CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

SIR GORDON SLYNN

DEL 21 OTTOBRE 1981 ( *1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

il sig. Alfred John Webb, residente nel Regno Unito, dirige una società britannica, la International Engineering Services Bureau (UK) Limited. Nel febbraio del 1978, tale società aveva fornito personale tecnico temporaneo ad imprese olandesi. Il personale in tal modo fornito continuava ad essere dipendente della società inglese, e questa riceveva un corrispettivo dalle imprese per le quali tale personale lavorava. Al momento dei fatti, la International Engineering Services Bureau (UK) Limited era titolare di una licenza inglese concessa in base alla legge del 1973 sulle agenzie di collocamento (Employment Agencies Act 1973). Né la società né il Webb erano titolari di una licenza olandese.

Nei Paesi Bassi vigeva la legge 31 luglio 1965 sulla fornitura di manodopera (Wet op het ter beschikking stellen van arbeidskrachten, Stb. 379; emendata dalla legge 30 giugno 1967, Stb. 377). L'art. 1 di tale legge definiva la fornitura di manodopera come la messa a disposizione di un terzo di lavoratori, contro corrispettivo, che non derivi da un accordo concluso con detto terzo per l'esecuzione di lavoro abitualmente effettuato nella sua azienda. L'art. 2, n. 1, lett. a), della legge prevede un sistema di licenze. Il regio decreto (algemene maatregel van bestuur)10 settembre 1970 (Stb. 410), adottato in attuazione di detto art. 2, n. 1, lett. a), vietava la fornitura di manodopera a chi non fosse in possesso di una licenza rilasciata dal Ministero per gli affari locali. L'art. 6 della legge stabiliva che tale licenza può essere rifiutata solo se sussiste il fondato timore che la fornitura di manodopera da parte della ditta richiedente possa nuocere ai buoni rapporti fra le parti sociali o se gli interessi dei lavoratori non sono adeguatamente garantiti.

Il 27 aprile 1978, il Webb veniva condannato dal Giudice di polizia economica (Economische Politierechter) presso (Arrondissementsrechtbank (tribunale) di Amsterdam, per avere a tre riprese fornito, contro corrispettivo, manodopera a ditte olandesi senza essere in possesso di una licenza rilasciata dal ministro competente. Gli veniva inflitta un'ammenda, convertibile in arresto in caso di inadempimento. Essendo rimasto infruttuoso l'appello contro tale sentenza, dinanzi al Gerechtshof (Corte d'appello) di Amsterdam, il Webb ricorreva allo Hoge Raad, invocando (come già dinanzi alla Corte d'appello), gli artt. 59-62 del Trattato CEE, ed affermando, in particolare, che non si può esigere che il titolare di una licenza, rilasciata in uno Stato membro, per la fornitura di manodopera ivi, pos-segga\i requisiti prescritti per il rilascio della licenza in un altro Stato membro, qualora la licenza sia stata rilasciata nel primo Stato a condizioni analoghe a quelle imposte dallo Stato in cui il personale è stato fornito (e nel primo Stato venga esercitato sulle sue attività un adeguato controllo).

Alla luce di queste considerazioni, lo Hoge Raad ha sottoposto alla Corte tre questioni pregiudiziali ai sensi dell'art. 177 del Trattato CEE. La prima di tali questioni è del seguente tenore:

«1.

Se nella nozioni di “servizi” di cui all'art. 60 del Trattato sia compresa anche la fornitura di manodopera ai sensi del suddetto art. 1, n. 1, prima parte e leu. B), della Wet of bet ter beschikking stellen van arbeidskrachten».

