CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

JEAN-PIERRE WARNER

DEL 14 FEBBRAIO 1979 ( 1 )

INDICE

 

I — Premessa

 

II — L'art. VI del GATT e il codice antidumping

 

III — La disciplina comunitaria di base

 

IV — L'industria dei cuscinetti

 

V — Gli antefatti delle presenti controversie

 

VI — I ricorsi e le conclusioni ivi formulate

 

VII — Ricevibilità delle domande presentate a norma dell'art. 173

 

VIII — Il merito dei ricorsi a norma dell'art. 173

 

1. Mezzi inerenti alla forma e riguardanti la validità di tutto il regolamento n. 1778/77

 

2. Mezzi relativi alla legittimità del criterio di accettare impegni ed instaurare poi — e sospendere — un dazio definitivo

 

3. Argomenti vertenti sulla legittimità dell'istituzione del dazio definitivo con aliquota fissa del 15 %

 

4. Argomenti vertenti sulla validità dei criteri seguiti dalla Commissione nel calcolo dei prezzi, compresa la scelta dei modelli rappresentativi

 

a) La «ricostituzione» dei prezzi d'esportazione

 

b) L'argomento della NTN-GKN

 

c) L'argomento dell'ISO

 

d) Raffronto tra prezzi d'esportazione e prezzi del mercato nazionale

 

e) La «ricostituzione» dei prezzi sul mercato nazionale

 

f) La scelta dei «modelli rappresentativi»

 

5. Argomenti relativi al diritto degli interessati di esporre il proprio punto di vista sulla sussistenza di dumping

 

6. Argomenti relativi al «pregiudizio»

 

7. Argomenti relativi ai cuscinetti fabbricati dall'NSK UK

 

8. Argomenti riguardanti unicamente la validità del regolamento n. 261/77 e quindi dell'art. 3 del regolamento n. 1778/77

 

9. Altri argomenti vertenti unicamente sulla validità dell'art. 3

 

a) «Discriminazione» fra le quattro grandi

 

b) «Discriminazione» fra le quattro grandi e gli esportatori giapponesi di mi-nore importanza

 

c) Legittimità dell'incameramento del dazio provvisorio dopo l'accettazione di impegni «retroattivi»

 

IX — La domanda di risarcimento nella causa 119/77

 

X — Le domande ancora pendenti nell'ambito della causa 119/77

 

XI — Conclusioni

Signor Presidente,

signori Giudici,

I — Premessa

I presenti ricorsi sono stati promossi da quattro produttori giapponesi di cuscinetti a sfere e a rulli conici e da vari importatori dei loro prodotti nella Comunità, onde contestare, integralmente o in alcuni punti soltanto, la validità di un re-golamento del Consiglio, cioè il regolamento 26 luglio 1977, n. 1778, (GU n. L 196, pag. 1, del 3 agosto 1977), che, come è dichiarato nel titolo «istituisce un dazio antidumping per i cuscinetti a sfere e i cuscinetti a rulli conici, originari del Giappone». Le società ricorrenti impugnano detto regolamento fondandosi sull'art. 173, 2o comma, del Trattato CEE. In uno dei ricorsi (119/77) si chiede inoltre il risarcimento del danno a norma dell'art. 178 e dell'art. 215, 2o comma, del Trattato.

Trattandosi della prima causa in materia antidumping trattata dinanzi al vostro collegio ed essendo le questioni sul tappeto d'indole piuttosto complessa, mi pare necessario, prima di addentrarmi nei particolari, relativi alle ricorrenti e alle loro domande, descrivere con una certa meticolosità lo sfondo della vicenda.

II — L'art. VI del GATT e il Codice antidumping

Il Consiglio, che in queste cause è indubbiamente il convenuto di maggior rilievo, ha ricordato nelle sue memorie gli albori della disciplina antidumping in paesi come il Canada (dove vige fin dal 1904), la Nuova Zelanda, il Sudafrica, l'Australia e gli Stati Uniti. L'unico punto d'interesse in questa cronistoria mi pare sia la dimostrazione che gli autori del GATT, quando hanno impostato l'art. VI di questo accordo, non volevano tanto rinnovare, quanto disciplinare.

L'art. VI del GATT (modificato e nella versione attualmente in vigore) così dispone, per quanto ci interessa:

1.

Le parti contraenti riconoscono che il dumping, per effetto del quale i prodotti di un paese sono posti in commercio in un altro paese ad un prezzo inferiore al normale valore del prodotto, va represso se provoca o minaccia di provocare grave danno ad un'industria impiantata in uno dei paesi contraenti … Ai fini del presente articolo, un prodotto si considera posto in commercio nel paese importatore ad un valore inferiore al normale se il prezzo del prodotto esportato da un paese all'altro

(a)

è inferiore al prezzo corrispondente, praticato nel corso di normali operazioni commerciali per un prodotto similare destinato al consumo nel paese esportatore, oppure,

(b)

se non esiste detto prezzo nazionale, è inferiore al

(i)

più alto prezzo corrispondente, per un prodotto similare, destinato all'esportazione in paesi terzi nel corso di normali operazioni commerciali, oppure

(ii)

costo di produzione del prodotto nel paese di origine, aumentato di una ragionevole percentuale corrispondente alle spese di distribuzione e al margine di utile.

In ogni fattispecie va tenuto debito conto delle differenze nelle condizioni e modalità di vendita, della differente incidenza fiscale e di altre differenze che influiscano sulla raffrontabilità dei prezzi.

2.

Al fine di controbilanciare o impedire il dumping, una parte contraente può applicare ad ogni prodotto venduto a prezzo di dumping un dazio antidumping, non superiore al margine di dumping relativo a quel prodotto. Ai fini del presente articolo, il margine di dumping è la differenza di prezzo determinata secondo i criteri di cui al n. 1.

6.

Nessuna parte contraente ha facoltà di applicare dazi antidumping all'importazione di prodotti originari del territorio di un altro Stato contraente, a meno che non costati che le conseguenze del dumping sono tali da provocare o minacciar di arrecare grave pregiudizio ad una industria installata sul territorio nazionale …

Le «note interpretative» concernenti detto articolo, per quel che ci interessa ora, sono del seguente tenore:

Il dumping occulto praticato da imprese associate (cioè, la rivendita da parte di un importatore ad un prezzo inferiore a quello corrispondente al prezzo fatturato da un esportatore al quale l'importatore è associato, e pure inferiore al prezzo praticato nel paese esportatore) è una forma di dumping sui prezzi, il cui margine può venir calcolato in base al prezzo al quale le merci sono rivendute dall'importatore.

Conformemente alla prassi doganale seguita in molti altri settori, una parte contraente può imporre la prestazione di una adeguata garanzia (effetti cambiari o depositi in contanti) per il versamento del dazio antidumping, finché non sia definitivamente chiarita la situazione in ogni caso di presunto dumping …

Il 30 giugno 1967 veniva firmato a Ginevra un accordo sull'attuazione dell'art. VI del GATT. Detto accordo è entrato in vigore il 1o luglio 1968. Tra i firmatari figurano la Comunità europea e il Giappone.

L'accordo stabilisce che i firmatari riconoscono «che i provvedimenti antidumping non devono costituire un ingiustificabile ostacolo all'interscambio internazionale e che i dazi antidumping possono venir applicati per combattere il dumping solo qualora questo provochi o minacci di provocare grave pregiudizio ad una industria installata …»; inoltre gli stessi firmatari considerano «che è auspicabile istituire procedimenti equi ed aperti come base per l'esame approfondito dei casi di dumping»; infine essi desiderano «interpretare le disposizioni dell'art. VI dell'accordo generale ed elaborare norme per la loro applicazione in modo da garantire maggior uniformità e certezza nella loro attuazione».

Detto accordo dà così vita ad un «Codice antidumping», il cui art. 1 recita:

L'istituzione di un dazio antidumping è un provvedimento da adottarsi solo alle condizioni prescritte dall'art. VI dell'accordo generale. Le disposizioni seguenti disciplinano l'applicazione di questo accordo, qualora vengano adottate misure nell'ambito delle leggi o dei regolamenti antidumping.

Il codice stesso si divide in cinque sezioni:

A —

Accertamento del dumping;

B —

Accertamento del grave danno etc;

C —

Inchieste e provvedimenti amministrativi;

D —

Dazi antidumping e provvedimenti provvisori;

E —

Provvedimenti antidumping per conto di paesi terzi.

Varie disposizioni delle prime quattro sezioni interessano la presente fattispecie.

La sezione A del Codice contiene solo un articolo, l'art. 2, che stabilisce quando un prodotto si deve considerare oggetto di dumping. La norma generale, che riecheggia il tenore del n. 1, a), dell'art. VI del GATT, è quella dell'art. 2, a):

Ai fini del presente codice, un prodotto è considerato oggetto di dumping, cioè posto in commercio in un altro paese a prezzo inferiore al suo valore normale, se il prezzo d'esportazione del prodotto esportato da un paese ad un altro è inferiore al prezzo corrispondente, praticato nel corso di normali operazioni commerciali per un prodotto similare destinato al consumo nel paese esportatore.

Dopo aver definito l'espressione «prodotto similare» (art. 2, b) e disciplinato l'ipotesi in cui i prodotti non siano importati direttamente dal paese d'origine (art. 2, c), l'articolo continua indicando come si deve procedere qualora sia impossibile, o comunque inopportuno, determinare il margine di dumping tramite il raffronto diretto tra prezzi interni e prezzi d'esportazione. La lett. d) dell'art. 2 riguarda quella che l'art. VI, 1, b) del GATT definisce «inesistenza» di prezzo nazionale praticato «nel corso di normali operazioni commerciali». Per quel che ci interessa, essa recita:

Qualora sul mercato interno del paese esportatore non sia venduto, nel corso di normali operazioni commerciali, un prodotto similare, oppure nel caso in cui la particolare situazione di mercato impedisca di assumere come parametro dette vendite, il margine di dumping dovrà determinarsi in base al costo di produzione nel paese di origine, aumentato di una cifra ragionevole corrispondente alle spese di amministrazione, di distribuzione e ad altri oneri, nonché al margine di utile. In linea di massima, l'aumento corrispondente al margine di utile non deve essere superiore all'utile normalmente ricavato nella vendita di prodotti della stessa categoria generale sul mercato del paese d'origine.

Quanto al «prezzo di esportazione», la lett. e) stabilisce:

Qualora non esista prezzo d'esportazione o se le autorità competenti giudichino inattendibile detto prezzo in ragione dell'esistenza di un'associazione o di un accordo di compensazione tra l'esportatore e l'importatore o un terzo, il prezzo d'esportazione può venir calcolato in base al prezzo al quale i prodotti importati sono rivenduti per la prima volta ad un acquirente indipendente o, se i prodotti non sono rivenduti ad un acquirente indipendente, o non sono rivenduti nello Stato in cui sono stati importati, in base a qualsiasi criterio ragionevole prescelto dalle autorità.

La lettera f) impone di effettuare il raffronto tra i prezzi «nella stessa fase di distribuzione, normalmente all'uscita dalla fabbrica e riferendosi a vendite effettuate in date il più possibile vicine tra loro». «Debito conto» si deve tenere di volta in volta, «a seconda della situazione», di diversità nelle condizioni e modalità di vendita, di differenze tra gli oneri fiscali e di altre differenze che possano influire sulla raffrontabilità dei prezzi e, se il prezzo d'esportazione viene calcolato a norma della lettera e), «delle spese, compresi dazi e oneri fiscali, sostenute tra l'importazione e la rivendita, e degli utili che ne derivano».

Nella sezione B del Codice, l'art. 3 con-tiene complesse disposizioni in materia di determinazione dell'esistenza del grave danno o della minaccia dello stesso ad un'industria nazionale. L'art. 3, a), prescrive che il dumping deve essere obiettivamente la causa principale di detto danno o della minaccia dello stesso. Nel prendere la loro decisione, le autorità devono «soppesare, da un lato, gli effetti del dumping e, dall'altro, tutto il complesso degli altri fattori che possono influire negativamente sull'industria». L'accertamento «in ogni caso» deve «fondarsi su dati di fatto concreti e non su mere affermazioni o congetture». La lettera b) dell'articolo stabilisce che «la valutazione degli effetti delle importazioni a prezzo di dumping nell'industria in questione … deve fondarsi sull'esame di tutti i fattori aventi influenza sull'attività di tale industria, come ad esempio: sviluppo e prospettive in materia di volume d'affari, quote di mercato, utili, prezzi (inclusa la misura in cui il prezzo del prodotto franco destino, comprensivo di dazio, è inferiore o superiore al prezzo raffrontabile per un prodotto similare, praticato nel corso di normali operazioni commerciali nel paese d'importazione), risultati delle esportazioni, occupazione, volume delle importazioni a prezzo di dumping e a prezzo normale, sfruttamento della capacità dell'industria nazionale e produttività; e pratiche che implichino restrizioni negli scambi». Si dichiara espressamente che «nessuno di detti elementi, conside-rato isolatamente o congiuntamente con altri, costituisce necessariamente il parametro decisivo». La lettera c) di detto articolo, inoltre, dispone che:

Al fine di stabilire se le importazioni a prezzo di dumping abbiano arrecato danno, si devono esaminare tutti gli altri fattori che, singolarmente o cumulativamente, possono esercitare influsso negativo sulla industria, ad esempio: volume e prezzo delle importazioni a prezzo normale del prodotto in questione, concorrenza tra gli stessi produttori nazionali, contrazione della domanda a seguito della sostituzione di altri prodotti o del cambiamento nelle preferenze della clientela.

Nella sezione C sono contenute particolareggiate norme di procedura.

L'inchiesta deve di regola essere aperta su domanda della parte danneggiata, che deve provare l'esistenza del dumping e del danno (art. 5, a); all'inizio dell'inchiesta e in seguito, la prova del dumping e quella del danno vanno prese in considerazione contemporaneamente (art. 5, b); l'inchiesta va chiusa immediatamente se le autorità hanno fondato motivo di ritenere che le prove del dumping o del danno siano insufficienti oppure se il margine di dumping o il volume dei prodotti importati a prezzo di dumping, attuale o potenziale, o il danno sono trascurabili (art. 5, c).

Gli artt. 6 e 7 trattano rispettivamente delle prove e degli impegni degli esportatori a modificare i loro prezzi. Data la loro importanza in relazione a diversi punti delle presenti controversie, devo citarli in extenso.

Articolo 6

Le prove

(a)

I fornitori stranieri e tutte le altri parti interessate devono esser messi ampiamente in condizione di presentare per iscritto qualsiasi prova essi ritengano utile ai fini dell'inchiesta antidumping. Essi hanno pure il diritto, per giustificati motivi, di produrre prove orali.

(b)

Le autorità interessate devono dare agio a chi ha denunciato il dumping, agli importatori ed agli esportatori notoriamente interessati, nonché ai governi dei paesi esportatori, di prendere conoscenza di qualsiasi informazione utile per la formulazione dei loro argomenti, che non abbia indole riservata ai termini della lettera c) seguente, e che venga presa in considerazione dalle autorità nell'inchiesta antidumping, nonché di elaborare le loro difese in base a dette informazioni.

(c)

Qualsiasi ìnformazione che per natura sia riservata (ad esempio, in quanto la sua divulgazione avvantaggerebbe notevolmente un concorrente, oppure in quanto — se divulgata — potrebbe avere gravi conseguenze negative per chi l'ha fornita o per chi l'ha trasmessa) o che sia stata fornita in via riservata dalle parti interessate in un procedimento antidumping, deve venir trattata con il massimo riserbo dalle autorità interessate, che non possono divulgarla senza l'esplicito con-senso di chi l'ha fornita.

(d)

Tuttavia, se le autorità interessate constatano che la richiesta di riserbo non è giustificata, e se chi ha fornito l'informazione vieta di renderla nota o non autorizza la sua diffusione in maniera generica o sommaria, le autorità hanno fa-coltà di non tener conto dell'informazione, a meno che non possa venir provato — in modo da esse giudicato convincente — da fonti autorevoli che essa è esatta.

(e)

Per controllare le informazioni ricevute o per conoscere ulteriori particolari, le autorità possono procedere, se del caso, ad indagini in altri paesi, a condizione che ottengano il consenso delle ditte interessate e ne informino i rappresentanti del governo del paese di cui trattasi, e purché questo non si opponga allo svolgimento delle indagini.

(f)

Allorché le autorità competenti sono convinte che le prove raccolte giustificano l'apertura di un'inchiesta antidumping a norma dell'art. 5, i rappresentanti del paese esportatore e gli esportatori ed importatori notoriamente interessati ne vengono informati e ne può venir data notizia tramite pubblico avviso.

(g)

Durante tutto lo svolgimento dell'inchiesta antidumping tutte le parti interessate devono avere ampia possibilità di tutelare i loro interessi. A questo scopo, le autorità interessate dovranno, Se ne è fatta richiesta, offrire l'occasione a tutti coloro che sono direttamente interessati di incontrare le parti aventi interessi opposti, in modo da mettere a confronto gli opposti punti di vista e permettere eventuali confutazioni. Nell'organizzare tale confronto si deve tener conto della necessità di salvaguardare il carattere riservato delle informazioni e di agevolare l'operato delle parti. Nessuna delle parti è obbligata a presenziare agli incontri e la mancata partecipazione ad uno di essi non può pregiudicare il buon esito della causa per la parte assente.

(h)

Le autorità interessate devono informare i rappresentanti del paese esportatore e le parti direttamente interessate circa la loro decisione di applicare o no dazi antidumping, motivando detta decisione ed indicando i criteri seguiti e, salvoché vi sia motivo fondato di comportarsi diversamente, devono rendere pubbliche le loro decisioni.

(i)

Le disposizioni del presente articolo non impediscono alle autorità di trarre conclusioni interlocutorie, in senso positivo o negativo, o di applicare misure provvisorie in via urgente. Qualora una parte interessata si astenga dal fornire le informazioni necessarie, una pronuncia definitiva, positiva o negativa, può venir emessa in base ai dati di fatto disponibili.

Articolo 7

Impegni in materia di prezzi

(a)

I procedimenti antidumping possono concludersi senza istituzione di dazi antidumping o senza adozione di provvedimenti provvisori, se viene volontariamente sottoscritto l'impegno, da parte degli esportatori, di modificare i prezzi, cosicché il margine di dumping venga eliminato, o di cessare di esportare nell'area di cui trattasi a prezzo di dumping, e se le autorità interessate ritengono attuabile questa soluzione, ad esempio se il numero degli eportatori o dei potenziali esportatori del prodotto in questione non è troppo grande e/o se le prassi commerciali sono adeguate.

(b)

Se gli esportatori interessati, nel corso dell'esame di una pratica di dumping, si impegnano a modificare i prezzi o ad astenersi dall'esportare il prodotto di cui trattasi, e le autorità interessate accettano l'impegno, le indagini sul danno saranno comunque portate a termine se gli esportatori lo desiderano o le autorità competenti decidono di perseguirle. Se risulta che non è stato arrecato alcun danno, l'impegno assunto dagli esportatori viene automaticamente a cadere, a meno che gli esportatori decidano di mantenerlo. Se gli esportatori non propongono di assumere impegni in questo senso durante il corso dell'inchiesta o non accettano l'invito ad impegnarsi loro rivolto dall'autorità inquirente, tale atteggiamento non pregiudicherà la loro posizione nell'esame della pratica. Comunque le autorità conservano naturalmente la facoltà di decidere che la realizzazione del danno è più probabile se vengono continuate le importazioni a prezzo di dumping.

Nella sezione D del Codice, l'art. 8 tratta dell'istituzione e della riscossione dei dazi antidumping. Secondo la lettera a) di detto articolo, è «auspicabile» che il dazio instaurato sia inferiore al margine di dumping se un dazio inferiore è atto ad eliminare il danno nei confronti dell'industria nazionale. La lett. b) stabilisce, per quel che ci interessa

Qualora venga istituito un dazio antidumping su un determinato prodotto, esso verrà riscosso, nella misura adeguata in ciascun caso, in modo non discriminatorio sulle importazioni di detto prodotto provenienti da qualsiasi fornitore che risulti praticare il dumping e arrecare danno. Le autorità indicheranno nominativamente il fornitore o i fornitori del prodotto in questione. Se però risultano coinvolti più fornitori dello stesso paese, ed è impossibile nominarli tutti, le autorità potranno limitarsi a citare il paese.

La lettera c) stabilisce che :

L'aliquota del dazio antidumping non deve superare il margine di dumping constatato in conformità all'art. 2. Quindi, se dopo l'istituzione del dazio antidumping emerge che il dazio così riscosso è superiore all'effettivo margine di dumping, quanto è stato riscosso in eccedenza va rimborsato con la massima sollecitudine.

La lettera d) contiene alcune norme da applicarsi nell'ipotesi in cui venga adottato «un sistema di prezzi base». Dette norme non interessano direttamente la fattispecie, però hanno rilevanza nel sistema antidumping della CECA cui si è fatto riferimento negli argomenti svolti dalle parti. In breve, secondo questo sistema si fa un raffronto tra il prezzo d'esportazione e il «prezzo base» fissato ad hoc. Dette norme stabiliscono, tra l'altro, che il prezzo base non deve esser superiore «al prezzo ordinario più basso nel paese fornitore (o nei paesi fornitori) ove prevalgano normali condizioni di concorrenza».

Quanto alla durata dei dazi antidumping, l'art. 9 stabilisce che essi devono rimanere in vigore «solo per il periodo necessario a far fronte al dumping che provoca il danno» e che «le autorità interessate devono riesaminare, se ve ne è motivo, la necessità di continuare a riscuotere il dazio di loro iniziativa o se fornitori o importatori del prodotto aventi interesse lo richiedono e ne dimostrano la necessità».

L'art. 10 riguarda le «misure provvisorie». Esse possono venir adottate solo se è stata adottata una decisione provvisoria che constati il dumping e quando vi sono prove sufficienti a dimostrazione del danno (art. 10, a). Esse possono assumere la forma di dazio provvisorio o — preferibilmente — di una cauzione — in contanti o in effetti cambiari — pari all'importo del dazio antidumping stimato in via provvisoria, ma che non sia comunque superiore al margine, stimato provvisoriamente, di dumping (art. 10, b). Le autorità interessate devono «informare i rappresentanti del paese esportatore e le parti direttamente interessate della loro decisione di applicare provvedimenti provvisori, indicando i motivi della decisione e i criteri seguiti» e le decisioni, di norma, devono venir rese pubbliche (art. 10, c). L'efficacia dei provvedimenti deve essere di durata quanto più possibile limitata e, più precisamente, «essi non devono venir applicati per più di tre mesi o, previa decisione dell'autorità interessata su richiesta dell'importatore o dell'esportatore, oltre i sei mesi» (art. 10, d).

Infine, vi sono le disposizioni dell'art. 11 in materia di retroattività. L'articolo sancisce il principio basilare che i dazi antidumping e i provvedimenti provvisori non devono avere effetto retroattivo. Vi sono deroghe a detto principio, delle quali una (vedi art. 11, sub i) ha rilevanza diretta per la fattispecie in esame ed un'altra (sub iii) ha una certa rilevanza in relazione alle norme antidumping della CECA.

La deroga di cui sub i), in poche parole, mira a far sì che, se sono state adottate misure provvisorie e se — durante il periodo in cui sono state applicate — le importazioni a prezzo di dumping avrebbero provocato gravi danni, qualora non si fossero adottati detti provvedimenti, il dazio può venir riscosso retroattivamente per tutto il periodo in cui sono state in vigore le misure provvisorie. L'art. 11, sub i), dispone infine:

Se il dazio antidumping fissato con la decisione finale è superiore al dazio versato provvisoriamente, non viene richiesto alcun conguaglio. Se il dazio fissato nella decisione finale è inferiore a quello versato provvisoriamente o alla somma che si è ritenuto equo richiedere come cauzione, la differenza viene rimborsata o il dazio viene nuovamente calcolato a seconda dei casi.

L'art. 11, sub iii) consente l'imposizione retroattiva di un dazio per un periodo di 90 gg. in determinati casi in cui sia stato praticato «dumping sporadico» (cioè massicce importazioni di un prodotto a prezzo di dumping in un periodo relativamente breve).

III — La disciplina comunitaria di base

I provvedimenti antidumping, nell'ambito del Trattato CEE, costituiscono un aspetto della politica commerciale comune. Nel periodo transitorio essi costituivano una materia disciplinata dall'art. 111 del Trattato e sono espressamente menzionati all'art. 113.

Il 5 aprile 1968 il Consiglio adottava, in virtù degli artt. 111 e 113, il regolamento n. 459 (GU n. L 93, pag. 1, del 17. 4. 1968), che esercitava un'efficacia globale, per quel che ci riguarda, riassumibile in due punti: trasponeva il codice antidumping nel diritto comunitario e conferiva al Consiglio, alla Commissione e agli Stati membri le rispettive competenze nell'attuazione della disciplina comunitaria antidumping così istituita. Nel preambolo del regolamento si afferma tra l'altro che «in virtù degli impegni internazionali che vincolano la Comunità e gli Stati membri, il presente regolamento deve rispettare le regole fissate dall'articolo VI dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, nonché dall'Accordo relativo all'applicazione del suddetto articolo».

