CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

SIR GORDON SLYNN

DEL 15 SETTEMBRE 1981 ( 1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

Nel presente, procedimento, instaurato in forza dell'art. 169 del Trattato CEE, la Commissione sostiene che, vietando l'importazione e la messa in commercio sotto la denominazione «aceto» di aceto non derivante dal vino, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi impostile dallo stesso Trattato, ed in particolare dagli artt. 30-36.

In Italia, la produzione e il commercio dell'aceto sono disciplinati dalla legge 9 ottobre 1964, n. 991 (GU n. 265 del 28 ottobre 1964) e dai relativi decreti di attuazione. Detta legge delega il governo ad emanare le norme per la prevenzione e la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti. All'art. 2, n. 6, essa stabilisce che dette norme dovranno vietare l'utilizzazione, diretta o indiretta, nel campo alimentare, di alcool sintetico e di prodotti contenenti acido acetico non proveniente dalla fermentazione acetica di vino o vinello.

In forza di questa legge veniva emanato il decreto del presidente della Repubblica 12 febbraio 1965, n. 162 (Gazzetta ufficiale n. 73 del 23 marzo 1965). L'art. 41 di tale decreto riserva la denominazione «aceto» al «prodotto ottenuto dalla fermentazione acetica del vino» avente determinate proprietà fisiche. L'art. 51 (come emendato con legge 9 ottobre 1970, n. 739, GU n. 270 del 24 ottobre 1970) stabilisce che è vietato trasportare, detenere per la vendita, mettere in commercio o comunque utilizzare per uso alimentare diretto o indiretto alcool etilico sintetico, nonché prodotti contenenti acido acetico non derivante dalla fermentazione acetica del vino e prodotti derivati dalla fermentazione acetica del vino che non possono essere qualificati «aceto» in base all'art. 41.

L'art. 60 stabilisce: «Le disposizioni del presente decreto si applicano anche ai prodotti importati dall'estero».

Le trasgressioni degli artt. 41 e 51 sono punite con sanzioni penali.

Secondo la Commissione, il suddetto decreto n. 162 è incompatibile con l'art. 30 del Trattato CEE, in quanto risulta atto ad ostacolare direttamente o indirettamente, attualmente o potenzialmente, il commercio intracomunitario dell'aceto e dei prodotti alimentari contenenti aceto. Il 14 dicembre 1978, il visconte Davignon inviava, a nome della Commissione, al ministro italiano per gli affari esteri una lettera in cui si comunicava il punto di vista della Commissione in proposito, esponendone i motivi. La lettera precisava che la valutazione in essa contenuta concerneva unicamente l'aceto di alcool ottenuto per mezzo della fermentazione acetica di prodotti agricoli. Essa dichiarava espressamente e chiaramente che tale valutazione non riguardava l'acido acetico sintetico. La Commissione chiedeva al governo italiano, ai sensi dell'art. 169 del Trattato CEE, di presentare entro due mesi le proprie osservazioni in merito al parere espresso dalla Commissione in detta lettera, riservandosi di emettere successivamente un parere motivato a norma dello stesso articolo.

Il governo italiano non presentava osservazioni fino all'8 novembre 1979, data in cui esso scriveva alla Commissione sostenendo di avere buoni motivi per non modificare il decreto n. 162.

Il 19 novembre successivo la Commissione emetteva un parere motivato quanto all'inadempimento, da parte della Repubblica italiana, degli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato. Il parere modivato non era espressamente limitato all'aceto derivante da prodotti agricoli; esso faceva tuttavia reiferimento alla lettera del 14 dicembre 1978, senza precisare che si revocava la dichiarazione secondo cui l'acido acetico sintetico era escluso dall'ambito del procedimento. Più di una volta, anzi, vi si parlava di aceto derivante dalla fermentazione.

Il 26 giugno 1980, nella causa 788/79, che aveva avuto origine da un procedimento penale a carico di Herbert Gilli e Paul Andres, la Corte (Seconda Sezione) dichiarava, in una pronunzia pregiudiziale emessa a norma dell'art. 177 del Trattato CEE (Race. 1980, pag. 2071), che la nozione di «misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative all'importazione» di cui all'art. 30 del Trattato va intesa nel senso che rientra in questa norma il divieto, sancito da uno Stato membro, di importare o di porre in commercio aceto contenente acido acetico non derivante dalla fermentazione acetica del vino, ed in particolare aceto di mele, qualora si tratti di aceto legalmente prodotto e messo in commercio in un altro Stato membro.