Secondo l'art. 60 del Trattato CEE, ai sensi di tale Trattato il termine «servizi» indica le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. La International Standard Industriai Classification of all Economie Activities, ISIC (Classificazione internazionale tipo, per industria, di tutti i settori di attività economica, CITI), pubblicata dall'Ufficio Statistico delle Nazioni Unite (Statistical Papers Series), M n. 4 Rev. 1, New York 1958, classifica le agenzie di collocamento nel gruppo 839, e sotto la voce «servizi commerciali non altrimenti classificati». Tale classificazione — adottata nell'ambito del Programma generale per l'abolizione delle restrizioni alla libera prestazione dei servizi (GU n. 36 del 15.1.1962, pag. 36) — «costituisce parte integrante degli atti comunitari» in materia (cfr. cause riunite 110 e 111/78, Van Wesemael, Race. 1979, pagg. 31, 50). La direttiva del Consiglio 12 gennaio 1967, n. 67/43/CEE, riguardante l'attuazione della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi per determinate attività (GU n. 10 del 19.1.1967, pag. 140), contempla all'art. 3, n. 2, leu. a) e seguenti, un elenco di prestazioni di servizi commerciali non altrimenti classificati, rientranti nel gruppo 839 della classificazione CITI, ai quali si applica la direttiva in questione. La prima delle attività comprese in questo elenco è quella degli «uffici di collocamento privati». Nella sentenza Van Wesemael, nell'ambito di una causa relativa ad un'agenzia di collocamento per artisti dello spettacolo, la -Corte aveva affermato: «l'attività considerata nella fattispecie costituisce una prestazione di servizi».

Mi sembra evidente che i «servizi» di cui all'art. 60 del Trattato comprendono la fornitura di manodopera, quale è definita dalla legislazione cui fa riferimento la prima delle questioni pregiudiziali dello Hoge Raad.

Il Governo francese ha tuttavia sostenuto che, nonostante quanto detto sopra, le agenzie di collocamento private sono servizi di un tipo specialissimo. Ammetto che tali agenzie, specie quelle che operano nel settore del lavoro a tempo determinato, posseggano caratteristiche particolari, che le distinguono dalla maggior parte dei servizi enumerati nella CITI, in quanto le attività da esse svolte possono incidere notevolmente — a livello nazionale, regionale o di categoria — su certi aspetti della politica del lavoro, sul funzionamento degli uffici di collocamento nonché sui rapporti fra le parti sociali. Queste caratteristiche spiegano il mantenimento in vigore, in tutti gli Stati membri della Comunità, ad eccezione del Lussemburgo e della Grecia, di disposizioni legislative che assoggettano a controlli l'attività di tali agenzie, o addirittura, la proibiscono, come in Italia. Tali caratteristiche spiegano altresì le norme della Convenzione n. 96 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, relativa agli uffici di collocamento a pagamento (riveduta) del 1949, la quale è stata ratificata da sette Stati membri della Comunità Economica Europea, come ha ricordato il Governo francese. Le caratteristiche eccezionali delle agenzie private di collocamento sono a mio aviso irrilevanti ai fini della soluzione della prima delle questioni sollevate dallo Hoge Raad, mentre incidono sulla soluzione da darsi alle restanti questioni.

Alla luce di quanto sostenuto dai Governi degli Stati membri che hanno presentato osservazioni nel presente procedimento pregiudiziale, nonché dalla Commissione, mi sembra opportuno trattare congiuntamente la seconda e la terza questione. Il tenore di tali questioni è il seguente:

«2.

Per il caso che la questione sub 1) venga risolta in senso affermativo: se l'art. 59 del Trattato osti — sia in generale, sia unicamente in determinate circostanze — a che uno Stato membro nel quale la prestazione di tale servizio è subordinata ad una licenza — condizione posta al fine di poter rifiutare detta licenza qualora esista il fondato timore che la fornitura di manodopera da parte del richiedente possa nuocere ai buoni rapporti sul mercato del lavoro o se gli interessi dei lavoratori non sono adeguatamente garantiti — imponga al prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro l'obbligo di soddisfare tale condizione.

3.

In che misura sia rilevante ai fini della questione sub 2), il fatto che il prestatore di servizi straniero possegga, nello Stato in cui è stabilito, una licenza per prestare il servizio di cui trattasi nello Stato in cui è stabilito.»

