CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
JEAN-PIERRE WARNER
DELL'8 MARZO 1979 ( 1 )
Signor Presidente,
signori Giudici,
Questa causa è stata rinviata alla Corte in via pregiudiziale dalla Crown Court di Bristol. Essa solleva questioni relative all'incidenza del diritto comunitario, e più precisamente dell'art. 48 del Trattato CEE, sul potere, attribuito alla Crown Court dalla common law dell'Inghilterra e del Galles, di non infliggere una condanna all'imputato riconosciuto colpevole, vincolandolo invece al rispettò di determinate condizioni.
Questa facoltà va tenuta distinta da numerosi altri poteri attribuiti dalla legge al giudice penale inglese, quale quello di assolvere condizionalmente, di sospendere o di rinviare l'applicazione della pena e di disporre un periodo di prova. Essa va pure tenuta distinta dal potere di raccomandare l'espulsione, di cui questa Corte ha dovuto occuparsi nella causa 30/77 Regina c/ Bouchereau (Racc. 1977, pag. 1999).
Il potere di cui trattasi deriva, come ho detto, dalla common law, benché venga menzionato in due recenti leggi. Una di esse è il Courts Act 1971 il quale, tra altre riforme, ha istituito la Crown Court in sostituzione delle vecchie Assizes e Quarter Sessions. L'art. 6 (4) di detto Act ha trasferito il potere da queste alla Crown Court. L'altra legge è il Powers of Criminal Courts Act 1973, l'art. 1 del quale ha istituito il potere di rinviare l'applicazione della pena, a condizione che resti intatto il potere attribuito dalla common law.
In sostanza, l'esercizio di detto potere implica il rilascio dell'imputato riconosciuto colpevole a condizione che si impegni a presentarsi in giudizio (cioè comparire dinanzi al giudice per farsi applicare la pena) se richiestone ad una data stabilita o dopo un determinato periodo, ed a te-nere nel frattempo buona condotta e soddisfare le altre condizioni che il giudice può porre. Il documento con cui viene assunto l'impegno è chiamato recognizance (riconoscimento) e contiene il riconoscimento da parte dell'imputato dichiarato colpevole che egli deve alla Corona una determinata somma che diverrà esigibile se egli non compare qualora ne sia richiesto. La recognizance dev'essere firmata dall'imputato. Se egli rifiuta di collaborare, gli dev'essere riservato un altro trattamento.
Tra le condizioni che il giudice può porre vi è quella della residenza. Essa è in genere valida per un periodo determinato. Nelle sue osservazioni scritte il Governo del Regno Unito ha citato a mo' di esempio due casi in cui, a suo parere, «l'istituto del vincolo (binding over) può essere molto utile nell'amministrazione della giustizia penale». Il primo è quello dello straniero residente all'estero: anziché fargli scontare una pena detentiva in Inghilterra, può essere preferibile, se il reato non è grave, offrirgli la possibilità di tornare nel suo paese. Il secondo è quello dell'incensurato, specialmente se giovane, che ha lasciato il suo ambiente di origine per recarsi in un luogo in cui si è trovato sottoposto ad influenze sfavorevoli. Anche qui, può essere più conforme agli scopi della giustizia restituirlo al suo ambiente di origine, anziché punirlo. Il Governo del Regno Unito ha sottolineato l'utilità del potere, in queste circostanze, qualora l'imputato provenga da un ambiente rurale, sostanzialmente sano; a me pare tuttavia che, almeno in determinati casi, il ritorno del giovane reo all'ambiente di origine possa essere giovevole anche se si tratta di un ambiente urbano.
All'udienza il Governo del Regno Unito ci ha detto che, in pratica, le condizioni di residenza erano per lo più poste dai giudici penali inglesi nel disporre il periodo di prova (probation). Come ci è stato spiegato, il periodo di prova è un istituto penale mediante il quale la pena non si applica se il reo accetta di porsi sotto la sorveglianza di una persona all'uopo designata (probation officer). Il potere di valersene è attualmente contemplato dall'art. 2 del Powers of Criminal Courts Act 1973. Il n. 1 di detto articolo stabilisce che:
«Il giudice ad opera del quale o di fronte al quale una persona di almeno diciassette anni sia dichiarata colpevole di un reato (che non sia un reato per cui la legge stessa stabilisce la pena), qualora ritenga che, tenuto conto delle circostanze, ivi comprese la natura del reato e il carattere del reo, ciò sia opportuno, può anziché infliggergli la pena, disporre un periodo di prova, cioè ordinare al reo di sottoporsi alla sorveglianza di una persona all'uopo designata per un periodo determinato, che non può essere inferiore ad un anno né superiore a tre anni.»