Il 28 luglio 1980 la Commissione indirizzava quindi al governo italiano un altro parere motivato, in cui si sottolineava il passo della pronunzia della Corte nella causa 788/79 che si riferisce all'aceto di mele. D'altra parte, la Commissione considerava la lettera del 14 dicembre 1978 come atto introduttivo del procedimento contemplato dall'art. 169, senza modificare in alcun modo la propria posizione circa l'esclusione dell'acido acetico sintetico.

Nel ricorso proposto a questa Corte il 26 settembre 1980 la Commissione non indicava espressamente di voler estendere il procedimento al prodotto che ne era stato escluso.

Il governo francese, in una breve memoria, faceva presente che il suo principale interesse relativamente a questa causa è quello di sostenere la tesi secondo cui gli Stati membri possono vietare lo smercio di acido acetico sintetico.

Quando già si era giunti ad una fase avanzata della trattazione orale, l'agente della Commissione ha sostenuto che il presente procedimento va considerato come riferentesi all'aceto sintetico non meno che all'aceto derivante dalla fermentazione di prodotti agricoli, osservando in proposito che eventuali restrizioni risultanti dall'atto introduttivo non possono limitare l'oggetto del procedimento.

Non ritengo che questo argomento possa essere accolto. Prima di iniziare, contro uno Stato membro, il procedimento di cui all'art. 169 del Trattato CEE, la Commissione è tenuta a fare due cose: in primo luogo, essa deve porre lo Stato interessato in grado di presentare le proprie osservazioni e, in secondo luogo, essa deve emettere un parere motivato. Non si tratta, in proposito, di semplici formalità, ma di sostanziali garanzie intese a dare agli Stati membri la possibilità di mantenere la propria posizione ovvero di modificarla onde evitare di essere esposti ad un'azione giurisdizionale. Ne consegue che alla Commissione non deve essere consentito, in via di principio, di includere nell'oggetto di un procedimento ai sensi dell'art. 169 una questione che sia stata espressamente esclusa nella fase precontenziosa. Se desidera ampliare i limiti del giudizio, la Commissione deve espressamente offrire allo Stato interes- , sato la possibilità di presentare le proprie osservazioni.

Anche qualora la Commissione potesse ampliare, nel parere motivato, la qualificazione dell'allegato inadempimento basandosi sul fatto che la lettera con cui ha inizio il procedimento precontenzioso e il parere determinano, congiuntamente, l'oggetto del successivo procedimento contenzioso (sentenza 45/64, Commissione zi Italia, Racc. 1965, pag. 886), essa deve, in un caso in cui l'allegato inadempimento sia stato originariamente limitato da una specifica esclusione, farlo in modo espresso e non equivoco. Questa esigenza non è soddisfatta né dall'uno né dall'altro dei pareri motivati emessi nella fattispecie. -Al contrario, il riferimento all'aceto derivante dalla fermentazione, contenuto nel parere del 19 novembre 1979 induce a concludere in senso opposto, se, come ha spiegato in udienza l'agente della Commissione, alcuni tipi di aceto («aceti totalmente sintetici») vengono ottenuti mediante un processo chimico in cui non ha luogo la fermentazione.

Inoltre, se si deve ritenere che l'oggetto della controversia è definito dall'atto introduttivo (sentenza 232/78, Commissione e/ Francia, Race. 1979, pag. 2729, mi sembra che, qualora nel procedimento precontenzioso una determinata questione sia stata espressamente esclusa, la Commissione debba indicare chiaramente, nel ricorso proposto alla Corte, che essa intende modificare l'impostazione della controversia. Non mi pare che ciò sia stato fatto nella presente fattispecie.

A mio avviso, la situazione non può essere modificata né dall'argomento della Commissione secondo cui le difese del governo italiano sono le stesse per quanto riguarda l'acido acetico sintetico, né dal fatto che il governo italiano si sia riferito, nel controricorso, all'acido acetico sintetico.