All'udienza, il Governo tedesco ha sostenuto che gli artt. 59-66 del Trattato CEE non mirano a rimuovere tutte le restrizioni alla libera prestazione dei servizi, ma solamente a garantire la parità di trattamento fra i nazionali e gli stranieri. Un argomento analogo è stato svolto dal Governo danese, il cui rappresentante ha sostenuto che l'art. 59 del Trattato CEE trova applicazione o, in ogni caso, ha efficacia diretta, solo per quanto riguarda quelle disposizioni nazionali che comportano discriminazioni fra i prestatori di servizi a causa della loro nazionalità o del luogo di stabilimento. Tale tesi, se esatta, costituirebbe una soluzione pienamente adeguata della seconda e della terza delle questioni sollevate dallo Hoge Raad; infatti, non risulta che la legge 31 luglio 1965 ricolleghi restrizioni alla nazionalità dei titolari delle licenze, in quanto tale. La legge non richiede neppure, come è stato chiarito all'udienza, che il titolare della licenza sia stabilito nei Paesi Bassi, bensì esclusivamente che esso vi abbia un ufficio amministrativo o un recapito dove i documenti possano essere esaminati. È vero che il principio di non discriminazione è menzionato espressamente nel terzo comma dell'art. 60 del Trattato CEE e nell'art. 65 dello stesso. La Corte ha più volte fatto riferimento a tale principio nelle pronunzie in materia, ed in particolare nelle sentenze 33/74 (Van Binsbergen cl Bedrijfsvereniging Metaalnijverheid, Race. 1974, pagg. 1299, 1309), 39/75 (Coenen cl Sociaal-Economische Raad, Race. 1975, pagg. 1547, 1555), 15/78 (Société Générale Alsacienne de Banque c/ Koestler, Race. 1978, pagg. 1971, 1980), cause riunite 110 e 111/78 (Van Wesemael, pag. 52), e causa 52/79 (Procureur du Roi c/ Debauve, Racc. 1980, pagg. 833, 856). Inoltre, il Programma generale per l'abolizione delle restrizioni alla libera prestazione di servizi prevede l'abolizione di «ogni divieto o impedimento delle attività non salariate ... consistente in un trattamento discriminatorio ... rispetto ai cittadini dello Stato di cui trattasi previsto da una disposizione ...».

A mio avviso, tuttavia, l'ambito di applicazione dell'art. 59 non è così ristretto. L'esame degli artt. 59-66 del Trattato rivela che la discriminazione in base alla nazionalità o al luogo di stabilimento, mentre costituisce, se non vi sono motivi di ordine pubblico, la prova decisiva dell'esistenza di una «restrizione» ai sensi dell'art. 59, non è però l'elemento essenziale o esclusivo di una siffatta restrizione. Tutto ciò si evvince dall'art. 65, in base al quale «fino a quando non saranno soppresse le restrizioni alla libera prestazione dei servizi, ciascuno degli Stati membri le applica senza distinzione di nazionalità o di residenza ...».

Questa conclusione è confermata, a mio avviso, dalla formulazione delle sentenze Van Binsbergen e Coenen, loc. cit., nelle quali la Corte ha affermato che le restrizioni da abolirsi in base agli artt. 59-60 comprendono «tutte le condizioni poste al prestatore di servizi a motivo della sua nazionalità o a motivo della sua residenza in uno Stato diverso da quello in cui fornisce la prestazione, condizioni che non sussistono per i residenti nel territorio nazionale e che comunque impediscono od ostacolano l'esercizio dell'attività da parte del prestatore di servizio» (non sottolineato nell'originale). Essa è poi ulteriormente corroborata dalla sentenza Van Wesemael, nella quale, alle pagine 52-55, la Corte ha affermato che «qualora l'esercizio dell'attività di collocamento di cui trattasi sia subordinato, nello Stato in cui viene fornita la prestazione, al rilascio di una licenza, nonché al controllo delle autorità competenti, detto Stato non può tuttavia ... imporre al prestatore residente in un altro Stato membro l'obbligo di soddisfare tali condizioni ... se il prestatore sia titolare, nello Stato membro in cui risiede, di una licenza rilasciata a condizioni analoghe a quelle imposte dallo Stato in cui viene fornita la prestazione e le sue attività siano soggette, nel primo Stato, ad un controllo adeguato, concernente qualsiasi attività di collocamento, quale che sia lo Stato membro destinatario della prestazione». L'analogia fra le condizioni richieste per il rilascio della licenza nello Stato in cui risiede il prestatore di servizi e quelle richieste nello Stato in cui la prestazione di servizi viene effettuata, nonché il criterio della congruità del controllo non avrebbero alcuna ragion d'essere se l'unico elemento da prendere in considerazione fosse l'esistenza o meno di una discriminazione, in base alla nazionalità o alla residenza, nella legislazione nazionale in materia.

