CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

FRANCESCO CAPOTORTI

DELL'8 NOVEMBRE 1979

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

Nella presente causa pregiudiziale è stato chiesto alla nostra Corte di interpretare due norme contenute nel regolamento del Consiglio n. 1162/76, del 17 maggio 1976 (modificato dal regolamento n. 2776/78 del 23 novembre 1978), il quale stabilì «misure intese ad adeguare il potenziale viticolo alle esigenze del mercato». Si tratta, più precisamente, di definire la portata dell'articolo 2, paragrafo, 1, di tale regolamento, che al 1o comma ha proibito, per un certo periodo di tempo, d'impiantare nuovi vigneti appartenenti alla categoria della varietà di uva da vino, e al 2o comma ha vietato agli Stati membri di concedere autorizzazioni per nuovi im-pianti. L'interesse della questione è accresciuto dal fatto che la Corte è chiamata anche a verificare la validità delle norme in esame, sotto il profilo della loro compatibilità con i principi dell'ordinamento comunitario, e in particolare con i principi attinenti alla protezione dei diritti dell'uomo.

Riassumo brevemente i fatti di causa.

La signora Liselotte Hauer, proprietaria di un terreno agricolo sito nella Repubblica federale, chiese al Land Renania-Palatinato di essere autorizzata ad effettuare nuovi impianti di viti su questo terreno, ai sensi della legge tedesca del 10 marzo 1977 recante provvedimenti per il settore vitivinicolo (Weinwirtschaftsgesetz). Il Land respinse la domanda, ritenendo che il fondo non presentasse il requisito della idoneità alla viticoltura, richiesto dal paragrafo 1, n. 2, della anzidetta legge, e successivamente respinse anche l'opposizione proposta dalla signora Hauer contro il provvedimento negativo. La decisione di rigetto venne motivata non solo in base alla circostanza della inidoneità del terreno, ma anche con riferimento al «divieto di nuovi impianti delle varietà di viti classificate … nella categoria delle varietà per uva da vino» che era stato nel frattempo introdotto dal regolamento del Consiglio 1162/76.

La questione è stata allora portata dalla signora Hauer davanti al Tribunale amministrativo di Neustadt an der Weinstraße, e in questa sede il Land convenuto si è dichiarato disposto a concedere l'autorizzazione richiesta quando avrà termine il divieto comunitario che attualmente lo impedisce. La ricorrente da parte sua ha sostenuto che il divieto non poteva essere applicato nei confronti di domande di autorizzazione presentate prima dell'entrata in vigore del regolamento 1162/76 e che, comunque, esso era illegittimo, perché in contrasto con gli articoli 12 e 14 della Costituzione della Repubblica federale. Il Tribunale, con ordinanza del 14 dicembre 1978, ha rivolto a questa Corte, in via pregiudiziale, i seguenti quesiti:

«1.

Se il regolamento CEE del Consiglio delle Comunità europee 17 maggio 1976, n. 1162 (GU L 135, del 24. 5. 1976, pag. 32), nella versione di cui al regolamento CEE del Consiglio 23 novembre 1978, n. 2776 (GU L 333, del 30. 11. 1978, pag. 1), vada interpretato nel senso che il suo articolo 2, n. 1, s'applica anche alle domande di autorizzazione per i nuovi impianti di viti già presentate prima dell'entrata in vigore del suddetto regolamento,

e, per il caso di soluzione affermativa della questione sub 1),

2.

se l'articolo 2, n. 1, del suddetto re-golamento vada interpretato nel senso che il divieto di concedere autorizzazioni per i nuovi impianti, ivi sancito, vale — a prescindere dalle eccezioni contemplate dall'articolo 2, n. 2, del regolamento — in assoluto, vale a dire, in particolare, indipendentemente dalla questione della inidoneità del terreno, disciplinata dal paragrafo 1, 1o comma, 2a frase, e 2o comma, della legge tedesca re-cante provvedimenti per il settore vitivinicolo (Weinwirtschaftsgesetz) nella versione del 10 marzo 1977 (BGBl. I, pag. 453)»

2. 

Mi sembra opportuno cominciare con l'illustrare le fonti giuridiche comunitarie che vengono in considerazione nella presente causa, soprattutto perché ci troviamo di fronte a fonti che si sono succedute con lievi varianti nell'arco degli ultimi anni.

Il regolamento del Consiglio 816/70 del 28 aprile 1970, «relativo a disposizioni complementari in materia di organizzazione comune del mercato vitivinicolo», all'articolo 17, paragrafo 5, prevedeva che se la produzione vitivinicola «tende a superare le utilizzazioni prevedibili rischiando di compromettere il reddito dei viticoltori, il Consiglio adotta…le disposizioni necessarie in materia di nuovi impianti o reimpianti di viti al fine di evitare la formazione di eccedenze strutturali». Sulla linea tracciata da questa norma, il Consiglio emanò, sei anni dopo, il citato regolamento 1162/76 del 17 maggio 1976, introducendo, per il periodo dal 1o dicembre 1976 al 30 novembre 1978, il divieto di nuovi impianti di viti di cui si discute nella presente procedura. Lo stesso regolamento stabilì poi (all'articolo 5) che il Consiglio avrebbe adottato, entro il 1o ottobre 1978, le misure «necessarie a garantire l'adeguamento del potenziale viticolo alle esigenze del mercato, tenendo conto della vocazione viticola delle varie zone della Comunità e dell'esistenza, in ciascuna delle varie regioni, di alternative valide in materia di colture agricole». Ma il termine previsto è trascorso senza che siano state adottate queste misure, le quali — a differenza del divieto transitorio di nuovi impianti — dovrebbero fornire una soluzione a lungo termine del problema delle eccedenze strutturali nel settore vitivinicolo. Perciò il Consiglio, col regolamento 2776/78 del 23 novembre 1978 ha prorogato la disciplina esistente fino al 30 novembre 1979, e ha fissato per l'adozione di misure di più ampia portata il nuovo termine del 1o ottobre 1979 (ormai scaduto e, a quanto pare, non rispettato).