Il n. 2 stabilisce che nel provvedimento dev'essere indicata la zona in cui il reo risiede o risiederà e che il reo dev'essere sottoposto alla sorveglianza di un probation officer nominato per o assegnato a detta zona. (Salvo quanto stabilisce l'allegato 1 dell'Act per il caso in cui il reo cambi residenza). Il n. 3 autorizza ad ordinare al reo di attenersi «alle prescri zioni che il giudice, tenuto conto delle circostanze, ritiene necessarie per garantire la buona condotta del reo o per evitare che egli commetta lo stesso reato ovvero altri reati». Il n. 5 (emendato) autorizza il giudice, previo esame dell'ambiente d'origine del reo, ad ordinare che questi risieda in una casa di prova (probation hostel) omologata o in altro istituto. Il n. 6 stabilisce:
«Prima di disporre il periodo di prova, il giudice deve spiegare al reo in lingua corrente il significato della cosa (ivi comprese le ulteriori prescrizioni che intende inserire nel provvedimento …) e che se egli non si attiene a quanto gli viene ordinato o commette un altro reato può essere punito per il primo reato; e il giudice non disporrà il periodo di prova a meno che il reo non manifesti l'intenzione di rispettarne le prescrizioni.»
I probation officers appartengono al Probation and After-Care Service, il quale agisce nell'intera Inghilterra e nel Galles, cosicché qualsiasi giudice penale d'Inghilterra o del Galles può sempre disporre un periodo di prova prescrivendo la residenza in una parte qualsiasi di uno di questi paesi. In Iscozia vi è un ufficio analogo e vi sono degli accordi in forza dei quali il periodo di prova disposto in Inghilterra o nel Galles può essere effettuato in Iscozia e viceversa. Con l'Irlanda settentrionale, però, non vi sono accordi del genere che rendano possibile alle autorità locali di occuparsi ufficialmente di un reo che sia stato posto in periodo di prova da un giudice inglese. Di conseguenza, nei casi in cui sarebbe opportuno disporre il periodo di prova prescrivendo al reo di risiedere nell'Irlanda settentrionale, la Crown Court può unicamente valersi del potere, attribuitole dalla common law, di vincolarlo (bind him over).
Cionondimeno, la giurisprudenza mostra che, in determinate circostanze, il vincolo (binding over) può essere disposto per scopi più affini a quelli dell'espulsione che a quelli del periodo di prova. Così, nella causa Regina v. Ayu (1958) 1 WLR 1264 la Court of Criminal Appeal (attualmente Court of Appeal, Criminal Division) ha affermato che il vincolo poteva essere disposto per garantire il ritorno in Nigeria di un nigeriano che si trovava in Inghilterra dal 1939, per il semplice motivo che non aveva svolto nessuna attività lavorativa regolare dal 1948 ed aveva sedici precedenti penali. È significativo il fatto che Lord Parker L.C.J. nel pronunziare la sentenza concludesse dicendo: «Devo aggiungere che il presente caso mostra molto chiaramente la necessità — che, a quanto mi risulta, è già stata rilevata in altra sede — che sia possibile espellere un individuo come questo». Questo avveniva naturalmente prima che al giudice penale inglese fosse data la facoltà di raccomandare l'espulsione dei rei stranieri. Vorrei richiamare pure il passo di «Pleading, Evidence and Practice in Criminal Cases» di Archbold, citato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte. A proposito del vincolo, vi è detto: «In taluni casi la facoltà di vincolare è stata usata quando il giudice voleva essere certo che il reo lasciasse l'Inghilterra».