Il rappresentante del Governo danese ha poi ricordato che, nella sentenza Debauve, la Corte lia respinto la tesi, sostenuta in quella causa dall'Avvocato generale Warner e, nella presente causa, dalla Commissione, secondo cui l'art. 59 si riferisce non solo a quelle restrizioni che comportano una discriminazione, ma anche a quelle che possono costituire un ostacolo per l'attività del prestatore di servizi. Mi sembra che, con un'impostazione di questo genere, si dilati eccessivamente la portata delle parole usate dalla Corte nella sentenza Debauve. In quella causa, l'impresa rivendicava il diritto di prestare un servizio (consistente nella trasmissione via cavo di programmi pubblicitari) in uno Stato membro in cui tale tipo di servizio era vietato, sostenendo che era lecito prestare detto servizio nello Stato in cui il prestatore era stabilito e dal quale veniva effettuata la trasmissione della pubblicità. In queste circostanze la Corte ha affermato che il divieto in vigore nello Stato in cui il programma era ricevuto non ricadeva sotto gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE, purché fosse applicato senza distinzioni di nazionalità o di luogo di stabilimento. Nella presente causa, invece, viene rivendicato il diritto di prestare un servizio in uno Stato membro — nel quale l'attività è soggetta a licenza — per il motivo che il prestatore del servizio possiede una licenza rilasciata dallo Stato nel quale egli risiede. Ciò implica, in realtà, l'idea che vi dovrebbe essere il riconoscimento reciproco delle licenze prescritte per legge, proprio come vi è un sistema di reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali a norma degli artt. 57 e 66 del Trattato CEE, il che equivale a dire che un ufficio che desideri operare nell'intera Comunità non dovrebbe essere soggetto a norme amministrative o controlli, dello stesso tipo, in più di uno Stato. Una tesi del genere non può essere respinta invocando la sentenza Debauve, la quale non riguardava la duplicazione dei controlli amministrativi.

Il rappresentante del Governo danese ha citato, a conforto della propria tesi, varie sentenze della Corte in materia di libertà di stabilimento. Come, però, l'Avvocato generale Mayras aveva sottolineato nella causa Van Binsbergen (pagg. 1316-1317), vi è una differenza fondamentale fra lo stabilimento e la prestazione di servizi. Questa consiste nel fatto che il professionista stabilito in uno Stato membro diverso da quello di cui è cittadino è soggetto, per il fatto di esservisi stabilito, alla legge del paese ospitante, la quale può imporgli le stesse condizioni e gli stessi controlli che sono prescritti per i propri cittadini, mentre il prestatore di servizi rimane soggetto al controllo dello Stato in cui è stabilito e può sottrarsi al controllo delle autorità nazionali del paese in cui i servizi vengono prestati. Inoltre, l'obbligo di munirsi di una licenza, alla stessa stregua dei cittadini o residenti dello Stato di cui trattasi, può costituire un ostacolo più grave per la prestazione di servizi che per Io stabilimento, come ad esempio, nel caso in cui il costo della procedura renda antieconomico, per il singolo o per la società stabiliti in un altro Stato membro, soddisfare occasionalmente le esigenze di clienti dello Stato che impone detto obbligo. Non ritengo che le sentenze in materia di stabilimento forniscano una soluzione esauriente per le questioni in esame.

A mio avviso, quindi, l'eliminazione delle restrizioni alla libera prestazione di servizi nell'ambito della Comunità richiede più che l'abolizione delle discriminazioni in base alla nazionalità o al luogo di stabilimento, e comprende l'eliminazione di tutti gli ostacoli per la libera prestazione di servizi attraverso le frontiere intracomunitarie, salvo nella misura in cui questi risultino ammissibili per effetto degli artt. 55-58 e 66.