L'art. 1 del regolamento serve da introduzione. Al n. 2 esso stabilisce, un pò enigmaticamente, che «quando gli obblighi stipulati nel quadro del GATT non vi si oppongono», le disposizioni degli articoli da 2 a 5 (che determinano i presupposti essenziali per l'applicazione del dazio antidumping) «non fanno ostacolo all'adozione di misure particolari».

L art. 2, n. 1, dispone, per quel che ci riguarda:

«Può esser assoggettato ad un diritto antidumping qualsiasi prodotto formante oggetto di dumping, quando la sua introduzione sul mercato della Comunità causa o minaccia di causare un pregiudizio importante ad una produzione costituita della Comunità …»

Le norme circa l'accertamento del dumping sono contenute nell'art. 3, redatto in termini molto simili a quelli dell'art. 2 del codice antidumping.

Il parametro normale del dumping, stabilito all'art. 3, n. 1, a), è questo:

un prodotto è oggetto di dumping se «… il suo prezzo all'esportazione verso la Comunità è inferiore al prezzo comparabile praticato nel corso di normali operazioni commerciali per un prodotto simile … destinato al consumo nel paese d'origine dal quale il prodotto è stato esportato».

L'art. 3, n. 2, contempla le ipotesi in cui «nel corso di normali operazioni commerciali sul mercato interno del paese esportatore non si ha vendita del prodotto simile» oppure «a causa della situazione particolare del mercato, vendite del genere non consentano una valida comparazione». Il testo di tale disposizione, per quanto ci interessa, è identico a quello dell'art. 2, d), del Codice antidumping ed in particolare consente, nei casi suddetti, di calcolare il prezzo sul mercato interno in base al «costo di produzione nel paese d'origine, maggiorato di un equo importo per le spese di amministrazione, di vendita e d'altro genere e per i profitti», con la condizione che «di regola, la maggiorazione per il profitto non può esser superiore al profitto normalmente realizzato con la vendita di prodotti della stessa categoria generale sul mercato interno del paese d'origine».

L'art. 3, n. 3, corrisponde all'art. 2, e), del Codice antidumping. Esso disciplina in particolare il calcolo del «prezzo all' esportazione» sulla base del prezzo praticato nella prima rivendita ad un acquirente indipendente «quando non è possibile fondarsi su tale prezzo a seguito dell'esistenza di un'associazione o di un accordo di compensazione tra l'esportatore e l'importatore».

L'art. 3, n. 4, che corrisponde all'art. 2, f), del Codice antidumping, prescrive, alla lett. a), che il raffronto tra il prezzo d'esportazione e il prezzo interno deve riferirsi «ai prezzi praticati allo stesso stadio commerciale, che, in linea di massima, è quello dell'uscita dalla fabbrica» e «per vendite effettuate a date il più possibile ravvicinate»; al n. 4, leu. b), esso dispone che «in ciascun caso si terrà debitamente conto … delle differenze tra le condizioni di vendita, nonché della disparità di tassazioni e delle altre differenze che influiscono sulla comparabilità dei prezzi» e, nell'ipotesi in cui i prezzi all' esportazione si calcolano secondo l'art. 3, n. 3, anche «delle spese intervenute tra l'importazione e la rivendita, nonché dei benefici realizzati».

L'art. 3, n. 7, definisce il «margine di dumping» come «la differenza di prezzo determinata in conformità delle disposizioni del presente articolo».

L art. 4 riguarda la determinazione del danno e rispecchia le disposizioni della Sezione B del Codice antidumping.

L'art. 4, a), stabilisce che la determinazione del danno si opera solo se «le importazioni formanti oggetto di dumping ne sono manifestamente la causa principale» e che nello stabilire se vi è pregiudizio, «si terrà conto, da un lato, delle conseguenze del dumping effettivamente costatate e, dall'altro, di tutti gli altri fattori, presi nel loro complesso, che possano influire sfavorevolmente sulla produzione della Comunità». L'art. 4, n. 1, b), prescrive che la costatazione della minaccia del danno «deve basarsi su fatti e non soltanto su presunzioni, congetture o lontane possibilità». Il n. 2 dell'art. 4, che tratta della valutazione del danno, e il n. 3, che tratta del problema della causalità, sono identici, nei punti essenziali, alle lettere b) e, rispettivamente, c) dell'art. 3 del Codice antidumping.

Gli artt. 6 e 7 del regolamento fissano le norme per le denuncie antidumping, che sono più particolareggiate rispetto all'art. 5, a), del Codice antidumping.

L'art. 6, n. 1, stabilisce che la. denuncia deve venir fatta per iscritto e può venir presentata da «ogni persona fisica o morale, nonché ogni associazione non avente personalità morale, che agisce a nome di una produzione della Comunità e che si ritiene lesa o minacciata da un dumping». Secondo l'art. 6, n. 2, detta denuncia può venir presentata ad uno Stato membro o alla Commissione. Nella seconda ipotesi, che si è verificata nella fattispecie, la Commissione, a norma della lettera b), deve trasmettere la denuncia immediatamente agli Stati membri.

L'art. 7 stabilisce che la denuncia deve contenere la descrizione del prodotto di cui trattasi; il nome del paese esportatore; se possibile, il nome del paese d'origine, del produttore e dell'esportatore, nonché «elementi di prova relativi al dumping e al pregiudizio che ne deriva per la produzione che si ritiene lesa o minacciata di esserlo».

L'art. 9, nella versione modificata dall'art. 4 del regolamento (CEE) del Consiglio n. 2011/73, contempla un procedimento per la reiezione sommaria della denuncia qualora questa non sia corredata dei dati elencati nell'art. 7, oppure se appaia prima facie evidente che il margine di dumping, il volume delle importazioni a prezzo di dumping, attuale o potenziale, o il danno sono trascurabili (vedi pure art. 5, c, del Codice antidumping). Se non vi è reiezione sommaria, la Commissione, operando di conserva con gli Stati membri, a norma dell'art. 10, n. 1, deve immediatamente intraprendere l'esame dei fatti», che si estende al dumping e al danno, su scala comunitaria.

Nello svolgere questo esame, la Commissione ha facoltà, in base all'art. 10, n. 3, a), di «raccogliere tutte le informazioni necessarie presso gli importatori, gli esportatori, i commercianti, i produttori e le organizzazioni o associazioni di categoria». L'art. 10, n. 3, b), modificato dall'art. 5 del regolamento n. 2011/73, disciplina lo svolgimento delle inchieste nei paesi terzi, se necessario «per verificare le informazioni raccolte o per completarle». La Commissione può svolgere dette indagini solo previo «accordo delle imprese interessate» e in «assenza di opposizione da parte del governo del paese in questione, il quale sarà ufficialmente informato». Si dispone pure che la Commissione «è assistita da agenti di uno o più Stati membri che lo abbiano richiesto, in tutte le inchieste alle quali procede in loco». L'art. 10, n. 5, dà alla Commissione facoltà di chiedere la collaborazione degli Stati membri. Essa può chiedere loro di fornire informazioni o di eseguire controlli od ispezioni, comprese le indagini in paesi terzi; anche in tal caso «allo scopo di controllare le informazioni fornite o di completarle nelle imprese considerate, tali inchieste sono subordinate all'accordo delle imprese stesse e, previo avviso ufficiale, all'assenza di opposizione da parte del governo del paese considerato». Il personale della Commissione può collaborare con gli incaricati degli Stati membri nello svolgimento di questi compiti.

Garanzie procedurali per le parti interessate sono fornite dall'art. 10, nn. 2, 4 e 6.

Al n. 2 si dichiara: «quando dalle informazioni ottenute dalla Commissione risulta che potrebbero essere necessarie mi-sure di difesa contro talune pratiche di dumping, essa, nonostante la continuazione dell'esame dei fatti, informa ufficialmente i rappresentanti nel paese esportatore nonché gli esportatori ed importatori notoriamente interessati. Nel contempo, essa pubblica un avviso nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Tale avviso, tra l'altro, deve precisare, che tutte le informazioni relative al caso di cui trattasi possono essere comunicate alla Commissione e fissare il periodo durante il quale le parti interessate possono richiedere di essere sentite dalla Commissione, conformemente alle disposizioni del n. 6 (vedi art. 6, f) del Codice antidumping).

Il n. 4, che corrisponde all'art. 6, b), del Codice antidumping, e che è stato tanto dibattuto nelle presenti cause, dispone che:

«La Commissione offre l'occasione al ricorrente e agli importatori ed esportatori notoriamente interessati, nonché ai rappresentanti del paese esportatore, di prendere conoscenza di tutte le informazioni di carattere non confidenziale ai sensi dell'articolo 11 e da essa utilizzate nell'inchiesta antidumping, che riguardano la difesa dei loro interessi».

Il n. 6 dà attuazione all'art. 6, g), del Codice antidumping e recita:

«(a)

La Commissione può sentire le parti interessate. Queste ultime devono essere sentite quando lo richiedano per iscritto, nel termine fissato dall'avviso pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, e quando dimostrino che potrebbero essere direttamente interessate dal risultato dell'esame dei fatti. In questo caso, la Commissione offre loro la possibilità di far conoscere per iscritto, nel termine da essa fissato, il loro punto di vista. Inoltre, essa dà alle parti direttamente interessate che lo richiedano per iscritto, l'occasione di esporre verbalmente il loro punto di vista, sempreché queste ultime possano provare di avere un interesse sufficiente a tale effetto.

(b)

Inoltre, a richiesta, la Commissione dà alle parti direttamente interessate l'occasione di incontrarsi, per permettere il confronto delle tesi opposte e delle eventuali confutazioni. Nell'offrire tale occasione, essa tiene conto della necessità di salvaguardare il carattere riservato delle informazioni, nonché della convenienza delle parti. Nessuna parte è tenuta ad assistere ad un incontro e la sua assenza non è pregiudizievole per la sua causa».

Il n. 7 pone in atto l'art. 6, i), del Codice antidumping.

L art. 11 tratta delle informazioni riservate. Al n. 2 esso vieta la divulgazione da parte del Consiglio, della Commissione, degli Stati membri o dei loro dipendenti «delle informazioni ricevute in applicazione del presente regolamento e che, per loro natura, sono riservate, oppure quelle che sono fornite in via confidenziale da una parte interessata ad un'inchiesta antidumping» a meno che gli interessati abbiano dato il loro consenso (vedi art. 6, c), del Codice antidumping). L'ipotesi di richieste ingiustificate di considerare riservate le informazioni è contemplata al n. 3 che è sostanzialmente identico all'art. 6, d), del Codice antidumping (però, per quel che riguarda la versione inglese, è meglio redatto).

Gli artt. 12 e 13 riguardano la procedura di consultazione tra la Commissione e gli Stati membri. Le consultazioni possono aver luogo in qualunque momento, o immediatamente su richiesta di uno Stato membro o su iniziativa della Commissione (art. 12, n. 1). Esse si svolgono in seno ad un comitato consultivo (nel regolamento detto in prosieguo «il Comitato») composto dei rappresentanti di ciascuno degli Stati membri e presieduto da un rappresentante della Commissione (art. 12, 2). L'art. 12, 4, aggiunto tramite l'art. 6 del regolamento n. 2011/73, autorizza consultazioni solo in via epistolare, se ciò è necessario. L'art. 13 dispone che le consultazioni devono vertere in particolare:

«(a)

sull'esistenza e sul margine del dumping;

(b)

sulla realtà e sull'importanza del pregiudizio;

(c)

sulle misure idonee a rimediare agli effetti del dumping, avuto riguardo all'insieme delle circostanze, e sulle modalità della loro applicazione».

L'art. 14, n. 1, stabilisce il procedimento da seguirsi allorché «al termine delle consultazioni previste all'art. 13, non si. ritiene necessario adottare alcuna misura di difesa». In questa ipotesi, la lettera a) stabilisce che «quando non è stata espressa alcuna obiezione a tal riguardo in seno al Comitato …» il procedimento è chiuso. Altrimenti la Commissione presenta immediatamente al Consiglio «una relazione sull'esito delle consultazioni e propone di por termine alla procedura». La procedura si chiude quindi se il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, accoglie la proposta della Commissione, oppure se, nel termine di un mese, il Consiglio non ha adottato decisioni o non ha richiesto, decidendo a maggioranza qualificata, alla Commissione, di riprendere l'esame della situazione. La lettera b) dispone che i rappresentanti dei paesi esportatori e le parti direttamente interessate devono venir informati dalla Commissione della chiusura del procedimento, nonché dei motivi e dei criteri su cui si fonda detta chiusura. Se del procedimento era stata data notizia nella Gazzetta ufficiale, a norma dell'art. 10, 2, lo stesso paragrafo prescrive che la Commissione annunci la chiusura con lo stesso sistema, a meno che non vi siano ragioni speciali che vi si oppongano (vedi art. 6, h), del Codice antidumping).

L'art. 14, 2, tratta degli impegni in materia di prezzi e corrisponde all'art. 7 del Codice antidumping. Le lettere a), b) e c) sono così redatte :

«(a)

Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche quando, nel corso dell'esame dei fatti, gli esportatori del prodotto considerato si impegnano volontariamente a rivedere i loro prezzi in modo da eliminare il margine di dumping, oppure a cessare le loro esportazioni verso la Comunità, a condizione che la Commissione, dopo aver sentito i pareri espressi in seno al Comitato, ritenga accettabile questa soluzione.

(b)

Quando la Commissione, conformemente alle disposizioni di cui alla lettera a), ha accettato l'impegno che vi è contemplato, l'inchiesta sul pregiudizio è nondimeno completata se gli esportatori lo chiedono oppure se la Commissione, dopo aver sentito i pareri espressi in seno al Comitato, lo decide. Se la Commissione, dopo aver udito i pareri in seno al Comitato, conclude che non esiste un pregiudizio, l'impegno preso dagli esportatori diventa automatica-mente caduco, a meno che questi non ne confermino la validità.

(c)

Gli esportatori possono astenersi dal prendere tali impegni, o rifiutare di assumerne nonostante l'invito della Commissione, senza che ciò possa recare pregiudizio alla loro causa. Tuttavia, la Commissione è libera di giudicare che la concretizzazione di una minaccia di pregiudizio è più probabile se proseguono le importazioni che formano oggetto di un dumping.»

Gli ulteriori commi, che disciplinano il controllo dell'osservanza degli impegni, sono stati aggiunti dall'art. 7 del regola mento n. 2011/73. La lettera d), che fa parte di questa serie aggiunta, recita:

«Qualora costati che l'impegno degli esportatori viene eluso oppure non è rispettato o è stato denunciato e che, di conseguenza, potrebbero rendersi necessari provvedimenti di difesa, la Commissione avvisa immediatamente gli Stati membri e riprende l'esame dei fatti a norma dell'articolo 10».

A norma della lettera e), l'art. 18, n. 1, del regolamento (che riguarda il controllo degli effetti delle misure antidumping messe in atto) si applica, mutatis mutandis, agli impegni assunti dagli esportatori in virtù dell'art. 14.

Gli artt. 15 e 16 contengono disposizioni per l'adozione di provvedimenti provvisori. Essi corrispondono all'art. 10 del Codice antidumping, ma sono molto più complessi.

L'art. 15, n. 1, lett. a), recita:

«Quando, da un esame preliminare dei fatti, risulta che esiste un dumping e quando vi sono elementi di prova sufficienti di un pregiudizio e gli interessi della Comunità esigono un'azione immediata, la Commissione, a richiesta di uno Stato membro o di propria iniziativa:

determina, nel rispetto delle disposizioni dell'articolo 19, paragrafo 3, e a titolo di diritto antidumping provvisorio, l'ammontare da garantire, la cui riscossione sarà effettuata in applicazione della decisione ulteriore del Consiglio adottata in virtù dell'articolo 17;

designa i prodotti colpiti da tale mi-sura, secondo le indicazioni fissate all'articolo 20;

stabilisce che l'immissione in consumo di tali prodotti nella Comunità deve essere subordinata alla prestazione di una garanzia dell'ammontare di cui sopra».

(L'art. 19, n. 3, per quanto ci interessa ora, limita l'importo del dazio provvisorio al margine di dumping costatato provvisoriamente e aggiunge che esso do-vrebbe essere inferiore al margine del dumping se un diritto inferiore risultasse sufficiente ad eliminare il pregiudizio. Vedremo in seguito gli artt. 17 e 20).

L art. 15, n. 1, b), concerne la consultazione in seno al Comitato circa l'adozione di misure provvisorie. L'art. 15, n. 1, c), stabilisce, per quel che ci interessa, che, se uno Stato membro richiede un intervento da parte della Commissione, spetta a questa decidere entro cinque giorni lavorativi al massimo se si debba istituire un dazio antidumping provvisorio.

L'art. 15, n. 2, dispone — per quel che riguarda le presenti cause — alla lettera a) che i provvedimenti provvisori continuano a restare in vigore finché non subentri una decisione del Consiglio adottata a norma dell'art. 17, e, al massimo, per un periodo di tre mesi e, alla lettera b), che al termine della validità di detti provvedimenti, la cauzione è svincolata, «sempre che il Consiglio non abbia deciso, a norma dell'art. 17, la riscossione definitiva dell'ammontare garantito». L'art. 16, n. 2, conferisce alla Commissione la facoltà, «se gli esportatori e gli importatori lo richiedano e se l'esame dei fatti non è stato ancora concluso», di proporre al Consiglio la proroga dei provvedimenti provvisori «per un massimo di tre mesi». Il Consiglio decide su questa proposta a maggioranza qualificata.

L'art. 17 recita:

«1.   Quando, dalla costatazione definitiva dei fatti, risulta che vi è esistenza di dumping e di pregiudizio, e quando gli interessi della Comunità esigono un'azione comunitaria, la Commissione, dopo aver udito i pareri espressi in seno al Comitato, sottopone una proposta al Consiglio. Detta proposta verte anche sui problemi di cui al paragrafo 2.

(a)

Il Consiglio statuisce a maggioranza qualificata. Quando è stata fatta applicazione delle disposizioni dell'articolo 15, paragrafo 1, il Consiglio determina, fatte salve le disposizioni dell'articolo 15, paragrafo 2, in quale misura l'ammontare garantito a titolo di diritto provvisorio è definitivamente riscosso.

(b)

La riscossione definitiva di tale ammontare non può essere decisa se dalla costatazione definitiva dei fatti non risulta che esiste un pregiudizio importante … o che tale pregiudizio sarebbe stato causato se non fossero state applicate misure provvisorie».

L'art. 18, modificato dal regolamento del Consiglio (CEE) n. 1411/77, disciplina quello che ho definito in precedenza come controllo degli effetti dei provvedimenti antidumping, dopo la loro entrata in vigore, nonché la loro modifica o revoca, a seconda dei casi.

L'art. 19 stabilisce, al n. 1, che:

«I diritti antidumping, applicabili a titolo provvisorio o definitivo, sono istituiti con regolamenti,»

e al n. 2, per quel che ci interessa:

«(a)

Fatte salve le disposizioni dell'articolo 17, paragrafo 2, tali diritti non possono essere né istituiti né resi più onerosi con effetto retroattivo.

(b)

Essi si applicano a tutti i prodotti designati nell'atto del Consiglio o della Commissione, che a datare dalla sua entrata in vigore, sono dichiarati per l'immissione in consumo nella Comunità.»

(Vedi art. 11 del Codice antidumping).

L'art. 19, n. 3, è così redatto:

«L'ammontare di un diritto antidumping, definitivo o provvisorio, non può superare il margine di dumping costatato, oppure, in caso di instaurazione di un diritto provvisorio, il margine che è stato provvisoriamente determinato; tale ammontare dovrebbe essere inferiore al margine del dumping se un diritto inferiore risultasse sufficiente ad eliminare il pregiudizio.»

(Vedi art. 8, a) e c), del Codice antidumping).

L'art. 19, n. 4, stabilisce essenzialmente, a tutela degli importatori, quanto segue :

«(a)

Quando un importatore può provare che i prodotti che egli ha introdotto sul mercato della Comunità non formano oggetto di dumping o che il margine di dumping praticato è inferiore a quello che è alla base della decisione del Consiglio o della Commissione, i diritti antidumping riscossi su tali prodotti sono restituiti totalmente o parzialmente; in caso di adozione di misure provvisorie le garanzie sono liberate alle stesse condizioni.

(b)

A tale effetto, l'importatore, entro un termine di tre mesi dall'immissione in consumo di detti prodotti, può introdurre una domanda presso lo Stato membro sul territorio del quale tale immissione in consumo è stata effettuata».

La restante parte del paragrafo descrive il procedimento (che comprende la consultazione tra quello Stato membro, la Commissione e gli altri Stati membri) secondo cui si deve decidere se e in qual misura la domanda può venir accolta.

L'art. 20 stabilisce come devono venir descritti i prodotti interessati da provvedimenti antidumping, precisando, al n. 1, che la descrizione deve comprendere:

«(a)

voce doganale;

(b)

denominazione commerciale;

(c)

paese d'origine o di esportazione;

(d)

fornitore.»

Al n. 2 esso dispone però che:

«Quando sono implicati più fornitori dello stesso paese e non è possibile, per ragioni pratiche, nominarli tutti, i prodotti possono essere designati secondo le indicazioni di cui alle lettere a), b) e c) del paragrafo 1».

(Vedi art. 8, b), del Codice antidumping, seconda e terza frase).

L'art. 21 specifica che il dazio antidumping deve venir riscosso dagli Stati membri. Tuttavia, il suo gettito fa parte delle entrate proprie della Comunità. Sono queste, mi pare, tutte le norme della legislazione comunitaria di base di cui si deve tener conto nella fattispecie.

Dati i richiami che le parti hanno fatto alle norme antidumping del Trattato CECA, penso sia opportuno trattare anche questo punto.

La disciplina antidumping in materia carbosiderurgica si impernia sugli artt. 74 e 86 del Trattato CECA. L'art. 74 autorizza la Commissione, nei casi contemplati dall'articolo stesso, ad adottare provvedimenti e ad indirizzare raccomandazioni ai Governi. Una delle ipotesi è il caso in cui «sono accertati a carico di paesi non membri della Comunità o d'imprese situate in questi paesi procedimenti di dumping». L'art. 86 vincola gli Stati membri a mettere in atto detti provvedimenti e dette raccomandazioni.

Quindi una differenza fondamentale esiste tra CECA e CEE, cioè nella disciplina CECA e il potere di decidere spetta alla Commissione. Il Consiglio non ha alcuna funzione. L'esercizio di detto potere non è stato sistematicamente disciplinato dalla Commissione finché non è stata emanata la raccomandazione 15 aprile 1977 n. 77/329/CECA. Il preambolo della stessa raccomandazione si richiama al regolamento n. 459/68 (modificato), dichiara che «è opportuno raggiungere la maggiore omogeneità possibile tra le normative del commercio estero nelle due Comunità» e si richiama pure agli «obblighi internazionali delle due Comunità e dei loro Stati membri». Il sistema adottato con la raccomandazione n. 77/329 ricalcava in sostanza quello di cui al regolamento n. 459/68, modificato dal regolamento n. 2011/73, con gli adattamenti necessari, data la diversa struttura istituzionale della CECA.

Il 28 dicembre 1977, la Commissione emanava la raccomandazione n. 3004/77/CECA, che, sotto vari aspetti, modificava la raccomandazione n. 77/329. Di tali modifiche, tre mi paiono significative.

La prima, e probabilmente la più importante alla luce degli argomenti svolti nelle presenti cause, è stata la modifica dell'art. 14, n. 2, d), della raccomandazione n. 77/329, che, fino a quel momento, era stato identico all'art. 14, n. 2, d), del regolamento n. 459/68 (aggiunto con il regolamento n. 2011/73). Entrambi avevano stabilito che, se la Commissione avesse costatato che un impegno assunto dagli esportatori veniva eluso, non veniva più osservato o era stato revocato, e — quindi — si rendevano necessarie misure di protezione, la Commissione doveva immediatamente riprendere «l'esame dei fatti». L'art. 3 della raccomandazione n. 3004/77 sostituiva questa disposizione della raccomandazione n. 77/329 con una complessa serie di disposizioni, il cui punto essenziale era il seguente:

«La Commissione prenderà immediatamente le misure del caso qualora costatasse che l'impegno viene eluso, non è rispettato o è stato denunciato».

Le altre due modifiche degne di nota erano l'istituzione, fatta dall'art. 4 della raccomandazione n. 3004/77, di disposizioni modellate su quelle dell'art. 11 (iii) del Codice antidumping, relative alle ipotesi di «dumping sporadico», e quella operata dall'art. 5, di disposizioni che consentivano di istituire un sistema di prezzi di base, analogo a quello contemplato all'art. 8, d), del Codice antidumping.

Nessuna di queste modifiche è mai stata apportata alla normativa CEE.

