CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO

GENERALE GERHARD REISCHL

DEL 16 FEBBRAIO 1978 ( 1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

Nel luglio 1973 la convenuta nella causa principale importava dalla Francia in Italia carni bovine destinate all'alimentazione umana. Al confine la merce veniva sottoposta al controllo sanitario, in conformità ad una legge italiana del 1934. Per tale controllo si dovevano pagare dei diritti secondo aliquote che, per il periodo in cui era stata effettuata l'importazione, erano fissate in una legge del 30 dicembre 1970.

Sostenendo che ciò era in contrasto con le disposizioni comunitarie relative alla libera circolazione delle merci, la ditta Simmenthal adiva il Pretore di Susa per la ripetizione dei diritti pagati. Tale procedimento dava luogo a una domanda di pronunzia pregiudiziale (causa 35/76, Simmenthal SpA/Ministero delle finanze italiano, Racc. 1976, pag. 1871 e segg.), che portava la Corte ad affermare quanto segue :

«1o

a)

I controlli sanitari — aventi o meno carattere sistematico — eseguiti alla frontiera in occasione dell'importazione degli animali o delle carni destinati all'alimentazione, costituiscono misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative ai sensi dell'art. 30 del Trattato, vietate da quest'articolo, salve le deroghe previste dal diritto comunitario e, in particolare, dall'art. 36 del Trattato.

b)

Per quanto riguarda i prodotti contemplati dai regolamenti n. 14/64 e n. 805/68, relativi all'organizzazione comune dei mercati nel settore delle carni bovine, il divieto che colpisce siffatte misure ha cominciato ad avere effetto, a parte l'eccezione di cui sopra, dalla data di entrata in vigore dei suddetti regolamenti.

2o

Benché i controlli sanitari di carattere sistematico, eseguiti al confine sui prodotti contemplati dalle direttive nn. 64/432 e 64/433, non siano più necessari, né quindi giustificati ai sensi dell'art. 36, a decorrere dalle date di scadenza fissate nelle direttive stesse ai fini dell'adozione delle norme interne necessarie per l'adeguamento dei sistemi nazionali a quanto disposto sul piano comunitario, e benché, in linea di principio, il rispetto delle condizioni sanitarie debba risultare dal semplice controllo dei documenti (“certificato sanitario”, “certificato di sanità”) che accompagnano obbligatoriamente le merci, le visite veterinarie o sanitarie di carattere saltuario non sono illecite, a condizione ch'esse non si moltiplichino fino a costituire una restrizione dissimulata del commercio fra Stati membri.

3o

a)

Gli oneri pecuniari riscossi, per ragioni di controllo sanitario delle merci, al momento del passaggio della frontiera vanno considerati tasse d'effetto equivalente a dazi doganali.

b)

Una diversa soluzione sarebbe possibile soltanto qualora gli oneri pecuniari di cui trattasi rientrassero in un sistema generale di tributi interni, applicati a tutte le merci — nazionali e importate — secondo gli stessi criteri.

4o

Gli oneri imposti dalla pubblica amministrazione in occasione di controlli sanitari effettuati all'interno degli Stati membri, tanto sui prodotti nazionali quanto su quelli importati, costituiscono tributi interni, sottoposti al divieto di discriminazione di cui all'art. 95 del Trattato.»

Il Pretore emetteva quindi, il 24 gennaio 1977, un decreto nel quale, ritenuta l'illegittimità della riscossione dei diritti sanitari, si ingiungeva il rimborso dei diritti stessi, più gli interessi.

L'Amministrazione delle finanze faceva opposizione a questo decreto. Essa sostiene che il divieto di riscuotere diritti sanitari risulta — per quanto riguarda il diritto comunitario — al massimo dal regolamento n. 14/64 (GU n. 34 del 27. 2. 1964, pag. 562) e dal regolamento n. 805/68 (GU n. L 148 del 28. 6. 1968, pag. 24), che conferma le corrispondenti disposizioni del regolamento precedente. Nell'ordinamento italiano, invece, la riscossione dei diritti sanitari è fondata sulla legge 30 dicembre 1970, che modifica le aliquote di tali diritti ed implica perciò una conferma dell'imposizione di questi ultimi. Rispetto alle norme comunitarie si tratterebbe quindi di una lex posterior. Ora, tenuto conto del principio della separazione dei poteri, non è possibile al giudice disapplicare la legge nazionale ch'esso ritenga contrastante col diritto comunitario; fino ad un'eventuale modifica in sede legislativa, esso è invece tenuto ad effettuare il rinvio alla Corte costituzionale, la quale potrà, con riguardo all'art. 11 della Costituzione italiana, dichiarare l'illegittimità costituzionale di una siffatta legge. Ciò risulterebbe chiaramente dalla sentenza n. 232, emessa dalla Corte costituzionale italiana il 30 ottobre 1975, nonché da altre decisioni della stessa Corte.