D'altro lato, risulta chiaro dalle precedenti pronunzie della Corte che l'art. 59, nella sua corretta interpretazione, non fa venir meno completamente il diritto dello Stato membro di sottoporre a condizioni la prestazioni di servizi nel proprio territorio per coloro che siano già stabiliti in un altro Stato membro. Siffatte condizioni possono venire imposte subordinando l'ottenimento della licenza alle condizioni già indicate dalla Corte. È evidente che la facoltà, per ciascuno Stato membro, d'imporre condizioni siffatte e di stabilire l'obbligo di munirsi di licenza, dev'essere estremamente circoscritta, giacché altrimenti la libera prestazione dei servizi all'interno della Comunità potrebbe divenire illusoria.

Le pronunzie citate sopra mi sembrano indicare che lo Stato membro può imporre alle persone stabilite in un altro Stato membro di munirsi di una licenza prima di essere ammesse a prestare dei servizi nel primo Stato membro qualora, e solamente nel caso in cui, sussista una duplice condizione. In primo luogo, le condizioni per il rilascio della licenza debbono essere le stesse, mutatis mutandis, cui è subordinato il rilascio della licenza alle persone, aventi la sede o la residenza nello stesso Stato membro, le quali vogliano prestare gli stessi servizi. In secondo luogo, le condizioni cui è subordinato il rilascio della licenza debbono essere imposte al prestatore «in forza di norme sull'esercizio della sua professione, giustificate dal pubblico interesse», e tale imposizione dev'essere «obiettivamente necessaria al fine di assicurare l'osservanza delle norme professionali»(Van Wesemael, cit. pag. 52), o di garantire la tutela degli utenti. Nella misura in cui tali obiettivi siano già conseguibili mediante condizioni imposte al prestatore dei servizi e grazie ad un adeguato controllo, nello Stato membro in cui il prestatore è stabilito, non è più necessario, né obiettivamente giustificato, imporgli condizioni attraverso la licenza in un altro Stato membro.

Nel valutare se l'imposizione di condizioni e la concessione di una licenza siano necessarie e obiettivamente giustificate, in modo da essere compatibili col Trattato (e non debbano essere invece considerate come ostacoli per la libera prestazione dei servizi fra gli Stati membri), è opportuno stabilire che cosa sia necessario nello Stato membro in questione, giacché ciò che è necessario in uno Stato membro (il quale stabilisce proprie condizioni per la prestazione di servizi) può non essere adeguato o giustificato o nemmeno rilevante alla luce delle esigenze di un altro Stato membro. Le tesi svolte dagli Stati membri nel presente procedimento mettono in evidenza i vari aspetti economici, sociali e politici della fornitura di personale temporaneo, nonché i diversi problemi che si pongono attualmente nei vari Stati membri. Particolare importanza hanno le spiegazioni fornite dal Governo dei Paesi Bassi sulle ragioni dell'adozione del sistema vigente in quel paese.

In questo ambito, è opportuno considerare le speciali caratteristiche del collocamento di personale temporaneo, sulle quali ha attirato la vostra attenzione il rappresentante del Governo francese. Come viene dimostrato nella relazione del Professor Blanpain e del sig. Drubigny (Le travail temporaire dans les pays de la CEE, Studi della Commissione, n. 79/52, aprile 1980), le norme nazionali divergono considerevolmente fra di loro in questa materia. Risulta che tale attività è totalmente proibita, in Italia, a norma della legge 23 ottobre 1960, n. 1369; mentre il Lussemburgo e la Grecia non posseggono norme in materia; in Francia, le agenzie di lavoro temporaneo devono essere iscritte in un registro ufficiale e devono procurarsi una fideiussione a garanzia della retribuzione dei lavoratori, mentre negli altri sei Stati l'esercizio di tale attività è subordinato al rilascio di una licenza (chiamata, in Belgio «agréation»). Sempre in base alla relazione summenzionata, le condizioni per la concessione della licenza variano molto: in alcuni casi, la licenza è rilasciata automaticamente, o è rilasciata allorquando sussistono determinate condizioni obiettive; in altri, le autorità amministrative dispongono di un certo margine discrezionale. Vi sono, inoltre, rilevanti differenze fra le varie disposizioni nazionali quanto agli effetti del rilascio della licenza. In taluni Stati membri, l'impiego di lavoratori temporanei è ammesso esclusivamente in determinati settori economici (come in Danimarca, ove tale impiego è ammesso nelle attività commerciali e nel lavoro d'ufficio), mentre in altri Stati membri, o in parte di tali stati, il lavoro temporaneo è vietato in determinati settori (come, ad esempio, per il settore edilizio, nel Belgio ed in talune regioni dei Paesi Bassi).