IV — L'industria dei cuscinetti

I prodotti su cui vertono le controversie sono, come ho detto all'inizio, i cuscinetti a sfere e i cuscinetti a rulli conici. Le norme internazionali contemplano circa 25000 tipi e misure di cuscinetti sicché, a parte le differenze qualitative, i cuscinetti prodotti da fabbriche diverse sono intercambiabili. In questa gamma di misure e tipi, ve ne sono alcuni molto richiesti, noti come tipo «pane e burro» o tipo «stella». Essi possono venir fabbricati a buon mercato in grande serie. L'industria europea critica il fatto che la concorrenza giapponese si sia concentrata su questo tipo di cuscinetti.

In Giappone vi sono quattro principali fabbricanti di cuscinetti che — da soli — effettuano circa il 90 % delle vendite sul mercato giapponese e circa il 95 % delle esportazioni dal Giappone nella Comunità. Essi sono la NTN Toyo Bearing Company Ltd (NTN), la Nippon Seiko K.K. (NSK), la Koyo Seiko Co. Ltd (KOYO) e la Nachi Fujikoshi Co. (NACHI). Le chiamerò «le quattro grandi». Vi sono pure nove industrie giapponesi minori i cui prodotti sono o sono stati esportati nella Comunità. Le quattro grandi e le altre nove industrie sono riunite nella «Japan Bearing Industriai Association».

Nella Comunità, la produzione di cuscinetti è concentrata in Francia, in Germania e nel Regno Unito. L'Italia ha una modesta produzione e frena le importazioni dal Giappone assoggettandole a re-strizioni quantitative. Risulta, inoltre, che l'Italia è autorizzata dalla Commissione, in virtù dell'art. 115 del Trattato CEE, a vietare l'importazione di cuscinetti d'origine giapponese in libera pratica negli altri Stati membri. Trascurabili sono i dati di produzione relativi al Belgio, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Le associazioni di categoria dei fabbricanti di cuscinetti in Francia, Germania e nel Regno Unito, i cui interessi comuni erano un tempo tutelati da un «Comitato delle Associazioni dei fabbricanti europei di cuscinetti», nel marzo 1977 fondavano la Federazione delle associazioni di fabbricanti europei di cuscinetti (FEBMA), che è intervenuta in tutte le cause presenti.

Nella Comunità, vi sono da duecento a trecento importatori di cuscinetti giapponesi, ma l'importazione dei prodotti delle quattro grandi avviene, per lo più, tramite loro affiliate o società altrimenti vincolate ad esse.

La NTN ha una affiliata in Francia, la NTN-Roulements Sidag S.A. (NTN Francia), ed una in Germania, NTN Wäzlager (Europa) GmbH (NTN Germania). Nel Regno Unito ha una partecipazione del 50 % nella NTN Bearings-GKN Ltd (NTN-GKN), mentre il rimanente 50 % è nelle mani della nota società inglese Guest, Keen & Nettlefolds Ltd.

La NSK ha affiliate in Francia, Germania e nel Regno Unito, cioè la NSK France S.A. (NSK Francia), la NSK Kugellager GmbH (NSK Germania) e la NSK Bearings Europa Ltd (NSK UK). La NSK UK importa cuscinetti fabbricati in Giappone e ne fabbrica essa stessa a Peterlee, nella Contea del Durham.

Anche la KOYO ha affiliate in Francia, Germania e nel Regno Unito, cioè una società denominata semplicemente «Koyo France», la Deutsche Koyo Wälzlager Verkaufsgesellschaft mbH (Deutsche Koyo) e, rispettivamente, la Koyo UK Ltd (Koyo UK).

La NACHI ha una affiliata in Germania, la Nachi (Deutschland) GmbH (Nachi Germania) e una nel Regno Unito, la Nachi (UK) Ltd (Nachi UK). Delle esportazioni della NACHI nella Comunità, il 67 % è comunque trattato da una società francese indipendente, la Import Standard Office S.A. (ISO), che è distributore esclusivo della NACHI in Francia.

V — Gli antefatti delle presenti controversie

L'intensità della penetrazione sul mercato comune dei cuscinetti di produzione giapponese pare abbia preoccupato l'industria europea sin dal 1968. Questa preoccupazione sta alla base di parecchie iniziative, tra le quali un intervento presso la Commissione nel 1968, a seguito del quale l'istituzione acconsentì a considerare i cuscinetti come «prodotto sensibile» nelle trattative commerciali con il Giappone.

Comunque, per quel che ci interessa ora, non penso sia il caso di risalire oltre il maggio 1976, data alla quale i produttori europei inviarono alla Commissione un memorandum intitolato «Importazioni a basso prezzo dal Giappone e dai paesi a commercio di stato. Minaccia per l'industria comunitaria dei cuscinetti». Nel memorandum si dichiarava che era quasi certo che si era praticato il dumping in varie occasioni, ma era praticamente impossibile apportare le prove necessarie per corroborare una denuncia secondo le norme del GATT. Di conseguenza, non si chiedeva alla Commissione di iniziare un procedimento antidumping, ma piuttosto di instaurare una sorveglianza sulle importazioni comunitarie e dei contingenti comunitari d'importazione per i cuscinetti provenienti dal Giappone e dai paesi a commercio di stato. La Commissione dichiara di aver discusso il memorandum con gli Stati membri, ma di non aver voluto prendere iniziative, come l'istituzione del contingentamento, che poteva risolversi nel ripristino del protezionismo nel commercio internazionale. Per il momento, quindi, si sarebbe limitata a sorvegliare la situazione.

Nonostante le difficoltà cui si faceva richiamo nel memorandum del maggio 1976, una denuncia antidumping veniva presentata alla Commissione il 15 ottobre 1976 dal Comitato delle associazioni dei fabbricanti europei di cuscinetti. La denuncia si imperniava sul raffronto tra prezzi interni e prezzi d'esportazione praticati per dieci modelli di cuscinetti a sfere e per sei modelli di cuscinetti a rulli. I prezzi interni si riferivano al 1975 ed erano stati ricavati dai listini di tre delle quattro grandi. Si osservava che, in pratica, le vendite sul mercato interno erano effettuate a prezzi molto inferiori a quelli del listino. Di conseguenza, i denuncianti calcolavano una riduzione del 60 % e documentavano queste quotazioni nel fascicolo presentato alla Commissione. I prezzi d'esportazione erano ricavati da un listino del 1975, assertivamente edito dall «Unione esportatori dell'industria giapponese dei cuscinetti». Si dichiarava che questi documenti, nel loro complesso, dimostravano un dumping aggirantesi in media sul 45 %. Per di più, la denuncia conteneva le prove del danno patito, che si sosteneva ammontare a 500 milioni di marchi dall'inizio del 1970 al giugno 1976. L'esattezza delle informazioni fornite nell'atto di denuncia è stata contestata in questa sede dalle ricorrenti, specie dalla NSK. La Commissione ci ha però dichiarato (e le ricorrenti non l'hanno contestato) di non aver fatto uso di alcuno di detti dati né al fine dell'accertamento provvisorio del dumping e del danno da esso arrecato, né ai fini dell'accertamento definitivo.

Come prescritto dall'art. 6, n. 2, b), del regolamento n. 459/68, la Commissione trasmetteva la denuncia agli Stati membri. Essi presentavano alla Commissione le loro osservazioni il 5 novembre 1976. La decisione di aprire un'inchiesta ufficiale antidumping veniva adottata il 9 novembre 1976 e veniva notificata alla missione giapponese presso le Comunità. Il 13 novembre 1976 veniva pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee l'avviso dell'inizio del procedimento, conformemente all'art. 10, n. 2, del regolamento n. 459/68. Il termine entro il quale le parti interessate potevano presentare le loro osservazioni scritte veniva fissato in 30 giorni e si dichiarava che la Commissione avrebbe sentito le parti direttamente interessate che ne avessero fatto richiesta «a condizione che dimostrassero di avere un interesse sufficiente» ad «esporre più ampiamente il loro punto di vista».

La Commissione era inoltre tenuta, in virtù dell'art. 10, n. 2, ad informare «gli esportatori ed importatori notoriamente interessati» dell'inizio dell'inchiesta antidumping. Il 10 novembre 1976 si indirizzavano lettere in questo senso alle quattro grandi e a vari altri importatori, comprese le affiliate europee delle quattro grandi e l'ISO. Per motivi non meglio specificati, la lettera alla NSK France veniva inviata più tardi. A ciascuna delle lettere era allegato il testo dell'avviso che sarebbe stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e un questionario che il destinatario era invitato a riempire onde presentare quello che la Commissione stessa chiamava «la sua difesa». I questionari consistevano in moduli standard normalmente impiegati nelle indagini antidumping e contenevano, tra l'altro, domande precise circa prezzi e quantitativi venduti. In particolare si chiedeva agli esportatori di produrre, tra gli elementi probanti, le copie di tutte le fatture stilate per le vendite effettuate tra il gennaio e il giugno 1976, e sul mercato giapponese e sul mercato comunitario, dei sedici modelli di cuscinetti prescelti dai firmatari della denuncia. Nella lettera di accompagnamento si aggiungeva:

«Al fine di cercare una soluzione rapida ed equa è probabile che intendiate illustrare i vostri argomenti à viva voce ai rappresentanti della Commissione ed eventualmente incontrare i produttori europei per confrontarvi direttamente con essi. A questo scopo, la Commissione propone un incontro per il 18 gennaio 1977. Vogliate confermarci a stretto giro di posta se questa data è di vostro gradimento. Non dimenticate, tuttavia, che le vostre osservazioni scritte devono comunque venir presentate entro il termine massimo di 30 giorni stabilito nell'avviso».

Alcuni dei destinatari chiedevano — ed ottenevano — proroghe per la restituzione dei questionari. Le prime risposte delle quattro grandi pervenivano alla Commissione con lettere datate 17 e 18 dicembre 1976. La corrispondenza tra le quattro grandi e la Commissione si protraeva anche successivamente e per tutta la durata delle indagini.

Un incontro tra le «parti direttamente interessate» si svolgeva a Bruxelles il 18 e il 19 gennaio 1977. Pare che detto incontro avesse l'indole di un confronto diretto — come previsto dall'art. 6, g), del Codice antidumping e dall'art. 10, n. 6, b), del regolamento n. 459/68, inteso a consentire ai rappresentanti dell'industria europea, da un lato, e ai rappresentanti degli esportatori e degli importatori di cuscinetti giapponesi, dall'altro, il confronto delle «tesi opposte» — piuttosto che di una semplice audizione, del tipo contemplato dall'art. 10, n. 6, a), del regolamento. All'incontro prendevano parte anche esponenti del governo giapponese. Pare pacifico che l'incontro non fosse molto fruttuoso, specie a causa del contegno degli esportatori giapponesi, che erano restii a discutere informazioni di carattere riservato alla presenza dei loro concorrenti. Comunque essi dichiaravano che lo sconto sui prezzi da loro indicati sul listino nazionale avrebbe dovuto essere del 70-80 %, invece del 60 % sul quale si erano fondati i calcoli dei firmatari della denuncia. Molti degli argomenti svolti a loro difesa erano attacchi alle prove di grave pregiudizio apportate a sostegno degli argomenti dei firmatari della denuncia. Su questo punto, è stato presentato un memorandum scritto da parte della Japan Bearing Industriai Association. È pure pacifico che, nonostante le sollecitazioni ricevute, gli industriali giapponesi non intendevano affrontare il tema dell'aumento dei prezzi d'esportazione o dell'assunzione di impegni. Data questa renitenza, la Commissione li ammoniva minacciando l'adozione di una decisione provvisoria a breve scadenza e chiedeva loro di fornire alcune informazioni supplementari al più tardi entro il 25 gennaio 1977. Almeno alcune di dette informazioni giungevano alla Commissione il, o verso il, 26 gennaio 1977.

Il 28 gennaio 1977 si teneva una riunione del Comitato consultivo, durante la quale i rappresentanti di vari Stati membri chiedevano l'istituzione immediata di dazi provvisori antidumping. Di fronte a queste richieste, in virtù dell'art. 15, n. 1, c), del regolamento n. 459/68, la Commissione avrebbe dovuto decidere entro il termine massimo di cinque giorni lavorativi se prendere detta iniziativa.

In definitiva, la Commissione riteneva che dumping e danno fossero stati provati a sufficienza nel corso dell'esame provvisorio e che l'interesse della Comunità richiedesse un pronto intervento. Di conseguenza, il 4 febbraio 1977 veniva adottato il regolamento n. 261/77, che entrava in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, il 5 febbraio 1977. Con questo regolamento, si imponeva un dazio provvisorio del 20 % sui cuscinetti a sfere, cuscinetti a rulli conici e loro parti provenienti dal Giappone. La Commissione evidentemente riteneva che fosse impossibile elencare tutti i fornitori, giacché nel regolamento essi non sono menzionati (vedi art. 20, n. 2, del regolamento n. 459/68). Tuttavia un dazio ridotto al 10 % veniva applicato ai prodotti della NACHI e della KOYO. La Commissione ci ha chiarito che questo trattamento più favorevole era dovuto al fatto che, nel corso dell'esame provvisorio, era parso che nelle due ipotesi specifiche il margine di dumping fosse inferiore. È emerso in seguito che per i prodotti di tutte e quattro le «grandi» l'aliquota del dazio avrebbe dovuto essere identica. Secondo il regolamento, la messa in libera pratica nella Comunità dei prodotti soggetti al dazio era subordinata al deposito di una cauzione pari all'importo del dazio. (In generale la cauzione venne prestata sotto forma di garanzia bancaria). A norma dell'art. 15, n. 2, del regolamento n. 459/68, il dazio provvisorio doveva venir applicato per il periodo massimo di tre mesi.

Dopo l'adozione del regolamento n. 261/77, la Commissione proseguiva l'inchiesta. Ciò comportava frequenti incontri a Bruxelles, anche con esponenti del governo giapponese e della missione giapponese, nonché ispezioni presso le aziende. Ispezioni negli stabilimenti delle affiliate delle quattro grandi in Francia, in Germania e nel Regno Unito (inclusa la NTN-GKN) venivano svolte nel febbraio e nel marzo 1977. Ad esse seguivano, nell'aprile 1977, ispezioni nelle fabbriche delle quattro grandi in Giappone. Nello stesso mese veniva effettuata anche un'ispezione nella sede dell'ISO. Le indagini erano condotte da specialisti antidumping della Commissione e di alcuni Stati membri, che nella missione in Giappone erano affiancati da un esperto contabile e da un economista in servizio presso la delegazione della Commissione a Tokio. Tutti questi incontri e queste ispezioni fanno pensare che le indagini siano state meticolose e accurate. Mi paiono inutili i tentativi di alcune delle ricorrenti di mettere in forse la serietà dell'inchiesta. Non voglio nemmeno tentare di riassumere i tipi di prove raccolte dalla Commissione nel corso di queste indagini. Si è parlato di fatture, elenchi di prezzi figuranti in stampati di elaborati elettronici, particolari dei costi, controlli contabili e così via. Sappiamo anche che il tutto è raccolto a Bruxelles in 135 fascicoli.

Il periodo massimo di tre mesi stabilito dal regolamento n. 261/77 per l'applicazione del dazio provvisorio avrebbe dovuto scadere il 15 maggio 1977. Era evidente che a quella data l'«esame dei fatti» non sarebbe ancora stato terminato. Quindi, a norma dell'art. 16, n. 2, del regolamento n. 459/68, il 3 maggio 1977 il Consiglio emanava il regolamento (CEE) n. 944/77, che prorogava di un altro trimestre il dazio provvisorio, cioè fino al 5 agosto 1977. Condizione preliminare per l'esercizio di questa facoltà era la richiesta degli esportatori e degli importatori. In udienza ci è stato detto che la richiesta era stata fatta quanto meno dalle quattro grandi e dalle loro affiliate europee.

Nel maggio e nel giugno 1977, la Commissione procedeva a calcoli per stabilire definitivamente se vi fosse stato dumping e, in caso positivo, quale ne fosse stato il margine. Uno dei più importanti mezzi in queste cause è stato tratto dal fatto che la Commissione non si è ritenuta vincolata a rendere noti questi calcoli, o a fornire particolari in merito, a chicchessia; e non lo ha fatto.

A questo punto mi par necessario soffermarmi sui metodi usati dalla Commissione nel calcolare i margini di dumping, sia per la determinazione provvisoria, sulla quale si fondava il regolamento n. 261/77, sia per la determinazione definitiva.

Anzitutto, poiché nella Comunità si vendevano moltissimi tipi (circa 3500) di cuscinetti di origine giapponese, era praticamente impossibile calcolare il margine di dumping per ognuno di essi. Bisognava procedere per campione. I modelli rappresentativi di cui si tenne conto nell'esame preliminare erano i 16 originariamente indicati dai firmatari della denuncia. Campioni ulteriori, sui quali si è fondata la determinazione finale del dumping, vennero scelti in seguito durante le ispezioni presso le affiliate europee delle quattro grandi. Questi campioni variavano da ditta a ditta ed anche da Stato membro a Stato membro.

In secondo luogo, i prezzi assunti dalla Commissione come base di calcolo erano, sia nel caso dei prezzi d'esportazione sia nel caso dei prezzi sul mercato interno, prezzi medi ponderati, cioè per ogni prodotto una media calcolata dividendo l'importo totale corrispondente al fatturato per il totale delle unità vendute. Questo sistema è stato adottato in quanto vi erano notevoli variazioni di prezzo nei singoli negozi anche relativamente allo stesso prodotto venduto dallo stesso fornitore.

In terzo luogo, data l'«associazione» tra le quattro grandi e gli importatori europei della maggior parte dei loro prodotti, la Commissione ha fatto ricorso al metodo di ricostituzione del prezzo d'esportazione contemplato dall'art. 3, n. 3, del regolamento n. 459/68, cioè ha dedotto detto prezzo partendo dal prezzo cui le merci erano rivendute per la prima volta ad un acquirente indipendente all'interno della Comunità. L'impiego di questo metodo era menzionato nel preambolo del regolamento n. 261/77 e venne confermato alle affiliate europee delle quattro grandi in occasione delle ispezioni nelle loro sedi e allorché vennero interrogate circa costi e utili. Comunque, coerente con il suo punto di vista secondo cui essa non era tenuta a rivelare la sue basi di calcolo, la Commissione le ha lasciate all'oscuro quanto all'impiego che ha fatto dei dati da esse forniti. Tale contegno è stato oggetto di una specifica censura della NSK in udienza, giacché, nella controreplica presentata nella causa 119/77, la Commissione ha indicato la percentuale di incidenza dei costi detratta dal prezzo di rivendita di ciascuna delle affiliate della NSK. La NSK ha sostenuto che queste percentuali non potevano essere state calcolate correttamente.

In quarto luogo, il raffronto tra i prezzi d'esportazione e i prezzi interni è stato fatto, in generale, assumendo come base il franco fabbrica, in relazione alle vendite effettuate nella prima metà del 1976, periodo definitivo «di base». (Ricorderete che questo periodo è lo stesso per cui si chiedevano fatture nella lettera della Commissione del 10 novembre 1976). La Commissione ha ritenuto che questo raffronto fosse conforme alle esigenze dell'art. 3, n. 4, del regolamento n. 459/68. Tuttavia, nei calcoli effettuati nel maggio e nel giugno 1977, la Commissione, come ha dichiarato nella controreplica nelle cause 119/77 e 120/77, ha aggiornato i prezzi interni al gennaio 1977. La ragione di questo aggiornamento, spiegò la Commissione, era il desiderio di garantire che ogni dazio istituendo fosse commisurato ad un margine di dumping quanto più possibile attuale e non ad un margine che ormai aveva solo valore storico. Nessuno degli importatori e degli esportatori interessati è stato informato dell'intenzione della Commissione di procedere a questo aggiornamento e nemmeno la Corte ha avuto più di un vaghissimo cenno circa ciò che il sistema implicava. Pare che non siano stati aggiornati in modo analogo i prezzi all'esportazione. La questione della necessità o no di detto aggiornamento è stata oggetto di disputa, dinanzi alla Corte, tra la NSK e la Commissione.

Nelle suddette controrepliche, la Commissione ha dichiarato inoltre di aver ulteriormente rettificato, nei calcoli effettuati in maggio e in giugno, i prezzi interni con l'aggiunta di un importo corrispondente ad un utile teorico dell'8 %. (In alcuni casi sporadici si era tenuto conto di un utile teorico nel calcolare i prezzi all'esportazione, ma mai nel calcolo di entrambi i prezzi, prezzo esportazione e prezzo interno corrispondente). La Commissione ha ritenuto che ciò fosse giustificato, in quanto da servizi giornalistici e controlli della contabilità dei fabbricanti giapponesi risultava che questi avevano sempre lavorato in perdita. Il fatto di vendere sempre in perdita, secondo la Commissione, non poteva venir considerato come «normale operazione commerciale» ai sensi dell'art. VI, 1, del GATT, dell'art. 2, d), del Codice antidumping e dell'art. 3, n. 1, a), del regolamento n. 459/68. Quindi essa ha ritenuto che le fosse lecito ignorare gli effettivi prezzi del mercato interno, e calcolare a ritroso il prezzo in base al «costo di produzione», come stabilito dall'art. 3, n. 2, del regolamento. Ma poiché tale calcolo sarebbe allora stato impossibile, sulla base delle informazioni di cui essa poteva disporre, la Commissione ha deciso di partire dall'idea che i prezzi del mercato interno coprissero i costi di produzione e vi ha aggiunto una maggiorazione dell'8 %. Il presupposto che i prezzi del mercato interno coprissero le spese di produzione, a giudizio della. Commissione, tornava a vantaggio dei produttori giapponesi. La percentuale dell'8 % è stata calcolata in base agli utili di alcune industrie giapponesi, che la Commissione considerava «della stessa categoria generale» dell'industria dei cuscinetti, cioè la produzione di molle, di catene e trasportatori e di trasportatori soltanto. Se gli argomenti svolti dalla Commissione a sostegno della sua interpretazione dell'art. VI del GATT, dell'art. 2, d), del Codice antidumping e dell'art. 3, n. 2, del regolamento n. 459/68 siano giuridicamente validi è un punto che vedremo nel successivo corso dell'esame. Per ora limitiamoci a notare che, pur se ai produttori giapponesi sono state richieste informazioni sui loro profitti e sulle loro perdite, mai la Commissione ha loro comunicato che un importo corrispondente ad un utile teorico, senza parlare della cifra specifica dell'8 %, doveva venir aggiunto alla media ponderata dei loro prezzi o sul loro mercato interno o sui mercati della Comunità; e nemmeno è stata mai discussa con loro la raffrontabilità delle industrie prescelte dalla Commissione al fine di determinare detto importo.

Torniamo ai fatti.

Pure nel maggio-giugno 1977 si esaminava la possibilità che gli esportatori giapponesi assumessero l'impegno di ritoccare i loro prezzi. Dinanzi alla Corte, la Commissione ha prospettato la situazione in modo da dar l'impressione che gli esportatori giapponesi fossero in difetto in quanto non avevano voluto discutere questa possibilità prima che le indagini giungessero ad un punto così avanzato, ma l'art. 14, n. 2, c), del regolamento n. 459/68 impedisce senza dubbio che una simile circostanza possa avere conseguenze pregiudizievoli nei loro confronti. Alle discussioni prendevano parte la Commissione, da un lato, e le quattro grandi e le loro affiliate, insieme con esponenti del Governo giapponese e della Japan Bearing Industriai Association, dall'altro. La possibilità di far sottoscrivere impegni agli esportatori giapponesi di minore importanza veniva discussa con l'associazione.

Pare che durante dette discussioni almeno qualcuna delle quattro grandi sia stata informata in termini generali dagli esponenti della Commissione circa i margini di dumping che erano stati calcolati relativamente alle loro esportazioni. La NSK ha asserito che, durante un colloquio con i suoi rappresentanti svoltosi il 25 maggio 1977, gli esponenti della Commissione dichiaravano che il margine di dumping da loro rilevato per le esportazioni NSK nella Comunità oscillava da zero a 30 % a seconda del modello, con una media oscillante tra il 15 e il 16 %. L'avvocato della KOYO ci ha detto che, in un incontro cui egli stesso aveva presenziato, un esponente della Commissione affermò che il margine di dumping rilevato per la KOYO era del 12,24 %. D'altro canto, risulta che nessuna delle quattro grandi è stata informata nei particolari circa il margine di dumping costatato per i suoi prodotti, modello per modello. Ancora più reticente è stata la Commissione circa il sistema in base al quale i margini erano stati calcolati.

Dinanzi alla Corte è divenuto un punto controverso tra la NSK e la Commissione se le dichiarazioni fatte dai funzionari della Commissione durante le discussioni fossero atte ad indurre gli esportatori a credere che, se avessero assunto adeguati impegni, i loro prodotti sarebbero andati esenti da dazio. Penso che sia inutile esaminare questo argomento, giacché, comunque le parti lo abbiano affrontato, gli esportatori non potevano ragionevolmente pensare che i funzionari interessati avessero facoltà di vincolare la stessa Commissione, e tantomeno il Consiglio.