Non condivido la tesi sostenuta dalla ricorrente, secondo cui nell'adire questa Corte a norma dell'art. 169 la Commissione è libera da qualsiasi vincolo imposto dalla propria lettera al governo interessato e dal proprio parere motivato, in ragione di quanto è stato affermato dalla Corte nella sentenza 28 maggio 1981 (cause riunite 142 e 143/80, Essevi e Salengo, ancora inedita). Al contrario, in quella sentenza (punto 15 della motivazione) la Corte ha dichiarato che il parere motivato serve a definire l'oggetto della controversia. La successiva considerazione della Corte, secondo cui i pareri motivati e le altre prese di posizione della Commissione ai sensi dell'art. 169 non possono stabilire in modo definitivo i diritti o gli obblighi derivanti dal Trattato agli Stati membri, non è affatto in contraddizione con quanto detto al precedente punto 15 della motivazione, né col punto di vista da me espresso.

A mio avviso, deve ritenersi che il presente' ricorso non si riferisce all'acido acetico sintetico.

L'agente della Commissione ha ammesso, a mio avviso giustamente, anche se con una certa riluttanza, che la Commissione è disposta, qualora la Corte lo consideri opportuno, a limitare il ricorso all'aceto derivante dalla fermentazione. Se ho ben capito, egli intendeva dire che la Commissione è disposta a restringere il presente ricorso all'aceto ottenuto dalla fermentazione di prodotti agricoli, escludendone qualsiasi altro tipo di aceto. Per i motivi già esposti, sono del parere che la Corte dovrebbe almeno dichiarare che è opportuno limitare la controversia all'aceto derivante dalla fermentazione di prodotti agricoli.

Qualora, invece, doveste ritenere che l'aceto sintetico è compreso nel ricorso, la Corte ha già indicato, e ciò risponde al mio personale convincimento, che le parti, incluso il governo francese, dovrebbero essere poste in condizioni di presentare ulteriori osservazioni su questo aspetto del problema.

Prendo quindi in considerazione i mezzi dedotti dalla Commissione, partendo dal presupposto che il ricorso in esame non comprenda anche l'aceto sintetico.

È stato sostenuto che il decreto n. 162 dà luogo a due distinte infrazioni del Trattato CEE. La prima infrazione è quella che deriverebbe dal divieto di importare e di mettere in commercio aceto non proveniente dalla fermentazione del vino, divieto sancito dall'art. 51 del suddetto decreto. Mi sembra chiaro che la Corte ha già trattato questo aspetto del problema nella causa 788/79, Gilli e Andres, dichiarando che un siffatto divieto è incompatibile con l'art. 30 del Trattato CEE, qualora si applichi all'aceto legalmente prodotto e messo in commercio in un altro Stato membro. Non ritengo che si possa accogliere la tesi secondo cui questa sentenza avrebbe efficacia limitata, in quanto emessa nell'ambito di un procedimento pregiudiziale a norma dell'art. 177, mentre ora si tratta di un procedimento ai sensi dell'art. 169. Quanto statuito in quella causa mi sembra doversi applicare anche nella presente fattispecie. Non sono stati svolti argomenti che possano convincere la Corte a discostarsi dalla sua precedente pronunzia. A mio avviso, anche nella presente causa la Corte dovrebbe dichiarare che l'art. 51 del decreto n. 162 e la sua applicazione sono incompatibili con l'art. 30 del Trattato CEE, qualora si tratti di aceto (diverso da quello sintetico) legalmente prodotto e messo in commercio in un altro Stato membro.

La seconda infrazione del Trattato CEE consisterebbe nel fatto che il decreto n. 162 vieta il commercio sotto la denominazione «aceto» di prodotti non ottenuti dalla fermentazione acetica del vino (divieto sancito dall'art. 41 del decreto). È stato sostenuto che questo divieto provoca, in Italia, un deprezzamento agli occhi dei consumatori degli aceti naturali ottenuti mediante fermentazione di sostanze diverse dal vino. Ad un certo momento, anzi, l'agente della Commissione ha dichiarato che il divieto rende detti aceti «quasi invendibili» nel paese in questione. Perciò, è stato sostenuto, il divieto equivale ad una normativa commerciale di carattere nazionale che può ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi comunitari e va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative, ai sensi della sentenza della Corte nella causa 8/74 (Dassonville, Race. 1974, pag. 837).