Nel corso di quest'anno, il Consiglio ha proceduto ad una serie di interventi di natura codificatoria nel settore dell'organizzazione comune del mercato vitivinicolo. Così il regolamento 816/70 è stato abrogato e sostituito dal regolamento 337/79 del 5 febbraio 1979; e in particolare l'articolo 17, paragrafo 5, del regolamento 816/70 è stato sostituito dall'articolo 31, paragrafo 5, del regolamento 337/79. Si è trattato però di una sostituzione puramente formale, dato che le due disposizioni hanno identico contenuto. Egualmente, il regolamento 1162/76 è stato abrogato e sostituito dal regolamento 348/79 del 5 febbraio 1979: ma anche in questo caso non c'è stata modifica delle disposizioni materiali precedenti, né quindi dei termini fissati per il divieto di nuovi impianti di viti e per l'adozione di misure strutturali.

3. 

Il primo quesito sottoposto alla Corte dal giudice di merito riguarda un problema di diritto transitorio. Si domanda, come abbiamo visto, se l'articolo 2, paragrafo 1, del regolamento 1162/76 (corrispondente all'articolo 2, paragrafo 1, del regolamento 348/79 che lo ha sostituito) sia applicabile anche a richieste di autorizzazione di nuovi impianti viticoli presentate alle autorità nazionali prima dell'entrata in vigore del regolamento stesso. Osservo in proposito che il regime attuale dell'organizzazione comune di mercato nel settore vitivinicolo non prevede un'autorizzazione comunitaria per i nuovi impianti di vigne, né impone agli Stati membri d'introdurre nei rispettivi ordinamenti un'autorizzazione del genere; tuttavia, alcuni Stati, e in particolare la Repubblica federale, subordinano i nuovi impianti ad una autorizzazione amministrativa su domanda dei privati interessati, ed è evidentemente con riguardo a queste situazioni che il quesito poc'anzi ricordato è stato re-datto. Risulta infatti dal fascicolo di causa che l'attrice nella causa principale, signora Hauer, richiese l'autorizzazione alle autorità germaniche il 6 giugno 1975, data alla quale ancora non esistevano i due divieti comunitari; questi entrarono in vigore quasi un anno dopo, e precisamente il 27 maggio 1976 (cfr. l'articolo 6 del regolamento 1162), allorché la procedura amministrativa promossa dalla signora Hauer nella Repubblica federale per il rilascio dell'autorizzazione era ancora pendente.

A mio avviso, i divieti di cui al citato articolo 2, paragrafo 1, del regolamento 1162/76 comprendono anche i casi, in cui l'interessato abbia fatto domanda di autorizzazione per un nuovo impianto prima dell'entrata in vigore del regolamento anzidetto. Depongono in favore di questa interpretazione molteplici ele-menti.

In entrambi i suoi aspetti (divieto di nuovi impianti, e di nuove autorizzazioni a tal fine) la norma in questione è cosi chiara e perentoria che non lascia adito a dubbi di sorta. Non vedo in base a quali argomenti potrebbero essere escluse dalla sfera d'applicazione di tali disposizioni le ipotesi in cui gli interessati abbiano chiesto alle autorità nazionali un'autorizzazione prima dell'entrata in vigore del regolamento. Mi sembra che l'articolo 4 del medesimo testo confermi l'esattezza dell'interpretazione che ho prospettato. L'articolo in questione stabilisce che «il periodo di validità dei diritti di impianto o di reimpianto acquisiti in base alle legislazioni nazionali alla data di entrata in vigore del presente regolamento è prorogato di una durata equivalente» a quella del divieto, e che «durante questo periodo l'esercizio di tali diritti è sospeso». Dal contenuto di tale norma risulta che il legislatore comunitario ha considerato meritevole di tutela la posizione di chi avesse ottenuto l'autorizzazione ad eseguire nuovi impianti prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina e non ne avesse ancora fatto uso; ma solo questa posizione. In realtà, se appariva giustificato tutelare soggetti che avessero una posizione giuridica consolidata, non altrettanto giustificato sarebbe stato disporre a favore di soggetti che si fossero limitati a presentare alle autorità nazionali competenti una domanda di autorizzazione. D'altra parte, la tutela prevista dal citato articolo 4 consiste nella sospensione degli effetti delle autorizzazioni ottenute: ciò significa che il divieto di nuovi impianti si applica anche nei confronti di chi abbia già acquisito il diritto ad effettuarli, e che il solo beneficio accordato ai soggetti i quali si trovino in tale situazione sta nel risparmiare loro la necessità di una nuova procedura di autorizzazione al momento in cui il divieto sarà venuto meno.

