CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

FRANCESCO CAPOTORTI

DEL 13 DICEMBRE 1977

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

La questione principale, che la presente causa solleva, può così riassumersi: un provvedimento nazionale, con il quale vengono fissati prezzi minimi di vendita al dettaglio di determinati prodotti, è compatibile con il divieto di misure equivalenti a restrizioni quantitative all'importazione, contenuto nell'articolo 30 del Trattato CEE?

I prodotti di cui si tratta sono due bevande alcoliche molto diffuse nei Paesi Bassi: il ginepro e il «vieux» (bevanda dall'aroma di cognac). Per molto tempo, i produttori olandesi di tali bevande erano stati d'accordo nell'applicare un sistema verticale di prezzi imposti ai distributori. Ma, con sentenza 22 settembre 1975, il Tribunale di Utrecht dichiarò che tale regime concordato di prezzi era incompatibile con la legge olandese sulla concorrenza economica. Ne è risultata una concorrenza assai vivace nel settore considerato, e con essa un abbassamento notevole dei prezzi. Al fine di evitare conseguenze rovinose per un gran numero di piccoli negozianti, il decreto reale olandese del 18 dicembre 1975, n. 51, ha conferito al comitato direttivo dell'organismo competente a disciplinare la produzione e il commercio delle bevande alcoliche di distillazione (Produktschap voor gedistilleerde dranken) il potere di disciplinare i prezzi per un periodo massimo di tre anni. Sulla base di tale abilitazione (consentita dall'articolo 4 della legge del 30 settembre 1954 che aveva istituito il Produktschap), quest'organismo ha adottato, in data 17 dicembre 1975, un regolamento che comporta fra l'atro le seguenti disposizioni:

1o

per il ginepro «Jonge» e per il «Vieux», di marche o tipi per i quali esisteva un prezzo di catalogo unitario «geriefprijs», il divieto di vendere ad un prezzo inferiore al suddetto prezzo di catalogo, maggiorato di un importo fisso di 0,60 fiorini e inoltre del 16 % a titolo dell'IVA. Il «prezzo di catalogo unitario» consiste nel prezzo al litro che figurava, il 6 ottobre 1975, nel listino dei prezzi comunicato dal produttore ai suoi clienti, senza tener conto degli abbuoni e riduzioni eventuali, maggiorato dell'importo di cui il diritto d'accise sia aumentato alla data 1o gennaio 1976, IVA esclusa (art. 2, n. 1 e art. 1, n. 3);

2o

in mancanza di un prezzo di catalogo unitario per i due prodotti menzionati, e in ogni caso per il vecchio ginepro, il divieto di vendere a un prezzo inferiore a 11,25 fiorini al litro (art. 2, n. 2 e 3);

3o

per le altre bevande alcoliche distillate, il divieto di vendere a un prezzo inferiore al prezzo d'acquisto, maggiorato dell'IVA (art. 4).

A norma dell'articolo 1, numero 2, del citato regolamento, per vendita al dettaglio si intende la vendita a soggetti che non sono abilitati a praticare il commercio degli alcolici di cui trattasi.

A norma dell'articolo 3, nella vendita al dettaglio è vietato concedere abbuoni o riduzioni, se questi hanno per effetto di ricondurre il prezzo effettivo ad un livello inferiore a quello minimo previsto dalle disposizioni dell'articolo 2. Se i prodotti sono venduti a questo prezzo minimo, è vietato concedere regali o vantaggi sotto qualsiasi forma. Lo stesso divieto si applica in ogni caso in cui il beneficio concesso, tenuto conto del suo reale valore, avrebbe per effetto di ridurre il prezzo di vendita a un livello inferiore a quello disposto dall'articolo 2.

La riferita disciplina dei prezzi fu adottata dalla Produktschap per un anno, e poi prorogata fino al 1o marzo 1978. Il prezzo minimo iniziale di 11,25 fiorini è stato successivamente portato a 11,70.

È il caso di sottolineare che la disciplina in questione si applica sia ai prodotti nazionali, sia a quelli provenienti da altri Stati membri, e che le bevande alcoliche distillate non sono sottoposte ad un'organizzazione comunitaria di mercato.

2. 

Con sentenza emessa dal giudice di polizia economica presso il Tribunale di Rotterdam il 18 maggio 1976, il signor Jacobus Philippus Van Tiggele, gestore di uno spaccio di bevande del tipo «discount self-service» in una località dei Paesi Bassi, veniva condannato a un'ammenda penale di 5000 fiorini, commutabile in tre mesi d'arresto, per trasgressione continuata della regolamentazione sopradescritta, avendo egli venduto del ginepro di varie marche a prezzi inferiori ai prezzi minimi stabiliti. Dopo due gradi di giudizio (appello innanzi alla Corte dell'Aja, che annullò la sentenza di primo grado, e ricorso all'Hoge Raad, che ha annullato la sentenza d'appello), la causa veniva rimessa alla Corte d'appello di Amsterdam. Quest'ultima ha chiesto alla nostra Corte, in forza dell'articolo 177 del Trattato CEE, di pronunciarsi in via pregiudiziale sulle seguenti questioni:

«1.