A ciò la ditta Simmenthal oppone che, in realtà, il problema prospettato dall'Amministrazione delle finanze non sussiste. L'illegittimità della riscossione dei diritti sanitari deriva dall'inammissibilità dei relativi controlli; su questi ultimi, la summenzionata legge del 1970 non contiene alcuna disposizione, mentre la disciplina in materia si trova nella legge del 1934. Se però si volesse accogliere la tesi dell'Amministrazione delle finanze, secondo cui la legge del 1970 avrebbe tacitamente confermato, con la fissazione di nuove aliquote dei diritti da riscuotere, la necessità dei controlli sanitari, si dovrebbe d'altra parte ritenere che l'esigenza, derivante dal diritto costituzionale italiano, di lasciare alla Corte costituzionale il compito di accertare l'incompatibilità col diritto comunitario di leggi interne posteriori non si concilia con i principi affermati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee circa l'efficacia del diritto comunitario negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e circa l'immediata applicabilità e gli effetti diretti delle norme comunitarie che attribuiscono ai singoli dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare. Secondo tale giurisprudenza, non sono ammissibili interventi degli organi statali, atti ad escludere od ostacolare l'efficacia illimitata ed uniforme del diritto comunitario in tutti gli Stati membri. È questo, tuttavia, il risultato cui si perviene in base al sistema vigente secondo il diritto italiano, visto che il giudice comune non ha la facoltà di disapplicare le norme interne incompatibili col diritto comunitario, del quale, fino alla decisione della Corte costituzionale, non è quindi garantita la piena applicazione. Si dovrebbe inoltre considerare che le pronunzie della Corte costituzionale hanno, in questo campo, solo efficacia «ex nunc»: la dichiarazione d'incostituzionalità non si risolve perciò in una sanatoria con effetto retroattivo, il che equivale alla mancanza di una piena e sicura tutela del singolo, titolare di una situazione giuridica soggettiva garantita dal diritto comunitario.

Data questa divergenza di vedute, la Pretura di Susa decideva di sospendere nuovamente il procedimento e, con ordinanza 28 luglio 1977, vi sottoponeva in via pregiudiziale, in forza dell'art. 177 del Trattato CEE, le seguenti questioni:

«a)

posto che, ai sensi dell'art. 189 del Trattato CEE e della costante giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, le disposizioni comunitarie direttamente applicabili devono esplicare, a dispetto di qualsivoglia norma o prassi interna degli Stati membri, piena, integrale ed uniforme efficacia negli ordinamenti di questi ultimi, anche al fine della garanzia delle situazioni giuridiche soggettive create in capo ai privati, se ne consegua che la portata di dette norme va intesa nel senso che eventuali disposizioni nazionali successive con esse contrastanti vanno immediatamente disapplicate senza che si debba attendere la loro rimozione ad opera dello stesso legislatore nazionale (abrogazione) o di altri organi costituzionali (dichiarazione di incostituzionalità), specie ove si consideri, rispetto a questa seconda ipotesi, che fino a detta dichiarazione, permanendo la piena efficacia della legge nazionale, risulta impedita l'applicazione delle norme comunitarie, e quindi non garantita la piena, integrale ed uniforme applicazione delle medesime e non protette le situazioni giuridiche create in capo ai privati;

b)

in relazione al quesito che precede, qualora il diritto comunitario ammetta che la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, sorte per effetto di disposizioni comunitarie “direttamente applicabili”, possa essere rinviata al momento della effettiva rimozione ad opera dei competenti organi nazionali delle eventuali misure nazionali contrastanti, se tale operazione debba avere in ogni caso efficacia totalmente retroattiva in modo da evitare ogni conseguenza pregiudizievole per le situazioni giuridiche soggettive.»

I —

All'esame dettagliato delle suddette questioni devo premettere alcune osservazioni cui danno luogo talune obiezioni ed indicazioni avanzate nel corso del procedimento e riguardanti, nel loro complesso, il problema della rilevanza della pronunzia pregiudiziale, vale a dire la questione del se la chiarificazione richiesta sia o meno necessaria ai fini della decisione che dovrà essere adottata dal giudice a quo.

1.

È stato sostenuto, ad esempio, che nella fattispecie la soluzione delle questioni pregiudiziali non è necessaria per il giudice di rinvio, in quanto esso stesso sembra riconoscere la propria incompentenza. Trattandosi del rimborso di tributi, sarebbe infatti competente non già il pretore, ma il tribunale.