Se poi si ha riguardo agli scopi della nuova normativa, si trova un'ulteriore conferma della tesi da me accolta. Con il regolamento 1162/76 il legislatore comunitario si proponeva di realizzare nel settore vitivinicolo l'adeguamento del potenziale produttivo al fabbisogno del mercato. Gli strumenti messi in atto immediatamente per conseguire tali risultati erano il divieto di nuovi impianti (salve le possibilità di esonero previste dall'articolo 2, paragrafo 2) e il divieto agli Stati membri di rilasciare nuove autorizzazioni. Si trattava evidentemente di misure di carattere temporaneo, destinate ad essere sostituite a medio termine da un insieme articolato d'interventi: ho già avuto occasione di sottolineare che l'articolo 5 dello stesso regolamento prevedeva l'adozione, entro il 1o ottobre 1978 (termine poi prorogato al 1o ottobre 1979), di misure non provvisorie, le quali tenessero conto della vocazione viticola delle varie regioni della Comunità e dell'esistenza in ciascuna regione di alternative valide in materia di coltura agricola. Dato dunque che la finalità perseguita era quella di contenere con effetti immediati la produzione in attesa di adottare appropriate misure strutturali, era logico che il divieto di nuovi impianti si estendesse ai casi in cui fosse pendente una procedura di autorizzazione, e anzi addirittura ai casi in cui una autorizzazione fosse già stata rilasciata ma non usata (come risulta dal citato articolo 4). Il meccanismo per impedire l'aumento della produzione dei vini da tavola sarebbe stato non solo lacunoso, ma contraddittorio se da un lato avesse vietato nuovi impianti e bloccato l'efficacia delle autorizzazioni già concesse e dall'altro avesse consentito il rilascio di autorizzazioni in favore di chi ne avesse fatta domanda prima dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni.

Ecco perché giustamente il secondo comma dell'articolo 2, paragrafo 1, ha vietato agli Stati membri di rilasciare autorizzazioni per effettuare nuovi im-pianti, a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento. Questo divieto impedisce in modo assoluto che una procedura di autorizzazione iniziata prima di quella data si concluda, successivamenta ad essa, con l'accoglimento della domanda. Aggiungo che, di fronte alla netta formulazione dell'obbligo negativo imposto agli Stati membri, è inammissibile supporre che il sistema del congelamento delle autorizzazioni già accordate, in forza del citato articolo 4 del regolamento, renda lecita la prosecuzione di pratiche di autorizzazione in corso, fino al rilascio dell'autorizzazione, con il solo limite della sospensione dei loro effetti. Basterebbe d'altronde osservare che l'articolo 4 ha prorogato il periodo di validità dei diritti di impianti di vigne acquisiti alla data di entrata in vigore del regolamento: ciò implica che, coerentemente con quanto dispone l'articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, si è esclusa ogni possibilità di acquisire diritti del genere successivamente a quella data.

4. 

Il secondo quesito sottoposto alla nostra Corte riguarda la portata più o meno ampia del divieto di autorizzare nuovi impianti: vi si chiede se esso riguardi tutti i terreni o solo quelli non idonei alla coltura di uve da vino.

Non vi è ragione di supporre che il regolamento 1162/76 (come il successivo regolamento 348/79) vieti agli Stati membri di accordare nuove autorizzazioni di impiantare vigne solo per i terreni che si ritengono inadatti alla viticoltura. Il divieto ha una evidente portata generale: lo si deduce dalla formulazione dell'articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, che non accenna per nulla alla idoneità dei terreni alla viticoltura. Sarebbe quindi assolutamente arbitrario introdurre limitazioni o eccezioni ad una norma, che non ne contiene.

Un accenno alla qualità dei terreni lo troviamo nell'articolo 5, paragrafo 1, laddove si stabiliscono i criteri ai quali dovranno ispirarsi le misure previste per riequilibrare stabilmente il mercato; al primo trattino, infatti, si precisa che queste misure terranno conto «della vocazione viticola delle varie regioni della Comunità». Questo elemento è stato più largamente sviluppato nel programma d'azione 1979-1985 per l'instaurazione progressiva dell'equilibrio sul mercato vitivinicolo, trasmesso dalla Commissione al Consiglio il 7 agosto 1978; al punto 9 di tale programma, infatti, si propone «una classificazione obbiettiva dei vigneti comunitari per vino da tavola secondo la loro naturale vocazione viticola più o meno riconosciuta». In base a questo criterio, i terreni verrebbero suddivisi in tre categorie e i nuovi impianti sarebbero consentiti, entro certi limiti e dietro autorizzazione, soltanto per i vigneti di prima categoria (cfr. Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 7/78, p. 7 e seguenti). L'elemento dell'«idoneità dei terreni» costituisce, dunque, un aspetto importante delle misure strutturali che la Commissione propone d'introdurre, sulla traccia di una precisa indicazione in tal senso contenuta nei regolamenti del Consiglio; ma esso è assolutamente estraneo alla logica transitoria dei divieti stabiliti con il regolamento 1162 e successivamente confermati, e in particolare del divieto imposto agli Stati membri di accordare nuove autorizzazioni di im-pianti di vigne.