Se gli articoli 30-37 del Trattato CEE vadano interpretati nel senso che il regime di prezzi minimi per la vendita, nell'ambito nazionale, di bevande distillate, stabilito dalla direzione del Produktschap voor gedistilleerde dranken il 17 dicembre 1975 con la “Prijsverordening gedistilleerde dranken”, è vietato in quanto restrizione quantitativa all'importazione ovvero misura d'effetto equivalente.

2.

Se gli articoli 92-94 del Trattato CEE vadano interpretati nel senso che il suddetto regime deve considerarsi un aiuto concesso dai Paesi Bassi, incompatibile col mercato comune.»

Prima di esaminare i problemi sollevati da tali domande, credo utile precisare che nel caso di specie si tratta di prodotti a cui è applicabile il prezzo di catalogo unitario, e per i quali può entrare in considerazione il prezzo minimo generale stabilito per il vecchio ginepro soltanto in assenza del prezzo di catalogo unitario; il che sembra che effettivamente accada per i prodotti importati della stessa natura (ginepro giovane e «vieux»).

Tuttavia, le domande poste dal giudice olandese investono l'intero regime dei prezzi minimi per la vendita di bevande distillate nei Paesi Bassi. Converrà dunque tener conto di tale regime nel suo complesso, tanto più che il nostro compito non è quello di stabilire se sia lecita o no, per il diritto comunitario, una determinata disposizione nazionale, bensì di chiarire quale sia, in relazione ad un regime di prezzi del tipo descritto, la portata delle norme del Trattato di cui è stata richiesta l'interpretazione.

3. 

Il primo quesito si colloca esplicitamente nel quadro di quel capo del Trattato CEE che riguarda l'abolizione delle restrizioni quantitative fra gli Stati membri. Come ho già detto, va considerato se un regime nazionale di prezzi minimi come quello stabilito dalla citata «Prijsverordening gedistilleerde dranken» sia in contrasto con il divieto, imposto agli Stati membri dall'articolo 30 del Trattato CEE, di applicare misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative alle importazioni. L'articolo 34 non incide sul nostro problema poiché, trattandosi qui di disciplina di prezzi al dettaglio, non vi è ripercussione sulle esportazioni e non può quindi giocare il divieto di misure equivalenti a restrizioni quantitative alle esportazioni.

Conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte, il suddetto divieto non colpisce soltanto le misure nazionali che abbiano un effetto restrittivo attuale sulla circolazione delle merci. È sufficiente che la normativa commerciale di uno Stato membro sia suscettibile, anche solo potenzialmente e indirettamente, di intralciare gli scambi intracomunitari, perché possa parlarsi di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative.

Ciò è stato chiaramente affermato, in via generale, per ogni regolamentazione nazionale che riguardi il commercio, a prescindere dal carattere agricolo o industriale del prodotto, e quindi anche dall'esistenza o meno di un'organizzazione comune di mercato, dalla sentenza dell'11 luglio 1974 nella causa 8/74, Dassonville (Raccolta 1974, p. 837 ss.); ed è stato ribadito poi, in relazione a prodotti facenti parte di un'organizzazione comune di mercato, dalla sentenza del 30 ottobre 1974 nella causa 190/73, Van Haaster (Raccolta 1974, p. 1123 ss.).

Un regime nazionale di fissazione di prezzi minimi rientra senza dubbio nell'ambito delle «normative commerciali»; vale perciò anche per esso l'orientamento interpretativo poc'anzi ricordato.

Per quanto riguarda più specificamente le misure statali di disciplina dei prezzi, la Corte ha avuto più volte occasione di indicare dei criteri circa la compatibilità della fissazione di prezzi massimi con il funzionamento di una determinata organizzazione comune di mercato (ricordo in particolare le sentenza del 23 gennaio 1975 nella causa 31/74, Galli, Raccolta 1975, p. 47 ss.; e del 26 febbraio 1976 nella causa 65/75, Tasca, nelle cause riunite 88 a 90/75, SADAM, Raccolta 1976, rispettivamente a p. 291 e a p. 323).

Mentre la sentenza Galli, che è basata essenzialmente sull'esistenza e sulle implicazioni di un'organizzazione comune di mercato, non pare poter offrire elementi utili per il nostro caso, le sentenze Tasca e SADAM precisano anche la portata dell'articolo 30 del Trattato in relazione a misure nazionali d'intervento nel settore dei prezzi.