Un caso che mi sembra illustri in modo esemplare l'affinità esistente fra il vincolo (binding over) accompagnato dalla condizione della residenza e l'espulsione è Regina v. Secchi (1975) 1 CMLR 383. Si trattava di un giovane sardo dichiarato colpevole dinanzi ad un Metropolitan Stipendiar)/ Magistrate di reati commessi a Londra. Il giudice raccomandò l'espulsione motivando che non era un «lavoratore» ma un «vagabondo» e non aveva quindi diritto alla tutela garantita dall'art. 48 del Trattato. Tra i fatti accertati dal giudice vi era la circostanza che il Secchi era privo di mezzi finanziari, di preparazione professionale, di relazioni in Inghilterra, di conoscenza dell'inglese e di regolare dimora. Egli aggiunse: «La conclusione del probation officer, sulla quale sono pienamente d'accordo, è che, non avendo radici di alcun genere in questo paese e date le difficoltà che si oppongono al suo stabilirsi qui, la cosa mi-gliore per tutti gli interessati, ivi compreso l'imputato, sarebbe che egli tornasse in Sardegna dove ancora risiedono sua madre ed altri membri della sua famiglia». In queste circostanze, se il Secchi fosse stato giudicato dalla Crown Court anziché da un Magistrate (al quale la common law non attribuisce il necessario potere), stando a quanto ci è stato detto dal Governo del Regno Unito sarebbe stato un caso tipico in cui il giudice lo avrebbe vincolato, ponendo la condizione che tornasse in Sardegna.
Passo ora agli antefatti della presente causa.
La sig.na Vera Ann Saunders è nata il 16 aprile 1957 ed è cittadina del Regno Unito. Da quanto è stato detto all'udienza si desume che può essere originaria dell'Irlanda settentrionale. Il 21 dicembre 1977, dinanzi alla Crown Court di Bristol si dichiarava colpevole del furto di un libretto di risparmio. Per questo reato poteva essere condannata ad una pena detentiva. A quell'epoca risiedeva in Inghilterra; tuttavia essa manifestava al giudice il desiderio di trasferirsi nell'Irlanda settentrionale e la disponibilità ad essere vincolata con la condizione di tale trasferimento. Il giudice la vincolava, nella recognizance di £ 50, a «presentarsi in giudizio il o dopo il 16 gennaio 1978 a meno che non si rechi nell'Irlanda settentrionale prima di tale data e si astenga dal venire in Inghilterra o nel Galles per un periodo di tre anni». Essa firmava una recognizance in questi termini. Rileverete che non le si faceva obbligo di rimanere nell'Irlanda settentrionale una volta che vi fosse giunta. Essa era libera di recarsi in seguito in Iscozia o in qualunque altro luogo, fuori dall'Inghilterra o dal Galles. La sola prescrizione di effetto continuativo era che rimanesse fuori dall'Inghilterra e dal Galles per tre anni.
Il Governo del Regno Unito ha posto in rilievo il fatto che la mancanza di accordi con le autorità dell'Irlanda settentrionale implicava che la Crown Court non poteva disporre un periodo di prova da effettuarsi dalla Saunders nell'Irlanda settentrionale. La nostra attenzione è stata richiamata su una nota figurante sul verso dell'atto di rinvio a giudizio dal quale risultava che essa era soggetta ad un precedente periodo di prova disposto il 29 novembre 1977, a causa di un altro reato. La nota dice: «Il periodo di prova disposto il 29.11.1977 rimane in vigore e le autorità irlandesi sono pregate di sorvegliare in modo ufficioso». Così, ci è stato detto, si era fatto di tutto per rendere la sua situazione il più possibile simile a quella che si sarebbe avuta se fosse stato lecito metterla in periodo di prova nell'Irlanda settentrionale.
La Saunders non si atteneva a quanto le era stato prescritto. Essa veniva arrestata nel Galles il 1o giugno 1978 e ricompariva dinanzi alla Crown Court il 13 giugno. A norma del diritto inglese, il giudice poteva procedere immediatamente nei suoi confronti per il reato originario o incamerare la cauzione o fare entrambe le cose. In questo caso, però, l'avvocato dell'accusa sollevava la questione che essa poteva essere un «lavoratore» ai sensi del Trattato e che il provvedimento del 21 dicembre 1977 poteva aver violato i diritti attribuitile dall'art. 48. Dinanzi alla Crown Court venivano citate le pronunzie di questa Corte nelle cause 41/74 Van Duyn c/ Home Office, Racc. 1974, pag. 1337; 67/74 Bonsignore c/ Stadt Köln, Racc. 1975, pag. 297; 36/75 Rutili c/ Ministre de l'lnterieur, Racc. 1975, pag. 1219, e Regina c/ Bouchereau (già citata) nonché la pronunzia del Metropolitan Magistrate nella causa Regina v. Secchi (già citata).