Spetta al giudice nazionale stabilire se le condizioni che si vogliono imporre, oltre e al dilà di quelle richieste nello Stato dello stabilimento, come pure l'obbligo di munirsi di licenza, siano obiettivamente giustificate alla luce della sentenza Van Wesemael.

Il fatto che sia stata rilasciata la licenza da parte dello Stato in cui è stabilito il soggetto che intende effettuare la prestazione di servizi nell'altro Stato membro (circostanza alla quale si riferisce la terza questione pregiudiziale), costituisce semplicemente uno degli aspetti di questo problema generale. Tale licenza è lo strumento che permette l'imposizione di condizioni, e l'esercizio del controllo, da parte dello Stato membro in cui il soggetto è stabilito. La questione da risolvere è perciò se tali condizioni e tale controllo garantiscano adeguatamente ciò che è obiettivamente indispensabile fra le condizioni in vigore nel secondo Stato membro. Il criterio è pur sempre quello della necessarietà, non già quello della convenienza o dell'auspicabilità. Da un lato, il semplice fatto che il soggetto sia titolare di una licenza rilasciata in uno Stato membro (o perfino in un altro Stato membro, alle stesse condizioni che si richiedono nello Stato in cui la licenza è stata concessa) non ha rilevanza decisiva. Altrimenti, infatti, si avrebbe una forma di discriminazione nei confronti delle agenzie stabilite nello Stato stesso, come è stato rilevato dal rappresentante del Governo danese. D'altro lato, se delle condizioni che si vogliono giustificatamente imporre mediante la licenza, nello Stato in cui i servizi vanno prestati, si è già tenuto sufficientemente conto nella licenza rilasciata dallo Stato dello stabilimento (come pure di adeguati controllo ed applicazione), allora non può giustificarsi la pretesa che un'ulteriore licenza venga chiesta nello Stato in cui i sei-vizi vanno prestati. Se le condizioni imposte dalle due licenze sono «le stesse» o se le licenze sono «analoghe», secondo il termine impiegato nella sentenza Van Wesemael, l'esigenza di una seconda licenza non è giustificata. L'esenzione dal-l'obbligo di procurarsi detta seconda licenza non costituisce una discriminazione ai danni delle agenzie locali.

Il se le condizioni siano le stesse o siano analoghe dipenderà da una valutazione di carattere globale. Il giudice nazionale deve accertare, caso per caso, se la persona o la società che intende prestare dei servizi sia in grado di dimostrare, esibendo la licenza rilasciata in un altro Stato membro, che essa soddisfa tutte le condizioni richieste, nello Stato in cui i servizi vanno prestati, per il rilascio della licenza prescritta, in quel momento, per poter fornire manodopera nel settore o nella regione di cui trattasi di detto Stato.

Nella presente causa, i motivi per cui la licenza può essere negata sono indicati espressamente nella seconda questione dello Hoge Raad. Le autorità olandesi competenti possono rifiutare la licenza se la fornitura di manodopera da parte del richiedente può nuocere alle buone relazioni sul mercato del lavoro o se gli interessi dei lavoratori non sono sufficientemente garantiti. Dal punto di vista giuridico, tali obiettivi sembrano rientrare nel «pubblico interesse», di cui si parla nella sentenza Van Wesemael. Il giudice nazionale deve pertanto stabilire, in fatto, se il rilascio della licenza nel Regno Unito al sig. Webb, o alla sua società, dimostri che il richiedente soddisfa le condizioni poste dalla legge olandese, e se tali condizioni siano in effetti rese necessarie da esigenze di «publico interesse». Egli dovrà accertare — osservando le proprie norme in materia di prova — i vari criteri adottati nel Regno Unito per il rilascio delle licenze, quali l'idoneità del richiedente, le persone che parteciperanno alle attività dell'agenzia, nonché l'idoneità dei locali di questa, ed altresì soppesare l'incidenza dell'osservazione fatta dal Governo del Regno Unito, secondo il quale motivi del genere esposto nella legge 31 luglio 1965«non permetterebbero al Secretary of State, che è l'autorità competente, nel Regno Unito, per il rilascio della licenza, di fare a meno di esigere la licenza stessa, giacché non si ricadrebbe in uno dei motivi di rifiuto enumerati nell'art. 2, n. 3, della legge inglese del 1973 sulle agenzie di collocamento (Employment Agencies Act 1973)».