A conclusione delle discussioni, le quattro grandi firmavano impegni il 20 giugno 1977.

Facendosi portavoce degli esportatori giapponesi di minor importanza, la Japan Bearing Industrial Association comunicava alla Commissione, con telex 1o luglio 1977, che i suoi associati erano disposti ad impegnarsi secondo la formula concordata tra l'Associazione e i funzionari della Commissione. Nove esportatori minori firmavano impegni il 7 luglio 1977. Otto dichiarazioni in tal senso venivano invate alla Commissione con lettera 8 luglio, l'ultima veniva spedita il 28 luglio 1977. Ignoro quale sia il loro tenore esatto.

Comunque sono stati prodotti in giudizio gli impegni delle quattro grandi. Ognuno di essi — si dichiara — «vincola la summenzionata società, le sue affiliate e le altre società appartenenti al suo gruppo». Essi non presentano differenze sostanziali, pur se l'impegno della NACHI è leggermente diverso dagli altri, per quanto riguarda le esportazioni in Francia, forse a riconoscimento della posizione indipendente della ISO. In linea generale, ciascuna delle quattro grandi (e loro affiliate e altre società del gruppo) si impegnava a:

1)

Assumendo come base i prezzi praticati nel gennaio 1977, aumentarli in due fasi, la prima compresa tra il 5 febbraio 1977 e il 30 giugno 1977 e l'altra da iniziarsi non oltre il 1o luglio 1977 e da terminarsi entro il 31 dicembre 1977. In ogni fase, l'aumento doveva esser pari al 10 %.

2)

Aumentare i prezzi nell'ultimo mese di ogni semestre «in base alla variazione percentuale indicata nell'indice dei prezzi di produzione dei manufatti — macchinario generale e strumenti di precisione, edito dalla Banca del Giappone». Il primo di suddetti aumenti, corrispondente alla variazione percentuale registrata tra il giugno 1977 ed il dicembre 1977, andava praticato alla fine del giugno 1978.

3)

Secondo il punto 5 di ciascuno degli impegni (eccetto per quello della NACHI, ove figura al n. 6), fare il necessario per garantire «un andamento dei prezzi parallelo» per i cuscinetti «non di origine giapponese».

4)

Fornire alla Commissione, ad intervalli determinati, dettagliate informazioni circa i propri prezzi per i 100 più significativi modelli di cuscinetti e consentire «qualsiasi controllo di dette informazioni la Commissione ritenga necessario».

Gli impegni sarebbero divenuti vincolanti «dal momento in cui la Commissione avrà notificato alla ditta che essi sono ritenuti accettabili». La loro «validità si estendeva al 31 dicembre 1978, erano rinnovabili tacitamente per un semestre, a meno che la Commissione decidesse di revocare la sua accettazione o la società firmataria li avesse denunciati, con un preavviso di almeno venti giorni».

Tra i quesiti scritti posti dalla Corte alle parti al termine della fase scritta, ve ne era uno mirante a chiarire come dovesse intendersi la clausola secondo cui gli impegni assunti il 20 giugno 1977 si riferivano anche ai prezzi praticati nelle vendite effettuate tra il 5 febbraio e il 20 giugno 1977. La Commissione ha risposto di non aver inteso che gli impegni potessero riferirsi anche ai prezzi già praticati per le vendite effettuate tra il 5 febbraio e il 20 giugno 1977, bensì di aver ammesso il principio che ogni aumento di prezzo praticato tra il 5 febbraio e il 30 giugno 1977 potesse annoverarsi tra quelli «da effettuarsi nell'ambito della prima fase dell'impegno». Le quattro grandi hanno spiegato più diffusamente che ognuna di esse si era adoperata nel primo semestre del 1977 ad aumentare i suoi prezzi nei limiti consentiti dai controlli sui prezzi esercitati dallo Stato, dai contratti già stipulati e dalla reazione della clientela. La NACHI aveva annunciato un primo aumento del 5 % a decorrere dal 1o gennaio 1977. In febbraio essa annunciò un ulteriore aumento del 12 %. La KOYO iniziò gli aumenti in febbraio, a seguito dell'istituzione del dazio provvisorio. La NTN e la NSK le tennero dietro, incaricando le loro affiliate europee di aumentare i prezzi del 10 % in marzo e in aprile rispettivamente. Le quattro grandi hanno osservato che la Commissione era al corrente di ciò e gli impegni riflettevano un accordo tra i produttori e la Commissione, in base al quale gli aumenti di prezzo effettuati nella prima metà del 1977 potevano rientrare nell'ambito dell'aumento totale del 20 % da praticarsi entro il 31 dicembre 1977.

La NSK presentava vive rimostranze circa i termini della clausola n. 5 del suo impegno, in quanto, così formulata, essa vigeva anche per i cuscinetti fabbricati dalla NSK UK a Peterlee, cioè nella Comunità. La NSK aveva cercato di far modificare il progetto d'impegno (elaborato dalla Commissione) in questo punto, ma la Commissione aveva insistito per mantenere la clausola. Commissione e Consiglio ci hanno spiegato che lo scopo di detta clausola era quello di impedire che i fabbricanti che avevano la possibilità di produrre in impianti ubicati fuori dal Giappone potessero eludere l'impegno sfruttando queste altre fonti di fornitura; è stato aggiunto che, privo della clausola, l'impegno della NSK non sarebbe stato accettabile, poiché il controllo ne sarebbe stato impossibile.

Il 21 giugno 1977 (il giorno successivo alla firma dell'impegno da parte delle quattro grandi) aveva luogo una riunione del comitato consultivo, a seguito della quale la Commissione decideva di proporre al Consiglio l'accettazione degli impegni, l'istituzione di un dazio definitivo antidumping del 15 % sui cuscinetti a sfere e sui cuscinetti a rulli (ma non sulle loro parti) di origine giapponese, la sospensione di detto dazio finché l'impegno fosse stato rispettato dai firmatari e l'incameramento delle cauzioni versate a garanzia del dazio provvisorio sui prodotti delle quattro grandi — ma non l'incameramento delle cauzioni relative

alle esportazioni dei produttori minori

nella misura in cui non superavano il 15 %. Il 4 luglio 1977, la Commissione inviava al Consiglio una proposta formale di adozione di un regolamento in questo senso.

Ho già ricordato alcune dichiarazioni fatte dalla Commissione per la prima volta nella controreplica delle cause 119/77 e 120/77. Fra l'altro, essa ha dichiarato, in tale documento, di avere effettuato, dopo aver inviato la proposta al Consiglio, ma prima che il Consiglio prendesse iniziative in merito, taluni «calcoli di verifica». Ignoro in che cosa sia consistita esattamente questa nuova verifica.

In udienza gran peso è stato dato dalla NSK ad un fatto particolare, pure emerso per la prima volta nella controreplica della Commissione nelle cause 119/77 e 120/77, verificatosi in questo periodo. L'8 luglio 1977, la delegazione della Commissione a Tokio inviava all' istituzione sommarie traduzioni di articoli apparsi sulla stampa giapponese circa aumenti di prezzo apportati dalle quattro grandi sul mercato interno nel 1976, ed in particolare di un discorso del sig. Otsu, presidente della NTN e della Japan Industriai Bearing Association, da cui emergeva che questo aumento, aggirantesi sul 6-8 %, che la Commissione aveva pensato fino ad allora fosse stato applicato dal luglio 1976, cioè esulasse dal periodo di riferimento, era invece stato applicato, per la maggior parte, dal gennaio 1976. La Commissione riteneva che questo elemento retroattivo nell'aumento di prezzo apportato in quell'occasione avrebbe dovuto venir posto in evidenza dai produttori giapponesi, però il problema non veniva discusso tra Commissione e produttori. Al contrario essa si serviva dell'informazione tratta dai suddetti articoli ai fini di «calcoli di controllo» assertivamente effettuati in base all'art. 10, n. 7, b), del regolamento n. 459/68, che riguarda l'ipotesi in cui «una parte interessata non comunica le informazioni necessarie». Pare che questi calcoli non fossero gli stessi di cui ho parlato poco fa. La NSK ha osservato che, se la Commissione avesse discusso il problema con i produttori, avrebbe notato che l'aumento di prezzo retroattivo risaliva all'aprile del 1976 e valeva solo per una piccola pane dei cuscinetti della rosa rappresentativa (in quanto si riferiva per lo più a cuscinetti di un tipo fornito all'industria automobilistica giapponese e non esportato in Europa), con l'effetto di aumentare di circa lo 0,5 % la media generale dei prezzi nel periodo di riferimento per i modelli inclusi nella rosa; inoltre gli aumenti per maggio e giugno erano stati inclusi negli stampati di elaboratore relativi a detti mesi. In conclusione, questi fatti non determinavano alcuna modifica della proposta della Commissione al Consiglio.

Il 24 luglio 1977, il Consiglio adottava il regolamento n. 1778/77, il cui tenore, salvo per un aspetto, non era sostanzialmente diverso da quanto aveva proposto la Commissione. Il regolamento è entrato in vigore il 4 agosto 1977, cioè il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Il patrono della NSK ha dichiarato all'udienza che il ritardo nella pubblicazione, che ha fatto prorogare l'applicazione del dazio provvisorio, era forse dovuto a ragioni non pertinenti. L'assunto però era sfornito di prove. Il ritardo può essere stato provocato dalla lentezza della traduzione.

Nello stesso giorno in cui il regolamento veniva pubblicato (3 agosto 1977), la Commissione comunicava via telex alle quattro grandi l'accettazione dei loro impegni.

In sede processuale è stato molto discusso il contenuto del preambolo del regolamento n. 1778/77. Tuttavia non ho intenzione ora di esaminare detto preambolo. Mi basterà dire che l'unica informazione che esso fornisce circa le conclusioni della Commissione quanto al problema del dumping è quella figurante nel 12o punto che recita:

«… da questo esame dei fatti risulta che un dumping esiste e che il suo margine varia in modo considerevole da una transazione all'altra ma che in media supera il 15 % per gran parte della Comunità».

(Il preambolo del regolamento n. 261/77 era stato altrettanto loconico in materia, in quanto si limitava a dichiarare che «… da questo esame preliminare risulta che un dumping esiste e che il margine varia in modo considerevole da una transazione all'altra e che in taluni casi supera il 30 %». Le conclusioni della Commissione circa il danno sono illustrate molto più diffusamente nei preamboli dei due regolamenti.

Elemento curioso nel 12o punto del preambolo del regolamento n. 1778/77 è l'uso dell'espressione «per gran parte della Comunità», che a prima vista suggerisce l'idea di «oltre la metà della Comunità». Ma evidentemente la Commissione non l'ha intesa così, dato che ha dichiarato che ciascuno o più dei paesi in questione (Francia, Germania e Regno Unito) costituivano questa «gran parte». Il Consiglio ha sottolineato che la frase «per gran parte» non va confusa con «la maggior parte» (the major part, vedi versione inglese). Infatti nella versione italiana del regolamento figura la frase «per gran parte della Comunità».

Gli artt. 1, 2 e 3 del regolamento n. 1778/77 hanno importanza di primissimo piano nelle cause in questione e devo citarli praticamente alla lettera :

«Articolo 1

1.   È istituito un dazio antidumping definitivo del 15 % sui seguenti prodotti della voce ex 84.62 della tariffa doganale comune originari del Giappone, sulla base del valore dichiarato:

cuscinetti a rotolamento a sfere: (Nimexe 84.62-11).

cuscinetti a rotolamento a rulli conici: (Nimexe 84.62-17).

Le disposizioni in vigore per la riscossione dei dazi doganali si applicano alla riscossione di questo dazio.

2.   L'applicazione del presente dazio è sospesa, salve restando le disposizioni dell'articolo 2.

Articolo 2

1.   La Commissione, in collaborazione con gli Stati membri, procederà ad un rigoroso controllo sull'osservanza degli impegni di revisione di prezzo assunti dai principali produttori giapponesi di cuscinetti a sfere nonché sull'evoluzione delle importazioni e del mercato comunitario.

2.   Qualora costati che tali impegni vengono elusi, non osservati o revocati, la Commissione, previa consultazione degli Stati membri nell'ambito del comitato consultivo di cui all'articolo 12 del regolamento (CEE) n. 459/68 convocato entro il termine di 5 giorni, porrà fine immediatamente alla sospensione dell'applicazione del dazio istituito secondo l'articolo 1.

Articolo 3

Gli importi garantiti a titolo di dazio provvisorio, in applicazione del regolamento (CEE) n. 261/77 prorogato con regolamento (CEE) n. 944/77, concernente i prodotti fabbricati ed esportati dai produttori seguenti verranno definitivamente incamerati, sempreché non eccedano il tasso del dazio stabilito nel presente regolamento:»

e seguono i nomi delle quattro grandi.

Le osservazioni più spontanee su dette norme sono due.

La prima concerne la sfera d'applicazione del regolamento. L'art. 3 si riferisce evidentemente solo ai prodotti delle quattro grandi. Il Consiglio e la Commissione ci hanno detto che questo orientamento è conseguenza del fatto che il danno arrecato all'industria europea dagli esportatori giapponesi di secondo piano si riteneva trascurabile. Se però esso era veramente trascurabile, non sarebbe stato possibile applicare un dazio definitivo (anche se sospeso) ai prodotti degli esportatori minori, come pure sarebbe stato impossibile incamerare il dazio provvisorio sui loro prodotti. Non vi erano motivi di pensare che, per quel che li riguardava, l'istituzione di un dazio definitivo fosse giustificata da una «minaccia di danno» e, d'altra parte, il preambolo del regolamento nemmeno menziona la «minaccia di danno». Esso parla solo di «presenza di pregiudizio» e di «notevole pregiudizio arrecato». A mio giudizio ne consegue che non solo l'art. 3 del regolamento, ma anche gli artt. 1 e 2 (pur se il loro tenore è generico) possono venir applicati solo ai prodotti delle quattro grandi.

La seconda osservazione riguarda la natura della facoltà o vincolo della Commissione in virtù dell'art. 2, n. 2: nella proposta delle Commissione del 4 luglio 1977, il testo dell'art. 2, n. 2, implicava che la Commissione sarebbe stata tenuta a por termine alla sospensione dell'applicazione del dazio (in caso di elusione, inosservanza o revoca dell'impegno) solo se, previa consultazione degli Stati membri, avesse concluso che erano necessarie misure di tutela. Nella versione adottata dal Consiglio, l'art. 2, n. 2, ha un tenore diverso. Si stabilisce che (nell'ipotesi suddetta) la Commissione, previa consultazione degli Stati membri nell'ambito del Comitato consultivo, «porrà fine immediatamente alla sospensione dell'applicazione del dazio». Ciò fa pensare che il Consiglio abbia deciso di proposito di privare la Commissione di ogni discrezionalità in materia. Questa decisione sarebbe consona con le disposizioni del regolamento n. 459/68, nessuna delle quali attribuisce alla Commissione un qualsiasi potere discrezionale quanto all'istituzione di un dazio definitivo.

VI — I ricorsi e le conclusioni ivi formulate

Cinque cause sono ora pendenti dinanzi alla Corte, promosse tra il settembre e l'ottobre 1977. Esse sono:

Causa 113/77:

Ricorrenti: NTN, NTN Germania, NTN Francia, NTN-GKN. In un primo tempo si dichiarava in modo piuttosto confuso che l'azione era stata promossa dall'NTN «per conto proprio e per conto delle sue affiliate e delle altre società del suo gruppo nell'ambito del mercato comune».

Il Consiglio prese pretesto da questa «vaga descrizione» delle ricorrenti per eccepire l'irricevibilità del ricorso. Questo vizio fu però sanato già nella fase iniziale del procedimento, allorché si specificò che le affiliate e le altre società del gruppo NTN di cui trattasi erano quelle che ho menzionato.

In questa causa il Consiglio è il solo convenuto. L'unica domanda proposta dalle ricorrenti, a norma dell'art. 173, secondo comma, del Trattato CEE è la richiesta della declaratoria che l'art. 3 del regolamento n. 1778/77 «non è applicabile» nei loro confronti — il che, se non erro, tenuto conto del tenore dell'art. 174 del Trattato, si dovrebbe intendere come una dichiarazione di nullità dell'art. 3.

Causa 118/77:

Ricorrente: ISO, che cita il Consiglio. L'ISO, invocando l'art. 173, secondo comma, chiede l'annullamento dell'intero regolamento n. 1778/77.

Causa 119/77:

Ricorrenti: NSK, NSK-UK, NSK Germania e NSK Francia, che citano in giudizio Consiglio e Commissione. Tra i cinque ricorsi è quello che presenta conclusioni più complesse. Per ora penso sia sufficiente dire che esse comportano, da un lato, domande fondate sul 2o comma dell'art. 173 e vertenti sulla validità dell'intero regolamento n. 1778/77 e, dall'altro (come ho detto all'inizio), domande presentate in forza dell'art. 178 del Trattato e miranti al risarcimento del danno. Nelle mie conclusioni penso sia opportuno prendere in esame le domande di risarcimento solo dopo aver esaminato tutte le domande fondate sull'art. 173.

Causa 120/77:

Ricorrenti: KOYO, Deutsche Koyo, Koyo UK e Koyo Francia che citano in giudizio Consiglio e Commissione. Si chiede solo l'annullamento dell'intero regolamento n. 1778/77. E strano che, per una semplice domanda d'annullamento, sia stata citata anche la Commissione. La Commissione non ha sollevato però alcuna obiezione su questo punto e, trattandosi di un problema senza importanza — poiché la Commissione avrebbe potuto intervenire in ogni causa in cui non è stata citata — nemmeno io mi dilungherò.

Causa 121/77:

L'ultimo ricorso è promosso, a norma del secondo comma dell'art. 173, dalla NACHI, Nachi Germania e Nachi UK, che citano il Consiglio chiedendo l'annullamento del regolamento n. 1778/77 o, in subordine, l'annullamento dell'art. 3 dello stesso.

In tre cause (113/77, 119/77 e 121/77) si sono chiesti provvedimenti d'urgenza, domande accolte dal presidente della Corte, che ha disposto la sospensione, fino alla pronuncia finale, dell'incameramento, di cui all'art. 3 del regolamento n. 1778/77, dei dazi provvisori dovuti (ma non ancora pagati) dalle ricorrenti nelle suddette cause, finché le interessate continuino a prestare adeguate garanzie.

In tutte le cause è stato ammesso, con ordinanza della Corte, l'intervento della FEBMA a sostegno dei convenuti.

Pure in tutte le cause, i convenuti hanno chiesto alla Corte di statuire sull'eccezione di irricevibilità a norma dell'art. 91 del regolamento di procedura. Con ordinanza 12 aprile 1978, la Corte ha riservato la pronuncia sull'irricevibilità fino alla decisione nel merito.

Vediamo ora se, e in qual misura, siano ricevibili le domande presentate a norma del secondo comma dell'art. 173 del Trattato.

VII — Ricevibilità delle domande presentate a norma dell'art. 173

Il Consiglio ha osservato che le misure antidumping sono provvedimenti di politica commerciale adottati nei confronti di imprese extracomunitarie, e quindi non dovrebbero venir considerati impugnabili giurisdizionalmente alla stessa stregua degli atti amministrativi individuali. Il Consiglio ha ricordato le leggi antidumping vigenti negli Stati membri prima che la materia venisse disciplinata dal diritto comunitario ed ha sostenuto che dette norme «riflettevano il carattere legislativo e discrezionale dei dazi antidumping», in contrasto con le corrispondenti leggi vigenti negli Stati Uniti d'America, che, se ho ben capito l'argomento, contemplano procedimenti amministrativi soggetti al controllo giurisdizionale.

A mio parere le ricorrenti hanno controbattuto in modo convincente, analizzando la situazione giuridica esistente in ciascuno degli Stati membri prima che la materia di cui trattasi fosse disciplinata dal diritto comunitario, ed in particolare con la citazione della sentenza del Consiglio di Stato francese nella cause Manufacture de Produits Chimiques de Tournon e la sentenza del giudice Ackner della Queen's Bench Division della High Court of Justice inglese nella causa Leopold Lazarus Ltd c/ Segretario di Stato per l'industria e il commercio. (Entrambe le sentenze sono allegate (n. 1) alla risposta delle ricorrenti all'eccezione d'irricevibilità sollevata dai convenuti nella causa 119/77).

A mio parere, comunque, questa Corte non deve preoccuparsi eccessivamente della precedente disciplina antidumping nei singoli Stati membri o di quella che può essere la disciplina statunitense. Noi dobbiamo solo porre in atto l'art. 173 del Trattato. Quanto a questo, è evidente che, perché un soggetto, che non sia uno Stato membro o un'istituzione delle Comunità, sia legittimato ad impugnare per illegittimità, a norma dell'art. 173, un atto emanato sotto forma di regolamento delle istituzioni comunitarie, devono essere soddisfatte tre condizioni. L'interessato, cioè, deve dimostrare:

(1)

che l'atto, pur se formalmente è un regolamento, in effetti (almeno per quel che lo riguarda) è una decisione;

(2)

che l'atto lo tocca direttamente;

(3)

che l atto lo tocca individualmente.

Alcune delle ricorrenti si sono richiamate a talune sentenze della Corte, specie quelle emesse nelle cause 100/74 CAM c/ Commissione (Racc. 1975, pag. 1393) e 88/76 Société pour l'exportation des Sucres c/ Commissione (Racc. 1977, pag. 709), per sostenere che è sufficiente che il ricorrente possieda i requisiti di cui ai nn. 2 e 3. Riconosco che queste sentenze, se considerate a sé stanti, possono venir interpretate in questo senso. Ma non mi pare che si possa astrarle dal loro contesto. Esse devono essere viste alle luce della giurisprudenza precedente e successiva, nella quale si attribuisce pure importanza al requisito di cui al n. 1. Ho già ricordato i primi precedenti importanti in questo senso nelle conclusioni presentate nell'ambito della causa CAM c/ Commissione (cfr. Racc. 1975, pag. 1411). Ulteriori elementi si possono trarre dalle sentenze 5 maggio 1977, causa 101/76, Koninklijke Scholten Honig c/ Consiglio e Commissione (Racc. 1977, pag. 797) e 18 gennaio 1979, cause riunite 103-109/78, Société des Usines de Beaufort c/ Consiglio (Racc. 1979, pag. 17).

In realtà, direi che CAM c/ Commissione e Société pour l'Exportation des Sucres c/ Commissione erano cause piuttosto particolari. In ciascuna di esse l'atto della Commissione impugnato determinava gli effetti di certificati che prefissavano le restituzioni all'esportazione, incorporati in licenze per l'esportazione rilasciate in un periodo determinato. Di conseguenza, tale atto, pur se emanato in forma di regolamento, poteva senz'altro considerarsi come costituente una serie (o «fascio») di decisioni individuali riguardanti la sorte di dette licenze specifiche e quindi come atto analogo a quello impugnato nelle cause riunite 41-44/70, International Fruit Co. (Racc. 1971, pag. 411). In ogni caso questo è stato l'orientamento dell'avvocato generale Reischl circa l'atto di cui trattavasi nella causa Société pour l'Exportation des Sucres c/ Commissione (cfr. Racc. 1977, pag. 730).

Tenendo presenti questi principi, esaminiamo ora il regolamento n. 1778/77.

Nel nostro caso, dividerei le ricorrenti in tre categorie:

(1)

le quattro grandi;

(2)

loro affiliate e altre società da esse controllate;

(3)

ISO.

Vediamo anzitutto la ISO.

Questa, che è una società indipendente non vincolata da alcuno degli impegni assunti nei confronti della Commissione, mi pare non si trovi in una situazione diversa, sotto il profilo del regolamento n. 1778/77, da quella di qualsiasi altro importatore indipendente di prodotti delle quattro grandi operante nelle Comunità.

Direi che questo regolamento, per quel che riguarda questi importatori indipendenti, è esattamente quello che intende essere: un regolamento e nulla più.

Per quanto concerne gli artt. 1 e 2 del regolamento, ciò mi pare chiaro senza bisogno di approfondito esame. Questi articoli vigono per chiunque importi in futuro nella Comunità i cuscinetti contemplati dal regolamento. Essi non fanno alcuna distinzione rispetto a singoli importatori o categorie di importatori di detti cuscinetti.