La Crown Court giungeva alla conclusione (1) che la Saunders andava trattata come un lavoratore ai sensi del Trattato e (2) che il provvedimento 21 dicembre 1977 non rientrava in alcuna delle limitazioni «giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica» contemplate dall'art. 48. La questione che essa ha sottoposto a questa Corte è la seguente:
«Se il provvedimento emesso da questa Corte il 21 dicembre 1977 nei confronti di Vera Ann Saunders costituisca violazione dei diritti conferiti ai lavoratori dall'art. 48 del Trattato che istituisce la-Comunità economica europea, tenuto conto in particolare del diritto di cui al n. 3, lett. b), dello stesso articolo e del fatto che l'interessata è cittadina inglese.»
Come il Governo del Regno Unito ha rilevato, l'uso dell'espressione «cittadina inglese»è improprio, dato che giuridicamente uno status del genere non esiste. A rigore si sarebbe dovuto parlare di «un cittadino del Regno Unito e colonie avente il diritto di risiedere nel Regno Unito», formula che ho abbreviato sopra in «cittadino del Regno Unito».
La questione è mal formulata anche perché invita questa Corte a pronunziarsi direttamente sulla validità del provvedimento della Crown Court. Questo andrebbe oltre i poteri attribuiti alla Corte dall'art. 177 del Trattato. È tuttavia agevole estrarre dalla questione così come è formulata i punti sui quali la Corte deve pronunziarsi nella presente causa. Sono punti di un certo rilievo.
La Commissione sostiene che la causa esula dall'ambito dell'art. 48 e persino dell'intero Trattato, per mancanza di qualsiasi elemento di connessione con un altro Stato membro che impedisca di trattarla in termini puramente nazionali. Secondo la Commissione, il provvedimento, adottato da uno Stato membro, che limiti il diritto di residenza di uno dei propri cittadini ad una parte soltanto del proprio territorio esula dall'ambito di applicazione del Trattato «a meno che il motivo di tale restrizione sia connesso a, o in relazione con, eventi prodottisi in un altro Stato membro».
La Commissione fonda la propria tesi su un passo del punto 24 della motivazione della recente sentenza nella causa 115/78, Knoors (7 febbraio 1979, non ancora pubblicata). Questo passo, che è puramente incidentale (obiter dictum), dice che le disposizioni del Trattato in materia di stabilimento e di prestazione di servizi non possono applicarsi a situazioni puramente interne ad uno Stato membro. Esso è inserito in un contesto molto specifico, in quanto la Corte stava esaminando un argomento addotto dal Governo olandese secondo il quale un individuo non dovrebbe poter eludere le pre-scrizioni del proprio Stato membro in materia di requisiti occorrenti per esercitare una determinata professione, recandosi di proposito ad acquistare le qualifiche, più agevoli da ottenere, accettate in un altro Stato membro. Dal canto mio, nutro dei dubbi sulla possibilità di considerare il passo, preso alla lettera, generalmente applicable nei campi della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Per risolvere il problema sarebbe necessario un esame delle afferenti disposizioni del Trattato più approfondito di quello che la Corte doveva effettuare nella causa Knoors, in cui si trattava essenzialmente di interpretare dei programmi generali e determinate direttive del Consiglio. Sono per contro certo che non è possibile ritenere che detto passo contenga un principio di validità generale secondo il quale nessuna disposizione del Trattato, o nessuna disposizione di questo relativa alla libera circolazione delle persone, si può applicare in una situazione «puramente interna di uno Stato membro».
Ci troviamo qui di fronte all'art. 48 del Trattato e il se il caso in esame esuli dall'ambito del Trattato dipende dalla corretta interpretazione di detto articolo. Nell'affrontare la questione, si deve tener presente in primo luogo che il Trattato, in vari modi, attribuisce ai cittadini di ciascuno Stato membro dei diritti che possono esser fatti valere nei confronti delle autorità di tale Stato e, in secondo luogo, che l'art. 7 del Trattato vieta le discriminazioni ad opera di uno Stato membro nei confronti dei propri cittadini, nello stesso modo in cui vieta le discriminazioni ad opera di uno Stato membro nei confronti dei cittadini di altri Stati membri.