Dinanzi allo Hoge Raad, il Webb ha contestato la tesi, accolta dal Gerechtshof, secondo cui nel Regno Unito il rilascio, il rifiuto, ovvero la concessione condizionale, delle licenze, avviene in funzione delle esigenze del mercato del lavoro in quello Stato, cosicché dette licenze non sarebbero affatto rilasciate necessariamente a condizioni analoghe a quelle che possono essere determinanti nei Paesi Bassi. Il Webb ha sostenuto che, in un caso come quello in esame, la libera prestazione dei servizi significa che non ci si può più riferire ad un mercato nazionale. Lasciando da parte la questione se il rilascio delle licenze nel Regno Unito avvenga effettivamente in funzione del mercato del lavoro di quel paese, ho l'impressione che un argomento di questo genere equivalga ad affermare che lo Stato membro non può subordinare il rilascio della licenza a condizioni che si riferiscono ad un mercato nazionale del lavoro, giacché ora esiste un mercato comunitario del lavoro e dei servizi. Tale tesi sembra avere una portata ancora più ampia, giacché sarebbe difficile trovare una qualsiasi giustificazione del fatto che gli Stati membri conservino il potere di proibire, in particolari zone o settori, in funzione di situazioni locali, il collocamento di manodopera temporanea, qualora gli stessi Stati non potessero nemmeno limitare — con la licenza — tale attività. Un provvedimento nazionale non discriminatorio può configurarsi come un ostacolo per tale libertà qualora costituisca uno speciale impedimento alla prestazione di servizi fra gli Stati membri (come nel caso dell'obbligo di munirsi di licenza che esponga a spese o inconvenienti chi presta servizi in uno Stato membro diverso dal proprio e qualora la licenza costituisca un doppione di un'altra già in possesso dello stesso prestatore in un altro Stato membro). La semplice differenza fra le norme nazionali che fissano le condizioni per la prestazione di determinati servizi, la quale tragga origine dalle differenze fra i mercati del lavoro in detti Stati membri, o in qualche parte di essi, non costituisce necessariamente un ostacolo di questo tipo.

Per questi motivi, ritengo che le questioni proposte dallo Hoge Raad vadano risolte come segue:

1.

Nella nozione di «servizi» di cui all'art. 60 del Trattato CE è compresa anche la fornitura — contro corrispettivo — di manodopera a terzi, che non derivi da un accordo concluso con detto terzo per l'esecuzone di lavoro abitualmente effettuato nell'azienda dello stesso.

2.

L'art. 59 del Trattato CEE non osta a che uno Stato membro («tale Stato») mantenga in vigore una norma in base alla quale i servizi del tipo descritto sopra possano essere prestati da una persona stabilita in un altro Stato membro solo se essa possiede una licenza rilasciata dalle competenti autorità di tale Stato (licenza che può essere rifiutata se esiste il fondato timore che la fornitura di manodopera da parte del richiedente possa nuocere ai buoni rapporti sul mercato del lavoro o se gli interessi dei lavoratori non sono adeguatamente garantiti) a condizione: a) che un'identica condizione sia imposta alle persone stabilite in detto Stato e b) che la persona stabilita in un altro Stato membro sia esentata dall'obbligo di munirsi di tale licenza qualora sia in grado di dimostrare, esibendo la licenza rilasciata nello Stato membro in cui essa è stabilita, o altrimenti, che egli possiede tutti i requisiti che altrimenti sarebbero richiesti nello Stato in cui i servizi vanno prestati e che l'osservanza di tali requisiti è adeguatamente garantita.


( *1 ) Traduzione dall'inglese.