In queste pronunzie la Corte, dopo aver riconfermato l'indirizzo interpretativo sopra ricordato in merito alla nozione di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative, ha precisato che «un prezzo massimo, da applicare indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati, pur non costituendo di per sé una misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, può tuttavia divenire tale qualora sia fissato ad un livello in ragione del quale lo smercio dei prodotti importati venga reso impossibile, o più difficile di quello dei prodotti nazionali. Pertanto, un prezzo massimo, almeno in quanto si applichi ad un prodotto importato, costituisce una misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, specialmente qualora sia fissato ad un livello talmente basso che — tenuto conto della situazione generale dei prodotti importati rispetto a quella dei prodotti nazionali — gli operatori i quali intendano importare il prodotto di cui trattasi nello Stato membro considerato possano farlo soltanto in perdita» (punto 13 della motivazione della sentenza Tasca, punto 15 della sentenza SADAM).

Più recentemente, la Corte si è riferita a questo stesso criterio anche in relazione a misure interne che avevano per effetto di trasformare il prezzo netto del produttore in un prezzo fisso, imposto per la vendita al dettaglio di sigarette, nella sentenza del 16 novembre 1977 nella causa 13/77, SA GB-INNO-BM/Association des Détaillants en tabac (punto 52 della motivazione).

Osservo che, mentre nel caso a cui si riferiva la sentenza Tasca era in questione, davanti alla giurisdizione richiedente, il comportamento di un privato consistente nel superamento dei livelli massimi dei prezzi consentiti dalla normativa interna, nel caso Inno vi erano state vendite a prezzi inferiori al prezzo imposto.

Nella prima ipotesi, la violazione del divieto di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative poteva risultare qualora, nello stabilire il livello massimo dei prezzi, le autorità interne non avessero tenuto conto dei costi eventualmente più elevati dei prodotti importati, rispetto a quelli dei prodotti nazionali comparabili. In tale ipotesi, infatti, avrebbe potuto divenire difficile, se non addirittura impossibile, per i prodotti di altri Stati di mantenere uno sbocco nello Stato considerato.

Nel caso di imposizione di un prezzo fisso, quale entrava in rilievo nella causa Inno, la stessa considerazione vale in relazione al divieto che vi è implicito di praticare un prezzo più alto; e infatti la Corte si è riferita espressamente alla nozione di «prezzo massimo». Nessuna precisazione è stata invece fornita dalla sentenza Inno per quanto riguarda specificamente il carattere di «prezzo minimo» che è pure insito nel prezzo fisso, e in definitiva questo carattere non è entrato direttamente in linea di conto nella decisione della Corte.

D'altra parte, si deve anche notare che nel caso Inno il provvedimento statale, adottato essenzialmente per ragioni fiscali, si limitava a conferire valore obbligatorio al prezzo liberamente scelto dal fabbricante; mentre nel caso presente il prezzo minimo uniforme che, in mancanza di una comunicazione di listini di prezzi da parte dei produttori stranieri, pare essere l'unico che in pratica entra in rilievo per i prodotti non olandesi, costituisce un prezzo fissato interamente d'autorità, e in ogni caso senza previa consultazione dei produttori non olandesi.

Tutto ciò induce ad affermare che, nella giurisprudenza della Corte relativa alle misure statali di disciplina dei prezzi, i problemi inerenti a un regime obbligatorio di prezzi minimi non sono stati ancora direttamente affrontati. Ciononostante, due indicazioni utili emergono da quella giurisprudenza. In primo luogo, la conferma della nozione di misura d'effetto equivalente alle restrizioni quantitative, applicabile ad ogni regime dei prezzi che sia atto ad ostacolare, direttamente o indirettamente, in modo attuale o potenziale, gli scambi fra gli Stati membri. In secondo luogo, l'idea più specifica che un prezzo fissato d'autorità, anche se applicato indistintamente ai prodotti nazionali e stranieri, può costituire misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa qualora il suo livello renda la smercio dei prodotti importati impossibile, o anche soltanto più difficile, rispetto a quello dei prodotti nazionali. Vedremo più oltre a quale risultato queste indicazioni possono condurre nel caso qui sottoposto ad esame.

Nello stesso ordine di idee, e in relazione soprattutto al secondo criterio poc'anzi enunciato, è infine opportuno rammentare la direttiva adottata dalla Commissione il 22 dicembre 1969 sulla base dell'articolo 33, paragrafo 7, del Trattato, relativa alla soppressione delle misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative non contemplate da altre disposizioni prese in virtù del Trattato CEE. Essa si riferisce espressamente, per disporne l'eliminazione, alle misure che «fissano i prezzi dei prodotti in funzione del prezzo di costo o della qualità dei soli prodotti nazionali ad un livello tale da ostacolare l'importazione» (articolo 2, paragrafo 3, lett. e) e alle misure che rendono più costoso un prodotto importato (articolo 2, paragrafo 3, lett. f). Ciò conferma indirettamente che non si può escludere la ripercussione negativa, sulle importazioni e sullo smercio dei prodotti importati, di un livello minimo obbligatorio e generalizzato di prezzi.

4. 