Se la Crown Court poteva escludere la Saunders dall'Inghilterra e dal Galles per tre anni, e quindi confinarla, per quanto riguarda il territorio del Regno Unito, nell'Irlanda settentrionale ed in Iscozia, se ne deve inferire che o (1) detto giudice può adottare lo stesso provvedimento nei confronti del cittadino di un altro Stato membro, tesi a proposito della quale il meno che si possa dire è che non può essere accolta senza approfondito esame, oppure (2), se lo stesso provvedimento non poteva essere adot tato nei confronti del cittadino di un altro Stato membro, che il risultato, almeno a prima vista, era una trasgressione del principio che i cittadini di tutti gli Stati membri hanno diritto allo stesso trattamento. Non voglio dire che questo apparente dilemma non ammette alcuna soluzione. Il mio punto di vista è che non è possibile risolvere la questione limitandosi ad affermare che manca qualsiasi nesso con un altro Stato membro. Il vero problema qui non è se vi sia un legame con un altro Stato membro, ma se e, in caso affermativo, entro quali limiti il diritto comunitario attribuisca dei diritti ad una persona che si trovi nella situazione della Saunders.
Il Governo del Regno Unito ha sostenuto che l'art. 48 non fa altro che vietare le discriminazioni basate sulla nazionalità e che esso lascia lo Stato membro libero di limitare la circolazione dei lavoratori nel proprio territorio per qualsiasi altro motivo. Per rendere valido il provvedimento 21 dicembre 1977 della Crown Court era quindi sufficiente il fatto che, a norma del diritto inglese, esso avrebbe potuto essere adottato nei confronti di un cittadino di qualsiasi Stato.
A sostegno di questo assunto il Governo del Regno Unito ha citato la causa Rutili in cui questa Corte ha affermato che:
«In particolare, provvedimenti restrittivi del diritto di soggiorno, limitati ad una parte del territorio nazionale, possono venire adottati da uno Stato membro, nei confronti dei cittadini di altri Stati membri in cui pure si applica il Trattato, solo negli stessi casi e concorrendo i medesimi presupposti per l'applicazione di tali provvedimenti ai cittadini dello Stato di cui trattasi».
(Racc. 1975, pagg. 1236-1237).
Questa massima, però, è negativa tanto nella forma quanto nella portata. Essa significa che uno Stato membro non può imporre una restrizione del genere di cui trattasi ad un cittadino di un altro Stato membro in casi in cui non potrebbe imporre la stessa restrizione ad uno dei propri cittadini. Essa non significa che uno Stato membro possa imporre qualsivoglia restrizione della circolazione dei lavoratori nel proprio territorio qualora i cittadini di tutti gli Stati membri siano trattati nello stesso modo. Secondo me, il passo della sentenza Rutili da prendere in considerazione qui è il punto 27 della motivazione, in cui la Corte ha affermato che l'art. 48 pone due principi fondamentali, quello della parità di trattamento e quello della libertà di circolazione per i lavoratori.
Quest'ultima mi sembra l'unica opinione conforme alla lettera dell'art. 48. La discriminazione fondata sulla nazionalità è menzionata solo nei nn. 2 e 3 (c), e forse implicitamente, nei nn. 3 (d) e 4 di detto articolo. La disposizione capitale nella presente causa, l'art. 3 (b), attribuisce al lavoratore che sia cittadino di un qualsiasi Stato membro il diritto «di spostarsi liberamente … nel territorio degli Stati membri» al fine di rispondere ad offerte di lavoro. Le sole limitazioni cui tale diritto è testualmente soggetto sono quelle «giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica».
Dovrei forse sottolineare che la frase è «spostarsi liberamente … nel territorio degli Stati membri» e non semplicemente «spostarsi liberamente da uno Stato membro all'altro». A prima vista, si tratta quindi del diritto di accedere a qualsiasi parte del territorio di qualsiasi Stato membro. È appunto quello che ci si aspetta giacché la libera circolazione delle persone ha lo scopo di contribuire all'instaurazione di un mercato comune nel quale i cittadini di tutti gli Stati membri possano partecipare all'attività economica dovunque nel territorio della Comunità (vedi il punto n. 18 della motivazione della sentenza 136/78 Ministère Public c/ Auer, 7 febbraio 1979, non ancora pubblicata).