In proposito di deve ritenere che le questioni attinenti alla rilevanza della pronunzia pregiudiziale, almeno in quanto su di esse incidano considerazioni relative al diritto interno, non rientrano in via di principio nella competenza di questa Corte. Una sola volta (causa 13/68 SpA Salgoil/Ministero del commercio con l'estero della Repubblica italiana, sentenza 19 dicembre 1968, Racc. 1968, pag. 601) nella vostra giurisprudenza si trova un accenno alla possibilità di derogare al suddetto principio, e precisamente qualora si possa constatare un errore manifesto del giudice proponente. Questa ipotesi, tuttavia, non si è ancora mai realizzata in pratica. Né ritengo che vi sia motivo di ammettere la deroga nel presente procedimento. L'esistenza dei relativi presupposti non è stata dimostrata. È chiaro che le prospettate questioni di competenza non possono risolversi in modo così univoco come ritiene il Governo italiano. A mio avviso, si può presumere che il giudice di rinvio, qualora avesse nutrito dubbi sulla propria competenza, non avrebbe sottoposto a questa Corte le questioni formulate nella domanda pregiudiziale.

2.

La mia seconda osservazione preliminare riguarda l'argomento addotto dal Governo italiano, secondo cui questioni analoghe sono state già trattate dai partecipanti al presente procedimento nella causa 52/76 (Luigi Beneze detti/Munari F.lli S.a.s., sentenza 3 febbraio 1977, Racc. 1977, pag. 163), il che dovrebbe significare che su di esse questa Corte ha già allora preso posizione — quantomeno tacitamente — in via pregiudiziale, sicché non vi sarebbe alcun motivo per una ulteriore pronunzia.

Neppure su questo punto condivido il parere del suddetto Governo. La sentenza emessa in quel procedimento per risolvere le questioni allora formulate contiene, infatti, statuizioni che riguardano unicamente l'efficacia delle sentenze emesse in via pregiudiziale, e precisamente nel senso che dette sentenze vincolano il giudice di rinvio quanto all'interpretazione delle norme e degli atti comunitari rilevanti nella causa principale. I problemi sollevati nel presente procedimento hanno manifestamente portata più vasta. Essi riguardano la capacità di affermazione del diritto comunitario sotto un altro profilo: si deve infatti stabilire quale sia l'efficacia delle norme comunitarie direttamente applicabili rispetto a disposizioni di diritto interno emanate successivamente, e cioè risolvere la questione del se queste ultime possano essere disapplicate immediatamente, ovvero debba attendersi, per la loro disapplicazione, la pronunzia della Corte costituzionale. In proposito non esiste ancora una chiara giurisprudenza, cosicché non dovremmo perdere l'occasione di far luce su questo fondamentale problema di diritto comunitario.

3.

La terza osservazione che vorrei fare preliminarmente riguarda fatti emersi soltanto nella fase orale del procedimento. Abbiamo appreso che il 14 novembre 1977 è stata approvata in Italia la legge n. 889, che abolisce i diritti di controllo sanitario percepiti ai sensi della legge 30 dicembre 1970, n. 1239. Ci è stato inoltre segnalato — e ciò è ancor più importante, dato che la legge summenzionata ha efficacia, secondo la Corte costituzionale, soltanto per il futuro — che, con sentenza n. 163 del 29 dicembre 1977, detta Corte ha dichiarato l'incostituzionalità della riscossione di diritti percepiti in occasione dei controlli sanitari cui sono sottoposte, fra l'altro, le merci di cui al regolamento comunitario n. 805/68.

In tal modo, ad avviso del Governo italiano, la domanda di pronunzia pregiudiziale proposta dalla Pretura di Susa è divenuta priva di oggetto; il giudice potrebbe ormai definire la controversia sottopostagli, senza che sia necessario risolvere la questione del se esso possa disapplicare immediatamente la legge italiana del 1970 ovvero possa farlo soltanto in seguito alla dichiarazione d'incostituzionalità della stessa legge da parte della Corte costituzionale.

In effetti potrebbe sembrare logico, in base a tali circostanze, che le questioni pregiudiziali o quantomeno la prima di esse siano divenute irrilevanti. Da parte mia, non proporrò tuttavia di decidere subito in tal senso e affronterò la problematica sollevata dalla domanda del giudice a quo, e ciò per due motivi.

In primo luogo si può ritenere che tutto dipenda dall'ammissiblità del rinvio nel momento in cui la domanda viene proposta a questa Corte. Nella fattispecie non vi sono dubbi su tale ammissibilità. Quanto ad eventi che si verifichino successivamente, ci si può basare per analogia con i casi in cui il provvedimento di rinvio venga impugnato ovvero si esaurisca la causa principale, sulla circostanza che il giudice di rinvio comunichi o meno ufficialmente a questa Corte che la soluzione delle questioni formulate non è più necessaria. Questo presupposto manca evidentemente nel presente caso.

D'altra parte, le questioni sollevate sono di così fondamentale importanza e la probabilità ch'esse si ripresentino in altri procedimenti è tanto grande che, già per questo motivo, dovrebbe escludersi l'idea di non risolverle ora una volta per tutte.