È stato osservato in dottrina che l'applicazione di regimi nazionali di prezzi non soltanto ha l'effetto di ridurre le possibilità obbiettive di concorrenza e la propensione delle imprese a concorrere fra loro, ma che sovente essa presuppone che le imprese operanti nel mercato comune abbiano adottato pratiche contrarie alle regole di concorrenza comunitarie (Walbroek M., Les réglementations nationales de prix et le droit communautaire, Bruxelles 1975, p. 55). Ricollegandosi forse a tale idea, la Commissione ha esaminato le disposizioni degli articoli 30 e seguenti del Trattato anche in relazione all'obbligo, che risulterebbe per gli Stati dall'articolo 5 del Trattato medesimo, di non adottare misure atte a creare situazioni che, se fossero determinate da comportamenti delle imprese, ricadrebbero sotto i divieti degli articoli 85 e 86 del Trattato.

Essa ha osservato che la fissazione di prezzi minimi si presenta in linea generale come una misura più restrittiva e più perturbatrice del libero gioco del mercato che non la fissazione di prezzi massimi. A differenza di quest'ultima, infatti, la fissazione di prezzi minimi, ad un livello tale da contrastare la naturale tendenza al ribasso di un mercato in regime di prezzi liberi, comporta necessariamente una grave limitazione della concorrenza.

Con riguardo al caso di specie, la Commissione ha sottolineato la circostanza che il regime obbligatorio olandese dei prezzi minimi delle bevande alcoliche è succeduto — dopo un breve periodo intermedio di libera e vivacissima concorrenza — al sistema concertato fra produttori di accordi verticali per la fissazione dei prezzi degli stessi prodotti, sistema venuto meno perchè ritenuto contrario alla legislazione nazionale sulla disciplina della concorrenza. Ora, secondo la Commissione, l'attuale regime dei prezzi minimi sarebbe equivalente, per quanto riguarda i suoi effetti sul piano della concorrenza, al precedente sistema collettivo di accordi verticali sui prezzi, e al pari di quest'ultimo solleverebbe il problema della compatibilità con i principi enunciati dagli articoli 3, lett fe 85 del Trattato.

Non si può evidentemente negare l'effetto restrittivo sulla concorrenza, che è insito in ogni misura di fissazione di prezzi minimi di vendita. Ed è ugualmente chiaro che un tale effetto, verificandosi anche a pregiudizio dei prodotti di altri Stati membri, non può mancare di ripercuotersi sulle importazioni di questi prodotti nello Stato, in cui una misura del genere viene imposta.

Tuttavia, nell'esaminare, sotto il profilo del divieto di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative, misure d'intervento nel settore dei prezzi imputabili a uno Stato membro, l'aspetto anticoncorrenziale entra in considerazione in una prospettiva ben diversa da quella in cui andrebbero esaminati dei comportamenti di imprese, per stabilirne la compatibilità con le disposizioni degli articoli 85 e 86.

In realtà, entrambe queste norme sono regole di concorrenza applicabili alle imprese — come espressamente indica il titolo della sezione del Trattato che le comprende — logicamente e sistematicamente distinte dalle regole in materia di concorrenza che si rivolgono agli Stati (articolo 92 ss.). Fra gli articoli 30 e 34, da un lato, e gli articoli 85 e 86, dall'altro, non soltanto c'è distinzione sotto il profilo dei destinatari dei divieti, ma anche sotto il profilo della natura dei comportamenti vietati: basti considerare che le misure restrittive degli scambi degli Stati membri sono intrinsecamente incompatibili con il Trattato, per l'intralcio che esse recano al commercio intracomunitario, mentre le intese fra imprenditori sono incompatibili con il mercato comune in quanto ricorra la duplice condizione del pregiudizio al commercio fra Stati membri e dell'oggetto o effetto restrittivo della concorrenza; e l'abuso di posizione dominante a sua volta implica, accanto ed oltre al fattore del pregiudizio al commercio tra Stati membri, il contegno di sfruttamento abusivo.

5. 

È vero che, nella sentenza già citata nella causa 13/77, Inno, la Corte ha valutato certe misure statali di fissazione di prezzi non soltanto alla luce dell'articolo 30, ma anche tenendo conto dell'articolo 86, che vieta alle imprese di abusare della loro posizione dominante. Ma a questa norma la Corte ha fatto riferimento in quanto essa precisa lo scopo fondamentale (protezione della libertà di concorrenza) stabilito nell'articolo 3, lett. f del Trattato, e in quanto il divieto, altrettanto fondamentale, di ogni misura statale suscettibile di mettere in pericolo la realizzazione del mercato comune (articolo 5, al. 2) include logicamente l'obbligo di non adottare misure suscettibili di eliminare l'effetto utile delle regole di concorrenza, fra cui è l'articolo 86. Di qui l'affermazione della citata sentenza, secondo la quale gli Stati membri non possono emanare misure che permettano alle imprese private di sottrarsi ai limiti imposti dagli articoli 85-90 del Trattato, e favoriscano eventualmente l'abuso di posizione dominante (considerandi 33-34 della sentenza Inno).

Come si vede, dunque, affinché l'articolo 86 — e lo stesso deve dirsi per l'articolo 85 — possa essere invocato in connessione al divieto di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative, occorre che le misure pubbliche facilitino una violazione delle regole di concorrenza da parte di coloro a cui esse sono rivolte, cioè delle imprese.

Ciò premesso, e tornando al nostro problema, ci si potrebbe chiedere se le misure adottate dal «Produktschap» olandese, benché rivestite del crisma formale di atti di diritto pubblico, la cui osservanza è garantita dallo Stato con sanzioni penali, non esprimano in realtà la volontà concorde delle imprese del settore.

Ci si potrebbe chiedere cioè se, per una valutazione realistica del fenomeno considerato, non sia insufficiente fermarsi alla considerazione formale del carattere di atto d'autorità che lo Stato può conferire (e nella specie ha conferito) alle decisioni di organismi incaricati di svolgere delle funzioni d'interesse pubblico nella disciplina dell'economia. Ma un quesito del genere ha senso solo nell'ipotesi in cui questi organismi siano configurati ed operino in maniera tale che le loro decisioni costituiscano l'espressione non solo degli interessi, ma della stessa volontà concorde delle imprese operanti nel settore economico per cui essi sono competenti.

In tale ipotesi, l'efficacia obbligatoria, anzi il carattere normativo, conferiti dai pubblici poteri alle decisioni di siffatti organismi «intermedi» non dovrebbero di per sé soli escludere che questo tipo di atti — che pur impegna la responsabilità dello Stato di fronte alla Comunità, alla stregua degli articoli 30 e seguenti del Trattato — sia considerato anche alla luce delle regole degli articoli 85 e 86 del Trattato, sotto il profilo o di «decisioni di associazioni d'imprese» o di pratiche concordate, o di sfruttamento abusivo di una posizione dominante.

Sarebbe allora del tutto pertinente il criterio enunciato dalla citata sentenza nella causa Inno, che fa dipendere la valutazione di misure statali alla luce degli articoli 5, 3 lett. f e 86 dal rapporto in cui tali misure si pongono con comportamenti anticoncorrenziali imputabili a imprese. Nella specie, le imprese interessate ad un regime di prezzi imposti che conseguisse effetti analoghi a quelli precedentemente risultanti da un complesso di accordi verticali, avrebbero potuto realizzare il loro piano anticoncorrenziale tramite i loro rappresentanti operanti nel consiglio direttivo del Produktschap.

La circostanza decisiva da esaminare è tuttavia la composizione di quest'organo. In base all'articolo 3 della legge del 30 settembre 1954, istitutiva del Produktschap competente per le bevande alcoliche distillate, il consiglio direttivo di tale organismo si compone di 20 membri, nominati per metà da associazioni d'imprenditori e per metà dalle organizzazioni dei lavoratori del settore dell'alcool di distillazione. Ciascuna delle due categorie dispone di un membro proveniente dall'industria dell'alcool e del mosto, tre membri dell'industria delle bevande distillate, un membro del settore del commercio d'importazione e del commercio intermedio di tali bevande, un membro del commercio all'ingrosso interno di bevande distillate e quattro membri del commercio al minuto degli stessi prodotti. Il presidente è di nomina regia.

Una composizione del genere consente certo agli operatori nazionali del settore delle bevande alcoliche distillate di far valere il loro punto di vista, garantendo la prevalenza degli interessi della produzione e del commercio dei prodotti nazionali. Ma, anche se si può ritenere che le decisioni di un siffatto organismo poggeranno normalmente su un largo consenso delle imprese del settore, non mi sembra possibile ricondurre le misure d'intervento nell'economia da esso deliberate alle categorie di atti e comportamenti disciplinati dagli articoli 85 e 86 del Trattato, tenuto conto soprattutto della composizione paritaria di rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. In altri termini, il Produktschap non è l'organo di una associazione di imprenditori.

Resterebbe ancora l'ipotesi che l'atto formale del Produktschap rispecchi un accordo o una pratica concordata sottostanti delle imprese del settore. Tale problema non si pone però nella specie, per la semplice ragione che in tutto il corso del presente procedimento non è stata posta minimamente in questione la compatibilità con gli articoli 85 e 86 del Trattato del comportamento delle imprese olandesi, in favore delle quali sono stati adottati i prezzi minimi. Il giudice richiedente si è riferito unicamente all'ordinanza del Produktschap e al decreto reale che ne ha consentita l'emanazione. Dal canto suo la Commissione, a cui il Trattato affida il compito di vegliare all'applicazione delle norme di concorrenza, non solo non ha fatto menzione di nessuna indagine da parte sua sul comportamento delle imprese del settore, in relazione all'applicazione dei divieti stabiliti dagli articoli 85 e 86, ma neppure ha sollevato nel corso del presente procedimento dei dubbi sulla compatibilità di tale comportamento con queste norme.

Ritengo quindi che, allo stato degli atti, non sussistano i presupposti necessari affinché queste disposizioni possano entrare in rilievo, al fine di valutare misure del genere di quelle a cui si è riferito il giudice richiedente.

6. 

Converrà adesso esaminare ciascuno dei tre tipi di prezzi minimi che, come innanzi si è ricordato, l'ordinanza del Produktschap hastabilito, in relazione agli effetti restrittivi che ne possono risultare per gli scambi fra gli Stati membri.

Per quanto riguarda il «prezzo di catalogo unitario», il modo in cui esso è calcolato — applicando determinate maggiorazioni al prezzo di vendita annunciato dal produttore il 6 ottobre 1975 — mira evidentemente a garantire un certo margine di beneficio alla vendita al dettaglio.

Per il fatto stesso di non prendere in considerazione gli abbuoni e le riduzioni di prezzo generalmente concessi dal produttore ai maggiori acquirenti all'ingrosso, questo prezzo minimo evita che i grandi magazzini possano ripercuotere sul livello dei prezzi la posizione di vantaggio che essi hanno, sul piano sia dei prezzi reali d'acquisto sia dei costi, rispetto ai piccoli negozi; ciò che rischierebbe di essere rovinoso per questi ultimi.

È noto e normale che i prodotti di largo consumo venduti in un grande magazzino basato sul sistema «self-service» sono generalmente offerti a prezzi più bassi che nei negozi in cui il cliente è servito individualmente da un venditore. Tale prezzo più basso è conseguenza del risparmio di spese di personale, realizzato mediante il sistema di vendita «self- service», e, generalmente, anche degli sconti che i grandi magazzini possono ottenere all'acquisto della merce, in ragione dell'entità delle loro ordinazioni, che è normalmente superiore a quella dei piccoli rivenditori. Inoltre, le maggiori quantità vendute consentono al grande magazzino di limitare il suo margine di beneficio unitario rispetto a quello che occorre al piccolo negozio. Pertanto il prezzo imposto di cui trattasi, evitando che la concorrenza spontanea porti il prezzo delle bevande alcoliche ad un livello così basso da non essere più remunerativo per i piccoli dettaglianti, è una misura di sostegno di questi ultimi.

Corrispondentemente, vi è una restrizione della concorrenza a danno dei grandi magazzini (compensata, si potrebbe aggiungere, dal maggior margine di utile che è a questi consentito dal regime dei prezzi minimi). Ciò che qui interessa, però, è che la restrizione non riguarda specificamente questo o quel prodotto (e, in particolare, i prodotti importati), ma si verifica nei confronti di tutti i prodotti, siano essi nazionali o stranieri, venduti da quei magazzini. Tenendo conto del fatto che il prezzo è stabilito specificamente per ogni marca e tipo di bevanda alcolica sulla base del prezzo indicato due anni fa dal fabbricante, il solo effetto del meccanismo in questione è di evitare la concorrenza fra i distributori di prodotti di una stessa marca, mentre, a differenza che nel campo d'applicazione del prezzo minimo uniforme, non viene ostacolata la concorrenza fra le diverse marche.

Non mi sembra, dunque, che il prezzo di catalogo unitario sia suscettibile di porre i prodotti importati in una situazione svantaggiata rispetto ai prodotti nazionali.

Per analoghe considerazioni, si deve escludere che il prezzo minimo imposto per tutte le bevande alcoliche diverse dal ginepro e dal «vieux», corrispondente al prezzo di costo effettivo, possa comportare una restrizione indebita del commercio intracomunitario; a tal proposito è il caso di aggiungere che non potrebbe esser considerato normale che in un regime di libertà di scambi e di sana concorrenza si venda sotto costo per conquistare un mercato !

7. 

Rimane da esaminare il caso del prezzo minimo uniforme che si applica al vecchio ginepro e si estende al ginepro giovane e al «vieux» qualora manchi un «prezzo di catalogo unitario».

A differenza dei due precedenti tipi di prezzo, il livello del prezzo in questione non è ricollegabile né ad un'autonoma indicazione del fabbricante, né alla scelta fatta dal distributore acquistando un determinato prodotto. Il prezzo minimo uniforme è stato fissato interamente d'autorità e non si presta ad essere differenziato in base alla qualità, ai costi o alle posizioni commerciali e concorrenziali relative dei vari prodotti.

Nel corso del procedimento, il Governo dei Paesi Bassi ha affermato che il prezzo minimo in questione è stato stabilito tenendo conto del livello dei prezzi delle bevande olandesi distillate a buon mercato, livello che era nettamente diverso da quello dei prezzi delle bevande distillate di marca. Inoltre, in tale settore di bevande a basso prezzo, non vi sarebbero stati grandi scarti fra i prezzi del ginepro giovane e di quello vecchio.

La difesa della ditta Van Tiggele ha d'altra parte sostenuto che, prima dell'instaurazione della disciplina dei prezzi di cui trattasi, il prezzo del ginepro giovane si situava sui 9,50 fiorini per bottiglia di un litro, ossia a un livello sensibilmente inferiore a quello del prezzo minimo uniforme di 11,25 fiorini. La medesima ditta ha anche reso noto di disporre attualmente di un'offerta di ginepro da un produttore della Repubblica federale germanica a un prezzo tale (8,95 fiorini al litro franco di porto) che gli consentirebbe di rivenderlo nei Paesi Bassi, con beneficio, molto al di sotto del prezzo minimo attuale di 11,70 fiorini.

Ora, a prescindere da questi aspetti di fatto — che spetta al giudice nazionale di valutare, alla luce della sentenza interpretativa che pronunzierete — osservo che, diversamente da quanto ho ritenuto per gli altri due tipi di prezzi minimi esaminati innanzi, è possibile configurare l'eventualità che il prezzo minimo uniforme sia tale da porre artificialmente i prodotti importati in una situazione più sfavorevole dei prodotti nazionali concorrenti.

In effetti un prodotto estero, meno noto e meno introdotto sul mercato di un determinato paese che non il corrispondente prodotto di marca nazionale, può incontrare serie difficoltà a penetrare in tale mercato, o a mantenervi la sua posizione, qualora gli sia preclusa ogni possibilità di concorrenza in materia di prezzi.

Si pensi, in particolare, ad un prodotto estero la cui qualità e la cui presentazione (imballaggio, condizionamento, ecc.) siano inferiori a quelle del corrispondente prodotto nazionale, ma che presenti il vantaggio di un costo di fabbricazione sensibilmente minore, e quindi sia in grado di affermarsi sul mercato solo in virtù del prezzo particolarmente conveniente. In una ipotesi del genere, la fissazione di prezzi minimi obbligatori rappresenta un chiaro ostacolo all'importazione del prodotto di cui trattasi, ogni volta che il livello del prezzo minimo è stato stabilito tenendo conto della qualità, della presentazione e dei costi medi (o anche minimi) dei prodotti nazionali, senza riguardo al dislivello che può sussistere, relativamente a questi elementi, fra il mercato nazionale e il mercato di altri Stati membri.

Mi sembra quindi che un regime di prezzi così caratterizzato faccia ostacolo, sia pure indirettamente, agli scambi fra Stati membri, e che nell'ipotesi prospettata debba trovare applicazione il criterio precedentemente enunciato, a seguito dell'analisi della giurisprudenza di questa Corte: il criterio, cioè, secondo cui un prezzo fissato d'autorità, anche se applicato indistintamente a prodotti nazionali e stranieri, è misura d'effetto equivalente a restrizioni quantitative quando il suo livello rende lo smercio dei prodotti importati più difficile di quello dei prodotti nazionali. D'altronde, l'ipotesi delineata rientra nell'ambito del citato articolo 2, paragrafo 3, lett. e della direttiva della Commissione del 22 dicembre 1969, in cui è stabilito il divieto di misure che fissino i prezzi in funzione del costo o della qualità dei soli prodotti nazionali, a un livello tale da ostacolare l'importazione.

Tornando al caso di specie, osservo che, secondo quanto è stato dichiarato nelle premesse del decreto reale olandese n. 51 del 18 dicembre 1975, che ha abilitato il Produktschap a fissare i prezzi minimi per le bevande alcoliche distillate, questa disciplina mirava ad evitare che i prezzi di vendita del prodotto considerato scendessero a livelli tali da non essere più remunerativi neppure per imprese di distribuzione efficienti e ben gestite; e inoltre a consentire l'ammodernamento d'imprese atto a migliorare la loro organizzazione aziendale.

Nel corso dell'udienza abbiamo però inteso dichiarazioni, non contraddette dall'agente del Governo olandese, da cui risulterebbe che la disciplina predetta obbliga gli importatori a rivendere i prodotti di altri Stati membri a prezzi sensibilmente superiori a quelli che essi potrebbero utilmente praticare, pur riservandosi un ragionevole margine di profitto.

Se dunque il giudice nazionale dovesse constatare che il prezzo minimo di cui stiamo discutendo è stato fissato ad un livello eccessivamente elevato rispetto ai costi dei prodotti importati da altri Stati membri, così da porre questi prodotti in una posizione di svantaggio, sul piano delle loro effettive possibilità concorrenziali, rispetto ai corrispondenti prodotti interni, risulterebbe per ciò stesso violato il divieto stabilito dall'articolo 30 del Trattato, di misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative.

Il governo olandese ha sostenuto tuttavia che, anche in tale ipotesi, la disciplina considerata non sarebbe incompatibile con il divieto dell'articolo 30, poiché il citato regolamento sui prezzi minimi del 17 dicembre 1975 prevede all'articolo 8 che «il presidente della Produktschap può, in certi casi o gruppi di casi, esentare dall'applicazione di certe disposizioni del presente regolamento».

Questo argomento non mi sembra convincente. A mio avviso, misure atte a intralciare le importazioni di merci da altri Stati membri non sfuggono al divieto di cui al citato articolo 30 solo perché è stato conferito ad un'autorità amministrativa interna il potere di concedere esenzioni dall'applicazione di tali misure. È da rilevare che la disposizione dell'articolo 8 del regolamento olandese non determina nessun criterio che guidi l'esercizio del potere d'esenzione, ma lascia il più ampio margine di discrezionalità all'organismo nazionale. Pertanto, lungi dall'essere previsto un diritto all'esenzione a favore dei prodotti di altri Stati che incontrassero difficoltà nella loro introduzione sul mercato a causa del regime di prezzi minimi, quella disposizione presenta addirittura il rischio di un suo impiego ulteriormente discriminatorio a svantaggio dei prodotti importati.

8. 

Con il secondo quesito, il giudice olandese chiede, come ho già ricordato, l'interpretazione degli articoli 92-94 del Trattato CEE; per poter stabilire se un regime di prezzi minimi quale quello sopra descritto debba considerarsi un aiuto concesso dai Paesi Bassi in contrasto con dette disposizioni.

È noto che, affinché una misura avente l'effetto di avvantaggiare certe imprese possa costituire un aiuto, occorre che essa comporti un onere finanziario per lo Stato. Ciò risulta dalla formulazione stessa dell'articolo 92, paragrafo 1, che si riferisce agli «aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali».

Occorre dunque che lo Stato accordi a certe imprese, determinate individualmente o per categorie, un vantaggio che comporti un onere per le finanze pubbliche, sotto forma o di spesa, o di minore entrata.

Nella giurisprudenza della Corte, la sentenza 23 febbraio 1961 nella causa 30/59, De Gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg (Raccolta 1961, p. 7 ss.) ebbe a precisare, con riferimento all'articolo 4 del Trattato CECA, che la nozione d'aiuto comprende sia prestazioni positive, come le sovvenzioni, sia interventi che, in varie forme, alleggeriscano gli oneri normalmente gravanti sui bilanci delle imprese, con identità di natura e di effetti rispetto alle sovvenzioni. Successivamente la Corte ha avuto occasione di precisare che costituiscono aiuti vietati dall'articolo 92 del Trattato CEE sia un tasso di risconto preferenziale per i crediti di esportazione, accordato da uno Stato a favore dei soli prodotti nazionali esportati (sentenza 10 dicembre 1969 nelle cause 6 e 11/69, Commissione/Francia, Raccolta 1969, p. 523 ss.), sia lo sgravio parziale degli oneri sociali a favore degli imprenditori di un determinato settore (sentenza 2 luglio 1974, nel caso 173/73, Italia/Commissione, Raccolta 1974, p. 709 ss.).

Il fatto di stabilire prezzi minimi che, pur applicandosi uniformemente alla vendita al dettaglio di determinati prodotti, siano essi nazionali o stranieri, hanno per effetto di sfavorire sul piano della concorrenza certe categorie d'imprese rispetto ad altre, non può essere considerato come un aiuto concesso dallo Stato a queste ultime. Un regime di prezzi applicabile a merci prodotte da imprenditori privati non implica, infatti, alcun onere per le finanze pubbliche.

Nell'ipotesi in cui le imprese sfavorite dal provvedimento di uno Stato s'identifichino con quelle che commerciano prodotti importati, la compatibilità con il Trattato di siffatta misura dovrà essere valutata, come abbiamo cercato di fare, sulla base delle norme che vietano di ostacolare la libera circolazione delle merci.

9. 

Per le ragioni fin qui esposte, concludo proponendo alla Corte di rispondere alle domande che la Corte d'appello di Amsterdam ha posto, a norma dell'articolo 177 del Trattato CEE, con decisione del 30 giugno 1977, dichiarando che:

1.

Una disciplina nazionale dei prezzi rientra fra le misure d'effetto equivalente alle restrizioni quantitative, vietate dagli articoli 30 e 34 del Trattato CEE, se e finché essa ostacola direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari.

2.

L'articolo 30 del Trattato, nel vietare agli Stati membri di applicare misure equivalenti a restrizioni quantitative alle importazioni, si oppone alla fissazione da parte dello Stato o di organismi pubblici da esso delegati di un prezzo minimo uniforme, applicabile nella vendita al dettaglio di determinati prodotti, qualora tale prezzo sia fissato ad un livello tale da rendere lo smercio dei prodotti importati più difficile di quello dei prodotti nazionali. Ciò può verificarsi in particolare quando il livello del prezzo minimo, basato sul livello medio dei costi dei prodotti nazionali e sul riferimento alla qualità media di tali prodotti, sia sensibilmente più elevato del prezzo a cui prodotti importati di minor costo e di qualità inferiore potrebbero affermarsi sul mercato.

3.

Non costituisce un aiuto statale, ai sensi dell'articolo 92 del Trattato, una misura interna che, senza comportare nessun onere per lo Stato, stabilisca prezzi minimi di vendita al dettaglio di determinate merci prodotte da imprenditori privati, anche se ciò ha per effetto d'avvantaggiare sul piano della concorrenza i prodotti nazionali rispetto ai prodotti importati.