5. 

Al di là delle domande formulate dal giudice di merito, il problema della legittimità dei divieti stabiliti dal regolamento 1162/76 è stato sollevato nell'ordinanza di rinvio (anche se in termini non appropriati perché riferiti al diritto costituzionale germanico) e dibattuto nel corso di questa procedura. Mi sembra perciò il caso di affrontare tale problema, tanto più in quanto il giudice di merito sembra ritenere che l'interpretazione del citato articolo 2, paragrafo 1, nel senso da me suggerito darebbe luogo a dubbi circa la validità della norma, alla stregua di principi fondamentali. In tale ordine di idee, la prima questione che conviene esaminare è se l'articolo 2, paragrafo 1, del re-golamento 1162/76 sia compatibile con il principio del rispetto dei diritti quesiti o con quello del legittimo affidamento.

A me sembra che sia fuor di luogo, nella specie, parlare di violazione di diritti quesiti. La regola non scritta del rispetto dei diritti quesiti concerne, infatti, secondo la giurisprudenza della nostra Corte, la salvaguardia di situazioni maturatesi prima dell'adozione delle norme modificative; concerne, cioè, posizioni giuridiche consolidate (v. in particolare la sentenza 18 marzo 1975 nella causa 78/74, Deuka, Raccolta 1975, pag. 422). Ma nel nostro caso la ricorrente nella causa principale non era titolare di alcuna posizione giuridica consolidata nel momento in cui vennero introdotti il divieto d'impiantare nuovi vigneti e quello di rilasciare autorizzazioni a tal fine; ella aveva semplicemente presentato una do-manda di autorizzazione, ed io credo si debba escludere che la mera presentazione di una domanda attribuisca all'in-dividuo una posizione giuridica definitiva e meritevole di tutela, anche di fronte a successivi interventi di natura legislativa. D'altra parte è significativo il fatto che lo stesso regolamento 1162, nel già citato articolo 4, si riferisce a diritti quesiti in materia di autorizzazioni a nuovi im-pianti, là dove prevede che «i diritti di impianti … acquisiti in base alle legislazioni nazionali» sino all'entrata in vigore del regolamento siano prorogati per la durata del divieto, pur restando frattanto sospesi: ciò dimostra che il legislatore comunitario ha riconosciuto come diritti quesiti soltanto le posizioni di coloro che avevano già ottenuto le autorizzazioni al momento dell'entrata in vigore dei divieti qui esaminati.

Mancano egualmente i presupposti per potersi parlare, nel presente caso, di le gittimo affidamento. Secondo la giurisprudenza della nostra Corte, il principio del legittimo affidamento può essere invocato da chi abbia intrapreso una certa attività, contando ragionevolmente sul fatto che il quadro normativo, nel cui ambito tale attività era destinata a svilupparsi, non avrebbe subito modifiche. Ora, noi sappiamo che la ricorrente nella causa principale si è limitata a presentare una domanda di autorizzazione ad eseguire nuovi impianti di vigne, e non mi pare che il semplice proposito di attuare nuove colture meriti tutela in nome del principio del legittimo affidamento, allorché nessuna attività economicamente apprezzabile è stata posta in essere o anche soltanto iniziata. Questa considerazione basterebbe già ad escludere qualsiasi rilevanza alla censura in questione; ma può aggiungersene una seconda. Come ho avuto occasione di osservare nelle mie conclusioni nella causa British Beef Company c/ Intervention Board of Agricultural Produce (causa 146/77, in Raccolta 1978, pag. 1361), il criterio centrale, che emerge dalla vostra giurisprudenza in materia di legittimo affidamento, può riassumersi nell'affermazione che il suddetto principio non può essere correttamente invocato «quando la possibilità di una modifica normativa è ragionevolmente prevedibile …». Orbene, sappiamo che il regolamento 816/70, dopo avere asserito nel ventitreesimo considerando che «l'organizzazione comune deve mirare … alla stabilizzazione dei mercati tramite un adeguamento delle risorse al fabbisogno, basato in particolare sul riassetto delle superfici destinate alla viticoltura», prevedeva, all'articolo 17, paragrafo 5, che in caso di eccedenze di produzione sarebbero state adottate «le disposizioni necessarie in materia di nuovi impianti … di viti, al fine di evitare la formazione di eccedenze strutturali». Perciò la successiva introduzione di un divieto di nuovi im-pianti, come misura transitoria in attesa di interventi più articolati, deliberata nel 1976 proprio sulla base del citato articolo 17, paragrafo 5, del regolamento 816/70, non poteva costituire una innovazione imprevedibile per gli operatori interessati al settore vitivinicolo. Anche sotto questo profilo dunque le norme del 1976 appaiono campatibili con il principio del legittimo affidamento.

6. 

Uh altro principio, al quale la difesa della ricorrente si è riferita nella procedura orale, sostenendo che esso sarebbe stato violato dal divieto di autorizzare nuovi impianti di vigne posto a carico degli Stati membri, è quello di proporzionalità. Tale divieto rappresenterebbe infatti una limitazione non necessaria e comunque non proporzionata rispetto alle finalità che il regolamento persegue. L'economia del provvedimento — si osserva — sarebbe rimasta integra se si fosse consentito alle autorità nazionali di rilasciare autorizzazioni anche nel periodo in cui vige il divieto di nuovi im-pianti, e ci si fosse limitati a stabilire la sospensione degli effetti delle autorizzazioni concesse in tale arco di tempo, a somiglianza di quanto è previsto, all'articolo 4, per le autorizzazioni rilasciate prima dell'entrata in vigore del regolamento e non ancora utilizzate.