Ex adverso è stato sostenuto che, in Italia, il termine «aceto» significa per il consumatore aceto di vino, in quanto è il prodotto che corrisponde, sempre ed esclusivamente, alle sue abitudini di acquisto e di consumo. Di conseguenza, la relativa restrizione sarebbe giustificata.

Questo problema è ampiamente determinato dal fatto che, nonostante le risoluzioni del Consiglio 28 maggio 1969 (GU 1969, C 76, pag. 5) e 17 dicembre 1973 (GU 1973, C 117, pag. 1), non è stato adottato alcun provvedimento per l'armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di etichettatura dell'aceto.

In base alla precedente giurisprudenza della Corte, sembra doversi tener conto di due diversi principi.

Da una parte, la limitazione dell'uso di un termine generico per designare i prodotti posti in commercio può costituire una restrizione del genere di quelle vietate dall'art. 30. Ciò può avvenire, ad esempio, qualora la legislazione nazionale riservi l'uso di una determinata denominazione ai prodotti nazionali, costringendo in tal modo i produttori di altri Stati membri a ripiegare su denominazioni sconosciute o meno attraenti per il consumatore (cfr. sentenza 12/74, Commissione d Germania, Race. 1975, pag. 181 e, in particolare, pag. 198). Una siffatta limitazione può essere in contrasto con l'art. 30 anche qualora non sia discriminatoria, nel senso di riservare una determinata denominazione ai prodotti nazionali. Qualora, al contrario, la legislazione nazionale imponga l'obbligo di usare una determinata denominazione, in una determinata lingua, per tutti i prodotti di un certo tipo, ciò può equivalere ad una restrizione degli scambi fra Stati membri in quanto imponga agli importatori l'onere e la spesa di apporre sui loro prodotti nuove etichette (cfr. sentenza 27/80, Anton Adriaan Fietje, Racc. 1980, pag. 3839, emessa in una causa riguardante una normativa secondo cui l'importatore ha l'obbligo di usare una speciale etichetta recante la denominazione usata in commercio nel paese importatore; punto 10 della motivazione). Inoltre, uno Stato membro non può riferirsi all'art. 36 del Trattato CEE per sostenere che una siffatta restrizione, intesa alla tutela dei consumatori o alla lealtà dei negozi commerciali, è legittima. Né la tutela dei consumatori, né la realtà dei negozi commerciali sono menzionati a proposito delle deroghe ammese dall'art. 36; queste ragioni non possono quindi essere invocate nell'ambito del suddetto articolo (cfr. sentenza 17 giugno 1981, causa 113/80, Commissione e/ Irlanda, ancora inedita; punto 8 della motivazione).

D'altra parte, il divieto di usare una determinata denominazione per i prodotti posti in commercio non costituisce necessariamente una violazione dell'art. 30 del Trattato CEE, qualora venga indiscriminatamente applicato ai prodotti nazionali ed a quelli importati. Come è stato dichiarato dalla Corte nella sentenza 27/80, Anton Adriaan Fietje, al punto 11 della motivazione:

«Ove una normativa nazionale concernente un determinato prodotto stabilisca l'obbligo di usare una denominazione sufficientemente precisa per consentire all'acquirente di conoscere la natura del prodotto e di distinguerlo dai prodotti coi quali potrebbe essere confuso, può certamente essere necessario, onde fornire ai consumatori una tutela efficace, estendere quest'obbligo anche ai prodotti importati...»