4.

Infine, si deve ancora accennare brevemente all'idea, avanzata dalla Commissione e dal Governo italiano, dell'interpretazione della legge interna in conformità al diritto comunitario, idea che trova certamente sostegno nell'obbligo di carattere generale incombente agli Stati membri a norma dell'art. 5 del Trattato CEE.

Tale interpretazione consentirebbe in effetti di eliminare, in molti casi, contrasti a prima vista esistenti fra diritto comunitario e diritto interno, ritenendo, ad esempio, che la norma comunitaria costituisce la lex specialis e che il diritto interno riguarda unicamente casi non previsti dal diritto comunitario. Sotto questo profilo, nella fattispecie in esame non era del tutto da scartare — com'è stato sostenuto dalla Commissione — la considerazione che, avendo la legge del 1970 modificato unicamente le aliquote dei diritti sanitari, si poteva escludere che il legislatore avesse voluto in tal modo dichiarare applicabile una norma incompatibile col Trattato.

In base a quanto si è ormai appreso, si può naturalmente constatare che una siffatta soluzione è esclusa per il giudice nazionale, per il semplice fatto che la Corte costituzionale — come già detto — ha recentemente dichiarato l'incostituzionalità della summenzionata legge. Ma questa dichiarazione non sarebbe certamente intervenuta qualora, a parere della Corte costituzionale, il contrasto fra diritto interno e diritto comunitario avesse potuto essere eliminato per via d'interpretazione.

II —

Fatte queste premesse, dalle quali risulta che non esiste alcun inderogabile motivo di non procedere all'esame delle questioni pregiudiziali, passo ora alla trattazione delle stesse.

1.

Alle considerazioni da fare in proposito mi sembra opportuno premettere una breve rassegna della giurisprudenza di questa Corte relativa alla natura del diritto comunitario, alla sua efficacia nei confronti dei singoli, nonché al rapporto fra diritto comunitario e diritto interno. Ritengo sia bene richiamare detta giurisprudenza, non solo perché in tal modo potranno essere messi in luce lo spirito e l'atteggiamento fondamentale con cui questa Corte procede alla trattazione di siffatti problemi, ma anche perché se ne potranno ricavare concreti spunti per la soluzione della questione in esame.

In primo luogo va messo in rilievo un principio fondamentale, la cui elaborazione risale in parte a molto tempo addietro, e secondo il quale la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale e il diritto comunitario è indipendente dalle norme emananti dagli Stati membri (causa 26/62 N.V. Algemene Transport- en Expeditie Onderneming van Gend & Loos/Amministrazione olandese delle imposte, sentenza 5 febbraio 1963, Racc. 1963, pag. 23). Analogamente si afferma, nella causa 6/64 (Flaminio Costa/ENEL, sentenza 15 luglio 1964, Racc. 1964, pag. 1158), che il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico integrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri all'atto dell'entrata in vigore del Trattato, o anche, nella causa 11/70 (Internationale Handelsgesellschaft mbH/Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel, sentenza 17 dicembre 1970, Racc. 1970, pag. 1135), che il diritto nato dal Trattato ha una fonte autonoma.

Queste affermazioni si basano essenzialmente sul fatto che gli Stati membri hanno rinunziato, sia pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani (causa 26/62) o che — come è detto nella sentenza 6/64 — vi è stato un trasferimento delle attribuzioni degli Stati membri alla Comunità. Nella causa 48/71 (Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana, sentenza 13 luglio 1972, Racc. 1972, pag. 529) si parla addirittura di una limitazione definitiva dei poteri sovrani degli Stati membri (concetto che si ritrova, del resto, anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana — sentenza n. 183 — con riferimento all'art. 11 della Costituzione).

Un'importante caratteristica dell'ordinamento giuridico comunitario è inoltre il fatto ch'esso riconosce come soggetti anche i singoli (causa 26/62). Moltissime disposizioni di diritto comunitario — in proposito esiste un'abbondante giurisprudenza — hanno efficacia diretta nell'ordinamento interno di tutti gli Stati membri (causa 48/71), e cioè attribuiscono ai singoli dei diritti che possono essere fatti valere dinanzi ai giudici nazionali (causa 26/62) e che questi sono tenuti a tutelare (causa 6/64).