Una censura del genere non mi pare fondata. Nell'economia del regolamento 1162/76 il divieto di nuovi impianti è in realtà strettamente legato alle misure inerenti alle autorizzazioni, e consistenti da un lato nel divieto di rilasciare nuove autorizzazioni e dall'altro nella sospensione degli effetti per le autorizzazioni perfezionate prima dell'entrata in vigore del regolamento. Per conseguire l'obbiettivo del regolamento, e cioè per ottenere un apprezzabile contenimento della produzione viticola, era infatti indispensabile intervenire sia a livello delle autorizzazioni, che a livello degli impianti, e, quanto alle autorizzazioni, era opportuno bloccarne contemporaneamente sia il rilascio che l'utilizzazione. Consentire il rilascio di nuove autorizzazioni, lasciandole nel contempo sospese, non sarebbe stato, a mio avviso, né utile né ragionevole. Non sarebbe stato utile, perché non ha senso che l'autorità nazionale autorizzi un'attività la quale, per un certo periodo di tempo, non può essere esercitata. Non sarebbe stato ragionevole per difetto di coerenza con gli indirizzi della politica comunitaria in materia viticola. Sappiamo infatti che la Commissione propone di istituire in tutti gli Stati una forma di autorizzazione ai nuovi im-pianti, subordinata alla presenza di una serie di condizioni (cfr. il Programma d'azione 1979-1985 per l'instaurazione progressiva dell'equilibrio sul mercato vitivinicolo, già richiamato: si sarebbe corso il rischio di compromettere questa linea politica lasciando le autorità nazionali libere di continuare a rilasciare autorizzazioni destinate ad avere effetto dopo la cessazione del divieto di nuovi impianti.

Il divieto di autorizzare siffatti impianti rivolto agli Stati membri si inserisce, dunque, coerentemente nell'insieme del provvedimento ed appare proporzionato agli obbiettivi da conseguire. Il sacrificio imposto ai privati — che in questo caso si riduce a un ritardo nella procedura di autorizzazione — trova infatti riscontro nella maggiore razionalità del sistema globale di divieti, anche in vista delle future misure strutturali, preannunciate nello stesso regolamento 1162, all'articolo 5.

7. 

Resta da esaminare il punto di maggiore interesse che si presenta nel quadro della valutazione relativa alla legittimità delle norme controverse. Mi riferisco alla questione della compatibilità di tali norme con il principio fondamentale del rispetto della proprietà privata, comune agli ordinamenti giuridici degli Stati membri e sancito nell'articolo 1 del primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Prima di entrare nel merito di tale questione desidero ricordare e ribadire che la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei princìpi giuridici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l'osservanza (v. in questo senso le sentenze 12 novembre 1969 nella causa 26/69, Stauder, Raccolta 1969, pag. 419, e 17 dicembre 1970 nella causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, Raccolta 1970, pag. 1125; nonché successivamente le sentenze 14 maggio 1974 nella causa 4/73, Nold, Raccolta 1974, pag. 491; 28 ottobre 1975 nella causa 36/75, Rutili, Raccolta 1975, pag. 1219, e 15 giugno 1978 nella causa 149/77, Defrenne). In base a questa giurisprudenza, dunque, la Corte comunitaria è competente ad assicurare la protezione dei diritti fondamentali quando su di essi possano incidere atti delle autorità comunitarie; la citata sentenza Nold ha chiarito che, nello svolgimento di questo compito, essa è tenuta ad ispirarsi «alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e deve tener conto degli elementi forniti dai Trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell'uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito. Va anche detto però — sempre sulla scorta della sentenza Nold — che «appare legittimo sottoporre tali diritti a taluni limiti giustificati dagli obbiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità, purché non resti lesa la sostanza dei diritti stessi»

Muovendo da queste premesse deve essere respinta l'idea che sia lecito ricorrere alle più alte Corti nazionali, anziché a questa Corte, per ottenere la tutela dei diritti fondamentali nei confronti delle Comunità, in particolare nell'ipotesi in cui si ravvisino violazioni per effetto dell'attività normativa comunitaria. Spetta esclusivamente al giudice comunitario garantire questa tutela, nel quadro delle sue competenze: l'uniformità di applicazione del diritto comunitario e la sua priorità rispetto agli ordinamenti degli Stati membri non devono essere messe a repentaglio dall'intervento di giudici nazionali, quando si tratta di stabilire la conformità o meno di norme comunitarie ai princìpi relativi ai diritti dell'uomo.