Un divieto come quello suddetto può essere giustificato per difendere i produttori interessati dalla concorrenza sleale, come pure per impedire che i consumatori siano tratti in inganno da indicazioni fallaci (sentenza 12/74, Commissione zi Germania, loc. cit., pag. 194) Siffatti ostacoli vanno accettati — per usare la formulazione che si trova nella giurisprudenza di questa Corte — «qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere alle esigenze imperative attinenti, in particolare, ... alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori» (cfr. sentenze 120/78, Rewe zi Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, Racc. 1979, pag. 649 e, in particolare, pag. 662; 788/79, Gilli e Andres, Race. 1980, pag. 2078; 19 febbraio 1981, causa 130/80, Fabriek voor Hoogwaardige Voedingsprodukten Kelderman B.V., ancora inedita, punto 6 della motivazione). Qualsiasi diversa conclusione sarebbe in contrasto non solo con la giurisprudenza della Corte, ma anche col principio stabilito nell'art. 5 della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità (GU 1979, L 33, pag. 1). Questo articolo stabilisce, al n. 1, che la denominazione di vendita di un prodotto alimentare è la denominazione prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative ad esso applicabili o, in mancanza di essa, il nome consacrato dall'uso nello Stato membro nel quale il prodotto alimentare è venduto al consumatore finale.

Certamente, è un principio ben consolidato che il fatto che uno Stato membro imponga una restrizione analoga ai produttori nazionali non vale di per sé ad escludere che detto Stato violi gli obblighi ad esso incombenti in forza del Trattato CEE.

Nell'applicare questi principi ai fatti della presente causa, mi sembra che l'agente del Governo italiano abbia ammesso che il termine «aceto» è, sia sotto il profilo linguistico, sia in base alla tariffa doganale comune, l'esatta denominazione dell'«aceto» in genere. D'altra parte, l'unico aceto noto alla maggior parte dei consumatori in Italia è l'aceto di vino. Di conseguenza, il vietare assolutamente agli importatori di usare il termine «aceto» implica che i consumatori non saranno in grado di capire che il prodotto offerto in vendita è un aceto. Tale divieto sembra manifestamente atto ad ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari di aceti. D'altra parte, se i produttori designassero semplicemente come «aceto» il loro prodotto non derivato dal vino, ciò indurrebbe in inganno i consumatori, i quali, in Italia, presumerebbero trattarsi di aceto di vino, il che — in base alla statuizione contenuta nella sentenza della Corte cui ho fatto riferimento in precedenza (causa 27/80, Fietje) — può legittimamente essere impedito dalle autorità nazionali.

Di conseguenza, mi sembra che, allo stato attuale della legislazione, la Repubblica italiana non sia venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato per aver vietato l'uso del termine «aceto» per designare aceto non derivante dal vino. D'altra parte, essa è venuta meno ai suoi obblighi nella misura in cui vieta l'uso del termine «aceto», nel suo significato generico, accompagnato da un'altra parola o espressione la quale indichi che il prodotto deriva da una sostanza diversa dal vino, come, ad esempio, sidro o malto. L'eventualità, o anche il fatto, che i consumatori italiani possano inizialmente trovare inabituale o strana tale combinazione di parole non mi sembra sufficiente ad invalidare questa conclusione.

Qualora, discostandosi dal mio modo di intendere quanto è stato ammesso in udienza, la Corte non fosse convinta del fatto che il termine «aceto» ha il significato generico cui ho fatto riferimento, ritengo che la Repubblica italiana dovrebbe essere assolta dall'addebito di aver violato gli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato, tenuto conto dell'attuale situazione normativa.

A norma dell'art. 69 § 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. La Repubblica italiana non ha formulato conclusioni riguardo alle spese. Di conseguenza, non ritengo che si debba disporre in proposito a suo favore.

A mio avviso, quindi, la Corte dovrebbe dichiarare che la Repubblica italiana:

1)

è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti a norma del Trattato CEE in quanto vieta l'importazione e le successive operazioni commerciali per i prodotti destinati ad uso alimentare diretto o indiretto contenenti acido acetico (diverso dall'acido acetico sintetico) non proveniente dalla fermentazione acetica del vino e di prodotti derivanti dalla fermentazione acetica del vino che non possono essere qualificati «aceto» in base all'art. 41 del D.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162;

2)

non è venuta meno ai suddetti obblighi col vietare l'uso del termine «aceto» per designare prodotti non ottenuti dalla fermentazione acetica del vino;

3)

è venuta meno ai suddetti obblighi col vietare l'uso del termine «aceto» accompagnato da altre parole che indichino in modo sufficientemente chiaro che il prodotto deriva da una materia prima diversa dal vino.


( 1 ) Traduzione dall'inglese.