L'art. 3 solleva un problema più complesso. È chiaro che questo articolo concerne individualmente un piccolo gruppo di importatori, cioè quelli che tra il 5 febbraio 1977 e il 4 agosto 1977 hanno importato nella Comunità i prodotti fabbricati dalle quattro grandi e che, in forza del regolamento n. 261/77 (o in forza dello stesso regolamento, come è stato prorogato dal regolamento n. 944/77), erano soggetti al dazio provvisorio su quelle importazioni e avevano depositato una cauzione a garanzia di detto dazio. È pure fuor di dubbio che l'art. 3 riguarda quegli importatori direttamente, giacché ha l'effetto di prescrivere alle autorità doganali nazionali di incamerare gli importi dei dazi applicati e garantiti, senza lasciare loro alcun potere discrezionale. Ma si può sostenere che l'art. 3, per la sua natura, in quanto tocca in questo modo detti importatori, costituisce una serie di decisioni piuttosto che un provvedimento legislativo? Direi di no. Mi pare che esso costituisca un tipico esempio di quelli che nelle conclusioni nella causa CAM c/ Commissione ho definito «atti normativi che riguardano categorie determinate di soggetti» (cfr. Racc. 1975, pag. 1413). Mi parrebbe strano dover affermare che, in ogni caso di dumping, la decisione di applicare un dazio antidumping provvisorio ha natura legislativa, la decisione di istituire un dazio antidumping definitivo ha natura legislativa, ma la decisione di incamerare il dazio provvisorio non ha la stessa natura. Per di più una conclusione così strana implicherebbe l'altrettanto strana conseguenza che l'importatore che intenda contestare la validità del dazio definitivo che ha versato dovrebbe adire esclusivamente il giudice nazionale, mentre l'importatore che intenda contestare la validità del dazio provvisorio che ha garantito, potrebbe adire in alternativa o il giudice nazionale competente o questa Corte.

Concludo quindi per l'irricevibilità del ricorso della ISO (causa 118/77).

Non dimentico che, almeno in una causa (119/77), le ricorrenti hanno tentato di dimostrare l'indeguatezza dei mezzi di impugnazione offerti dal diritto nazionale agli importatori, ma non mi pare che la dimostrazione sia riuscita.

Quanto all'impugnazione nella Repubblica federale di Germania, l'unica censura mossa pare fosse quella dell'eccessiva brevità (1 mese) del termine prescritto ad hoc, ma senz'altro non è la prima volta che questo particolare vi viene illustrato. Non è motivo sufficiente per estendere il senso dell'art. 173 fino a farvi rientrare la possibilità di adire alternativamente la Corte di giustizia.

Lo stesso può dirsi per l'unica critica mossa apparentemente alla disciplina vigente in Francia, cioè non già che i rimedi giurisdizionali ivi esperibili fossero di per sé inadeguati, bensì che, a giudizio delle ricorrenti, i procedimenti d'impugnazione francesi sono macchinosi.

Infine, la descrizione della disciplina inglese da parte delle ricorrenti può eufemisticamente definirsi superficiale. Tra le varie pecche, non si menziona quello che definirei il mezzo di impugnazione più ovvio in diritto inglese, cioè un'azione per declaratoria. Questa infatti è stata la linea di condotta tenuta nella causa Leopold Lazarus Ltd c/ Segretario di Stato per l'industria e il commercio. Inoltre, pur se le ricorrenti intendevano riferirsi ai mezzi di impugnazione disponibili nell'intero Regno Unito, esse non si sono degnate di esaminare i rimedi esperibili dinanzi alla magistratura scozzese.

La posizione delle quattro grandi, sotto il profilo del regolamento n. 1778/77, mi pare diversa. Mi pare improbabile che esse possano impugnarlo per invalidità, in tutto o in parte, dinanzi ad un giudice nazionale, salvoché lo facciano eventualmente nell'ambito di un qualche procedimento nazionale in veste di interveniente o, in altri modi, in veste di ausiliari, sotto l'aspetto finanziario o sotto altri aspetti, in un procedimento promosso dall'importatore.

Naturalmente ciò non deve far precipitosamente concludere che le quattro grandi (anche singolarmente) debbano ritenersi legittimate ad impugnare il regolamento direttamente dinanzi a voi a norma dell'art. 173, 2o comma.

Nemmeno mi pare dobbiate qui risolvere la questione, tanto dibattuta, del se un esportatore, nei cui confronti, dopo un'indagine condotta a norma dell'art. 10 del regolamento n. 459/68, sia stata accertata una pratica di dumping che leda gravemente l'industria comunitaria, possa ipso facto ritenersi legittimato ad impugnare, a norma del secondo comma dell'art. 173, qualsiasi atto del Consiglio o della Commissione che contenga detta constatazione o instauri il procedimento connesso con la stessa. Vi è un buon equilibrio tra gli argomenti pro e quelli contro la soluzione in senso affermativo del problema.

Ciò che mi pare evidente è che, in relazione a ciascuna delle quattro grandi, il regolamento n. 1778/77 va ancor oltre questo punto. Per i motivi che sapete, ognuno dei suoi articoli si applica solo ai loro prodotti. Il combinato disposto degli artt. 1, 2 e 3 del regolamento fa sì che, per effetto del duplice presupposto del dumping arrecante danno grave accertato nei confronti delle quattro grandi singolarmente e dell'impegno singolo sottoscritto dalle stesse, è stato applicato un dazio definitivo sui loro prodotti, ma la sua esazione rimane sospesa finché alla Commissione non risulti che detti impegni vengoni elusi, non vengono più osservati o sono stati revocati; e nel frattempo il dazio provvisorio gravante sulle importazioni dei prodotti in questione effettuate prima dell'entrata in vigore del regolamento deve venir incamerato.

In tutto ciò, per quel che riguarda le quattro grandi, è difficile ravvisare un atto di natura legislativa, un atto di «portata generale», per usare la terminologia con cui l'art. 189 del Trattato si riferisce ai regolamenti. A me pare sostanzialmente un provvedimento «ad personam». Esso ha tutte le caratteristiche di una decisione che tocca determinate persone in ragione della loro condotta. Che riguardi individualmente ciascuna delle quattro grandi è evidente. Direi che le tocca pure direttamente, pur se il dazio incamerato in verità va a carico degli importatori e quello definitivo sarà versato dagli stessi nell'ipotesi che una delle quattro grandi venga meno ai suoi impegni. Qualunque altra interpretazione mi pare incongruente con la realtà dei fatti.

Concludo dunque nel senso che i ricorsi a norma dell'art. 173 del Trattato sono ricevibili, in quanto promossi direttamente dalle quattro grandi. Sottolineo però che questa è una conseguenza della particolare struttura del regolamento n. 1778/77. Detta conclusione non implica che, ogniqualvolta un regolamento del Consiglio istituisce un dazio antidumping definitivo o dispone l'incameramento di un dazio provvisorio, gli esportatori sono automaticamente legittimati ad impugnarlo a norma dell'art. 173. Essa è basata sul fatto che il regolamento n. 1778/77 è, a mio avviso, un atto ibrido, mai analizzato finora dalla Corte e che raramente potrà ripetersi. Per chiunque, salvo che per le quattro grandi (e forse per le loro affiliate e le altre società da esse controllate, la cui situazione esaminerò tra breve), esso è un regolamento e null'altro che un regolamento. Quanto alle quattro grandi, tuttavia, esso costituisce una decisione che le tocca direttamente e individualmente.

Il problema della ricevibilità dei ricorsi promossi a norma dell'art. 173 dalle affiliate e dalle altre società controllate dalle quattro grandi ha dunque minima importanza pratica. Evidentemente, se il mio punto di vista è corretto, la loro condizione di importatori non rende irricevibili i ricorsi. Però esse sono parti interessate agli impegni, il che equipara la loro situazione a quella delle quattro grandi. Nel caso della NSK UK vi è, per di più, il fatto particolare che il regolamento n. 1778/77 funge da mezzo intimidatorio per trattenerla dal trasgredire, dal canto suo, l'impegno di aumentare i prezzi dei cuscinetti fabbricati a Peterlee. È difficile dire quale via essa potrebbe seguire per impugnare l'atto dinanzi ai giudici inglesi. Propendo quindi per la ricevibilità dei ricorsi delle affiliate e delle altre società controllate dalle quattro grandi.

VIII — Il merito dei ricorsi a norma dell'art. 173

Non è stato facile classificare i mezzi invocati dalle ricorrenti nell'impugnare la validità del regolamento n. 1778/77. Essi sono più di quaranta. Un loro particolare è che lo stesso mezzo è sovente invocato per un verso come critica diretta dell'operato della Commissione o del Consiglio e, per un altro, come critica del preambolo del regolamento per aver omesso di menzionare ciò che ha fatto l'istituzione interessata o perché lo ha fatto. Ad esempio la Commissione è criticata per aver definito «inattendibili» i prezzi d'esportazione delle quattro grandi e il preambolo del regolamento è criticato perché non dichiara i motivi di detta inattendibilità. Sotto il primo aspetto il mezzo si risolve nell'affermazione che è stata violata una disposizione del regolamento n. 459/68. Sotto il secondo si mette in evidenza una violazione dell'art. 190 del Trattato. Nella mia esposizione cercherò, nei limiti del possibile, di trattare contemporaneamente i due aspetti di questo mezzo.

In definitiva, come vedrete, ho diviso i mezzi in 9 gruppi.

1. Mezzi inerenti alla forma e riguardanti la validità dell'intero regolamento n. 1778/77

Le ricorrenti nelle cause 113/77 e 121/77 osservano che né nel preambolo del regolamento n. 1778/77 né altrove si fa cenno alla maggioranza qualificata in seno al Consiglio per l'adozione del regolamento. Essi osservano che la Corte dovrebbe quantomeno accertare se vi sia stata l'approvazione a maggioranza qualificata, come prescritto dall'art. 113, n. 4, del Trattato e dall'art. 17, n. 2, a), del regolamento n. 459/68. A mio avviso, il mezzo è irrilevante. Nessuna norma del Trattato o di altri atti pertinenti, né alcun principio giuridico prescrivono che la maggioranza con cui i regolamenti del Consiglio vengono adottati debba venir resa nota. D'altronde non si suole fare dichiarazione del genere. Non penso che spetti alla Corte controllare se sia stata raggiunta la maggioranza prescritta, specie poi se non vi sono elementi che facciano dubitare che tale maggioranza sia stata raggiunta. «Omnia praesumuntur rite esse acta».

Le ricorrenti nella causa 120/77 osservano che vi era incompatibilità tra l'atteggiamento assunto dalla Commissione nel procedimento conclusosi con l'adozione del regolamento n. 1778/77 e l'atteggiamento assunto dalla stessa in una decisione del 29 novembre 1974, a conclusione di un procedimento a norma dell'art. 85 del Trattato relativamente ad un accordo stipulato nel 1972 tra le quattro grandi e i rappresentanti dell'industria francese dei cuscinetti. Secondo detto accordo, le quattro grandi si impegnavano ad aumentare i loro prezzi sul mercato francese, così da diminuire la concorrenzialità del loro prodotto. La Commissione ritenne che questo accordo violasse l'art. 85. A mio avviso non vi è alcuna discrepanza tra il fatto che, da un lato, si ritenne che detto accordo fosse vietato dall'art. 85 e che, dall'altro, si è constatato che le quattro grandi avevano praticato un dumping che danneggiava seriamente l'industria europea e che giustificava l'adozione di provvedimenti a norma del regolamento n. 459/68. Il giusto mezzo per opporsi a un dumping che danneggia l'industria europea è l'intervento delle istituzioni comunitarie a norma del suddetto regolamento e non l'«autodifesa» dell'industria mediante accordi vietati dall'art. 85. Non insisto sul fatto che le indagini della Commissione per adottare la decisione 29 novembre 1974 vertevano su operazioni risalenti al 1972, mentre le indagini sul dumping riguardano fatti posteriori di quattro o cinque anni.

2. Mezzi relativi alla legittimità del criterio di accettare impegni ed instaurare poi — e sospendere — un dazio definitivo

Nel presente contesto prenderò in considerazione solo i mezzi relativi alla validità degli artt. 1 e 2 del regolamento n. 1778/77, rinviando ad altro capitolo l'esame di analoghi mezzi vertenti sulla validità dell'art. 3 di detto regolamento, cioè sul problema del se il Consiglio potesse legittimamente disporre l'incameramento dei dazi provvisori nonostante l'accettazione degli impegni delle quattro grandi.

Alcune ricorrenti sostengono che «quando, nel corso dell'esame dei fatti, gli esportatori del prodotto considerato si impegnano volontariamente a rivedere i loro prezzi in modo da eliminare il margine di dumping» (art. 14, n. 2 a) del regolamento n. 459/68) la Commissione ha facoltà di scelta. Essa può cioè, dopo aver sentito il parere del Comitato consultivo, giudicare che l'accettazione dell'impegno e la chiusura del procedimento non costituiscono una soluzione soddisfacente. In questo caso essa non deve accettare l'impegno. Se invece giudica che questa soluzione è soddisfacente, essa può instaurare il procedimento contemplato dall'art. 14, n. 1, a), per dichiarare chiusa la pratica. In questo caso la reiezione dell'impegno dipende dunque solo dal Consiglio. Se il Consiglio non lo respinge, «la procedura è ritenuta terminata», salva l'ipotesi, contemplata dall'art. 14, n. 2, b), di prosecuzione dell'«inchiesta sul pregiudizio». Se un impegno è accettato, le uniche sanzioni per garantirne l'osservanza sono quelle di cui all'art. 14, n. 2, d) ed e), che, come ricorderete, sono state aggiunte dal regolamento n. 2011/73 e dispongono che la Commissione controlla l'osservanza degli impegni e riapre il procedimento «qualora constati che l'impegno degli esportatori viene eluso oppure non è rispettato o è stato denunciato e che, di conseguenza, potrebbero rendersi necessari provvedimenti di difesa». Le ricorrenti concludono che le istituzioni comunitarie non avevano affatto il potere di accettare gli impegni e di istituire, come sanzione per garantirne l'osservanza, un dazio definitivo sospendendone l'applicazione.

In definitiva penso che sia corretta l'interpretazione che le ricorrenti fanno a questo proposito delle disposizioni del regolamento n. 459/68. Infatti, nessuno degli argomenti svolti dal Consiglio e dalla Commissione su questo punto mi pare riesca a scalzarla. L'argomento principale da esse svolto, specie richiamandosi alle versioni francese, tedesca ed italiana dell'art. 14, n. 2, a), è che, giacché la Commissione doveva scegliere tra l'accettare o no non già l'impegno puro e semplice, ma la «soluzione» rappresentata dall'accettare l'impegno e dal chiudere il procedimento, essa doveva aver la facoltà di accettare l'impegno «con riserva». Questo argomento, mi pare, può solo prendersi in considerazione per esser disatteso, giacché la sua stessa formulazione ammette che la chiusura del procedimento è inseparabile dall'accettazione dell'impegno. Ogni «riserva» che si risolva nell'istituzione di un dazio — la cui riscossione è sospesa — come sanzione per garantire l'osservanza dell'impegno è necessariamente incompatibile con l'art. 14, n. 1, e n. 2, lett. d).

Il Consiglio e la Commissione hanno cercato di evitare le conseguenze di siffatta interpretazione con due espedienti.

In primo luogo, hanno sostenuto che gli impegni delle quattro grandi non erano stati assunti «durante l'esame dei fatti», ma allorché questo era già concluso. Mi pare un argomento insostenibile. Gli impegni sono datati 20 giugno 1977. La proposta della Commissione al Consiglio relativamente a quello che è poi diventato il regolamento n. 1778/77 è solo del4 luglio 1977. Ho letto la versione francese della proposta (allegato n. 14 all'atto introduttivo nella causa 119/77). Nell'«Exposé des motifs», dopo aver ricordato l'adozione dei regolamenti nn. 261/77 e 944/77, si diceva:

«Depuis lors les services de la Commission ont continué leur enquête en collaboration avec les Etats membres …

Entre-temps les quatre principaux producteurs japonais se sont engagé devant la Commission à réviser leurs prix, et ces engagements peuvent ètre considérés comme acceptables».

Il regolamento n. 1778/77 è stato adottato solo il 26 luglio 1977 e sappiamo che la Commissione ha continuato ad effettuare calcoli (pur se «di verifica») dopo aver presentato la sua proposta al Consiglio e prima che il regolamento venisse adottato. Comunque, se gli impegni fossero stati assunti dopo la conclusione dell'«esame dei fatti», non vi erano disposizioni del regolamento n. 459/68 che autorizzassero ad accettarli.

In secondo luogo è stato osservato, più particolareggiatamente, specie da parte del Consiglio, che quest'ultimo era investito dei suoi poteri in materia antidumping direttamente dall'art. 113 del Trattato e, a condizione di non violare il Codice antidumping, poteva scegliere la linea di condotta che in queste occasioni gli pareva più opportuna ed in particolare poteva derogare al regolamento n. 459/68. A questo proposito si è fatto riferimento all'art. 1, n. 2, di detto regolamento.

Quanto al Codice antidumping, non è necessario, direi, in quest'occasione, dare un parere definitivo circa quanto è consentito e quanto è vietato dalle sue disposizioni. Il suo articolo 7 è redatto in termini molto meno chiari rispetto all'art. 14 del regolamento n. 459/68; e tengo presente l'ammonimento rivoltoci dalla Commissione di evitare con cura di dire alcunché che possa suscitare dubbi sulla validità di qualsiasi misura antidumping adottata nell'ambito del Trattato CECA.

Su quest'ultimo però vorrei osservare due cose: la prima è che, mentre le ricerche che ho condotto mi hanno mostrato che varie raccomandazioni emanate dalla Commissione nell'ambito dell'art. 74 del Trattato CECA hanno fatto ricorso all' espediente di sospendere l'applicazione del dazio definitivo, non sono invece riuscito a reperire alcun precedente in cui la sospensione del dazio fosse connessa ad un impegno sottoscritto dai fabbricanti (distinto dagli «accordi» stipulati con i governi stranieri). La seconda è che le disposizioni dell'art. 14, n. 2, d), della raccomandazione (CECA) n. 77/329 (aggiunte dalla raccomandazione n. 3004/77 (CECA)) sono così diverse da quelle dell'art. 14, n. 2, d), del regolamento n. 459/68 (aggiunte dal regolamento n. 2011/73) che è impossibile fare qualsiasi confronto tra quanto può esser lecito in virtù della prima e quanto può esser lecito in virtù della seconda.

A mio giudizio, nella fattispecie, il Consiglio era vincolato dal regolamento n. 459/68. Convengo, condividendo quanto hanno sostenuto alcune ricorrenti, che il principio di maggior rilievo nel caso presente è quello emanante dalla massima «legem patere quam ipse fecisti». Ne ho parlato a lungo nelle conclusioni presentate nell'ambito della causa 81/72, Commissione c/ Consiglio (cfr. Racc. 1973, pagg. 591-594) e non voglio ripetermi. Il principio è che la pubblica autorità la quale, con un atto legislativo, ha emanato le norme disciplinanti una certa categoria di ipotesi, mentre può sempre modificare le norme vigenti emanandone delle nuove, non può derogare ad esse in casi singoli rientranti nella categoria disciplinata. Quindi, nel nostro caso, il Consiglio, dopo aver disciplinato le ipotesi analoghe alla fattispecie con l'emanazione del regolamento n. 459/68, non poteva, con il regolamento n. 1778/77, derogarvi per quanto concerne gli impegni effettivamente assunti dalle quattro grandi. Ognuna di esse doveva poter confidare nell'applicazione dell'art. 14 del regolamento n. 459/68 alla propria situazione. Quanto all'art. 1, n. 2, di detto regolamento, il cui tenore io ho osato definire sibillino, basterà dire che il Consiglio non ha mai sostenuto di aver agito in base ad esso. Se avesse agito a norma di tale disposizione, avrebbe dovuto, quantomeno, farne espressa menzione e darne ragione nel preambolo del regolamento n. 1778/77.

Se il mio punto di vista è corretto, la questione della validità degli artt. 1 e 2 del regolamento n. 1778/77 potrebbe considerarsi già risolta. Mi rendo però conto che, in cause importanti come queste, non assolverei appieno il mio compito se, per questo motivo, trascurassi ulteriori aspetti del problema.

Due argomenti rientranti nel gruppo in esame sono stati svolti dalla ISO e mi pare che non si possa ignorarli del tutto pur se, come penso, il suo ricorso è irricevibile.

Anzitutto la ISO ha osservato che il sistema istituito dagli artt. 1 e 2 del regolamento 1778/77 poteva sfociare in una applicazione retroattiva del dazio, incompatibile con l'art. 19, n. 2, a), del regolamento n. 459/68: a suo avviso, infatti, l'inosservanza degli impegni da parte delle quattro grandi avrebbe fatto venir meno la condizione da cui dipendeva la sospensione del dazio definitivo, con effetto, «secondo i principi generali del diritto privato», dal momento di entrata in vigore del regolamento. A mio avviso, questa tesi è errata: se la Commissione, verificandosi le condizioni di cui all'art. 2, n. 2, del regolamento n. 1778/77, avesse revocato la sospensione del dazio definitivo, questo provvedimento, specie in considerazione dell'art. 19, n. 2, a), del regolamento n. 459/68, avrebbe potuto avere effetto solo ex nunc.

In secondo luogo la ISO ha sostenuto che l'adozione da parte del Consiglio degli artt. 1 e 2 del regolamento n. 1778/77 costituiva uno sviamento di potere in quanto la vera finalità era quella di preparare la strada per l'adozione dell'art. 3 di quel regolamento. A mio avviso, anche questo argomento manca di solidità, anzitutto perché nulla prova che questa fosse realmente l'intenzione del Consiglio, in secondo luogo perché si fonda su una premessa erronea. Si presume cioè che il Consiglio non possa, a norma del regolamento n. 459/68, decidere di incamerare un dazio provvisorio a meno che non decida nel contempo di istituire un dazio definitivo. Nulla nel regolamento n. 459/68 giustifica questo assunto. E una disposizione in tal senso sarebbe d'altronde illogica. Immaginiamo che, dopo che è stato istituito un dazio provvisorio da parte della Commissione, gli esportatori interessati si impegnino a modificare i loro prezzi ex nunc, ma non ex tunc. Il Consiglio deve, in tal caso, avere facoltà di decidere, pur accettando gli impegni, l'atteggiamento da assumere nei confronti del dazio provvisorio. Convengo che le relative norme del regolamento n. 459/68 (specie gli artt. 14-18) non sono redatte in modo da chiarire che cosa si debba fare in questo caso. Però il loro tenore non è nemmeno tale da far pensare che il Consiglio non abbia altra scelta che condonare il dazio provvisorio.

Un argomento più efficace, mi pare, è quello svolto dalle ricorrenti nella causa 119/77. Gli articoli 1 e 2 del regolamento n. 1778/77, almeno nella loro interpretazione letterale, esporrebbero ognuna delle quattro grandi al rischio di revoca della sospensione dell'applicazione del dazio definitivo se la Commissione constata l'inosservanza da parte di una di esse degli impegni assunti. Connesso a questo argomento è quello secondo cui il preambolo del regolamento non indica il motivo per cui un provvedimento manifestamente così arbitrario dovesse considerarsi necessario.

Sorvolo l'argomento relativo al preambolo.

Il Consiglio ha cercato di controbattere l'argomento d'indole sostanziale in tre modi.

Anzitutto esso ha osservato che «se gli impegni vengono violati, o elusi o revocati, è probabile che le imprese giapponesi agiscano di conserva oppure (ma il risultato sarebbe uguale) se un esportatore giapponese vi contravvenisse, gli altri si sentirebbero in dovere di fare altrettanto». Se mi è lecito, definirei la risposta insolente, in quanto lascia intendere che si può minacciare di sanzioni un 'soggetto non in ragione di quella che risulterà essere la sua condotta, ma in base a quanto si pensa che egli probabilmente farà. Ricordo che il Consiglio ha più volte ripetuto che il dazio antidumping è una misura di politica commerciale e non una sanzione. La verità è invece che per un fabbricante i cui prodotti sono soggetti a tale dazio questo svolge funzione di sanzione.

In secondo luogo il Consiglio ha sostenuto (in manifesta contraddizione con la prima risposta) che costituisce «pura speculazione» tentare di prevedere con quali espedienti gli esportatori giapponesi potrebbero cercare di sottrarsi ai loro impegni e che «l'art. 2 è strutturato in modo da consentire l'esercizio del potere di revoca della sospensione in modo adeguato alla situazione specifica esistente al momento della revoca». Ciò potrebbe esser esatto solo se l'art. 2 conferisse alla Commissione un potere discrezionale, ma così non è, come abbiamo visto.

Infine il Consiglio ha osservato che «comunque … gli importatori possono sempre far ricorso al procedimento contemplato dall'art. 19, n. 4, del regolamento n. 459/68». Mi pare però che detto procedimento, che si ispira alla seconda frase dell'art. 8, c), del Codice antidumping, si debba considerare eccezionale. L'art. 19, n. 4, nella presunzione che un dazio antidumping sia stato regolarmente istituito, ammette che, per una determinata importazione o serie di importazioni, l'operatore ha facoltà di provare che il dazio che ha versato deve venir restituito, per intero o in parte, perché nella o nelle importazioni di cui trattasi non è stato praticato alcun dumping o perché il margine di dumping era inferiore alla percentuale in funzione della quale il provvedimento della Commissione o del Consiglio aveva istituito il dazio. L'art. 19, n. 4, non è stato emanato per fornire agli importatori un rimedio generale contro dazi illegittimi istituiti dalla Commissione o dal Consiglio. E nemmeno contempla un rimedio esperibile dagli esportatori.

Quindi mi pare che vada accolto l'argomento svolto dalle ricorrenti nella causa 119/77. Esso è servito a persuadermi una volta di più che gli artt. 1 e 2 del regolamento n. 1778/77 sono illegittimi.

In questo capitolo devo infine esaminare l'argomento svolto da alcune ricorrenti, secondo cui il preambolo del regolamento n. 1778/77 non illustra perché, nonostante le quattro grandi si siano impegnate in modo giudicato soddisfacente, il Consiglio abbia ritenuto necessario istituire un dazio definitivo, sospendendone la riscossione. Questo è l'aspetto «sub art. 190», per così dire, dell'argomento che ho trattato all'inizio del capitolo e che mi ha indotto a dire che le ricorenti erano nel giusto. Non so però se si possa dire altrettanto da questo angolo visuale. Penso che gli ultimi quattro punti del preambolo del regolamento possano considerarsi una esposizione sufficiente dei motivi per cui il Consiglio ha seguito quella determinata linea di condotta. L'argomento è però irrilevante se, come penso, la linea di condotta risulta viziata da illegittimità.

3. Argomenti vertenti sulla legittimità dell'istituzione del dazio definitivo con aliquota fissa del 15 %

L'art. 19, n. 3, del regolamento n. 459/68 (che rispecchia, per un verso, la prima frase dell'art. 8, d), del Codice antidumping e, per l'altro, lo spirito delle disposizioni dello stesso codice in materia di danno) stabilisce, come ricorderete, che l'importo di un dazio antidumping «non può superare il margine di dumping costatato» e «dovrebbe essere inferiore al margine del dumping se un diritto inferiore risultasse sufficiente ad eliminare il pregiudizio». Quindi è abbastanza naturale che le ricorrenti abbiano contestato in vari modi la legittimità dell'istituzione del dazio definitivo con aliquota fissa del 15 %.

Riferendosi alla constatazione, figurante nel dodicesimo punto del preambolo del regolamento n. 1778/77, che «un dumping esiste e che il suo margine varia in modo considerevole da una transazione all'altra, ma che in media supera il 15 % per gran parte della Comunità», alcune ricorrenti sostengono che il dazio definitivo avrebbe dovuto venir istituito con aliquote diverse, a seconda dei produttori, a seconda dei prodotti, a seconda dei paesi d'importazione e in funzione del reale margine di dumping accertato di volta in volta. Le ricorrenti nella causa 120/77 (il gruppo KOYO) hanno particolarmente insistito su questo punto, sottolineando il fatto che un funzionario della Commissione aveva loro comunicato che il margine di dumping accertato nei loro confronti era del 12,24 %.

Per vedere se questo assunto è fondato, penso che si debba esaminarlo dimenticando gli impegni e la sospensione del dazio definitivo.

Partendo da questo presupposto (ma in effetti da qualunque presupposto) mi pare che tale assunto sia manifestamente erroneo in quanto si propone di adottare dazi diversi a seconda del paese importatore; infatti, sotto questo profilo, l'assunto stride con la realtà, poiché i paesi della Comunità costituiscono un mercato comune e non un gruppo di mercati nazionali.

Nemmeno penso si potesse far distinzione a seconda del prodotto. È noto che, data la miriade di modelli di cuscinetti interessati, la Commissione è stata obbligata in pratica a svolgere le sue indagini in base a «modelli rappresentativi». Stando così le cose è difficile stabilire come fosse possibile alla Commissione applicare, prodotto per prodotto, l'onere calcolato in base a dati «medi». Il criterio della «media» era probabilmente l'unica linea di condotta ragionevole che si potesse seguire.

Non mi è chiaro perché non si dovessero far differenze tra produttori. Però questa mancanza di chiarezza deriva soprattutto dal fatto che alla Corte non è stato dichiarato esattamente quali siano stati i margini di dumping effettivamente accertati in esito alle indagini della Commissione. L'unico punto di riferimento, al di fuori di quanto è stato dichiarato ai rappresentanti della NSK e della KOYO nelle discussioni preliminari all'assunzione degli impegni, è il dodicesimo punto del preambolo del regolamento n. 1778/77. Esso può intendersi nel senso che, per ognuna delle quattro grandi, la media del margine di dumping superava il 15 %, ma può anche voler dire che la media del margine del dumping praticato complessivamente dalle quattro grandi superava il 15 %. Se è esatta questa seconda ipotesi, le rimostranze del gruppo KOYO sarebbero guistificate, qualora la media del dumping da esso praticato fosse davvero risultata solo del 12,24 %. Dicendo questo non voglio naturalmente implicare che le eventuali dichiarazioni rilasciate in una particolare circostanza da un funzionario della Commissione debbano considerarsi vincolanti per questa o per il Consiglio. In realtà, ciò che deve deplorarsi in questo caso mi pare sia la carenza d'informazioni, e per le ricorrenti e per la Corte. Ma penso sia meglio trattare questo argomento in un altro capitolo.

Un altro assunto, distinto ma affine, esposto da alcune ricorrenti è stato quello secondo cui gli articoli 1 e 2 del regolamento n. 1778/77 violavano l'art. 19, n. 3, del regolamento n. 459/68 in quanto disponevano l'istituzione di un dazio pari al 15 % come conseguenza dell'inosservanza degli impegni, indipendentemente dall'entità del margine eventuale di dumping provocato dall'inosservanza stessa.

L'argomento ci è stato brillantemente esposto alla udienza dall'avvocato del gruppo KOYO. Egli ha fatto notare che se i suoi assistiti, invece di aumentare i prezzi del 20 % come stabilito nell'impegno, si fossero limitati ad un aumento del 19 %, sarebbe scattato il dazio sul loro prodotto in ragione del 15 %, con un rincaro totale del 34 %.

Direi che l'argomento è pertinente. L'istituzione di un dazio definitivo a riscossione sospesa e ad aliquota fissa come mezzo per garantire l'osservanza degli impegni era un mezzo talmente inadeguato da essere incompatibile con l'art. 19, n. 3. Ancora una volta ho motivo di proporre l'annullamento degli artt. 1 e 2 del regolamento n. 1778/77.

4. Argomenti vertenti sulla validità dei criteri seguiti dalla Commissione nel calcolo dei prezzi, compresa la scelta dei modelli rappresentativi

a) La «ricostituzione» dei prezzi di esportazione

Varie ricorrenti hanno cirticato il fatto che la Commissione, assertivamente senza motivo, abbia definito «inattendibili» i prezzi fatturati dalle quattro grandi alle loro affiliate europee e, di conseguenza, abbia «ricostituito» i prezzi alla esportazione partendo dai prezzi praticati alla prima rivendita ad un acquirente indipendente. Nemmeno, si è osservato, il preambolo del regolamento n. 1778/77 (o, in quel caso specifico, il preambolo del regolamento n. 261/77) indicava, o indicava esaurientemente, perché si era seguito quel criterio.

Il mezzo verte sull'interpretazione dell'art. 3, n. 3, del regolamento n. 459/68, che riecheggia l'art. 2, e), del Codice antidumping. Alcune ricorrenti sono giunte a sostenere che l'unica occasione in cui è lecito ricostruire i prezzi d'esportazione è il caso del «dumping occulto», come quello descritto nelle note interpretative dell'art. VI del GATT. Non penso che questa illazione sia accettabile. Queste note sono formalmente estensive, non restrittive. Per di più l'art. 2, e), del Codice antidumping, che costituisce pure un'interpretazione dell'art. VI del GATT, contempla incontestabilmente il calcolo dei prezzi d'esportazione in una gamma di ipotesi molto più vasta.

Il problema è dunque se, come ritengono Commissione e Consiglio, il solo fatto che esportatore e importatore siano associati sia sufficiente a consentire alla Commissione di considerare inattendibili i prezzi all'esportazione realmente praticati o se, come ritengono le ricorrenti, si deve dimostrare non solo che vi è associazione tra esportatore e importatore, ma anche che vi sono buone ragioni per ritenere che, per effetto di tale associazione, detti prezzi non sono attendibili.

A mio parere, su questo punto è esatto l'assunto del Consiglio e della Commissione. Il tenore dell'art. 3, n. 3, non si presta all'interpretazione proposta dalle ricorrenti. Come ha fatto osservare la Commissione, in tale disposizione si parla di prezzi su cui «non è possibile fondarsi» e non di prezzi «artificiali». Ciò che vuol dire l'art. 3, n. 3, a mio parere, è che l'esistenza di un'associazione tra esportatore e importatore è una delle tante ragioni per cui i prezzi all'esportazione effettivamente praticati possono considerarsi inattendibili. Penso quindi che la Commissione avesse il diritto, nel caso di vendite delle quattro grandi alle loro rispettive affiliate e alle altre società da esse controllate, di ricostruire i prezzi d'esportazione in base ai prezzi praticati alla prima rivendita ad un acquirente indipendente e sotto questo aspetto non vi sono incongruenze nel ragionamento esposto nel preambolo o del regolamento n. 261/77 o del regolamento n. 1778/77.

b) L'argomento della NTN-GKN

Nella causa 113/77 un argomento particolare è stato svolto dal gruppo NTN, secondo cui, poiché la NTN-GKN è per il 50 % controllata dalla Guest, Keen e Nettlefolds Ltd, questa ultima difficilmente acconsentirebbe ad accollarsi perdite a vantaggio della NTN. A mio parere, il Consiglio ha ben ribattuto dicendo che lo scopo del dumping è quello di sobbarcarsi perdite a breve scadenza per ricavare utili a lunga scadenza.

c) L'argomento dell'ISO

Sono più perplesso dinanzi ad un argomento svolto dalla NACHI nella causa 121/77. Si è cioè sostenuto che, dal momento che l'ISO era una società indipendente collegata alla NACHI soltanto da un contratto che le attribuiva l'esclusiva della distribuzione dei prodotti NACHI in Francia, l'art 3, n. 3, non poteva applicarsi nei suoi confronti; inoltre, i prezzi praticati alla ISO dalla NACHI, essendo stati determinati in base alla legge della domanda e dell'offerta, costituivano il vero specchio dei prezzi esportazione della NACHI. Nel controricorso nella causa 121/77 (pagg. 42-43) il Consiglio ha tentato di controbattere questo argomento, asserendo che era impossibile esser certi che i prezzi praticati dalla NACHI alla ISO non risentissero del fatto che la ISO era il distributore esclusivo dei prodotti NACHI in Francia, e comunque il margine di dumping nei confronti della NACHI era stato calcolato soprattutto («in erster Linie») sulla base delle vendite effettuate nella Repubblica federale di Germania e nel Regno Unito, il che era sufficiente, giacché questi due paesi costituiscono gran parte della Comunità. Nella controreplica, peraltro (pagg. 22-23), il Consiglio ha sostenuto, variando leggermente i suoi argomenti, che la Commissione aveva giustamente applicato l'art. 3, n. 3, alla ISO, in quanto i vincoli contrattuali potevano costituire un'«associazione» di cui si doveva tener conto, ma che comunque era sufficiente constatare che vi era stato dumping nella Repubblica federale e nel Regno Unito. Nella risposta scritta ad una delle domande rivoltele dalla Corte nella causa 118/77, la Commissione ha dichiarato di nutrire qualche dubbio quanto alla indipendenza della ISO; ciononostante aveva accettato le dichiarazioni in tal senso della ISO ed aveva effettuato tutti i calcoli su questa base. Ciò fa pensare che essa abbia tenuto conto dei prezzi realmente praticati alla ISO da parte della NACHI. All'udienza, però il patrono della NACHI ha fondato gran parte dei suoi argomenti sul fatto, che egli presume esser pacifico, che gli unici prezzi d'esportazione presi in considerazione nel caso della NACHI erano stati quelli relativi alle esportazioni in Germania e nel Regno Unito. Nessuno, né la Commissione né il Consiglio, ha contestato questa affermazione.

A mio parere, l'esistenza di un vincolo contrattuale tra un importatore e un esportatore non consente di applicare l'art. 3, n. 3, a meno che detto vincolo non costituisca o comprenda un «accordo di compensazione». Non penso quindi che la Commissione potesse applicare l'art. 3, n. 3, nei confronti delle vendite della NACHI alla ISO. D'altra parte, non penso che la Commissione potesse permettersi di trascurare queste vendite, che costituivano il 67 % delle esportazione NACHI nella Comunità, nel determinare il margine di dumping praticato dalla NACHI, giacché questo margine di dumping doveva venir determinato in forma di valore medio e il dazio che su questa base si sarebbe applicato doveva vigere in tutta la Comunità. Concordo naturalmente con il Consiglio e con la Commissione che, se si è constatato che vi è dumping in una parte sostanziale della Comunità, può venir instaurato un dazio antidumping nell'intera Comunità. Ciò può non voler dire che, nell'accertare il margine di dumping imputabile ad un esportatore, possono venir trascurati due terzi delle sue esportazioni nella Comunità. Mi pare di poter constatare un neo nei calcoli della Commissione, che vizia il regolamento n. 1778/77 (non solo gli artt. 1 e 2, ma anche l'art. 3) in quanto si applica ai prodotti NACHI.

d) Raffronto tra prezzi d'esportazione e prezzi del mercato nazionale

Un altro argomento svolto da diverse ricorrenti è che i prezzi del mercato nazionale con i quali avrebbero dovuto raffrontarsi i prezzi all'esportazione desunti mediante calcolo erano quelli vigenti al momento dell'esportazione e non quelli praticati al momento della prima rivendita indipendente. È stato inoltre criticato il preambolo del regolamento n. 261/77 in quanto non vi era indicata la base di confronto.

Le ricorrenti hanno spiegato che il fatto di fondarsi su prezzi ricostruiti in base ai prezzi di rivendita invece che sui prezzi d'esportazione effettivamente praticati presentava un inconveniente, poiché, per il carattere specifico dell'attività svolta dalle ricorrenti, di regola trascorreva molto tempo tra l'importazione e la rivendita dei loro prodotti. In questo periodo potevano intervenire notevoli variazioni nei prezzi e nei tassi di cambio. Era quindi illegittimo e scorretto mettere a confronto i prezzi ricostruiti con i prezzi praticati sul mercato nazionale al momento della rivendita, in quanto:

1)

ciò implicava una discriminazione tra importatori associati e importatori non associati ed un esportatore, in quanto per questi ultimi il margine di dumping sarebbe stato calcolato — se del caso — in base al raffronto tra i prezzi da essi effettivamente pagati e i prezzi praticati nel paese esportatore al momento dell'importazione;

2)

ciò impediva ad un importatore associato ad un esportatore di esperire il rimedio di cui all'art. 19, n. 4, del regolamento n. 459/68 in quanto, se il margine di dumping — sempreché esistesse — sulle sue importazioni non poteva venir accertato fino al momento della rivendita, il termine di tre mesi fissato alla lettera b) di questa disposizione poteva scadere infruttuosamente;

3)

ciò implicava che l'importatore associato non poteva, al momento dell'importazione, sapere a qual prezzo avrebbe potuto rivendere nella Comunità senza incorrere in irregolarità e quindi non poteva stipulare in anticipo contratti definitivi con i clienti del mercato comunitario;

4)

ciò era contrario all'art. 3, n. 4, a), del regolamento n. 459/68, secondo cui il raffronto deve aver luogo «per vendite effettuate a date il più possibile ravvicinate»;

5)

non si teneva conto del disposto dell'art. 2, f), del Codice antidumping (trasformato in norma comunitaria dall'art. 3, n. 4, b), del regolamento n. 459/68), cioè che «in ciascun caso si terrà debitamente conto, a seconda delle sue caratteristiche, … delle differenze che influiscono sulla comparabilità dei prezzi».

Pur se a prima vista questi argomenti colpiscono, sono giunto alla conclusione che vanno disattesi. Secondo le informazioni che le stesse ricorrenti hanno fornito circa i loro metodi di lavoro, tutti gli operatori nel settore dei cuscinetti vendono attingendo al deposito, e i diversi tipi di cuscinetti rimangono in magazzino per periodi variabili, che talvolta superano i 12 mesi. Quindi, probabilmente, anche i produttori giapponesi vendono sul mercato nazionale attingendo ai propri depositi, cosicché i loro prezzi su detto mercato sono rigorosamente confrontabili in ogni momento con i prezzi praticati dalle loro affiliate europee e dalle altre società da esse controllate che attingono ai depositi in Europa. Gli importatori europei indipendenti devono sobbarcarsi il costo del magazzinaggio e i loro prezzi al consumo devono includere questo onere, cosicché non si è fatto torto a nessuno calcolando il margine di dumping, sempreché esista, nelle loro importazioni raffrontando i prezzi che hanno realmente pagato con i prezzi praticati sul mercato giapponese al momento dell'importazione. Mi pare, per di più, evidente che esigere che la Commissione stabilisca, in ogni situazione, per quanto tempo determinati cuscinetti sono rimasti immagazzinati significherebbe accollarle un onere eccessivo. Data la standardizzazione dei modelli di cuscinetti di cui si è parlato e data l'enorme varietà di detti modelli, ciò significherebbe, mi pare, inserire in un'indagine antidumping il tipo di problema tradizionale nell'ambito della valutazione delle scorte a fini contabili e fiscali (ad es. se seguire il criterio «primo entrato, primo uscito», oppure il metodo «ultimo entrato, primo uscito» od altri criteri più complessi). Non ravviso alcun elemento, né nel Codice antidumping né nel regolamento n. 459/68, che giustifichi questo modo d'agire. Nemmeno penso che gli altri argomenti delle ricorrenti possano resistere ad un'analisi accurata. L'art. 19, n. 4, del regolamento n. 459/68 prescrive soltanto la presentazione di una domanda, entro tre mesi dall'importazione, onde poter fruire delle garanzie offerte da detto articolo, e non richiede che il margine di dumping debba essere constatabile durante lo stesso periodo. Un importatore associato ad un produttore giapponese è perfettamente in grado — supponendo che entrambe le ditte .abbiano telex o telefono — allorché discute un contratto con un cliente europeo, di controllare i prezzi praticati sul mercato giapponese. Infine, mi pare, il metodo seguito dalla Commissione risponde in effetti al criterio di procedere al raffronto tra «vendite effettuate a date il più possibile ravvicinate» e non esclude che si tenga «debitamente conto … delle differenze … che influiscono sulla comparabilità dei prezzi».

e) La «ricostituzione» dei prezzi sul mercato nazionale

Ricorderete che, nel compendio degli antefatti, ho sottolineato che la Commissione, nel calcolare i prezzi sul mercato nazionale, aveva aumentato dell'8 % i prezzi effettivamente praticati in Giappone dai produttori giapponesi, margine che doveva corrispondere all'utile teorico, ed ho ricordato brevemente i motivi per cui la Commissione aveva pensato bene di procedere in questo modo.

Alcune ricorrenti hanno contestato la validità del regolamento n. 1778/77 per vari motivi relativi a questo metodo di calcolo. Questi motivi si possono così riassumere:

1)

le vendite considerate, effettuate dai produttori giapponesi sul mercato interno, erano vendite ad acquirenti indipendenti, con cui non esistevano rapporti speciali e, pur se esse erano operate in perdita, non era lecito alla Commissione, sotto il profilo giuridico, dichiarare che non si trattava di vendite effettuate «nel corso di normali operazioni commerciali»;

2)

le industrie che la Commissione ha ritenuto raffrontabili a quella dei cuscinetti al fine di determinare l'adeguato tasso di utile teorico sulle vendite, in realtà non erano comparabili;

3)

era impossibile arguire dal preambolo del regolamento n. 1778/77 che la Commissione aveva desunto i prezzi sul mercato nazionale secondo questo criterio, cosicché il regolamento non era adeguatamente motivato, in violazione dell'art. 190 del Trattato;

4)

a nessuna delle ricorrenti era stato comunicato, durante l'inchiesta, che la Commissione intendeva calcolare i prezzi secondo questo criterio, ed ancor meno perché intendeva comportarsi così, cosicché esse non hanno avuto alcuna possibilità di esporre il loro punto di vista in merito.

Inoltre, il gruppo NSK ha contestato l'assunto della Commissione secondo cui l'NSK vendeva in perdita sul mercato giapponese, ed ha dichiarato che essa operava con utili marginali.

Quanto al primo di questi argomenti, la Commissione ha sostenuto che il senso della frase «nel corso di normali operazioni commerciali», contenuta nell'art. VI del GATT e nel Codice antidumping, era stato per anni argomento di discussioni tra i maggiori aderenti al GATT. Particolarmente controverso era stato il problema del se il continuare a vendere in perdita potesse considerarsi prassi rientrante «nel corso di normali operazioni commerciali». Si era concluso che ciò era impossibile, poiché altrimenti un paese «sarebbe stato in grado di esportare la sua recessione». Pare che il 7 novembre 1978, a Ginevra, sia stato stipulato un accordo in questo senso tra l'Australia, il Canada, la CEE e gli USA. La Commissione, pur menzionando l'accordo, ha negato di averne tenuto conto (e giustamente, non solo perché nessun esemplare di detto documento è stato prodotto in giudizio, ma anche in quanto l'accordo è stato stipulato dopo che si erano verificati i fatti rilevanti per la presente controversia e perché il Giappone non figura fra gli Stati firmatari). La Commissione ha pure ricordato alcune leggi americane, australiane e canadesi. Tali leggi sono state ricordate in termini generali nelle risposte fornite dalla Commissione ai quesiti scritti postile dalla Corte. In udienza, il rappresentante della Commissione ha fatto particolare menzione della sezione 5 della legge australiana sulla tariffa doganale (antidumping) del 1975 e alla sezione 206 della legge statunitense contro il dumping del 1921 (nella versione modificata). Tuttavia, queste disposizioni di legge mi pare siano destinate a disciplinare, nel diritto dei paesi interessati, il modo in cui colà va calcolato quello che l'art. 2 del Codice antidumping definisce «il costo di produzione nel paese d'origine, aumentato di una cifra ragionevole corrispondente alle spese di amministrazione, di distribuzione e ad altri oneri, nonché al margine di utile», piuttosto che a determinare quando si debba fare tale calcolo.

A mio parere, si tratta in definitiva di stabilire se la Commissione avesse facoltà, date le circostanze specifiche, di supporre che, secondo i termini usati nell'art. 3, n. 2, del regolamento n. 459/68 (che riecheggiano quelli dell'art. 2, d), del Codice antidumping) non vi fosse alcuna «vendita del prodotto simile … nel corso di normali operazioni commerciali sul mercato interno del paese esportatore» o che vi fosse una «situazione particolare del mercato» nella quale «vendite del genere non consentono una valida comparazione». Infatti, se la Commissione aveva facoltà di ritenere che sussistesse l'una o l'altra di dette ipotesi, ben poteva, in virtù dell'art. 3, n. 2, tenere in non cale i prezzi effettivi praticati sul mercato interno del paese esportatore e calcolare i prezzi nazionali a norma della stessa disposizione.

Pur non dimenticando, nell'esaminare il problema, l'ammonimento della Commissione, secondo cui la Corte, se interpretasse troppo restrittivamente queste disposizioni, indebolirebbe la posizione della Comunità nei confronti degli altri aderenti al GATT e potrebbe far insorgere dubbi sulla legittimità del sistema dei prezzi di base seguito dalla Comunità nel settore dell'acciaio (che corrisponde al sistema americano del «trigger price»), penso che la corretta soluzione vada ricercata nel testo stesso dell'art. 3, n. 2. Tenuto conto dei termini generici in cui è redatta e della natura stessa della materia che essa disciplina, tale disposizione si può interpretare, a mio avviso, solo nel senso che essa conferisce alla Commissione un ampio potere discrezionale, il cui esercizio non può venir sindacato da questa Corte, a meno che non sia dimostrato che vi è stato un errore manifesto o un abuso di potere da parte della Commissione o, naturalmente, venga provato che, nonostante l'ampiezza del potere discrezionale, essa ne ha chiaramente oltrepassato i limiti. Del pari, ritengo che nulla impedisca alla Commissione di giudicare, in un'ipotesi determinata, che la vendita continuata in perdita non rientri nella nozione di normali operazioni commerciali.

Lo stesso fatto, però, che il suddetto potere discrezionale sia così esteso, rende categorica la stretta osservanza delle garanzie processuali offerte dalla legge a coloro che possono venir lesi dal suo esercizio. A mio avviso, ciò che deve riprovarsi nella fattispecie è il ritardo con cui la Commissione ha reso noto di aver ricostituito i prezzi nazionali. Come ho già detto, essa lo ha dichiarato per la prima volta nella controreplica presentata nelle cause 119/77 e 120/77 e solo nelle risposte ai quesiti scritti della Corte ha indicato quali industrie aveva ritenuto equiparabili all'industria dei cuscinetti al fine di determinare l'adeguata percentuale di utile teorico.

Questo ritardo ha avuto una duplice conseguenza. In primo luogo gli esportatori giapponesi non hanno mai avuto occasione di presentare, durante l'inchiesta, le loro osservazioni in materia alla Commissione. Questo punto lo esaminerò in un altro capitolo. Ma in secondo luogo ciò ha fatto sì che non si è potuto instaurare un adeguato contraddittorio sui punti di cui trattasi, in quanto gli elementi di rilievo in merito sono stati resi noti in modo incompleto e quando il procedimento si trovava già in una fase assai avanzata. Di conseguenza, la Corte è insufficientemente informata per potersi adeguatamente pronunciare, ritengo, su questi punti.

Risulta dunque che il preambolo del regolamento n. 1778/77 era, sotto questo profilo, viziato. È ormai risaputo che, secondo la vostra giurisprudenza, lo scopo principale per cui l'art. 190 del Trattato prescrive che gli atti del Consiglio e della Commissione devono dichiarare i motivi su cui si fondano, è quello di offrire la possibilità a coloro che possono venirne lesi di impugnarne la validità, se del caso, e così consentire a questa Corte di esercitare il sindacato giurisdizionale. La fattispecie mi pare un tipico esempio in cui detta finalità non è stata conseguita.

La Commissione ha sostenuto in udienza che chi avesse con molta attenzione raffrontato il tenore del preambolo del regolamento n. 1778/77 con quello del preambolo del regolamento n. 261/77 avrebbe avuto «quanto meno un'idea abbastanza precisa» del suo modo di procedere. Il punto più significativo a questo proposito nel preambolo del regolamento n. 1778/77 è il nono, nel quale così si descrive il criterio secondo cui la Commissione ha stabilito i prezzi del mercato nazionale:

«Considerando che il valore normale dei prodotti in questione è stato stabilito sulla base dei prezzi effettivamente praticati per questi prodotti sul mercato interno giapponese».

Nel regolamento n. 261/77 il punto corrispondente era del seguente tenore:

«Considerando che, al fine di accertare l'esistenza di un dumping, la Commissione ha confrontato i prezzi all'esportazione verso la Comunità con quelli effettivamente praticati sul mercato giapponese».

A mio giudizio, questa modifica di redazione non era sufficiente a mettere in guardia nemmeno un lettore accorto. In realtà il lettore accorto sarebbe stato molto più propenso a contrapporre il testo del nono punto del preambolo del regolamento n. 1778/77 a quello del decimo, che riguarda i prezzi all'esportazione e recita:

«Considerando che, a causa dei legami esistenti tra gli esportatori giapponesi e la maggior parte degli importatori europei, i prezzi all'esportazione sono stati ricostituiti sulla base dei prezzi ai quali i prodotti importati sono rivenduti per la prima volta ad un compratore indipendente, tenuto conto sia delle spese che degli utili tra l'importazione e la vendita».

Comunque, il dovere di un'istituzione comunitaria, secondo l'art. 190 del Trattato, non è quello di dar adito a congetture, bensì quello di indicare inequivocabilmente i motivi per cui ha adottato l'atto in questione. Il nono punto del preambolo del regolamento n. 1778/77 non indicava che la Commissione aveva aggiunto ai «prezzi effettivamente praticati» in Giappone un importo corrispondente ad un utile teorico, quale era questo importo o perché si era proceduto a questo aumento. Questa carenza, a mio avviso, è una ragione sufficiente per far annullare l'intero regolamento n. 1778/77.

f) La scelta dei «modelli rappresentativi»

Ho già detto che la Commissione ha fondato i suoi calcoli per la determinazione definitiva del dumping sui prezzi di modelli tipo di cuscinetti, prescelti durante ispezioni effettuate dai suoi rappresentanti nelle sedi delle affiliate europee delle quattro grandi. A quanto pare, per il gruppo NSK la scelta fu operata durante l'ispezione presso la NSK Germania, che ha fatto seguito alle ispezioni presso le sedi della NSK UK e NSK Francia, e vennero prescelti 54 modelli di cuscinetti. Il gruppo NSK sostiene che il criterio in base al quale i 54 modelli sono stati scelti non era adeguato e che questa gamma non costituiva una rosa di prodotti statisticamente valida. Naturalmente la Commissione contesta questo assunto.

Un resoconto sul criterio di scelta dei 54 modelli di cuscinetti è contenuto ai nn. 38 e 39 della replica del gruppo NSK nella causa 119/77. La Commissione nega l'esattezza di questa esposizione. Comunque il resoconto mostra in primo luogo che, in quella fase, si è discusso a fondo tra i rappresentanti della Commissione e quelli del gruppo NSK e che la Commissione non ha celato quello che stava facendo; in secondo luogo — e su questo argomento la Commissione fa grande affidamento — è risultato che, mentre i rappresentanti della NSK Germania hanno espresso il loro disaccordo circa l'inclusione o l'esclusione di questo o quel tipo di cuscinetto dalla rosa di modelli rappresentativi, mai il gruppo NSK ha proposto modelli sostitutivi.

A mio giudizio, due cose sono chiare. La prima è che, qualunque fossero le idee dei rappresentanti del gruppo NSK, spettava alla Commissione decidere in definitiva sui modelli da includere nella rosa rappresentativa. L'altro è che dinanzi alla Corte non è stato prodotto nemmeno un inizio di prova per dimostrare che il campionario prescelto dalla Commissione era in realtà statisticamente invalido. Quindi disattenderei questo mezzo specifico.

Disattenderei pure un mezzo, collegato al precedente, svolto dal gruppo NSK, cioè che l'ottavo punto del preambolo del regolamento n. 1778/77 è redatto in termini inadeguati. Esso recita: «a causa della molteplicità dei modelli dei prodotti in questione, questo esame è stato effettuato su un certo numero di modelli rappresentativi della struttura dei prezzi dei prodotti interessati». Contrariamente a quanto è risultato esser vero relativamente al 9o punto, non è stato provato che il tenore dell'ottavo punto è inadeguato per consentire a chiunque di contestare efficacemente la validità della scelta dei modelli rappresentativi di cuscinetti o alla Corte di sindacarla.

5. Argomenti relativi al diritto degli interessati di esporre il proprio punto di vista sulla sussistenza del dumping

È un principio fondamentale di diritto comunitario quello di consentire agli interessati di esprimersi dinanzi all'autorità competente prima che venga adottato un provvedimento o una decisione individuale che possa toccarli direttamente. È inoltre logico corollario dello stesso principio che gli interessati debbano poter venire a conoscenza, onde essere in grado di esercitare appieno il loro diritto, dei fatti e dei motivi in base ai quali l'autorità intende agire. Questo principio, ribadito da svariate sentenze della Corte, e che si applica indipendentemente dal fatto che vi sia una legge che ne imponga il rispetto, à stato confermato ancor ieri nella sentenza emessa nell'ambito della causa 85/76 Hoffmann-La Roche e Co. AG c/ Commissione.

D'altronde, l'esistenza del principio non è stata messa in forse né dal Consiglio né dalla Commissione. Essi hanno però osservato che la sua sfera d'applicazione è molto limitata in un'indagine antidumping, per cinque motivi:

1)

I dazi antidumping vengono istituiti mediante legge e non mediante decisioni individuali e il principio del diritto di esporre le proprie argomentazioni non ha, nei lavori di preparazione di una legge, la stessa portata che nell'elaborazione di un provvedimento amministrativo.

2)

La complessità delle inchieste antidumping e la celerità con la quale devono effettuarsi rendono praticamente impossibile dare piena attuazione a detto principio.

3)

Le disposizioni dell'art. 6, b), c) e d), del Codice antidumping e le corrispondenti disposizioni del regolamento n. 459/68, in materia di riservatezza, implicano che l'autorità inquirente non può divulgare buona parte delle notizie di cui è a conoscenza.

4)

Le disposizioni dell'art. 6 del Codice antidumping e le disposizioni corrispondenti del regolamento n. 459/68 contemplano solo la trasmissione e la divulgazione di «informazioni», termine che può comprendere elementi di fatto raccolti dall'autorità inquirente o a questa forniti, ma non il modo in cui detti elementi sono impiegati (per calcoli o altrimenti) dall'autorità inquirente.

5)

L'istituzione di un dazio antidumping non pone termine al procedimento nei confronti degli importatori, in quanto l'art. 19, n. 4, del regolamento n. 459/68 consente loro di farsi rimborsare il dazio o una congrua parte di esso se riescono a dimostrare che un determinato prodotto non era oggetto di dumping o che il margine di dumping nel caso specifico era inferiore all'aliquota in base alla quale è stato calcolato il dazio.

Il primo di questi argomenti è molto simile agli argomenti svolti in relazione alla ricevibilità dei ricorsi. Sono indubbiamente d'accordo nel riconoscere che, di regola, nessuno ha il diritto di esser sentito nel corso dell'elaborazione di una legge, mentre invece è logico consentire agli interessati di intervenire prima che nei loro confronti sia emanato un atto amministrativo che li tocca direttamente e individualmente. Ma proprio perché mi pare che un provvedimento come il regolamento n. 1778/77 sia in certa misura un atto ibrido, ritengo possa esserlo pure il procedimento investigativo che vi si riferisce, almeno sotto l'aspetto che ci interessa. Se il procedimento può sfociare nella constatazione che un determinato esportatore ha praticato il dumping e, in base a questa constatazione, nell'applicazione di un dazio antidumping ai suoi prodotti indicati specificatamente, esso è abbastanza simile al processo di elaborazione di una decisione che tocca individualmente e direttamente detto importatore.

Quanto al secondo argomento, è indubbio che il diritto di esporre i propri argomenti è soggetto alla condizione generale che esso sia compatibile con le esigenze di un'amministrazione efficiente. Vedasi ad esempio il § 18 del memorandum esplicativo allegato alla Risoluzione sulla tutela dei singoli, relativamente agli atti delle autorità amministrative, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 28 settembre 1977 (n. 31/77), in cui si dichiara: «Se, ad esempio, l'adozione dell'atto amministrativo non può venir ritardata, si può fare a meno di sentire l'interessato. Nello stesso modo si procede allorché, per altri pertinenti motivi, è impossibile o eccessivamente difficoltoso procedere alla sua audizione». L'applicazione di questa eccezione mi pare debba però essere contenuta entro adeguati limiti. Se, nel caso presente, si fosse sostenuto che la Commissione aveva fatto quanto le era ragionevolmente possibile fare nel tempo disponibile, e tenuto conto delle difficoltà dell'indagine, per informare ciascuno degli esportatori giapponesi circa le sue conclusioni provvisorie quanto alla questione del dumping e circa il modo in cui era giunta a tali conclusioni, nonché per dare ad ogni esportatore la possibilità di pronunciarsi sull'argomento, e se i fatti descritti alla Corte avessero corroborato tale assunto, avrei detto che la Commissione poteva spuntarla su questo punto. Invece la Commissione, come ho detto, ha sostenuto che gli esportatori avevano diritto di conoscere solo elementi di fatto, ma non di sapere come essa aveva impiegato questi elementi. In realtà la Commissione è giunta a sostenere, se ho ben capito, che gli esportatori non avevano nemmeno il diritto di sapere quali elementi, fra tutti quelli di cui disponeva la Commissione, erano effettivamente stati presi in considerazione. Se questi elementi erano stati forniti dall'esportatore stesso, ha osservato la Commissione, questo doveva conoscerli, e se essi erano tratti da pubblicazioni, ad esempio articoli di stampa, gli erano pure accessibili. Quindi la Commissione non aveva bisogno di comunicarglieli. La Commissione non ha mai cercato di spiegare, o — mi pare — non ha mai spiegato adeguatamente perché si dovessero interpretare in modo tanto restrittivo, per motivi pratici, i diritti degli esportatori.

Il terzo argomento è sicuramente pertinente. Le disposizioni dell'art. 6 del Codice antidumping in materia di informazioni riservate e le corrispondenti disposizioni del regolamento n. 459/68 sono tassative. Esse hanno probabilmente impedito alla Commissione, nel nostro caso, di fornire agli esportatori giapponesi qualsiasi possibilità di esporre a fondo i loro argomenti sul problema del danno all'industria europea, giacché molte delle informazioni in materia erano state fornite alla Commissione in via riservata dagli stessi industriali europei. Analogamente, queste disposizioni probabilmente hanno impedito che ai singoli esportatori giapponesi si fornisse l'occasione di fare dichiarazioni sul problema del dumping praticato dagli altri esportatori giapponesi. Però non mi è chiaro come esse possano aver impedito che si desse ad ogni esportatore giapponese almeno la possibilità di esporre il suo punto di vista sul dumping da esso assertivamente praticato.

Quanto al quarto argomento, mi pare che l'interpretazione data dalla Commissione del termine «informazioni», che compare nell'art. 6 del Codice antidumping (e nell'art. 10, n. 4, del regolamento n. 459/68), sia troppo restrittiva. Anzitutto il termine va inteso alla luce della finalità dichiarata nel preambolo dell'accordo con cui è stato adottato il Codice antidumping: «istituire procedimenti equi e aperti come base per l'esame approfondito dei casi di dumping». In secondo luogo, a detto termine si deve attribuire un significato più ampio del termine «prova», di cui alla leu. a) dell'art. 6. In terzo luogo, il fornire solo «informazioni» nel senso ristretto in cui la Commissione concepisce il termine non soddisferebbe di regola (ed evidentemente non ha soddisfatto nel caso presente) le esigenze della lett. b) dell'art. 6, secondo cui gli interessati «devono prendere conoscenza di qualsiasi informazione utile per la formulazione dei loro argomenti … e che venga presa in considerazione dalle autorità nell'inchiesta antidumping» né corrisponderebbe a quanto prescrive lo stesso paragrafo, cioè che gli interessati devono aver modo «di elaborare le loro difese in base a dette informazioni». Infine, l'interpretazione della Commissione mi pare non concordi con la frase iniziale della lett. g) dell'art. 6, che stabilisce che «durante tutto lo svolgimento dell'inchiesta antidumping, tutte le parti devono aver ampia possibilità di tutelare i loro interessi». La Commissione ha osservato che questa frase costituisce solo la premessa della seguente, ove si parla di incontri tra parti «aventi interessi opposti». Non vedo tuttavia perché si dovrebbe limitare così la sua portata. Detti incontri mi pare costituiscano solo un mezzo con cui gli autori del Codice hanno inteso offrire alle parti l'occasione di tutelare i loro interessi.

A proposito di questo argomento, la Commissione si è richiamata all'art. 10, c), del Codice, che prescrive alle autorità interessate, allorché informano i rappresentanti del paese esportatore e le parti direttamente interessate della loro decisione di adottare provvedimenti provvisori, di indicare i motivi di detta decisione e i criteri seguiti. Questa disposizione implicava, ha osservato la Commissione, che non si dovessero fornire chiarimenti né sui motivi né sui criteri prima che all'interessato fosse comunicato che si sarebbe adottata una decisione. Sarebbe stato più pertinente, penso, da parte della Commissione, far richiamo all'art. 6, b), del Codice, che contiene analoghe disposizioni concernenti le decisioni in materia di istituzione di dazi definitivi. L'art. 6, h), tuttavia, non può interpretarsi in un senso che contraddice tutte le precedenti disposizioni dello stesso articolo circa il diritto di esporre le proprie ragioni.

La Commissione ha poi sostenuto che, dal momento che il Codice antidumping costituisce normativa internazionale, vale per esso il principio di reciprocità. Si è fatto richiamo ad una traduzione della legislazione giapponese che mette in atto il Codice, dalla quale, si è detto, risultava che il Codice era stato interpretato ed applicato in Giappone nello stesso modo in cui lo aveva interpretato ed applicato la Commissione. Credo che questo argomento sia stato svolto a proposito, poiché il regolamento n. 459/68, che è la normativa di cui la Corte deve occuparsi, va interpretato conformemente al Codice. È però eccessivo, penso, chiedere a questa Corte, sulla sola scorta di una traduzione della legge giapponese e senza alcuna prova circa il modo in cui questa è interpretata ed applicata in Giappone, di trarre conclusioni in materia e quindi, in base a dette conclusioni, e senza tener conto di quanto avviene eventualmente negli altri paesi vincolati dallo stesso Co dice, arguire come si deve interpretare il codice.

Quanto al quinto argomento, ho già espresso il parere che l'art. 19, n. 4, del regolamento n. 459/68 non può venir invocato per dimostrare che Consiglio e Commissione sono dispensati in via generale dall'obbligo di osservare la legge nell'istituire i provvedimenti antidumping. Non penso di aver ulteriori argomenti utili da esporre su questo punto.

Risulta chiaro, dopo aver sentito le ricorrenti e la Commissione, che quest'ultima non ha consentito a nessuna delle quattro grandi di presentare efficacemente le proprie difese. La Commissione, tutto sommato, ha fatto quello che pensava dover fare in base alla sua interpretazione del Codice e del regolamento n. 459/68, e nulla di più. Ciò è ben comprensibile, ma rende superflui, se così posso esprimermi, certi commenti da parte della Commissione, come ad esempio che i responsabili delle ditte interessate (delle quattro grandi e delle loro affiliate) avrebbero dovuto poter arguire, dalle inchieste della Commissione circa i prezzi, i costi, i loro profitti e le loro perdite e così via, gli argomenti cui la Commissione attribuiva importanza. Ancora una volta, se la mia visione giuridica è esatta, non era sufficiente che la Commissione ponesse queste persone in grado di far congetture. La Commissione doveva dir loro chiaramente, beninteso nei termini e nei limiti consentiti dalle circostanze, perché si procedeva nei loro confronti.

Così stando le cose, non perderò molto tempo ad esaminare i vari esempi, forniti dalle ricorrenti, di punti sui quali la Commissione si è fondata nel trarre le sue conclusioni, ma a proposito dei quali esse non hanno avuto modo di esprimersi dinanzi alla Commissione. Naturalmente, anzitutto e soprattutto, vi è il fatto lampante che, fino ad oggi, nessuna delle ricorrenti (e nemmeno la Corte) sa quali sono i margini di dumping che la Commissione, in esito alle sue indagini che hanno preceduto l'adozione del regolamento n. 1778/77, ha constatato nei confronti di ciascuna delle quattro grandi e nemmeno in quali zone della Comunità è risultato si fosse praticato dumping in questa misura. Meno ancora le ricorrenti (o noi) sanno come, con esattezza, questi margini sono stati calcolati. Poi c'è il fatto — che ho esaminato nel paragrafo precedente — che, finché la Commissione non ha presentato le sue controrepliche nelle cause 119/77 e 120/77, nessuno sapeva che i prezzi del mercato nazionale erano stati «ricostituiti» con l'aggiunta di un utile teorico. E, fino allo stesso momento, nessuno sapeva che la Commissione aveva aggiornato i prezzi nazionali, ma non quelli d'esportazione, al gennaio 1977. Vi è il fatto che fino all'udienza non si è ben saputo, ma anche allora non è stato del tutto chiarito, come la Commissione avesse considerato i prezzi praticati dalla NACHI alla ISO. C'è l'interrogativo della NSK circa il criterio con cui sono stati calcolati i costi delle sue affiliate europee. Potremmo forse sorvolare sul mistero dei «calcoli di verifica» operati dalla Commissione nel luglio 1977 e sull'incidente del discorso del sig. Otsu, giacché questi fatti si sono verificati allorché il procedimento investigativo era già molto avanzato e non hanno avuto riflessi sul contenuto della proposta formale presentata dalla Commissione al Consiglio. Continuo tuttavia a chiedermi se tali questioni non avrebbero potuto venir risolte diversamente qualora la Commissione avesse avuto idee diverse sulla disciplina in materia, e se i «calcoli di verifica» non abbiano avuto il loro peso nelle discussioni tra i funzionari della Commissione e quelli del Consiglio nel periodo intercorso tra il ricevimento da parte del Consiglio della proposta della Commissione e l'adozione, da parte dello stesso, del regolamento n. 1778/77.

In conclusione direi che, nell'elaborazione del regolamento n. 1778/77, vi è stata «violazione delle forme sostanziali» nel senso che quest'espressione ha nell'art. 173 del Trattato, il che fornisce un ulteriore motivo di annullamento del regolamento.

6. Argomenti relativi al «pregiudizio»

Vari argomenti sono stati svolti dalle ricorrenti relativamente al danno assertivamente causato all'industria europea. I principali sono:

1)

le ricorrenti non sono mai potute venire a conoscenza delle prove a sostegno della constatazione che l'industria europea è stata danneggiata e che il presunto dumping è stato la causa principale di questo danno;

2)

il preambolo del regolamento n. 1778/77 non indicava adeguatamente perché si riteneva che il danno subito dall'industria europea dei cuscinetti fosse dovuto al presunto dumping e non ad altri fattori;

3)

la Commissione non può aver vagliato debitamente il problema del danno, in quanto, se lo avesse fatto, sarebbe inevitabilmente giunta alla conclusione che non vi era stato danno o, comunque, nessun danno che potesse dimostrarsi derivare dal presunto dumping;

4)

nulla dimostrava che la Commissione e il Consiglio si fossero preoccupati del problema dell'entità del dazio necessario ad ovviare all'asserito danno, che non era inevitabilmente uguale al margine di dumping.

Tutti questi argomenti mi lasciano indifferente. La constatazione del danno e della sua causa erano inevitabilmente fondate, in gran parte, sulle informazioni riservate fornite alla Commissione dagli industriali europei e che non potevano essere divulgate. Per di più, per la loro stessa natura, erano constatazioni che potevano solo fondarsi sull'esame di complessi dati economici, che mal si prestano al sindacato giurisdizionale. Quanto è stato esposto dalle ricorrenti è lungi dal dimostrare che, nel condurre tale esame, la Commissione sia incorsa in un errore manifesto o abbia commesso sviamento di potere. Nemmeno ritengo giustificata, sotto questo aspetto, la critica al preambolo del regolamento. Il preambolo tratta abbastanza diffusamente e, mi pare, in modo adeguato alle circostanze, il problema del danno e della sua causa: vedi i punti 13-17.

7. Argomenti relativi ai cuscinetti fabbricati dall'NSK UK

Le ricorrenti nella causa 119/77 (Gruppo NSK) sostengono che il regolamento n. 1778/77 è illegittimo in quanto costituisce una sanzione per obbligarle all'osservanza della clausola n. 5 dell'impegno dell'NSK e, di conseguenza, ad aumentare i prezzi dei cuscinetti fabbricati a Peterlee dall'NSK UK.

A mio giudizio, l'argomento è pertinente. Come ha ammesso la Commissione in udienza, né l'art. 113 del Trattato, né il regolamento n. 459/68 autorizzano l'istituzione di un dazio antidumping sui cuscinetti fabbricati nell'area comunitaria e, d'altronde, si deve ricordare che, a norma del regolamento n. 1778/77, la sanzione per l'eventuale inosservanza degli impegni assunti dalla NSK non comprende l'istituzione di dazi antidumping per i cuscinetti fabbricati a Peterlee. Così stando le cose, mi pare abbia costituito eccesso di potere ricorrere alle facoltà attribuite dal regolamento n. 459/68 per garantire un aumento dei prezzi di detti cuscinetti.

Il Gruppo NSK ha osservato per di più che il preambolo del regolamento n. 1778/77 è viziato, in quanto non spiega perché detti poteri sono stati usati in questo modo. Non penso che questo aggiunga gran che alla sostanza dell'argomento.

8. Argomenti riguardanti unicamente la validità del regolamento n. 261/77 e quindi de/l'art. 3 del regolamento n. 1778/77

È chiaro che, se il regolamento n. 261/77 non risulta valido, ciò costituisce un motivo per propugnare anche l'invalidità dell'art. 3 del regolamento n. 1778/77, in quanto il Consiglio non poteva disporre l'incameramento di un dazio provvisorio la cui istituzione era viziata. Per questo motivo varie ricorrenti hanno svolto argomenti riguardanti la validità del regolamento n. 261/77.

Il Consiglio ha sostenuto che le ricorrenti non potevano avvalersi di siffatti argomenti.

È fuori dubbio che le ricorrenti erano decadute dal diritto di impugnare la validità del regolamento n. 261/77 semplicemente facendo ricorso all'art. 173. Opinabile è invece se potessero impugnarla sotto il profilo dell'art. 184 del Trattato.

Su questo punto il Consiglio ha osservato, in primo luogo, che l'art. 184 consente soltanto di «invocare davanti alla Corte di giustizia l'inapplicabilità» di un regolamento in procedimenti promossi contro una decisione. Ad esser sinceri, questo è un errore patente. Nessuna disposizione in tal senso è contenuta nell'art. 184. Questo articolo può venir invocato qualora la validità di un regolamento venga messa in forse nell'ambito di procedimenti relativi alla validità di regolamenti posteriori. Però, in ogni modo, l'assunto è fuori luogo, giacché siffatti ricorsi sono ricevibili solo qualora il regolamento n. 1778/77 possa concepirsi, nei confronti delle ricorrenti, come una decisione.