Un altro argomento addotto dal Governo del Regno Unito è che un provvedimento del genere di cui trattasi non può essere in contrasto col diritto comunitario giacché è basato sul consenso. Si è sostenuta l'analogia con l'accettazione, in un contratto di lavoro, dell'obbligo di risiedere in un determinato luogo e con l'accettazione di un legato sottoposto alla condizione di abitare in una casa determinata. A mio parere, tuttavia, è fuori luogo considerare come un atto consensuale l'accettazione di una restrizione in fatto di residenza da parte del reo che si trovi di fronte, come possibile alternativa, una pena detentiva.
Giungo così a quello che mi sembra il vero problema. Come il Governo del Regno Unito ha osservato, i giudici penali dell'intera Comunità hanno, e devono necessariamente avere, svariati poteri di re-stringere la libertà individuale, il più ovvio dei quali è il potere di infliggere una pena detentiva. Non è plausibile che gli autori del Trattato intendessero togliere loro tali poteri. Dal canto mio, non ritengo che essi possano essere considerati fatti salvi dall'espresso richiamo all'«ordine pubblico» ed alla «pubblica sicurezza» di cui all'art. 48, n. 3, dato che queste nozioni sono molto limitate. A mio parere, il buon senso impone di interpretare l'art. 48 come manifestamente non diretto ad abolire i poteri dei giudici penali. Il vero problema è quello della mi-sura in cui il diritto comunitario limita detti poteri. Ho presente il monito della Commissione che questa Corte deve aver cura di non «accollarsi i criteri di determinazione delle pene dei singoli Stati membri». Cionondimeno, come mostra la causa Regina c/ Bouchereau, questa Corte non può ignorare completamente il problema.
A mio parere la soluzione consiste nel distinguere fra, da una parte, le restrizioni della libertà di circolazione delle persone imposte dal giudice penale nel corso della normale amministrazione della giustizia e, dall'altra parte, il provvedimento emesso dal giudice penale allo scopo di ottenere l'espulsione di un individuo o la sua esclusione da una parte sostanziale del territorio dello Stato membro cui detto giudice appartiene.
Nella prima categoria includerei le pene detentive, il periodo di prova, il rilascio su parola (bail) con la condizione della residenza e il vincolo (binding over) del reo con la condizione della residenza intesa a garantirne il ritorno al suo ambiente d'origine od a risparmiargli la pena detentiva in un paese straniero. Per i provvedimenti che rientrano in questa categoria riterrei che il diritto comunitario lascia intatti i poteri dei giudici nazionali.
Per quanto riguarda i provvedimenti di espulsione o di confino, invece, riterrei che essi sono giustificati solo se emessi per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, conformemente all'insegnamento di questa Corte nel gruppo di cause cui appartiene la causa Regina c/ Bouchereau; e riterrei naturalmente che ciò è vero indipendentemente dalla cittadinanza del reo, purché egli sia cittadino di uno degli Stati membri.
Se adotterete questa soluzione, spetterà alla Crown Court di Bristol decidere in quale categoria rientrasse il suo provvedimento del 21 dicembre 1977. Pare che essa abbia già accertato che, se rientrasse nella seconda categoria, il provvedimento non sarebbe giustificato da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
Concludendo sono del parere che, per risolvere la questione sottoposta a questa Corte dalla Crown Court, dovreste dichiarare che, qualora un lavoratore che sia cittadino di uno Stato membro della CEE sia stato dichiarato colpevole di un reato, l'emanazione di un provvedimento, come alternativa alla condanna, che gli prescriva per un periodo determinato di risiedere in un luogo determinato o di astenersi dal recarsi in un luogo determinato, non è incompatibile con l'art. 48 del Trattato, purché lo scopo del provvedimento non sia puramente quello di escludere l'interessato dal territorio o da una parte sostanziale del territorio dello Stato membro cui il giudice appartiene. Qualora sia questo lo scopo, il provvedimento è compatibile con l'art. 48 solo se giustificato da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
( 1 ) Traduzione dall'inglese.