Venendo al merito, occorre stabilire in qual senso e fino a che punto il diritto di proprietà sia protetto nell'ordinamento comunitario. I punti di riferimento per risolvere questo problema sono essenzialmente i princìpi accolti nei diritti degli Stati membri e la norma ad hoc contenuta nel primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Quanto ai Trattati comunitari, sono d'avviso che la regola espressa nell'articolo 222 Trattato CEE, secondo cui il regime di proprietà esistente negli Stati membri è «del tutto impregiudicato» impedisce di ritenere che la proprietà privata sia, nel diritto delle Comunità, più nettamente salvaguardata, o al contrario concepita in modo restrittivo: la verità è che — a parte i limiti esplicitamente posti da qualche norma dei Trattati, e soprattutto di quello istitutivo della CEEA — l'articolo citato conferma che i Trattati non hanno voluto imporre agli Stati membri o introdurre nell'ordinamento comunitario nessuna nuova concezione o regolamentazione della proprietà.

Ciò premesso, l'esame delle norme vigenti nei sistemi giuridici degli Stati membri (quasi sempre a livello costituzionale) permette di constatare che, al di là delle formulazioni molto diverse per linguaggio e per ampiezza, il diritto di proprietà è oggetto di tre disposizioni fondamentali: quella che riconosce la proprietà privata garantendola contro ogni forma di privazione arbitraria (v. ad esempio art. 14, 1o comma, della. Costituzione della Repubblica federale, art. 42, 2o comma, della Costituzione italiana, art. 2 della Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, art. 43, paragrafo 1, della Costituzione irlandese); quella che ammette la possibilità di espropriazione nell'interesse pubblico, e contro indennizzo (v. ad esempio art. 14, ultimo comma, della Costituzione della Repubblica federale, art. 42, 3o comma, della Costituzione italiana, art. 17 della Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino, art.. 11 della Costituzione belga, art. 16 della Costituzione lussemburghese, art. 165 della Costituzione olandese, art. 73 della Costituzione danese) e infine quella che rimette alla legge la determinazione di limiti nell'uso della proprietà (v. per esempio art. 14, 1o comma, della Costituzione della Repubblica federale, art. 42, 2o comma, e 44 della Costituzione italiana, art. 43, paragrafo 2, della Costituzione irlandese). La sintesi di queste tre disposizioni fondamentali si ritrova nell'articolo 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Vale la pena di citarlo integralmente: «Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può esser privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi giudicate necessarie per regolare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altre contribuzioni o delle ammende»

La conclusione che può trarsi da questa breve analisi è che le tre regole sancite dal citato articolo 1 del primo Protocollo aggiuntivo, coincidendo con la tendenza prevalente nei sistemi giuridici degli Stati membri, debbono ritenersi accolte nell'ordinamento comunitario. In realtà, la coincidenza non è sicura su di un punto importante, vale a dire sul diritto a indennizzo di chi subisce un atto di espropriazione, dato che un tale diritto non è esplicitamente previsto dall'articolo 1 del primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea. La formulazione di questa disposizione, che rinvia come si è visto alle condizioni previste dalle legislazioni nazionali e ai principi generali di diritto internazionale (tradizionalmente applicabili solo a beneficio degli stranieri) può far dubitare che, per essere legittima alla stregua del sistema europeo di protezione dei diritti dell'uomo, una espropriazione debba in ogni caso essere accompagnata dalla corresponsione di un indennizzo. La giurisprudenza della Commissione europea dei diritti dell'uomo registra in proposito due prese di posizione in senso diverso: si va dall'espressa negazione della necessità costante di un indennizzo nei confronti dei cittadini (v. la decisione del 16 dicembre 1965, nel caso X. c/ Repubblica federale di Germania, Requête n. 1870/63) all'affermazione secondo cui la formula «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni» tutelerebbe allo stesso modo cittadini e stranieri, con la conseguenza che anche ai cittadini do-vrebbe essere riconosciuto il diritto all'indennizzo (Rapporto 30 settembre 1975 sul caso Handyside, Requête 5493/72, paragrafi 158 e seguenti). A mio avviso, l'orientamento accolto nel caso più re-cente è l'indice di un significativo mutamento di giurisprudenza; in ogni caso, a livello comunitario, l'obbligo di corrispondere ai soggetti espropriati un equo indennizzo dovrebbe essere riconosciuto in conformità alla tendenza largamente condivisa dagli ordinamenti degli Stati membri.

8. 

Nel caso di specie, si tratta anzitutto di qualificare il divieto di nuovi impianti di vigne (e il connesso divieto imposto agli Stati membri di autorizzare nuovi impianti) come misura di espropriazione o di semplice limitazione del diritto di proprietà. A mio avviso, la risposta non è difficile. La prima considerazione da fare è questa: i destinatari di quel divieto non sono stati certo privati del loro diritto di proprietà che essi restano liberi di conservare per sé o di trasferire ad altri, e il cui contenuto appare soltanto ridotto, nella misura in cui i divieti hanno temporaneamente bloccato la particolare possibilità di sfruttamento del fondo, consistente nell'impianto di vigne. Per la scelta fra l'una o l'altra qualificazione dei divieti, il carattere temporaneo della mi-sura ha la sua importanza, perché anche se si ammettesse il concetto di espropriazione limitata ad uno soltanto degli usi di un bene (concetto a mio avviso equivoco e in definitiva inesatto) bisognerebbe per lo meno trovarsi in presenza di una privazione definitiva di quell'uso. Tengo a precisare che non -ritengo con ciò che ogni privazione definitiva di un determinato uso di un bene rientri nella categoria delle espropriazioni; mi limito a notare che, se di espropriazione sì trattasse, essa dovrebbe avere natura definitiva.

