sentenza 28. 3. 1979, ICAP, 222/78, Racc. pag. 1163, punii nn. 10 e 11.

( 11 ) Sentenza 19. 1. 1982, Becker, causa 8/81, Racc. pag. 53, punti nn. 25 e 52.

( 12 ) Si veda, per il caso delle sanzioni nazionali comminate per la trasgressione del regolamento, la sentenza Amsterdam Bulb, 50/76, Racc. 1977, pag. 137, punti nn. 32 e 33.

( 13 ) GU L 45 del 10. 2. 1975, pag. 19, direttiva «per il ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri relative all'applicazione del principio delle parità di retribuzioni tra i lavoratori di sesso mascbile e quelli di sesso femminile».

( 14 ) Sentenza 6. 7. 1982, 61/81, Commissione/Regno Unito, Race. 1982, pag. 2601, punto nr. 7; conclusioni dell'avv. generale VerLoren van Themaat, in particolare pag. 2624.

( 15 ) 61/81, sopracitata, punto n. 10.

( 16 ) Cfr., a proposito di una raccomandazione CECA, la portata attribuita alle sanzioni comminate per la trasgressione dei suoi scopi, sentenza 9/61, Paesi Bassi, Race. 1962, pag. 413; conclusioni dell'avvocato generale Roemer, più precisamente pag. 455.

( 17 ) Sentenza 6. 5. 1982, 54/81, Fromme, Racc. 1982, pag. 1449, punto n. 6; si veda de! pari la giurisprudenza citata dall'avvocato generale VerLoren van Themaat nella stessa causa, pag. 1469.

( 18 ) Ibid. pag. 1470.

( 19 ) Ibid. pag. 1471.

( 20 ) Sentenza 8. 4. 1976, 48/75, Royer, Racc. 1976, pag. 497, punto n. 42; sentenza 7. 7. 1976, 118/75, Watson, Racc. 1976, pag. 1185, punto n. 17.

( 21 ) GU L 257 del 19. 10. 1968, pag. 13.

( 22 ) Articoli 3, 4 e 7.

( 23 ) Sentenza 118/75, sopramenzionata, punti un. 18 e segg; sentenza 14. 7. 1977, 8/77, Sagulo, Race. 1977, pag. 1495, punti nn. 4 e 5; sentenza 3. 7. 1980, 157/79, Pieck, Racc. 1980, pag. 2171, punto n. 17.

( 24 ) Sentenza 118/75 sopramenzionata, punto n. 21; sentenza 8/77 sopramenzionata, punto n. 13; sentenza 157/79 sopramenzionata, punto n. 19.

( 25 ) Conclusioni dell'avvocato generale Mayras, 48/75, Royer, Race. 1976, pag. 526; sentenza 118/75 sopramenzionata, punto n. 18.

( 26 ) Cfr. considerando n. 3 della direttiva 68/360 sopramenzionata e sentenza 8. 4. 1976, 43/75, Defrenne, Racc. 1976, pag. 473, punto n. 12.

( 27 ) Sentenza 43/75 sopramenzionata, Race. pag. 455, punti nn. 8-12.

( 28 ) Sentenza 8/77, Sagulo, sopramenzionata, punto n. 12.