In secondo luogo il Consiglio ha sostenuto che l'art. 184 può invocarsi solo «per impugnare un regolamento da cui trae origine una decisione contestata». Il precedente su cui si fonda questo assunto è la sentenza emessa dalla Corte nella causa 32/65, Italia ci Consiglio e Commissione (Racc. 1966, pag. 297, cfr. pag. 323). A mio parere, questa sentenza non può corroborare una concezione così angusta. Essa stabilisce soltanto che, qualora si invochi l'art. 184, ci deve essere una relazione tra il regolamento precedente e l'atto successivo, sicché la validità del secondo dipende dalla validità del primo. Il requisito è indubbiamente soddisfatto nel nostro caso.

In terzo luogo il Consiglio ha osservato che il ragionamento delle ricorrenti non è coerente in quanto queste sostengono che il regolamento n. 1778/77 costituisce una decisione mentre il regolamento n. 261/77 non lo è. Le ricorrenti, ha sostenuto il Consiglio, si trovano così in un dilemma. O il regolamento n. 1778/77 costituisce una decisione, nel qual caso i loro ricorsi sono ricevibili, ma allora anche il regolamento n. 261/77 deve essere una decisione — e l'art. 184 non consente di impugnare la validità delle decisioni — oppure esse devono riconoscere che sia l'uno sia l'altro sono veri e propri regolamenti, ma allora risultano irricevibili i ricorsi. Se l'analisi che ho svolto in precedenza sui motivi per cui, a mio parere, i ricorsi sono ricevibili è corretta, non può aversi questo dilemma, perché è possibile, senza contraddire l'analisi di cui sopra, affermare che il regolamento n. 261/77 era solo un regolamento. Ciò dipende dalla soluzione della questione più ampia che, nel corso della mia analisi, ho ritenuto superfluo venisse risolta da parte vostra nell'ambito delle presenti cause. Penso che sia superfluo risolverla anche in questo contesto, giacché — a mio parere — gli argomenti svolti dalle ricorrenti quanto alla validità del regolamento n. 261/77 non possono fare alcuna differenza quanto all'esito dei ricorsi.

Di questi argomenti il primo è quello che il Consiglio non aveva alcuna facoltà, derivantegli dal Trattato, di conferire alla Commissione il potere di emanare siffatto regolamento. La suddivisione di competenze operata dal Trattato fra le istituzioni della Comunità fa sì, hanno sostenuto le ricorrenti, che solo il Consiglio possa emanare una «decisione indipendente» avente un «effetto determinato», come la decisione di istituire un dazio provvisorio. Questo assunto, a mio parere, stride apertamente con il chiaro tenore dell'art. 155 del Trattato, secondo il quale fra i compiti della Commissione rientra l'esercizio delle «competenze che le sono conferite dal Consiglio per l'attuazione delle norme da esso stabilite».

Gli altri argomenti svolti dalle ricorrenti quanto alla validità del regolamento n. 261/77 consistono in tre critiche del suo preambolo. Detto preambolo era inadeguato in quanto non stabiliva:

1)

il margine di dumping determinato provvisoriamente ;

2)

perché si riteneva vi fosse pregiudizio grave per l'industria europea;

3)

perché era necessario un intervento d'urgenza da parte della Comunità.

Le prime due critiche corrispondono a quelle fatte al preambolo del regolamento n. 1778/77. La terza mi pare mal impostata. Tutto il preambolo del regolamento n. 261/77 aveva la funzione di illustrare le ragioni per cui la Commissione considerava indispensabili le misure provvisorie.

9. Altri argomenti vertenti unicamente sulla validità dell'art. 3

a) «Discriminazione» fra le quattro grandi

Ricorderete che il regolamento n. 261/77, mentre istituiva un dazio provvisorio generale del 20 %, stabiliva una deroga per la KOYO e per la NACHI, i cui prodotti erano gravati solo del 10 %, in quanto dalle indagini preliminari svolte dalla Commissione era risultato che, per queste due società, il margine di dumping era inferiore. Per questo motivo, l'art. 3 del regolamento n. 1778/77, che dispone che gli importi versati a garanzia del dazio provvisorio «verranno definitivamente incamerati, sempreché non eccedano il tasso del dazio stabilito nel presente regolamento», ha fatto sì che l'incameramento si effettuasse nella misura del 15 % per i prodotti della NTN e della NSK, ma in ragione del solo 10 % per i prodotti della KOYO e della NACHI. La NTN e la NSK ravvisano in questa disposizione una discriminazione a loro danno, discriminazione del genere vietato dall'art. 8, b), del Codice antidumping e da un principio generale del diritto comunitario, giacché è chiaro che le constatazioni definitive della Commissione miravano alla parità di trattamento delle quattro grandi. A questo assunto la NSK ne ha associato un altro, cioè che il preambolo del regolamento n. 1778/77 è viziato poiché non illustra i motivi di detta discriminazione.

A queste censure il Consiglio ha ribattuto sostanzialmente, mi sembra, con tre argomenti:

1)

se atto discriminatorio vi è stato, si trattava del regolamento n. 261/77, che le ricorrenti non hanno impugnato sotto questo profilo;

2)

la domanda di cui all'art. 19, n. 4, era il mezzo da usarsi se l'incameramento ad aliquota più alta fosse stato ingiustificato e

3)

il trattamento più clemente nei confronti della KOYO e della NACHI era dovuto non all'intenzione di riservare loro una preferenza, ma al fatto — che giocava a loro favore — che il Consiglio non poteva disporre nei loro confronti l'incameramento del dazio sui loro prodotti ad un tasso superiore al 10 %.

I primi due argomenti mi paiono chiaramente mal impostati. Per contro, mi pare che il Consiglio abbia giocato una buona carta con il terzo. La discriminazione, quanto meno nell'accezione accolta dal diritto comunitario, implica, per quel che ci interessa, una disparità di trattamento nei confronti di persone che si trovano in situazioni analoghe. Nel nostro caso, per effetto di quella che il Consiglio ha definito «fortunata coincidenza» per la NACHI e per la KOYO, la loro situazione era diversa da quella della NTN e della NSK. È evidente che il Consiglio avrebbe disposto di incamerare le cauzioni in ragione del 15 % anche sui prodotti della KOYO e della NACHI, se avesse potuto farlo.

Nemmeno penso sia sostenibile la tesi della NSK, di stampo uguale, relativa al preambolo del regolamento n. 1778/77. I termini dello stesso art. 3 già spiegano la diversità di trattamento tra i prodotti della NTN e della NSK, da un lato, e quelli della KOYO e della NACHI, dall'altro.

b) «Discriminazione» fra le quattro grandi e gli esportatori giapponesi di minore importanza

La NSK ha pure obiettato, analogamente, che l'art. 3 fa una discriminazione tra i prodotti delle quattro grandi e quelli degli esportatori giapponesi di minor importanza e che il preambolo del regolamento non fornisce delucidazioni su questa diversità di trattamento. Ho già spiegato il motivo per cui i prodotti degli altri esportatori giapponesi sono stati assoggettati ad un regime diverso, in base a quanto ci ha dichiarato il Consiglio. Però è giusta l'osservazione della NSK, che questo motivo non è indicato affatto nel preambolo del regolamento. Dubito tuttavia che questa lacuna sia atta, di per sé, ad inficiare l'art. 3.

c) Legittimità dell'incameramento del dazio provvisorio dopo l'accettazione di impegni «retroattivi»

Ho già detto che, se gli impegni si fossero riferiti solo ai prezzi futuri, il Consiglio avrebbe avuto facoltà, convalidando l'accettazione degli impegni operata dalla Commissione, di esercitare il suo potere discrezionale circa la sorte del dazio provvisorio. Però quasi tutte le ricorrenti hanno osservato che il Consiglio e la Commissione (di conserva) non potevano, legittimamente, accettare impegni che erano in parte retroattivi e, ciononostante, disporre l'incameramento del dazio provvisorio. Per di più si è fatto rilevare che nel preambolo del regolamento n. 1778/77 non si dichiarano i motivi di tale modo di procedere.

L ultimo argomento è indubbiamente corretto. Il preambolo del regolamento n. 1778/77 non fornisce alcun motivo per l'incameramento del dazio provvisorio. E pure degno di nota il fatto che nemmeno l'«Exposé des motifs» della proposta della Commissione al Consiglio ne prospettasse alcuno.

Nell'affrontare l'argomento di carattere sostanziale, penso non si debba perdere di vista in che cosa consisteva precisamente l'elemento retroattivo degli impegni. Esso era, come io interpreto, alla luce del tenore degli impegni stessi, le risposte fornite alle domande scritte rivolte dalla Corte alla Commissione e alle quattro grandi su questo punto, costituito dal fatto che gli aumenti di prezzo fino al

10 %, praticati dalle quattro grandi tra il 5 febbraio 1977 e il 30 giugno 1977, venivano computati come prima rata dell'aumento totale del 20 % da praticarsi entro

11 31 dicembre 1977. Gli impegni non erano retroattivi nel senso che i prezzi spuntati in vendite già effettuate dovessero venire in qualche modo aumentati.

Risulta da quanto ci è stato detto, specie da parte del Consiglio, che l'istituzione di un dazio antidumping provvisorio ha in genere due finalità principali. Una è l'impedire l'importazione massiccia di prodotti a prezzo di dumping durante un'inchiesta antidumping, in previsione dell'istituzione di un dazio definitivo. L'altra è quella di provocare aumenti immediati di prezzo per i prodotti in questione. Le due finalità sono chiaramente interdipendenti.

Quando le autorità competenti (nel nostro caso il Consiglio e la Commissione) si trovano a dover decidere sulla sorte di un dazio provvisorio alla luce delle loro constatazioni finali circa il dumping e circa il danno, mi pare che per loro possano prospettarsi queste tre ipotesi.

Anzitutto esse possono constatare che nessuna delle importazioni effettuate dopo l'istituzione del dazio provvisorio costituiva dumping. Ciò può verificarsi per vari motivi, ad esempio perché il margine di dumping accertato in definitiva è trascurabile o nullo, o in quanto l'istituzione del dazio provvisorio ha frenato totalmente le importazioni del prodotto interessato, o perché, a causa dell'istituzione di quel dazio o per altre ragioni, vi è stato un aumento dei prezzi che ha eliminato il margine di dumping. In ognuno di questi casi, ritengo, è dovere delle autorità competenti decidere di non incamerare alcuno dei dazi provvisori.

Nell'ipotesi opposta, le stesse autorità possono constatare che il dumping è continuato dopo l'istituzione del dazio provvisorio, e nonostante la sua applicazione, in ragione di percentuali costantemente allineate o superiori al margine definitivamente constatato. Anche questo fenomeno può essere dovuto a varie ragioni, ad esempio perché il margine constatato definitivamente è molto più alto di quello fissato provvisoriamente, cosicché ogni aumento di prezzo determinato dall'istituzione del dazio provvisorio si è rivelato insufficiente, oppure perché gli esportatori interessati hanno deciso di ignorare l'istituzione del dazio provvisorio, forse facendo eccessivo affidamento su pressioni politiche da parte del governo del loro paese. In questi casi l'autorità competente deve senz'ombra di dubbio, a mio parere, aver facoltà di far incamerare per intero il dazio provvisorio.

La terza ipotesi possibile è una situazione intermedia, è quella cioè in cui le autorità competenti constatano eventualmente che dopo l'istituzione del dazio provvisorio si sono operate alcune importazioni a prezzi aumentati, sicché il margine di dumping è stato eliminato, altre a prezzi maggiorati, ma non sufficientemente ad eliminare del tutto il margine di dumping ed altre ancora a prezzi immutati. Certo, in questo caso non è facile decidere che atteggiamento assumere nei confronti dei dazi provvisori.

La difficoltà di esercitare il potere di decidere sull'incameramento è inoltre aumentata dall'impossibilità, in pratica, per le autorità competenti, di disporre di complete, precise e aggiornate informazioni circa i prezzi praticati o — se essi devono venire ricostituiti — presumibilmente praticati nelle importazioni più recenti.

Nell'esercitare il loro potere discrezionale, in queste occasioni le autorità non possono far di meglio che amministrare una giustizia approssimativa.

Vi è però differenza tra giustizia approssimativa e arbitrio. Nella fattispecie mi pare che per le quattro grandi la giustizia non sia stata nemmeno approssimativa. Analizzando nel miglior modo possibile i motivi forniti a questa Corte dalla Commissione e dal Consiglio quanto alla decisione di disporre l'incameramento del dazio provvisorio, ho potuto discernerne tre.

Uno è che l'aumento dei prezzi praticati fino al 30 giugno 1977 non eliminava il margine di dumping constatato e si riferiva solo ad una parte del periodo in cui vigeva il dazio provvisorio. Supponendo che il margine di dumping in questione fosse in media del 15 %, è chiaro che un aumento dei prezzi non superiore al 10 % non eliminava interamente detto margine e che gli aumenti praticati verso la fine del periodo non potevano incidere su di esso in misura rilevante. Però ciò non poteva giustificare l'incameramento del dazio provvisorio ad aliquote fisse del 10 % e 15 % per tutto il periodo. L'obiezione su questo punto è simile a quella che ho giudicato efficace a proposito dell'istituzione del dazio definitivo. L'atto cui si è fatto appello era troppo radicale per esser consono all'art. 19, n. 3, del regolamento n. 459/68.

Il secondo motivo è che gli impegni sono stati proposti solo allorché il procedimento era già molto avanzato e quindi, data la situazione, se il dazio provvisorio non fosse stato incamerato, si sarebbe giustamente potuto pensare che gli esportatori giapponesi fossero stati premiati per la proroga che erano riusciti ad ottenere. A mio parere, disporre l'incameramento del dazio provvisorio per questa ragione è un'evidente violazione dell'art. 14, n. 2, c), del regolamento n. 459/68.

Il terzo motivo è che è stata l'istituzione del dazio provvisorio a provocare, almeno in gran parte, gli aumenti di prezzo e a consentire agli importatori di giustificarli agli occhi dei clienti. Però ciò significa soltanto che l'istituzione del dazio provvisorio aveva, sotto questo pro filo, conseguito uno dei suoi scopi fondamentali. Ciò non significa che l'incameramento di tutto il dazio fosse necessario nonostante gli aumenti di prezzo. In conclusione ritengo che le ricorrenti possano uscire vittoriose su questo punto.

IX — La domanda di risarcimento nella causa 119/77

A norma degli art. 178 e 215, 2o comma, del Trattato, hanno chiesto il risarcimento dei danni l'NSK UK, l'NSK Germania e l'NSK Francia (e in questa parte mi riferisco solo a queste tre come «ricorrenti»). La domanda si articola su quattro punti:

A)

Danno pari all'importo del dazio provvisorio effettivamente versato dalle ricorrenti alle autorità doganali inglesi, tedesche e francesi, a quanto pare per importazioni effettuate prima che fosse possibile fornire garanzie bancarie per il dazio provvisorio. Sono specificati gli importi pagati in ciascun paese.

B)

Danno pari agli interessi sulle somme di cui le ricorrenti non hanno potuto disporre dovendo effettuare detti pagamenti.

C)

Danno corrispondente al costo della garanzia bancaria.

D)

Danno pari al lucro cessante in conseguenza dell'aumento forzoso dei prezzi dei cuscinetti fabbricati dalla NSK UK a Peterlee.

La domanda di cui al punto A) è chiaramente irricevibile. E stato più volte ribadito che un'azione di risarcimento contro un'istituzione comunitaria non può esperirsi dinanzi alla Corte di giustizia, se verte in sostanza sulla restituzione di somme versate alle autorità nazionali, pur nel caso in cui la domanda sia fondata sull'asserita illegittimità di un atto o di un'omissione da parte di detta istituzione e pur se il convenire in giudizio le autorità nazionali competenti può implicare un lungo iter dinanzi ai giudici nazionali e un rinvio pregiudiziale a norma dell'art. 177 del Trattato: vedi cause 96/71 Haegeman c/ Commissione (Racc. 1972, pag. 1005), 46/75 IBC c/ Commissione (Racc. 1976, pag. 65) e 26/74 Roquette c/ Francia (ibidem, pag. 677). Le ricorrenti hanno vigorosamente sostenuto che queste cause non sono equiparabili alle presenti, ma a mio avviso non è così. Si è pure sostenuto che esse hanno perso la loro validità come precedenti. Il precedente determinante sarebbe ora costituito dalla sentenza nella causa 126/76 Dietz c/ Commissione (Racc. 1977, pag. 2431), dalla quale risulterebbe che il giusto criterio per la determinazione della competenza giurisdizionale in una controversia come la presente non è la natura della perdita per la quale le ricorrenti chiedono il risarcimento, bensì la natura dell'atto o dell'omissione impugnata oppure l'identità del soggetto cui atto od omissione sono imputabili. A mio parere il caso Dietz non costituisce affatto un adeguato sostegno per siffatta teoria. Come ho osservato nelle mie conclusioni in quella stessa causa (cfr. Racc. 1977, pag. 2448), la fattispecie era d'indole diversa rispetto alle cause Haegeman, IBC e Roquette.

La domanda di cui alla lettera B), relativa agli interessi, è pure chiaramente irricevibile; essa è il corollario della do manda sub A) e può solo farsi valere dinanzi al giudice nazionale competente: vedi causa Roquette (già citata).

La Commissione ha sostenuto l'irricevibilità anche della domanda sub C), ma non sono dello stesso avviso. Questa è una domanda indipendente, fondata sul fatto che gli atti viziati delle istituzioni comunitarie hanno costretto le ricorrenti a sobbarcarsi l'onere finanziario della garanzia bancaria. Non vedo chi possa venir citato in giudizio o su quale base si possa presentare detta domanda dinanzi ad un giudice nazionale. A mio avviso, l'ostacolo che si frappone sul cammino delle ricorrenti, quanto a questa domanda, non è il fatto di aver adito un giudice incompetente, ma quello di non trovare fondamento su un principio generale, del tipo di quelli menzionati all'art. 215 del Trattato. Comunque un principio del genere non è stato invocato dalle ricorrenti. L'ipotesi che in determinate circostanze un atto illegittimo di un'istituzione comunitaria possa arrecare pregiudizio al singolo e questi non sia. legittimato ad agire per risarcimento a norma dell'art. 215 è illustrata dalle cause riunite 83 e 94/76, 4, 15 e 40/77 HNL ed altri c/ Consiglio e Commissione (Racc. 1978, pag. 1209).

Lo stesso ostacolo mi pare si frapponga sulla strada delle ricorrenti quanto alla domanda sub D), relativa al lucro cessante sui cuscinetti fabbricati a Peterlee. Per di più non ritengo si possa sostenere che un siffatto pregiudizio sia stato causato da un atto o da un'omissione del Consiglio o della Commissione. Se lucro cessante vi è stato, si sarebbe verificato comunque (sempreché le ricorrenti avessero rispettato i lori impegni) anche nel caso in cui la Commissione avesse semplicemente accettato gli impegni senza istituire un dazio definitivo la cui efficacia rimanesse sospesa. La vera causa della cessazione del lucro (sempreché si sia verificata) è stata dunque la firma dell'impegno, che — per quanto forti possano essere state le pressioni della Commissione in tal senso — rimane per la legge un atto compiuto volontariamente. Non vedo come in questo caso vi sia posto per l'applicazione della teoria dell'«equity» relativa alla «violenza o influenza abusiva».

X — Le domande ancora pendenti nell'ambito della causa 119/77

Il 30 novembre 1978, dopo la chiusura della fase scritta, le ricorrenti nella causa 119/77 hanno presentato tre domande d'indole procedurale. La Commissione è stata autorizzata a presentare le sue osservazioni in merito e lo ha fatto il 20 dicembre 1978. Finora la Corte non si è pronunciata sulla sorte di dette domande. Ormai una pronuncia in merito non può più avere molta importanza pratica, salvo forse sotto il profilo della condanna alle spese. Non è però escluso che intendiate definire qualche punto ancora in sospeso.

Anzitutto, vi è una domanda, a norma dell'art. 91 del regolamento di procedura della Corte, mirante a far eliminare parte della controreplica della Commissione. Si tratta di brani che ho trascurato nella mia esposizione. Essi contengono informazioni sui margini di dumping che si sostiene siano stati calcolati dalla Commissione in base a dati forniti dalla NSK in forza del suo impegno. Il Consiglio e la Commissione non potevano essere al corrente di dette informazioni allorché venne addottalo il regolamento n. 1778/77, cosicché non possono (nonostante una vivace argomentazione della Commissione per dimostrare il contrario) aver rilevanza per qualche punto della presente controversia. A mio parere, sarebbe stata sufficiente un'osservazione orale delle ricorrenti all'udienza. Non era il caso di mettere in azione il congegno della domanda per ottenere la cancellazione. D'altro canto, non sono d'accordo con l'osservazione della Commissione secondo cui il regolamento di procedura non legittima le ricorrenti a presentare questa domanda. L'art. 91 autorizza una domanda «su un'eccezione o un incidente», cosicché mi pare che questa domanda sia formalmente ricevibile, però le ricorrenti dovrebbero esser condannate alle spese ad essa inerenti e dalla stessa provocate, a norma dell'art. 69, § 3, 2o comma, del regolamento di procedura.

In secondo luogo vi è una domanda, pure presentata a norma dell'art. 91, con cui si chiede che la Corte disponga la produzione, da parte della Commissione (a norma dell'art. 45, § 2, b), del regolamento di procedura), di alcuni documenti e la trasmissione di alcune informazioni «alla Corte e alle ricorrenti» (non all'interveniente). La domanda non è conforme all'art. 91, in quanto non indica «le ragioni di fatto e di diritto su cui è basata», limitandosi a lasciarle intendere. Si può arguire, dalla natura dei documenti e delle informazioni di cui si richiede la produzione, che le ricorrenti sono state spinte a far la domanda dai fatti rivelati nella controreplica della Commissione. La conoscenza di questi elementi, tuttavia, non mi pare giustificasse la presentazione di una sconsiderata domanda di comunicazione di documenti e informazioni in una fase così avanzata del procedimento. Questa domanda dovrebbe, secondo me, venir respinta con relativa condanna alle spese. La terza domanda è stata presentata a norma dell'art. 42, § 2, 2o comma, del regolamento di procedura. In essa si dichiara che gli elementi esposti nella controreplica della Commissione costituiscono mezzi nuovi e in realtà contiene le risposte delle ricorrenti su detti punti. A norma dell'art. 42, § 2, terzo comma, del regolamento di procedura, dovete decidere sulla «ricevibilità» di questi nuovi mezzi. La Commissione sostiene che essi non erano veri e propri «mezzi» e quindi la domanda va respinta. Ho già diffusamente esaminato l'importanza degli elementi esposti dalla Commissione. Poiché penso che ne tratterete anche nella vostra sentenza, non ritengo sia il caso che vi pronunciate separatamente su questo punto.

XI — Conclusioni

In conclusione vi propongo di :

nella causa 113/77: dichiarare nullo l'art. 3 del regolamento 113/77 e porre le spese a carico del Consiglio, pur se le ricorrenti non ne hanno fatto espressa domanda, a seguito di una svista dell'avvocato, confessata candidamente in udienza; egli ha però aggiunto — e sono d'accordo con lui — che la mancata richiesta di condanna alle spese a norma dell'art. 69, § 2, del regolamento di procedura non impedisce alla Corte di pronunciarsi in tal senso, esercitando il potere discrezionale conferitole dal § 1 ;

nella causa 118/77: respingere il ricorso con condanna alle spese;

nella causa 119/77:

a)

dichiarare nullo il regolamento n. 1778/77;

b)

respingere la domanda di risarcimento;

c)

per le spese diverse da quelle inerenti alle domande ancora pendenti presentate a norma dell'art. 91 del regolamento di procedura, porre a carico della Commissione e del Consiglio le spese da loro incontrate e una parte di quelle sostenute dalle ricorrenti, in considerazione del fatto che (se concordate con me) non vengono accolte le domande di risarcimento. Propongo i due terzi;

nella causa 120/77: dichiarare nullo il regolamento n. 1778/77 e porre le spese a carico del Consiglio e della Commissione;

nella causa 121/77: dichiarare nullo il regolamento n. 1778/77 e porre le spese a carico del Consiglio.

È forse opportuno ricordare che nelle cause 113/77, 119/77 e 121/77 le spese dovrebbero comprendere quelle inerenti alle domande di provvedimenti d'urgenza, che sono state riservate, e che, nella causa 119/77, dovrebbero (in virtù dell'ordinanza del presidente 14 ottobre 1977) comprendere le spese inerenti all'intervento delle ricorrenti nel procedimento sommario nell'ambito della causa 113/77.

La FEBMA deve inevitabilmente, se concorderete con me sull'esito sostanziale delle cause, condividere la sconfitta su tutta la linea del Consiglio e della Commissione, e quindi venir condannata alle spese provocate dai suoi interventi e ad essi connesse, salvo nella causa 118/77 e salvo nella causa 119/77, ove forse può fruire proporzionalmente del successo della Commissione e del Consiglio sul punto del risarcimento. In altre parole, per esser coerenti con quanto ho proposto per il Consiglio e per la Commissione, nella causa 119/77 la FEBMA dovrebbe venir esonerata dal pagamento di un terzo delle spese causate alle ricorrenti dal suo intervento.


( 1 ) Traduzione dall'inglese.