A proposito del carattere temporaneo delle misure qui esaminate, non credo possa avere rilevanza decisiva il fatto che il divieto di nuovi impianti, introdotto inizialmente per la durata di due anni, sia stato in seguito prorogato per un altro anno e che sia oggi possibile — come ha affermato lo stesso rappresentante della Commissione — una ulteriore proroga. Occorre infatti considerare che la misura in questione è congiunturale, nel senso che è stata adottata come strumento provvisorio per ovviare ad una eccedenza produttiva che si avviava a divenire strutturale; e che gli Stati membri stanno attualmente negoziando in seno al Consiglio per porre rimedio stabilmente agli squilibri produttivi e di mercato nel settore vitivinicolo mediante l'adozione di un gruppo di misure articolate, di vasta portata. Ora, l'adozione di questo pacchetto di misure richiede ragionevolmente del tempo affinché le posizioni delle parti interessate possano avvicinarsi e convergere verso un assetto dell'organizzazione comune del mercato vitivinicolo più complessa e anche più integrata di quella attuale. È evidente che, in attesa di questi più larghi interventi, debba frattanto farsi ricorso a rimedi temporanei, per evitare che la situazione generale si deteriori ulteriormente. Secondo questa logica, mi sembra che il mantenimento per un triennio del divieto di nuovi impianti ed anche la stessa prospettiva di una ulteriore proroga di esso siano ampiamente giustificati, conservino il carattere di misure transitorie in vista di un assetto più integrato del mercato e non si risolvano quindi in una privazione del diritto di proprietà.

Un altro elemento che può venire in considerazione nel decidere se una misura restrittiva della proprietà abbia o no natura di espropriazione è quello dell'entità del sacrificio economico imposto ai destinatari della misura. In linea generale, è raro che l'utilizzazione agricola di un terreno sia possibile solo destinandolo a una determinata coltura, con la conseguenza che, esclusa questa, il terreno re-sterebbe privo di apprezzabile valore economico. È nozione di comune esperienza che un terreno agricolo è per lo più suscettibile di differenti utilizzazioni anche se non tutte presentano la medesima redditività (e ciò a prescindere dall'ipotesi di conversione per uso non agricolo). Nel caso di specie, poi, un'affer-mazione del genere sarebbe ancora più inconsistente, considerato che il terreno della signora Hauer non era destinato in precedenza alla viticoltura, così che può ragionevolmente supporsi che esso avesse una diversa utilizzazione agricola. E il fatto che i divieti comunitari precludano un impiego più vantaggioso è irrilevante, poiché basta ad escludere la funzione espropriativa dell'intervento comunitario che il terreno conservi nonostante tale intervento un apprezzabile significato economico.

Le considerazioni formali e quelle sostanziali convergono, dunque, verso il risultato di escludere che si sia avuta nella specie una misura di espropriazione. Perciò non vi è motivo di affrontare, nella specie, la questione del mancato indennizzo: non vi erano in realtà i presupposti affinché un indennizzo potesse essere preteso dall'interessata.

9. 

Nel campo della imposizione di limiti all'uso dei beni, abbiamo visto che l'articolo 1 del primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo esige due condizioni: e cioè che i limiti vengano stabiliti per legge e che la regolamentazione sia conforme all'interesse generale. Conviene tuttavia osservare pure che la norma riconosce agli Stati un notevole margine di discrezionalità, parlando delle leggi «da essi giudicate necessarie» per regolare l'uso dei beni. Evidentemente, se al posto delle autorità statali vengono a trovarsi le istituzioni comunitarie, la condizione del ricorso alla legge si traduce in quella dell'impiego del regolamento; la qual cosa è avvenuta nel caso di specie. Rimane il problema della conformità all'interesse generale, nel cui apprezzamento le istituzioni comunitarie hanno, beninteso, lo stesso potere discrezionale riconosciuto agli Stati.

Nel nostro caso, il limite che è stato imposto ai proprietari di terreni col divieto generalizzato di nuovi impianti viticoli trova indubbiamente una giustificazione in ragioni di interesse generale, riferite al funzionamento del sistema comunitario. Abbiamo già visto che la misura restrittiva in questione, prevista come eventuale forma d'intervento nel regolamento 816/70, fu adottata nel 1976 per contenere la produzione e riequilibrare il mercato. Tale misura era sicuramente necessaria per raggiungere nel settore vitivinicolo gli obbiettivi della politica agricola fissati nell'articolo 39 del Trattato e in particolare per assicurare la stabilizzazione del mercato (aspetto considerato al paragrafo 1, lettera c) del citato articolo 39). Esisteva infatti una situazione di sovrapproduzione, come risulta chiaramente dalla relazione che accompagna il programma d'azione della Commissione per il periodo 1979-1985 per l'instaurazione progressiva dell'equilibrio sul mercato vitivinicolo (Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 7/78, special-mente pag. 19 e seguenti). D'altra parte si trattava di una misura transitoria, legata, giova ripeterlo, ad un riassetto strutturale dell'organizzazione comune del mercato vitivinicolo, e riguardante solo i nuovi impianti; imposta, cioè, solo a quei proprietari che non avessero ancora installato vigneti.