Per quanto riguarda in generale il rapporto fra diritto comunitario e diritto interno, è importante il principio — affermato, ad esempio, nelle cause 6/64 (Racc. 1964, pag. 1145) e 167/73 (Commissione delle Comunità europee/ Repubblica francese, sentenza 4 aprile 1974, Racc. 1974, pag. 372) — secondo cui il diritto comunitario prevale sulle norme di diritto interno. Tale principio viene precisato in altre sentenze, nel senso che detta preminenza si esplica nei confronti di qualsiasi norma di diritto interno (cause 8/71, e 118/75 — Lynne Watson e Alessandro Belmann, sentenza 7 luglio 1976, Racc. 1976, pag. 1199). Nello stesso ordine di idee, vengono espressamente menzionati i provvedimenti legislativi posteriori (cause 6/64, e 43/71 — Politi S.a.s./Ministero delle finanze della Repubblica italiana, sentenza 14 dicembre 1971, Racc. 1971, pag. 1049), nonché i principi costituzionali (causa 11/70) degli Stati membri. Di conseguenza — come è detto nella sentenza 167/73 — «ogni disposizione contraria di diritto interno è divenuta inapplicabile», è «inopponibile all'ordine comune» (causa 6/64), e non può quindi pregiudicare l'applicazione del diritto comunitario (cause 48/71 e 118/75).

Si devono inoltre richiamare, in questo contesto, le considerazioni svolte (ad esempio nella causa 11/70) circa l'uniformità nell'applicazione di tale diritto. Nella sentenza 6/64 si afferma, in proposito, che l'efficacia del diritto comunitario non può variare da uno Stato all'altro in funzione delle leggi interne posteriori; in un'ordinanza emessa nella causa 9/65 (Acciaierie San Michele/Alta Autorità della CECA, sentenza 2 marzo 1967, Racc. 1967) viene rilevata l'impossibilità che il Trattato produca effetti giuridici diversi per i vari Stati membri, essendo necessaria un'applicazione integrale e uniforme del Trattato stesso. Altrove — come nella causa 48/71 — viene sottolineata in generale l'esigenza che le norme di diritto comunitario si applichino incondizionatamente, nello stesso momento e con identica efficacia nell'intero territorio della Comunità.

Infine, vanno citati alcuni altri passi di quest'ultima sentenza, che presentano particolare interesse per il caso in esame. In essa si afferma ad esempio (Racc. 1072, pag. 534) che, di fronte ad una norma comunitaria direttamente efficace, accogliere «la tesi secondo la quale si potrebbe porre termine alla sua violazione solo adottando provvedimenti idonei, dal punto di vista costituzionale, ad abrogare le disposizioni con essa incompatibili, significherebbe affermare che l'efficacia della norma comunitaria è subordinata al diritto di ciascuno Stato membro e, più precisamente, che la sua applicazione è impossibile fintantoché una legge nazionale vi si oppone». La stessa pronunzia mette inoltre in rilievo che l'efficacia del diritto comunitario implica per le autorità nazionali l'assoluto divieto di applicare una disposizione di diritto interno dichiarata incompatibile col Trattato e che a ciò gli Stati membri non possono opporsi in qualsivoglia modo.

2.

Sulla base della richiamata giurisprudenza, la prima questione può essere risolta unicamente nel senso che, di fronte a norme comunitarie diretta-mente applicabili, eventuali disposizioni nazionali successive con esse contrastanti possono essere immediatamente disapplicate, senza che si debba attendere la loro rimozione ad opera del legislatore nazionale o la dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale.

In proposito non possono avere alcuna incidenza decisiva gli effetti nel tempo della dichiarazione d'incostituzionalità, ai sensi del diritto italiano. Su questo punto, nel corso del procedimento è stato ricordato che, a norma dell'art. 136 della Costituzione italiana, nonché di una legge del 1953, in seguito alla dichiarazione dell'illegittimità costituzionale di una data norma, questa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, ciò andrebbe inteso, tuttavia, nel senso che da tale data la norma in questione non fa più parte dell'ordinamento giuridico e non può quindi essere più applicata, neppure ai rapporti pregressi. In realtà si dovrebbe perciò ammettere l'efficacia retroattiva della declaratoria d'illegittimità costituzionale, almeno qualora non si tratti — in proposito assumono relievo circostanze come la res judicata, la prescrizione, la decadenza — di situazioni definitivamente regolate, di rapporti giuridici esauriti.

Mi sembrano invece avere carattere decisivo le considerazioni che seguono.

Anzitutto vi sono situazioni nelle quali neppure una siffatta retroattività equivale all'immediata applicazione del diritto comunitario. Perciò anche ammesso che la dichiarazione d'incostituzionalità delle norme di diritto interno abbia efficacia «ex tunc», ciò non implica sempre — la convenuta nella causa principale ha addotto esempi in proposito — una piena realizzazione dei diritti derivanti dall'ordinamento giuridico comunitario.

È rilevante inoltre il fatto che, secondo il diritto italiano, data la necessità di adire la Corte costituzionale, si rende necessario un complicato e costoso procedimento, che spesso può durare dai tre ai quattro anni. Ciò può scoraggiare molti aventi diritto e dissuaderli dal rimuovere gli ostacoli che impediscono l'applicazione del diritto comunitario.

Non si deve poi dimenticare che, per tutta la durata del suddetto procedimento, il diritto interno continua ad essere applicato — in particolare anche dagli organi amministrativi — sospendendo in tal modo gli effetti del diritto comunitario. Ora, non vedo come ciò possa conciliarsi col surricordato principio dell'efficacia immediata del diritto comunitario.

Si deve per di più considerare che il procedimento necessario a norma del diritto costituzionale italiano — per cui l'applicazione del diritto comunitario è, ai sensi delle norme costituzionali interne, subordinata ad un atto del giudice della costituzionalità — viola il principio della preminenza del diritto comunitario. Ora, questo principio non vige in forza di norme costituzionali interne (anche se la creazione della Comunità presupponeva una data configurazione costituzionale), ma deriva invece dall'autonomia dell'ordinamento comunitario, e in particolare dalla struttura e dalle funzioni di questo.

Va infine ricordato che il procedimento previsto in Italia, impedendo l'immediata applicazione del diritto comunitario, che è invece possibile in altri Stati membri e perfino in quelli ove esiste un organo di controllo della costituzionalità, esclude la simultanea applicazione del diritto comunitario. Ciò mette in pericolo l'uniformità di tale applicazione, principio la cui importanza è stata sottolineata non soltanto nelle sentenze già richiamate, ma anche in numerosi procedimenti per l'accertamento di violazioni del Trattato costituite dalla mancata osservanza di termini fissati in direttive comunitarie.

3.

Con quanto precede, comunque, il problema non si può ancora considerare risolto. Ai fini di un esauriente esame della materia controversa è inoltre necessario valutare alcuni argomenti, dedotti nel corso del procedimento, che potrebbero portare ad una diversa conclusione.

a)

A sostegno della tesi secondo cui le conseguenze giuridiche, in situazioni nelle quali il diritto interno sia inconciliabile col diritto comunitario, andrebbero determinate in base al diritto interno, ed in particolare in base alle norme costituzionali interne, è stato fatto riferimento alle sentenze emesse da questa Corte nelle cause 34/67 (Ditta Gebrüder Lück/Hauptzollamt Köln-Rheinau, sentenza 4 aprile 1968, Racc. 1968, pag. 326) e 51-54/71 (International Fruit Company NV e altri/Produkschap voor groenten en fruit, sentenza 15 dicembre 1971, Racc. 1971, pag. 1107).

A mio avviso, tuttavia, risulta immediatamente evidente che da tali sentenze non possono ricavarsi spunti decisivi.

Ciò vale senz'altro nel caso della sentenza 51-54/71 (Racc. 1971, pag. 1115). Nella relativa causa era infatti in discussione unicamente il problema del se gli Stati membri potessero trasferire a determinati organi interni certi poteri attribuiti loro dal Trattato unicamente mediante disposizioni espresse. Su questo punto — e soltanto in relazione ad esso — la Corte affermava che spetta agli Stati membri il determinare quali siano, nell'ordinamento interno, gli organi competenti ad adottare i provvedimenti di cui all'art. 5 del Trattato, e che la soluzione del problema relativo al modo in cui lo Stato può affidare a determinati organi interni l'esercizio dei poteri o l'adempimento degli obblighi relativi all'applicazione del diritto comunitario e derivantigli dal Trattato o dai regolamenti dipende esclusivamente dal sistema costituzionale del singolo Stato membro.

Lo stesso deve però dirsi anche per quanto riguarda la sentenza nella causa 34/67 (Racc. 1968, pag. 333), secondo cui l'efficacia riconosciuta all'art. 95 del Trattato esclude l'applicazione di qualsiasi provvedimento nazionale con esso incompatibile. Si poneva cioè il problema delle conseguenze derivanti dalla preminenza del diritto comunitario per le norme interne con questo contrastanti, e in particolare del se il giudice debba considerare dette norme come non applicabili, ove siano incompatibili col diritto comunitario, ovvero dichiararle nulle a partire dalla scadenza del termine indicato dall'art. 95, 3o comma. In proposito la Corte affermava che i giudici nazionali competenti hanno il potere di scegliere, tra i vari mezzi offerti dall'ordinamento interno, quelli che appaiano loro più appropriati onde tutelare i diritti soggettivi attribuiti dal diritto comunitario. In particolare, ove un tributo interno sia incompatibile con l'art. 95, 1o comma, solo per l'eccedenza rispetto ad un determinato importo, spetta al giudice nazionale decidere, secondo le norme del diritto interno, se sia illegittima l'intera imposizione ovvero soltanto l'eccedenza.

Ciò non giustifica in alcun modo la tesi secondo cui, in caso di conflitto fra diritto interno e diritto comunitario, sarebbe lasciata al diritto interno la possibilità di prevedere la competenza esclusiva della Corte costituzionale per la necessaria soluzione.

b)

È stato inoltre sostenuto che la questione dell'incompatibilità del diritto interno col diritto comunitario non può sempre essere definita chiaramente, neppure nei casi in cui si sia già avuta un'interpretazione del diritto comunitario in via pregiudiziale. In proposito sono state richiamate le sentenze nelle cause 60/75 (Carmine Russo/Azienda di Stato per gli interventi sul mercato agricolo, sentenza 22 gennaio 1976, Racc. 1976, pag. 45) e 52/76, nelle quali si doveva accertare se determinate conseguenze del diritto interno fossero inammissibili per il diritto comunitario, come pure la sentenza nella causa 118/75, nella quale erano in discussione concetti così indeterminati come quello di «limiti ragionevoli di un termine» o di rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni comminate in forza del diritto interno. È stato osservato che se, in tali ipotesi, il controllo della compatibilità delle norme nazionali col diritto comunitario fosse affidato ai singoli giudici, si potrebbe giungere a valutazioni molto divergenti; ciò sarebbe però in contrasto col principio della certezza del diritto, e l'ordinamento italiano, che prevede la concentrazione di siffatti controlli presso la Corte costituzionale, escluderebbe questo pericolo.

Al riguardo si deve a mio avviso osservare, in primo luogo, che le descritte incertezze non sussistono certamente nei casi in cui sia stata emessa una sentenza ex art. 169 del Trattato CEE. Ma anche in casi del genere il diritto italiano vieta al giudice comune di accantonare senz'altro il diritto interno incompatibile col diritto comunitario.

Quanto alla richiamata giurisprudenza, si deve poi osservare che le prime due sentenze non possono essere citate come esempi del fatto che il controllo della compatibilità del diritto interno col diritto comunitario può risultare problematico. Dalla sentenza emessa nella causa 60/75 si desume con chiarezza quanto veniva considerato inammissibile, e cioè il fatto di influire sulle condizioni del mercato in modo tale che i prezzi scendessero al di sotto del livello dei prezzi indicativi, e quindi la vendita di cereali, da parte di enti d'intervento statali, a prezzi inferiori a quelli indicativi. Se, d'altra parte, nella sentenza 52/76 non si entrava nei minimi particolari e vi si parla soltanto, in generale, della necessità di non mettere in pericolo gli obiettivi e il funzionamento dell'organizzazione comune di mercato, ciò era dovuto principalmente al fatto che, come è stato ripetutamente sottolineato nella stessa sentenza, il giudice di rinvio non aveva fornito sufficienti dati e indicazioni quanto agli accertamenti di fatto.

Tuttavia, per i casi in cui le pronunzie pregiudiziali diano effettivamente adito a valutazioni divergenti quanto al problema della compatibilità del diritto interno col diritto comunitario — è certamente esatta l'affermazione della Commissione, secondo cui di regola al giudice nazionale resta solo un ristretto margine di apprezzamento —, mi sembra anzitutto importante il fatto che non è sempre possibile stabilire quando ciò si verifichi, e che è quindi difficile individuare una particolare categoria di casi per i quali si potrebbe, al limite, accettare una competenza esclusiva della Corte costituzionale. Non è da sottovalutare neppure il fatto che, in molti casi del genere, l'intervento della Corte costituzionale dello Stato non sarebbe determinante. Un organo di questo tipo non può infatti apportare — quanto al parametro «diritto comunitario» — la necessaria chiarificazione, per la quale sarebbe invece competente, in seguito ad eventuale ulteriore rinvio, la Corte di giustizia delle Comunità.

Per tutti questi motivi ritengo che, contro l'immediata applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali, difficilmente si potrebbe far valere la circostanza che, in taluni casi, è necessaria una più completa chiarificazione di questioni di diritto comunitario ed una più precisa determinazione del contenuto di tale diritto.

c)

Infine, nel risolvere le questioni sottopostevi, non si deve trascurare il fatto che la procedura vigente in Italia — intervento obbligatorio della Corte costituzionale — può avere anche effetti positivi per il diritto comunitario. In proposito è stato osservato che secondo tale procedura, infatti, l'inapplicabilità del diritto interno viene dichiarata non soltanto nella motivazione di una sola sentenza, che d'altra parte può essere annullata da un organo giurisdizionale di grado superiore, e non soltanto con effetti limitati alle parti in causa. La decisione della Corte costituzionale ha carattere definitivo ed efficacia erga omnes, risolvendosi in pratica nell'eliminazione delle norme interne contrastanti col diritto comunitario. Tale procedura consentirebbe, in certi casi, agli amministrati, di guadagnare tempo — in particolare qualora la Corte costituzionale venga immediatamente adita fin dal primo grado di giurisdizione — ed escluderebbe anche il pericolo che la stessa fattispecie venga diversamente valutata da parte dei vari organi competenti; è in particolare per questa circostanza che si potrebbe parlare di un rafforzamento dell'efficacia del diritto comunitario, in quanto sarebbe così assicurata l'uniforme applicazione di quest'ultimo in tutti i casi.

In merito a queste osservazioni — certamente suggestive — va detto anzitutto che, dal punto di vista del diritto comunitario, non si tratta affatto di voler eliminare dall'ordinamento italiano il procedimento inteso alla dichiarazione dell'illegittimità costituzionale di una legge interna. Per il diritto comunitario è unicamente importante che la sua applicazione — qualora debba essere immediata — non incontri ostacoli di alcun genere nel diritto interno. Sotto questo profilo si deve però considerare un ostacolo — come risulta da quanto precede — la circostanza che alla Corte costituzionale spetti la competenza esclusiva quanto alla dichiarazione d'inapplicabilità delle norme interne contrastanti col diritto comunitario.

Va inoltre sottolineato — poiché nella vostra giurisprudenza si parla chiaramente di diritti dei singoli — che nell'attuale indagine ha rilievo di primo piano la questione del se, nel caso concreto, l'applicazione del diritto comunitario possa aver luogo senza difficoltà. Questa possibilità è manifestamente esclusa nel sistema italiano, secondo il quale il diritto comunitario viene disapplicato per un lungo periodo, con tutte le conseguenze negative che da ciò derivano nei rapporti di concorrenza per le imprese e le persone operanti in Italia, ovvero per le imprese e le persone di altri Stati membri, cui viene reso più difficile l'accesso al mercato italiano. Per il diritto comunitario, che dev'esser ovunque applicato in modo uniforme, ciò non è ammissibile. È quindi escluso, in particolare, che si possa avere una specie di compensazione fra questi ed altri svantaggi — ad esempio, in certi casi, svolgimento del processo dinanzi a più istanze giurisdizionali — e gli eventuali vantaggi che le decisioni della Corte costituzionale abbiano in generale per l'affermazione del diritto comunitario, in quanto stabiliscono in modo vincolante che determinate disposizioni nazionali non possono assolutamente essere più applicate.

d)

Per riassumere, dunque, nessuno degli argomenti svolti nel corso del procedimento a favore dell'intervento obbligatorio della Corte costituzionale può avere peso decisivo; la soluzione della prima questione deve perciò restare quella che, come dimostrato, risulta già dalla precedente giurisprudenza di questa Corte.

4.

Ciò premesso, non sarebbe in realtà necessario prendere in esame la seconda questione formulata nell'ordinanza di rinvio. In proposito potrò al massimo considerare brevemente quanto segue:

Da quel che ho detto fino a questo punto risulta chiaro che la seconda questione può essere risolta unicamente nel senso che, se il giudice italiano dovesse effettivamente attendere la pronunzia della Corte costituzionale per disapplicare le disposizioni di diritto interno contrastanti col diritto comunitario, non si potrebbe assolutamente rinunziare alla condizione che la sentenza della Corte costituzionale retroagisca al momento dell'entrata in vigore della norma comunitaria in questione. Si tratta di un presupposto fondamentale per ottenere che il diritto comunitario si affermi per quanto possibile, almeno in un secondo momento, e riesca a trovare la necessaria reintegrazione dopo esser stato provvisoriamente disapplicato.

A ciò si potrebbe aggiungere, a rigor di termini, che dev'essere naturalmente rispettato il principio della certezza del diritto. Penso, in proposito, a questioni attinenti alla prescrizione, al giudicato o alla decadenza. Tutto quanto è necessario osservare al riguardo è stato già detto nelle cause 33/76 (Rewe-Zentralfinanz eG e Rewe-Zentral AG/Landwirtschaftskammer für das Saarland, sentenza 16 dicembre 1976, Racc. 1976, pag. 1989) e 45/76 (Comet BV/Produktschap voor Siergewassen, sentenza 16 dicembre 1976, Racc. 1976, pag. 2043), cosicché qui potrà bastare questo accenno.

III —

Per concludere, ritengo che le questioni sottopostevi dalla Pretura di Susa vadano risolte come segue:

Le norme comunitarie aventi efficacia diretta, e quindi direttamente applicabili ai sensi della costante giurisprudenza della Corte in materia, non possono essere pregiudicate da norme interne con esse incompatibili, anteriori o successive. Il fatto che una Corte costituzionale possa dichiarare l'incostituzionalità di siffatte norme di diritto interno non può privare il giudice nazionale del potere di applicare le disposizioni comunitarie direttamente efficaci, anche qualora le norme interne con esse incompatibili non siano state ancora dichiarate incostituzionali.

La tutela dei diritti soggettivi attribuiti ai singoli da norme comunitarie aventi efficacia diretta dev'essere garantita con effetto dall'entrata in vigore delle norme stesse. Il giudice nazionale adito nel caso concreto deve perciò assicurare il rispetto delle norme comunitarie fin dalla loro entrata in vigore.


( 1 ) Traduzione dal tedesco.