Non ritengo che il punto di vista da me sostenuto sia in contrasto con l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale della Repubblica federale nella sentenza 14 febbraio 1967, largamente richiamata nelle difese della parti. Potrei limitarmi a notare che le statuizioni di organi giudiziari nazionali sono prive di influenza, in questa sede; ma questa obbiezione si accompagna, nel caso specifico, alla constatazione che la sentenza della Corte costituzionale tedesca è stata citata a torto. Tale sentenza affermò infatti che il divieto di nuovi impianti viticoli su terreni obbiettivamente inidonei alla produzione di vino costituisce un mezzo appropriato per tutelare i viticoltori tedeschi attraverso il mantenimento della qualità del vino. Da questa affermazione si vorrebbe desumere che un divieto non limitato ai terreni inidonei alla produzione, come quello contenuto nel regolamento comunitario di cui ci occupiamo, sarebbe illegittimo alla stregua della Costituzione tedesca. Ma è chiaro che la compatibilità con i princìpi costituzionali di una misura restrittiva deve essere valutata in relazione alle finalità che tale misura è destinata a perseguire. Nel nostro caso, come sappiamo, il divieto di nuovi impianti serve a stabilizzare il mercato, in attesa di misure strutturali più articolate: una finalità del genere è ben compatibile col diritto di proprietà, anche se non tien conto della idoneità o inidoneità dei terreni alla viticoltura. Si tratta infatti di una forma d'intervento assai incisiva, ma temporanea, e comunque collegata ad un programma di ristrutturazione del mercato viticolo, che — come abbiamo visto — dovrebbe te-ner conto appunto della diversa qualità dei terreni. Invece, la legislazione interna, su cui la Corte costituzionale tedesca si è basata nell'anzidetta sentenza, si propone un obbiettivo diverso e in certo senso più limitato, che la stessa Corte ha chiaramente individuato, e precisamente quello di assicurare la qualità del vino prodotto nella Repubblica federale. I due obbiettivi dunque non sono comparabili: altro è infatti stabilizzare un mercato caratterizzato da pesanti eccedenze produttive, altro è garantire una certa qualità del prodotto. Ecco perché non mi sembra giustificato desumere dalla decisione della Corte tedesca una indicazione nel senso che un divieto generalizzato di nuovi impianti sarebbe incompatibile con i princìpi costituzionali in materia di proprietà.

10. 

La legittimità delle norme comunitarie di cui ci stiamo occupando è stata messa in discussione anche in relazione ad un altro diritto fondamentale, quello al libero esercizio delle professioni o (più esattamente) alla libertà di iniziativa economica.

Tale diritto rientra fra quelli tutelati nell'ordinamento comunitario, alla stregua di un orientamento comune dei sistemi giuridici degli Stati membri. Esso ha avuto un'eco nella giurisprudenza di questa Corte (v. la citata sentenza Nold) che naturalmente ha riconosciuto anche la possibilità di assoggettarlo a limitazioni, per il conseguimento di interessi generali comunitari. Ma, a mio avviso, è fuor di luogo, nel caso di specie, far riferimento alla libertà di iniziativa economica. In realtà, ci troviamo di fronte — più che ad una interferenza, anche se legittima, nella scelta della professione o dell'attività imprenditoriale — ad un provvedimento che incide sulle premesse economiche per l'esercizio, con determinate modalità, di una professione. È vero che, vietandosi nuovi impianti di viti, si impedisce che il proprietario del fondo eserciti l'attività vitivinicola utilizzando le risorse dei suoi terreni finora privi di vigneti, ma resta evidentemente aperta la possibilità che lo stesso proprietario eserciti la viticoltura in altri terreni, appartenenti a lui o a terzi, sui quali già esistano dei vigneti. Il limite prescritto colpisce, dunque, l'esercizio del diritto di proprietà, non quello del diritto di assumere iniziative economiche, che non è garantito con riguardo a una determinata sfera di esplicazione.

11. 

In conclusione, sono d'avviso che la Corte dovrebbe rispondere nel modo seguente ai due quesiti rivoltile dal Tribunale amministrativo di Neustadt an der Weinstrasse con ordinanza del 14 dicembre 1978:

«I divieti stabiliti dall'articolo 2, paragrafo 1, del regolamento del Consiglio del 17 maggio 1976 n. 1162 si applicano anche nei casi in cui una domanda di autorizzazione per l'impianto di nuove vigne sia stata presentata alle autorità nazionali prima dell'entrata in vigore del suddetto regolamento. Il divieto imposto dalla citata norma agli Stati membri di concedere nuove autorizzazioni di impianti di vigne si estende a tutte le categorie di terreni, siano essi idonei o inidonei alla viticoltura».

Inoltre, qualora la Corte ritenesse di prendere posizione nel dispositivo della sua pronuncia sul problema della legittimità dei divieti in discussione, essa potrebbe aggiungere che:

«L'articolo 2, paragrafo 1, del regolamento del Consiglio 1162/76 non contrasta con nessuno dei princìpi del diritto comunitario, intesi a tutelare i singoli; in particolare, esso non viola il diritto fondamentale al rispetto della proprietà privata, riconosciuto nel diritto comunitario sia in base agli ordinamenti interni degli Stati membri, sia alla stregua dell'articolo 1 del primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo».