CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE GERHARD REISCHL

DEL 21 SETTEMBRE 1977 ( 1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

L'odierno procedimento, che trae origine da una domanda di pronunzia pregiudiziale della Cour de cassation belga, riguarda l'interpretazione degli artt. 3 f), 5, 2o comma, 86, 90, 30, 31 e 32 del trattato CEE nonché di talune norme della direttiva del Consiglio n. 72/464, entrata in vigore il 1o luglio 1973, relativa alle imposte diverse dall'imposta sulla cifra d'affari gravanti sul consumo dei tabacchi manifatturati (GU 1972, n. L 303, pag. 3).

In particolare, per una migliore comprensione del procedimento, premetto quanto segue.

Sui tabacchi manifatturati gravano nel Belgio l'imposta di consumo e l'imposta sul valore aggiunto. Debitori d'imposta sono, per quanto riguarda i prodotti nazionali, i fabbricanti e, per quanto concerne i prodotti esteri, gli importatori. L'imposta viene pagata mediante l'acquisto di fascette fiscali che si possono ottenere presso le autorità tributarie. Tali fascette possono essere apposte tanto dal produttore quanto dall'importatore. Poiché tuttavia la fascetta va collocata sotto il rivestimento in cellofan, ove venga usato tale rivestimento (il che sembra costituire la regola per i pacchetti di sigarette), l'apposizione della fascetta viene in pratica sempre effettuata dal produttore, che, nel caso di articoli importati, sarà il produttore straniero. Come base di calcolo per l'imposta viene adottato il prezzo al minuto indicato sulla fascetta. Detto prezzo viene, in linea di principio, fissato liberamente dai produttori e dagli importatori. Occorre comunque rilevare che gli aumenti di prezzo, esistendo nel Belgio un controllo statale dei prezzi massimi, sono subordinati ad un'autorizzazione del ministro dell'economia. Del pari, è necessario, a quanto sembra, dichiarare anche i ribassi di prezzo e si deve attendere, prima che essi possano entrare in vigore, la scadenza di certi termini.

In relazione al presente procedimento è anzitutto rilevante la circostanza che i dettaglianti sono obbligati a rispettare i prezzi indicati sulle fascette fiscali, come risulta dall'art. 58 della legge 3 luglio 1969 istitutiva dell'imposta sul valore aggiunto, che recita:

«Per quanto riguarda i tabacchi manifatturati importati o di fabbricazione indigena, l'imposta è riscossa ogni volta che su tali prodotti va riscossa, in conformità alle relative norme di legge o di regolamento, l'imposta di consumo. L'imposta è calcolata sulla base del prezzo indicato sulla fascetta fiscale, che deve essere il prezzo obbligatorio di vendita al consumatore, o, qualora non sia indicato alcun prezzo, sulla base adottata per la riscossione dell'imposta di consumo».

In conformità a quanto sopra, un decreto ministeriale 9 aprile 1974 ha provveduto a modificare anche il decreto 22 gennaio 1948 sulle imposte di consumo, cosicché attualmente anche la disciplina delle imposte sui tabacchi prescrive che i prodotti considerati siano venduti al consumatore al prezzo indicato sulle fascette.

Il predecessore dell'attrice nella causa principale, che gestisce nel Belgio dei grandi magazzini, non si atteneva al citato art. 58 allorché nel 1972 poneva in vendita sigarette ad un prezzo inferiore a quello risultante dalla fascetta. Ciò induceva la convenuta nella causa principale, che è l'associazione dei dettaglianti di tabacco (ATAB), a chiedere al Tribunal de commerce di Bruxelles l'emanazione d'un provvedimento d'urgenza. Il presidente del suddetto tribunale accoglieva l'istanza e, ritenendo che il comportamento della INNO costituisce concorrenza sleale nonché violazione dell'art. 58 della citata legge, ordinava a detta società di astenersi dall'offrire in vendita o dal vendere sigarette ad un prezzo inferiore a quello risultante dalla fascetta fiscale.

La INNO impugnava l'ordinanza sostenendo che il citato art. 58 era contrario alle norme di concorrenza del trattato CEE nonché alle disposizioni di quest'ultimo in tema di libera circolazione delle merci e violava inoltre la già menzionata direttiva del Consiglio secondo cui era consentita soltanto la fissazione di prezzi massimi. Il giudice d'appello non accoglieva la tesi della INNO, che proponeva allora ricorso per cassazione. A sostegno del suo gravame, essa adduceva che la sentenza del giudice d'appello, dando per scontata la compatibilità dell'art. 58 della legge belga con il trattato CEE, risultava contraria agli artt. 3 f), 5, 2o comma, 85, 86 e 90, nonchè agli artt. 30, 31, 32 e 36 del trattato CEE ed infine alle disposizioni della direttiva del Consiglio n. 72/464.

Tenendo conto delle predette argomentazioni, la Cour de cassation sospendeva, con sentenza 7 gennaio 1977, il procedimento e sottoponeva alla Corte di giustizia, a norma dell'art. 177 de trattato CEE, la seguente nutrita serie di questioni pregiudiziali:

«1

a)

Se gli artt. 3, lett. f), 5, 2o comma, ed 86 del trattato CEE vadano interpretati nel senso che uno Stato membro non può introdurre o mantenere nella sua legislazione una norma che imponga, fra l'altro, per la vendita al consumo tanto dei prodotti importati quanto dei prodotti nazionali, un prezzo di vendita fissato dai fabbricanti o dagli importatori, qualora detta norma sia tale da consentire ad una o più imprese di abusare d'una posizione dominante sul mercato comune, in violazione dell'art. 86 del trattato CEE.

Se in questo senso sia, fra l'altro, proibito introdurre o mantenere in vigore una disposizione di legge nazionale che favorisca, da parte di una o più imprese, l'abuso di una posizione dominante, che consente ai fabbricanti ed agli importatori di tabacchi di fissare i prezzi di vendita al consumo e di costringere i dettaglianti d'uno Stato membro a rispettarli.

b)

Se sia proibito introdurre o mantenere in vigore una disposizione nazionale del tipo di quella indicata sub a) anche qualora essa abbia portata generale, nel senso che concerna tutti indistintamente i fabbricanti e gli importatori, cioè anche quelli che non godono di una posizione dominante o che non ne abusano, ed a fortiori qualora il suo scopo, il suo oggetto od il suo effetto in nessun modo costituiscano un abuso di posizione dominante?

Se, in tal caso, le disposizioni del trattato CEE indicate sub a), eventualmente in collegamento con altre, non vadano interpretate nel senso che non è affatto proibito l'introdurre o il mantenere in vigore una simile regolamentazione nazionale ma che, semplicemente, tale legislazione non può aver alcun riflesso sulla sfera d'applicazione dell'art. 86 del trattato CEE, cosicché l'abuso di posizione dominante rimanga vietato, anche quando, nel caso di specie, esso risulta favorito dalla regolamentazione in questione.

2.

Se l'art. 90 del trattato CEE vada interpretato nel senso che si ha a che fare con “imprese cui gli Stati riconoscono diritti speciali o esclusivi” quando, a differenza dei fabbricanti e degli importatori di altri prodotti, che sono obbligati a dichiarare al ministero dell'economia gli aumenti di prezzo da essi decisi, ma non possono fissare i prezzi al consumo, i fabbricanti e gli importatori dei prodotti di cui si discute, pure essendo del pari obbligati dallo Stato a dichiarare gli aumenti i prezzi da essi decisi, possono tuttavia, grazie ad una norma di legge che rende vincolanti dopo la dichiarazione i prezzi fissati per la vendita al consumo, fissare essi stessi indirettamente i prezzi vincolanti di vendita al consumo.

In caso di soluzione affermativa, se il mantenimento in vigore di tali diritti speciali o esclusivi contrasti con le norme del trattato CEE, ed in particolare con l'art. 7 e con gli artt. 85-94.

3.

Se gli artt. 30, 31 e 32 del trattato CEE vadano interpretati nel senso che “una misura d'effetto equivalente” ai sensi del citato art. 30 può essere costituita da una regolamentazione d'uno Stato membro mediante la quale, per la vendita al consumo di determinati prodotti, viene imposto un prezzo fisso, indicato sulla fascetta fiscale e stabilito, secondo i casi, dai fabbricanti di tali prodotti con sede nello Stato o da coloro che importano tali prodotti, in particolare da altri Stati membri,

oppure,

nel senso che la predetta regolamentazione costituisce una misura di effetto equivalente solo quando è effettivamente dimostrato che essa può ostacolare, direttamente o indirettamente, in modo attuale o potenziale, il commercio intracomunitario, presupposto la cui esistenza, nel caso di specie, va accertata dal giudice nazionale.

Se le cose stiano diversamente quando lo Stato membro in questione consente ai fabbricanti ed agli importatori, dopo aver dichiarato l'aumento dei prezzi e dopo aver atteso un certo periodo di tempo, di fissare i prezzi, compresi quelli di vendita al consumo, ma pubblica i prezzi e ne impone il rispetto in base alla suddetta norma.

4.

a)

Se le disposizioni della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 464, ed in particolare l'art. 5 della medesima, abbiano efficacia diretta nel senso di attribuire fra l'altro ai singoli il diritto di invocarle dinanzi ai giudici nazionali.

b)

Se l'art. 5 della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 464, concernente le imposte, diverse dall'imposta generale sull'entrata, che gravano sul consumo dei tabacchi, vada interpretato nel senso che lo Stato membro non può introdurre o mantenere in vigore una norma di legge che imponga, per la vendita al conumo dei tabacchi nazionali od esteri, un prezzo di vendita, e più esattamente il prezzo indicato sulla fascetta fiscale, vale a dire una norma che impedisca di superare un prezzo massimo e al tempo stesso vieti di vendere a minor prezzo.»

Prima di inoltrarmi nell'esame delle suddette questioni, ritengo necessario ricordare che nel 1974 la INNO aveva presentato alla Commissione una denuncia con cui chiedeva l'apertura d'un procedimento per violazione delle norme di concorrenza nei confronti della Fedetab, organizzazione cui aderisce la quasi totalità dei produttori di tabacco belgi e lussemburghesi, che sono in parte anche importatori, della FNCG, organizzazione che raggruppa tutti i grossisti belgi di un certo peso nel settore dei tabacchi, e dell'ATAB, organizzazione belga dei dettaglianti di tabacchi. A questo riguardo, la INNO si riferiva ad una serie d'accordi che la Fedetab aveva stipulato nel periodo 1967-1969, sia con l'associazione dei grossisti, sia con i grossisti ed i dettaglianti belgi, e che miravano a garantire il rispetto dei prezzi indicati sulle fascette, ad escludere la possibilità di sconti e ad impedire il rifornimento dei commercianti che non osservassero gli accordi stessi. La Commissione instaurava, nel luglio 1974, un procedimento, a norma del regolamento 6 febbraio 1962, n. 17 (GU 21 febbraio 1962, n. L 204, pag. 62), e notificava, nel luglio 1975, alla Fedetab una serie di addebiti. Detto procedimento è, a quanto pare, tuttora pendente.

Conviene inoltre sapere che la INNO ha altresì chiesto alla Commissione di procedere a norma dell'art. 169 del trattato CEE contro lo Stato belga a causa dell'incompatibilità del citato art. 58 con le disposizioni del trattato CEE e della direttiva (CEE) del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 464. La Commissione ha, in proposito, esaminato la norma belga alla luce dell'art. 30 del trattato CEE, ma è giunta, a quanto pare, alla conclusione che non sussistano gli estremi per un'azione di questo tipo.

Come abbiamo visto, il giudice proponente si domanda se l'art. 58 della legge belga 3 luglio 1969, articolo che impone l'osservanza del prezzo indicato sulla fascetta fiscale, sia compatibile col diritto comunitario. Nell'esame delle singole questioni mi prenderò la libertà di scostarmi dall'ordine in cui la Cour de cassation le ha elencate. Comincerò, poiché ciò mi pare la cosa più semplice, col trattare i problemi concernenti la direttiva del Consiglio del 1972 ed affronterò in un secondo momento la tematica relativa agli artt. 30 e seguenti del trattato CEE — misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione. Dovrò infine esaminare nei dettagli il diritto comunitario della concorrenza e valutare che rilievo abbiano per la soluzione della presente controversia gli artt. 3 f), 5, 2o comma e 86, da una parte, e l'art. 90 del trattato CEE, dall'altra.

1. 

La questione proposta dalla Cour de cassation con riferimento alla direttiva del Consiglio 19 dicembre 1972 sulle imposte diverse dall'imposta sulla cifra d'affari gravanti sul consumo dei tabacchi manifatturati è scomponibile in due parti, di cui la prima attiene all'efficacia diretta della direttiva ed in particolare del suo art. 5 sulla base dell'efficacia diretta del diritto comunitario, presupposto indispensabile affinché il giudice nazionale possa assumere tali norme come criterio di valutazione del diritto interno, mentre la seconda concerne la possibilità di ricavare dal citato art. 5 un divieto per gli Stati membri di emanare norme di legge che impongano per i tabacchi manifatturati nazionali od esteri un prezzo al consumo, e precisamente il prezzo indicato sulla fascetta fiscale.

Nel discutere la questione credo sia opportuno affrontarne anzitutto la seconda parte.

Consentitemi, all'uopo, di citare in primo luogo il testo dell'art. 5, n. 1, della direttiva considerata, che recita:

«I fabbricanti e gli importatori determinano liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto di ciascuno dei loro prodotti. Tale disposizione non può peraltro pregiudicare l'applicazione delle legislazioni nazionali relative al controllo del livello dei prezzi o al rispetto dei prezzi imposti».

L'attrice nella causa principale, la quale s'è richiamata a questa norma dinanzi ai giudici belgi, sostiene — tenuto conto in particolare della genesi e della motivazione della direttiva — che con tale norma il legislatore ha inteso dichiarare lecita solo la fissazione di prezzi massimi e sancire, per il resto, il principio della libera formazione dei prezzi. L'aggiunta di cui al 2o comma — «legislazioni relative al rispetto dei prezzi imposti» — potrebbe riferirsi, per essere compatibile col trattato, unicamente a prezzi stabiliti dai produttori singolarmente e contrattualmente. Al contrario, non si potrebbe qui pensare alla legalizzazione di sistemi collettivi nel senso d'una autorizzazione grazie alla quale gli Stati membri possano fissare i prezzi o concedere detta facoltà ai produttori ed agli importatori.

Alla tesi testé enunciata si contrappone quella di coloro che vedono nella citata aggiunta l'espressa approvazione d'un sistema di prezzi obbligatori da parte del Consiglio; dalla circostanza che non si sia tentata un'armonizzazione, si potrebbe evincere che un tale sistema non va considerato come un intralcio alla libera circolazione delle merci.

C'è infine un'opinione, per così dire, intermedia. Anche secondo i suoi sostenitori risulta chiaro tanto dalla genesi quanto dalla lettera della norma che la direttiva non contempla unicamente il principio dei prezzi massimi. Inoltre, un simile obiettivo di disciplina legale dei prezzi non troverebbe affatto posto in una direttiva fiscale. D'altra parte, secondo la teoria in esame, l'art. 5, n. 1, 2o comma, non andrebbe inteso come un'approvazione espressa d'un sistema di prezzi fissi. Ciò esulerebbe precisamente dall'ambito dell'armonizzazione. L'espressione citata andrebbe piuttosto considerata come un semplice riferimento alla competenza degli Stati membri nel settore della fissazione dei prezzi, come una riserva a favore delle discipline nazionali dei prezzi, in base alle quali vengono fissati direttamente i prezzi oppure vengono approvati i prezzi stabiliti dai produttori e dagli importatori. La validità di tali sistemi andrebbe correttamente accertata alla luce delle norme generali del trattato, cui neppure il Consiglio può derogare.

Per quanto riguarda la presente controversia, si può, a mio parere, facilmente dimostrare che la tesi della INNO non è fondata, cioè che il riferimento della direttiva ai prezzi massimi al minuto non implica il divieto di sistemi di prezzi fissi.

Si può già subito affermare che un simile obiettivo, proprio del diritto della concorrenza, non sarebbe al suo giusto posto in una direttiva volta ad armonizzare le basi imponibili.

È lecito altresì richiamarsi al testo dell'art. 5, n. 1, 2o comma. La formulazione «legislazioni relative al rispetto dei prezzi imposti», poiché le norme giuridiche hanno per loro natura portata generale, giustifica senz'altro la congettura che con essa si intendano sistemi collettivi di fissazione dei prezzi, e non dunque soltanto fissazioni individuali e contrattuali dei prezzi.

Tale conclusione trova non da ultimo chiara conferma nella genesi stessa della norma. Inizialmente, nella proposta — poi modificata — d'una direttiva sulle imposte diverse dall'imposta sulla cifra d'affari gravanti sul consumo dei tabacchi manifatturati, presentata dalla Commissione al Consiglio il 20 novembre 1970, si leggeva, all'art. 6, n. 1 (divenuto più tardi l'art. 5, n. 1), dopo l'affermazione che i produttori e gli importatori determinano liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto dei loro prodotti, soltanto la frase: «Questa norma non ostacola tuttavia l'applicazione di regimi nazionali di controllo dei prezzi». In seno al Comitato economico e sociale, che doveva esprimere il proprio parere sulla proposta, fu suggerito — con una motivazione sulla quale ritornerò in seguito — di sostituire il termine «prezzi massimi di vendita al minuto» con i termini «prezzi fissi di vendita al minuto» o «prezzi di vendita al minuto». Nel parere del Comitato economico e sociale vennero proposti corrispondenti emendamenti agli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1. Il suddetto Comitato si pronunziò inoltre (GU 1971, n. C 93, pag. 12) affinché all art. 6, n. 1, 2o comma, venissero aggiunte, nell'ambito della riserva contemplata a favore delle norme nazionali, le parole «o alla fissazione di prezzi di vendita al minuto». Quest'ultimo punto coincideva con una proposta di risoluzione della Commissione per le finanze e i bilanci del Parlamento europeo, per cui nella relazione dell'11 ottobre 1971 (Atti del Parlamento europeo, documento n. 117/71 dell'11 ottobre 1971) veniva fornita la motivazione che occorreva chiarire, nel testo della direttiva, che non era proibito lo stabilire prezzi fissi di vendita al minuto. Il Parlamento, da parte sua, andò ancora oltre con la sua deliberazione del 16 dicembre 1971 (GU 1972, n. C 2, pag. 10). Anche esso affermò che, conoscendo tutti gli Stati membri un sistema di questo tipo, tanto nell'art. 5 quanto nell'art. 6 della direttiva si sarebbe dovuto parlare di prezzi fissi al minuto anzichè di prezzi massimi al minuto. È chiaro che il Consiglio non volle far proprie queste proposte a causa dell'imminente adesione di tre nuovi Stati membri, cui tale sistema era ignoto. Esso preferì invece la soluzione di aggiungere al 2o comma dell'art. 5, n. 1, una riserva concernente il rispetto dei prezzi imposti. A mio parere, già la genesi della norma non dovrebbe lasciare alcun dubbio sul fatto che si intendesse parlare soltanto dei prezzi fissati dai produttori e dagli esportatori e della loro obbligatorietà per i dettaglianti.

Ciò viene per di più espressamente chiarito in un verbale del Consiglio nel quale Consiglio e Commissione convengono che il termine «prix imposés» indica «les prix fixés par les fabricants ou les importateurs et, éventuellement, homologués par l'État». In ogni caso, non si può condividere l'opinione della INNO secondo cui tale formulazione si riferirebbe unicamente ai prezzi che lo Stato dichiara consentiti come prezzi massimi, perché a tal fine sarebbe stato sufficiente parlare soltanto di norme sul controllo dei prezzi.

Non si può neppure trarre argomento contro la suddetta interpretazione dall'ottavo «considerando» della direttiva, che recita: «… le esigenze della concorrenza implicano un regime di prezzi che si formino liberamente per tutti i gruppi di tabacchi manifatturati». Secondo me, ciò vuol semplicemente dire che lo Stato dovrebbe asternersi nella più larga misura possibile dall'influenzare la formazione dei prezzi. Viceversa, è assai difficile, di fronte al preciso obiettivo della direttiva, al tenore dell'art. 5, n. 1, ed alla citata genesi della norma, far leva su questa vaga considerazione per sostenere che il Consiglio intendeva veder garantita la libertà di formazione dei prezzi nella fase del commercio al minuto.

L'interpretazione dell'art. 5 della direttiva non porta dunque a concludere che, in linea di principio, possano esistere solo prezzi massimi di vendita al minuto e che i prezzi fissati dai produttori e dagli importatori non possano essere ritenuti vincolanti. Questa considerazione è sufficiente nel presente contesto. In altri termini, non è quindi anzitutto necessario accertare se la direttiva intendesse effettivamente dire che il Consiglio riteneva legittime le discipline di fissazione dei prezzi, il che, se fosse vero, darebbe origine ad un secondo problema: quello d'accertare se ciò sarebbe consentito dal trattato oppure si potrebbero avanzare contro la validità della direttiva obiezioni tratte dai principi generali del trattato.

Veniamo ora alla seconda parte della questione concernente la direttiva, cioè al problema del se l'art. 5, n. 1, sia una norma direttamente efficace, che si possa far valere dinanzi ai giudici nazionali. Su di essa, in verità, non è più necessario soffermarsi, essendosi constatato che l'art. 58 della legge belga 3 luglio 1969 non è incompatibile con la direttiva. A questo riguardo, tuttavia, vanno ancora aggiunte alcune brevi osservazioni. Benché le direttive — come è gia stato affermato nella giurisprudenza elaborata sino ad oggi — non possano di certo essere direttamente efficaci nel loro complesso, è tuttavia possibile che singole loro disposizioni abbiano efficacia diretta. Presupposto ne è che si tratti di norme chiare ed incondizionate, nelle quali sia previsto un determinato comportamento o un preciso risultato, senza alcuna riserva di potere discrezionale per gli Stati membri. Cito in proposito le sentenze 9/70 (Franz Grad/Finanzamt Traunstein, sentenza 6 ottobre 1970; Racc. 1970, pag. 825), 41/74 (Yvonne van Duyn/Home Office, sentenza 4 dicembre 1974; Racc. 1974, pag. 1337) e 51/76 (Verbond van Nederlandse Ondernemingen/Inspecteur der Invoerrechten en Accijnzen, L'Aia, sentenza 1o febbraio 1977). Sulla base di quanto finora illustrato, è tuttavia chiaro che l'art. 5, n. 1, primo comma, su cui si fonda l'attrice nella causa principale, non possiede i suddetti requisiti, poiché il secondo comma, il quale va preso in esame insieme con il primo, contiene una riserva. Tale comma consente agli Stati membri di derogare alla disciplina dei prezzi massimi, giacché dà ai suddetti Stati la possibilità di decidere a loro discrezione se intendano contentarsi della disciplina dei prezzi massimi ovvero instaurare un controllo dei prezzi con riferimento alla fissazione dei prezzi massimi o ancora dichiarare vincolanti i prezzi massimi fissati dai produttori e dagli importatori.

Riassumendo, si può affermare che la direttiva del Consiglio n. 72/464 non rende inapplicabile l'art. 58 della legge belga del 1969.

2. 

Prima di dedicare la nostra attenzione alle questioni successive, che riguardano l'interpretazione dell'art. 30 e delle norme di concorrenza del trattato, ritengo opportuno esaminare la tesi dell' ATAB secondo cui le disposizioni citate non servirebbero assolutamente per valutare la norma belga sui prezzi fissi.

L'ATAB sostiene che un'elevata imposta proporzionale, del tipo di quella che si calcola nel Belgio sulla base del prezzo al minuto, comporta necessariamente un sistema di prezzi fissi, grazie ai quali lo Stato ha precisamente la certezza di incassare di fatto il gettito dell'imposta sui tabacchi iscritto a bilancio. Se si consentissero invece differenze di prezzo nel commercio al minuto, alcuni dettaglianti potrebbero, a causa dei ridotti margini di guadagno propri del settore, soccombere al peso della concorrenza e ciò porterebbe successivamente — come accadde in Germania verso l'inizio degli anni trenta — ad una notevole riduzione delle entrate fiscali. Per di più neppure il consumatore avrebbe alcun interesse ad una concorrenza sui prezzi nel commercio al minuto. La trasparenza che esiste sul mercato dei tabacchi porterebbe, nel caso di offerte a prezzo ridotto, ad un ribasso generale dei prezzi da parte dei produttori stessi e quindi all'impiego di fascette fiscali recanti un prezzo meno elevato. La conseguente contrazione del gettito fiscale sarebbe tuttavia ben presto compensata da un aumento d'imposta per mantenere il livello degli introiti preventivati; il vantaggio del consumatore, nel caso di ribasso dei prezzi in tale forma, sarebbe dunque in realtà fuggevole. Se con ciò si dovesse tuttavia riconoscere che i prezzi fissi al consumo costituiscono parte integrante del regime fiscale e che, per quanto riguarda le imposte sui tabacchi, sono addirittura inerenti al sistema, si dovrebbe anche prendere in esame questo fattore soltanto nell'ambito dell'armonizzazione contemplata dagli artt. 99 e segg. del trattato, di fronte alla quale dovrebbero passare in secondo piano sia le norme sulle restrizioni quantitative all'importazione sia il diritto della concorrenza. L'armonizzazione sarebbe inoltre, per chiari segni, ancora agli inizi e non sarebbe in ogni caso ancor giunta nell'ambito della prima fase, in cui ci si trova attualmente, a toccare l'elemento che qui ci interessa. Di fatto, si dovrebbe ancora tener conto, anche dopo la direttiva emanata dal Consiglio nel 1972, di numerosi ostacoli al commercio derivanti dalle differenze fra i vari diritti nazionali; ciò spiegherebbe anche perché il Consiglio abbia espressamente autorizzato nell'art. 5 della direttiva i sistemi di prezzi fissi.

Le argomentazioni di cui sopra, pur facendo a prima vista molta impressione, non appaiono tuttavia convincenti, se si procede ad un esame più approfondito.

Già la tesi che gli introiti fiscali nel settore dei tabacchi sarebbero garantiti soltanto da un sistema di prezzi fissi non risulta veramente persuasiva. Le si può sempre opporre che, proprio nel Belgio, è stato, a quanto sembra, in vigore per lungo tempo e con risultati soddisfacenti un altro sistema: quello dei prezzi massimi al consumo.

Mi sembra inoltre rilevante quanto espressamente dichiarato, durante la trattazione orale della causa, dal rappresentante del Consiglio, il quale ha affermato che la direttiva del 1972 non intendeva pronunziarsi sulla legittimità dei «prezzi imposti» menzionati nell'art. 5, n. 1. Gli sforzi d'armonizzazione — a suo parere — si sarebbero in realtà fermati di fronte alla riserva enunciata dall'art. 5, cosicché il problema della compatibilità delle discipline di prezzi fissi con il trattato non sarebbe stato risolto.

Più ancora, non mi sembra pacifico che dalla giurisprudenza citata dall'ATAB (sentenze nelle cause 74/76, Iannelli & Volpi SpA, Milano/Paolo Meroni; sentenza (22 marzo 1977), e 111/76, Officier van Justitie/Beert van den Hazel, (sentenza 18 maggio 1977) si possa argomentare l'esistenza d'un orientamento volto a riconoscere alle norme sulle restrizioni quantitative, perlomeno in casi particolari, solo una portata limitata. Non lo consente, in ogni caso, la sentenza n. 111/76, nella quale, risultando l'incompatibilità di misure nazionali già da un regolamento comunitario (il regolamento n. 123/67, GU 1967, n. 117, pag. 2301) non fu affatto necessario esaminare l'art. 30. Circa la sentenza n. 74/76, secondo la quale l'art. 30 non s'applica agli ostacoli per cui già esistano specifiche norme, occorre d'altra parte osservare ch'essa si riferiva a problemi d'indole diversa, e precisamente alle norme sui dazi doganali, all'art. 95 ed alle norme sugli aiuti contenute nel trattato. Con riferimento a queste ultime è stato inoltre sottolineato che, per quanto riguardava le modalità di un aiuto non necessarie al suo oggetto od al suo funzionamento, era senz altro possibile effettuare un vaglio alla luce dell'art. 30 e constatare una violazione di detta norma.

Proprio questa sentenza e la considerazione testé menzionata si possono però ricordare a proposito della tesi dell'ATAB secondo cui il sistema del prezzo fisso è un elemento necessario del regime fiscale dei tabacchi e non può quindi venir giudicato sulla base di norme generali del trattato, e in ispecie dell'art. 30, ma soltanto nell'ambito delle norme d'armonizzazione di cui agli artt. 99 e segg., cioè se del caso con l'aiuto d'una raccomandazione della Commissione a norma dell'art. 102 del trattato. Dopo tutto ciò che è stato reso noto nel corso del procedimento, si ha precisamente l'impressione che la tesi, secondo cui il sistema belga di prezzi fissi sarebbe un elemento integrante ed indispensabile del regime fiscale dei tabacchi, non sia sufficientemente provata.

Sotto questo aspetto, ritengo significativa l'affermazione fatta dal rappresentante del Governo lussemburghese, il quale, in sede di trattazione orale, ha espressamente dichiarato che il sistema dei prezzi fissi è stato adottato dal Lussemburgo nell'autunno del 1975 non tanto per ragioni fiscali quanto piuttosto, e soprattutto, per ragioni di disciplina della concorrenza, e precisamente nell'intento di proteggere i dettaglianti di tabacchi dalla concorrenza delle grosse catene di negozi o dei supermercati.

Indicativa è del pari la circostanza che il Governo dei Paesi Bassi abbia anch'esso cercato di giustificare il sistema dei prezzi fissi con argomenti relativi unicamente alla disciplina della concorrenza ed alla politica di difesa dei piccoli commercianti. Al centro delle sue osservazioni stava la constatazione che i dettaglianti di tabacchi, trovatisi a dover affrontare gravi difficoltà, sono molto diminuiti di numero e che una loro ulteriore rarefazione sarebbe inaccettabile non solo a causa delle relative ripercussioni sul commercio all'ingrosso e sui piccoli produttori, ma altresì nell'interesse del consumatore, per il quale è importante l'abbondanza dell'offerta.

Infine, come già detto, nello stesso Belgio il regime fiscale dei tabacchi ha funzionato per più di 20 anni solo con una disciplina di prezzi massimi, cioè senza prezzi fissi. Quando fu instaurato il sistema dei prezzi fissi, fu espressamente riconosciuto che esso aveva anche finalità economiche.

Se ci si attiene dunque ai rigidi principi desumbili dalla sentenza 74/76 per quanto riguarda il non prendere in considerazione norme generali del Trattato, è difficile condividere l'opinione secondo cui la disciplina dei prezzi in collegamento con la tassazione dei tabacchi potrebbe venir esaminata soltanto nell'ambito dell'armonizzazione fiscale. Non abbiamo in realtà a che fare con una fattispecie, per la quale discipline speciali possano — come previsto dalla direttiva della Commissione n. 70/50 (GU n. L 13, pag. 29) sulla quale ritorneremo — consentire di trascurare le norme relative alle restrizioni quantitative all'importazione. Inoltre la Commissione è senza dubbio nel giusto quando afferma che la semplice constatazione della presenza di ragioni fiscali fra i motivi che hanno portato all'adozione d'una disciplina non può, a meno che non si accetti lo svuotamento di norme fondamentali del trattato, impedire che si adottino come criterio di valutazione le norme generali del trattato sulle misure d'effetto equivalente e le norme di concorrenza.

3. 

Non risulta quindi in alcun modo superflua l'interpretazione delle altre norme del trattato menzionate dalla Cour de cassation ed io voglio da questo punto in poi dedicarmi anzitutto, come ho già detto, all'esame dei problemi concernenti gli artt. 30 e segg. del trattato: si tratta precisamente d'accertare se possa venir considerata come una misura d'effetto equivalente una disciplina nazionale che contempli per la vendita di tabacchi al consumatore prezzi fissati dai produttori o dagli importatori. Mi sembra giusto riservare una certa precedenza nella disamina a questo problema, che è senza alcun dubbio di importanza basilare per il procedimento e che è stato trattato a fondo nelle osservazioni delle parti.

Il problema delle misure d'effetto equivalente alle restrizioni quantitative al'importazione ha già svolto ripetutamente una funzione nella giurisprudenza. Si è così chiarita una serie di aspetti che possono costituire anche in questo caso il punto di partenza della nostra analisi.

Ricordo, per esempio, che la Corte s'è più volte fondata sulle definizioni enunciate già molto tempo fa nella direttiva della Commissione n. 70/50. Ciò è accaduto nella cause 155/73 (Giuseppe Sacchi, sentenza 30 aprile 1974; Racc. 1974, pag. 409) e 74/76. La giurisprudenza ha anche precisato che, lungi dal tener conto soltanto dei provvedimenti riguardanti direttamente le importazioni, occorre altresì prendere in considerazione quelli che influiscono indirettamente su di esse, come le misure concernenti la produzione o altre fasi commerciali. Si può rimandare in proposito, per esempio, alla sentenza emanata nelle cause 3, 4 e 6/76 (Kramer, sentenza 14 luglio 1976; Racc. 1976, pag. 1279) o alla sentenza concernente la causa 65/75 (Riccardo Tasca, sentenza 26 febbraio 1976; Racc. 1976, pag 291). Considerati questi precedenti, non sorprende che la definizione generale di misure d'effetto equivalente, ripetuta in modo costante nella più recente giurisprudenza sia veramente assai ampia. In base ad essa (cfr. ad es. la sentenza 11 luglio 1974 nella causa 8/74, Procureur de la République/Benoît e Gustave Dassonville; Racc. 1974, pag. 852) va considerata come misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa qualsiasi disciplina commerciale degli Stati membri che possa pregiudicare, direttamente o indirettamente, effettivamente o potenzialmente, il commercio intracomunitario.

Prima di accingermi ad esaminare la fattispecie controversa alla luce di questa giurisprudenza, ritengo giusto formulare, con riferimento all'estesa discussione, due facili osservazioni.

Come ricorderete, nel corso del procedimento si è fatta allusione anche alla giurisprudenza sulle discipline di prezzi massimi elaborata nelle sentenze 65/75 (Riccardo Tasca) e 88-90/75 (Società SADAM e altri contro Comitato interministeriale dei prezzi e Ministro dell'industria, commercio e artigianato ed altri, sentenza 26 febbraio 1976; Racc. 1976, pag. 323). Per me è chiaro che tali precedenti non sono direttamente utilizzabili nel presente procedimento a causa della diversità della fattispecie. Nelle sentenze citate si trattava di prezzi massimi fissati dallo Stato che avrebbero potuto, visto il loro livello, ostacolare le importazioni. In presenza d'una disciplina di prezzi come quella che qui ci interessa, ripercussioni di questo tipo non sono possibili in quanto i prezzi massimi, che valgono allora come prezzi fissi, sono liberamente stabiliti dagli importatori, se vogliamo limitarci a costoro, cioè tocca all'importatore stesso determinare attraverso la scelta del prezzo le possibilità di smercio dei prodotti importati.

La seconda osservazione preliminare riguarda un argomento desumibile dalla già citata direttiva della Commissione n. 70/50 a favore della disciplina belga di prezzi fissi. Nella predetta direttiva si distingue fra misure non applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati (art. 2) e misure relative alla commercializzazione dei prodotti, applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati (art. 3). Nell'ambito dell art. 2, il n. 3 menziona espressamente, nelle lettere che vanno da a) fino ad e), misure concernenti i prezzi. Prendendo lo spunto da ciò e dalla considerazione che i provvedimenti belgi, applicandosi indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati, non rientrano nell'art. 2, ma tutt'al più nell'art. 3 della direttiva s'è creduto di poter argomentare che essi, non facendo l'art. 3 espressa menzione della disciplina dei prezzi, non possono essere considerati come misura d'effetto equivalente. Una simile conclusione non mi pare obbligata, e ciò non solo perché in generale bisogna essere prudenti con simili ragionamenti «a contrario», ma ancor di più perché, a mio parere, visto che l'art. 3 parla di commercializzazione in termini estremamente generici, tale nozione non può certo consentire di escludere proprio i provvedimenti sui prezzi. Inoltre è importante il fatto che alla suddetta argomentazione si può senz'altro opporre la definizione veramente ampia delle misure d'effetto equivalente elaborata dalla giurisprudenza.

Se le due osservazioni di cui sopra non possono quindi contribuire alla soluzione del problema, occorre allora domandarsi che cosa si desuma in proposito dalla citata definizione generale, formulata dalla Corte. A questo riguardo, possiamo limitarci alla fissazione dei prezzi da parte degli importatori, trascurando quella cui provvedono i fabbricanti nazionali. Questi ultimi infatti avrebbero importanza per il commercio fra gli Stati membri soltanto se i dettaglianti, per i quali vale l'obbligo del rispetto del prezzo, effettuassero esportazioni. Ciò tuttavia non accade a causa della disciplina della fascetta fiscale, che la Commissione giustamente considera una legittima misura di controllo. Si tratta, tutt 'al più, di quantità irrilevanti vendute a persone che passano la frontiera: esse possono tranquillamente venir trascurate nell'esaminare la disciplina.

Per quanto riguarda la fissazione dei prezzi da parte degli importatori, la Commissione in particolare sostiene che essa influisce sul commercio fra gli Stati membri anche quando non si tratta di misure aventi direttamente di mira le importazioni. Se i prezzi non fossero vincolati, i dettaglianti potrebbero infatti praticare una propria politica dei prezzi, ottenendo mediante ribassi, specialmente nelle zone di confine, un aumento dello smercio e provocando così un'intensificazione delle correnti commerciali, cosa che il mantenimento in vigore della misura controversa rende invece assai difficile. Occorrerebbe inoltre tener conto del fatto che un semplice ricorso ad importazioni parallele risulta impossibile, non potendosi reperire sui mercati di altri Stati membri tabacchi manifatturati con fascette fiscali belghe. Sarebbe altresì esclusa la possibilità di importare tabacchi manifatturati presenti sui mercati stranieri in quanto il versamento delle imposte estere sui tabacchi implicherebbe una serie di formalità estremamente complicate — in base alla legge tedesca in materia di imposte sui tabacchi si dovrebbe per esempio procedere, sotto controllo dell'autorità competente, alla distruzione delle fascette e successivamente ad un nuovo impacchettamento. I dettaglianti sarebbero quindi costretti a chiedere la collaborazione degli importatori, di fronte ai quali tuttavia solo i clienti più potenti riuscirebbero ad imporre i loro progetti di prezzi, oppure potrebbero farsi essi stessi importatori, ai sensi della legge belga, e poi fissare autonomamente i prezzi, dopo aver acquistato le relative fascette. Quest'ultima soluzione implicherebbe però una difficile e costosa conversione d'attività economica e risulterebbe quindi possibile solo ad operatori molto forti. Inoltre, il sistema delle fascette, da considerarsi legittimo, costringerebbe i dettaglianti importatori a richiedere la collaborazione dei produttori esteri per l'apposizione delle fascette stesse. Sarebbe perciò difficile per un dettagliante far valere i propri progetti di prezzi contro la politica di prezzi, spesso differenziata, dei produttori; esistendo poi contratti d'esclusiva con altri importatori, le forniture verrebbero rifiutate. Ciò è stato in effetti dimostrato nel corso del procedimento dalla INNO, che ha prodotto in giudizio la sua corrispondenza con produttori esteri od importatori esclusivi. Da ultimo, un ostacolo sostanziale a detti tentativi sarebbe costituito dall'impossibilità d'ottenere dalle autorità fiscali belghe fascette con un prezzo più basso. In effetti, le competenti autorità riterrebbero — stando ad una lettera indirizzata il 14 giugno 1977 alla INNO dall'ispettore generale delle imposte di consumo — che sigarette della stessa marca e della stessa qualità non potessero venir poste in commercio nello stesso momento con fascette diverse. Tale atteggiamento si ispirerebbe alla legislazione belga in materia di imposte sui tabacchi, ma anche alla direttiva del 1972 che non consentirebbe diversi prezzi massimi al dettaglio per un solo prodotto. Tutte queste ragioni indurrebbero a riconoscere che i dettaglianti trovano enormi difficoltà per una propria politica di prezzi intesa a favorire lo smercio. La situazione sarebbe ancor più difficile con riferimento alle marche estere che dovrebbero ancora conquistare il loro posto sul mercato; la vigente disciplina dei prezzi influirebbe perciò su di esse più di quanto non influisca sui prodotti nazionali.

Si aggiunga che una parte notevole, cioè oltre la metà delle importazioni, avviene nel Belgio attraverso produttori belgi, i quali non possono certo avere per una maggior diffusione dei prodotti esteri lo stesso interesse che avrebbero importatori completamente indipendenti.

Ad ogni modo, non è realistico pensare che i piccoli commercianti di tabacchi sentano in misura degna di nota il bisogno di praticare una propria politica dei prezzi mediante la concessione di sconti. Glielo impedisce il ristretto margine di guadagno, che nel Belgio rappresenta, a quanto pare, circa il 7,5 % del prezzo indicato sulla fascetta. Così anche nella motivazione del già citato parere con cui il Comitato economico e sociale suggeriva di menzionare nella direttiva del Consiglio soltanto i prezzi fissi al dettaglio, si osservava che i tabacchi si prestavano meno d'ogni altra merce a ribassi di prezzo, che i dettaglianti, considerati i loro ridotti margini di guadagno, non avrebbero mai potuto praticare ribassi e che questa facoltà sarebbe rimasta soltanto ai grandi magazzini, cosa che avrebbe però rappresentato una concorrenza sleale. I grandi magazzini hanno infatti costi meno elevati grazie al «self service» alla possibilità di acquistare grosse partite di merce ed alla possibilità di ottenere, cumulando i margini di guadagno del grossista e del dettagliante, un margine totale del 10 %. Così stando le cose, esperimenti di deroga al prezzo indicato sulla fascetta vengono tentati nel Belgio soltanto dai grandi magazzini, mentre l'associazione dei dettaglianti di tabacchi difende con vigore il sistema dei prezzi fissi. Sotto questo aspetto, non si può dunque sostenere che le importazioni parallele con formazione autonoma dei prezzi siano già ostacolate dalle difficoltà che il dettagliante incontra nel vestire i panni dell'importatore: ciò non vale di certo per la categoria d'imprese cui appartiene l'attrice nella causa principale.

Circa le difficoltà che la INNO ha incontrato nei suoi tentativi di effettuare importazioni autonome con prezzi di fascetta meno elevati, va osservato quanto segue.

Come abbiamo sentito, i produttori esteri eccepivano l'esistenza di contratti d'esclusiva con importatori belgi oppure non accettavano di praticare prezzi diversi per i propri prodotti. Gli importatori belgi si rifiutavano di applicare prezzi diversi, osservando che l'ordinamento giuridico belga non lo consentiva. A ciò corrisponde inoltre l'atteggiamento dell'amministrazione tributaria belga, quale risulta dal documento già menzionato, prodotto in giudizio dalla INNO.

Affrontando anzitutto l'ultimo punto, possiamo constatare che le autorità belghe non si richiamano all'art. 58 della legge del 1969, su cui verte la discussione nella causa principale, bensì alla disciplina belga delle imposte sui tabacchi ed alla direttiva emanata dal Consiglio nel 1972. L'ostacolo risultante dall'atteggiamento degli organi fiscali belgi trova dunque origine non già nel regime dei prezzi fissi per i tabacchi, bensì in altre norme. Va inoltre osservato, in tale contesto, che le autorità belghe hanno torto quando giustificano il loro atteggiamento richiamandosi alla direttiva; non si riesce infatti a capire come dalla direttiva si possa desumere, per un prodotto, il principio dell' unicità del prezzo massimo al dettaglio. Per quanto riguarda la citata legislazione belga in materia di imposte sui tabacchi, è pure importante rilevare — essendosi svolti i fatti, su cui la Cour de cassation è chiamata a pronunziarsi, nel 1972 — che l'autorità fiscale cita, a sostegno del suo punto di vista, soltanto la nuova versione della direttiva, risalente al 1974. Circa la versione anteriore, risulta invece con chiarezza dal suddetto scritto che il problema dei prezzi ridotti non s'era posto in quanto a quell'epoca le vendite per un prezzo inferiore a quello indicato sulla fascetta non erano vietate.

Gli altri ostacoli menzionati sorgono in parte dall'atteggiamento di produttori stranieri, atteggiamento che — come ha giustamente osservato la Commissione — può essere considerato abusivo ai sensi dell'art. 86 del trattato, visto il monopolio tecnico di cui costoro godono nell'apposizione delle fascette, in parte dall'esistenza di contratti d'esclusiva stipulati fra i suddetti produttori ed imprese belghe per il rifornimento del mercato belga. A questo proposito, suscita dubbi non solo il fatto che le particolarità dell'ordinamento fiscale impediscano importazioni parallele ritenute indispensabili dalla Commissione nel predetto contesto, ma altresì la circostanza che la funzione di importatore esclusivo sia svolta in larga misura da produttori belgi.

Viceversa, il sistema dei prezzi fissi non può essere considerato la causa vera e propria della maggior difficoltà delle importazioni parallele, cioè dell'ostacolo al commercio.

Quindi, dato che un impedimento al commercio può risultare soltanto dal concorso della disciplina dei prezzi fissi con il comportamento di altri operatori e con una prassi amministrativa nazionale, che non trova fondamento nel sistema di prezzi fissi stesso, tale sistema non è, a mio avviso, contrario all'art. 30 del trattato. È molto più logico affrontare gli ostacoli riconoscibili in altro modo, per esempio mediante provvedimenti da adottarsi in base all'art. 86 del trattato CEE contro produttori stranieri, mediante un più severo esame dei contratti di distribuzione esclusiva volti ad impedire le importazioni parallele, e mediante la proibizione della prassi amministrativa belga in materia di prezzi diversi sulla fascetta.

Per completare queste considerazioni, consentitemi un'ultima ed altrettanto importante riflessione.

Durante il procedimento è apparso chiaro che il sistema belga di prezzi fissi nel settore dei tabacchi persegue anche obiettivi di politica economica, proponendosi di difendere il commercio al minuto dalla concorrenza dei grandi magazzini, in verità anche nell'interesse del consumatore che può in tal modo disporre d'una rete di distribuzione abbastanza fitta con ampio assortimento di prodotti. La stessa Commissione ha riconosciuto la sostanziale legittimità di questo intento. Essa ritiene tuttavia che sia possibile ricorrere a mezzi meno gravosi per il commercio fra gli Stati e cita, come esempio di possibili provvedimenti, il divieto di vendere in perdita, una limitazione degli sconti permessi nel commercio al minuto, oppure un sistema di licenze per il commercio al minuto, che consenta la vendita dei tabbacchi soltanto in negozi specializzati. Con ciò essa allude evidentemente all'art. 3 della sua direttiva 22 dicembre 1969, n. 70/50, nella quale si parla di misure applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati, che sono considerate come misure di effetto equivalente se i loro effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci eccedono il contesto degli effetti propri di una regolamentazione commerciale.

Tale riflessione conduce poi a domandarsi, con riferimento alla ponderazione dei diversi provvedimenti possibili sotto l'aspetto dell'intralcio al traffico commerciale, se una situazione, in cui un effetto restrittivo sugli scambi sia il risultato congiunto d'una disciplina di prezzi fissi e di altre circostanze (comportamento sul mercato di altri operatori, prassi amministrativa in tema di distribuzione delle fascette), non inviti piuttosto a combattere i fenomeni concomitanti mediante provvedimenti di facile attuazione e a definire adeguato ai sensi dell'art. 3 della direttiva della Commissione il sistema di prezzi fissi, anziché a sostenere la soppressione di tale sistema e la contemporanea emanazione dei provvedimenti sostitutivi suggeriti dalla Commissione. Se si tien conto del fatto che la Commissione progetta in proposito misure che giungono fino al rilascio d'una licenza per il commercio al minuto di tabacchi, mi sembra assolutamente certo che occorra preferire la prima soluzione come quella meno gravosa per l'economia. Neppure richiamandosi ai principi enunciati nella direttiva della Commissione n. 70/50 è dunque possibile considerare il regime belga di prezzi fissi nel settore dei tabacchi come una misura d'effetto equivalente ai sensi dell'art. 30 del trattato CEE.

Con ciò, e senza che sia necessario approfondire le diverse sfumature della questioni poste dalla Cour de cassation, si può ritenere esaurita anche la problematica attinente all'art. 30 del trattato CEE.

4. 

La successiva questione, cui ora ci dedichiamo, riguarda gli artt. 3 f), 5, 2o comma, e 86 del trattato CEE. Non intendo riportarne il testo, che è piuttosto ampio, anche se ciò servirebbe a far rilevare che la formulazione della questione con le sue diverse ipotesi non è molto comprensibile ed è perciò alquanto difficile afferrarne il significato. Si spiega così, del resto, come gli interessati abbiano svolto in proposito le più diverse osservazioni, che è veramente difficile, per non dire impossibile, ordinare sistematicamente.

A prescindere dall'esatta portata delle questioni, si possono fare con una certa facilità alcune riflessioni sul modo di trattare i problemi cui esse si riferiscono. Comincerò quindi con queste riflessioni.

Conviene anzitutto osservare che, trattandosi qui d'un procedimento ai sensi dell'art. 177 del trattato CEE, dobbiamo limitarci all' interpretazione del diritto comunitario e lasciare da parte accertamenti di fatto che rientrerebbero nell'applicazione del suddetto diritto. Questo rilievo è pertinente in relazione a taluni argomenti, estremamente suggestivi, sviluppati dalla INNO. Tale società infatti s'è richiamata agli accordi conclusi dalla FEDETAB con grossisti e dettaglianti belgi nel periodo 1967 — 1969, accordi che sarebbero in contrasto con l'art. 85 del trattato. Partendo dalla suddetta premessa, la INNO sostiene che il diritto comunitario impedisce di ottenere lo stesso risultato — una specie di cartello obbligatorio — mediante norme di legge. Essa ha pure menzionato la posizione dominante che la FEDETAB detiene insieme coll'associazione belga dei grossisti ed ha dichiarato che tale posizione è stata sfruttata abusivamente — mediante il ricorso a pressioni per garantire il rispetto dei prezzi fissati dai produttori. Lo Stato non potrebbe però con suoi atti d'imperio — cioè grazie a leggi — prescrivere lo stesso risultato e, per così dire, legalizzare l'abuso. In un procedimento ai sensi dell'art. 177 noi non possiamo di certo risolvere simili questioni di fatto; non c'è dunque consentito di accertare se ci si trovi realmente di fronte ad una posizione dominante e ad un suo sfruttamento abusivo. Del pari non possiamo, in questa sede, verificare se determinati accordi violino l'art. 85 del Trattato e non possano fruire dell'esenzione contemplata dall'art. 85, n. 3, problema che, a quanto sembra, continua ad essere oggetto di studi da parte della Commissione. Correttamente dobbiamo quindi astenerci dal dare per scontata la presenza di tali fattispecie, non possiamo cioè fondare senz'altro la nostra interpretazione sui fatti asseriti dalla INNO.

È inoltre certo — anche questa è un'osservazione facile — che una posizione di privilegio attribuita dalla legge — nella fattispecie la facoltà dei produttori e degli importatori di fissare prezzi vincolanti al dettaglio — non costituisce necessariamente in quanto tale una posizione dominante a norma dell'art. 86 del trattato. Ricordo, in proposito, la sentenza emanata l'8 giugno 1971 (causa 78/70, Deutsche Grammophon-Gesellschaft GmbH/Metro-SB-Großmärkte GmbH & Co. KG; Racc. 1971, pag 487), in cui si precisava che la titolarità d'un diritto connesso al diritto d'autore non implicava di per sé il godimento d'una posizione dominante ai sensi dell'art. 86. In relazione ai fatti che qui ci interessano, non si può in particolar modo dimenticare che della citata facoltà possono far uso anche piccoli produttori e piccoli importatori. Ove si debba ritenere applicabile l'art. 86, sono quindi in ogni caso indispensabili ulteriori accertamenti di indole tecnico-commerciale, quali sono già stati più volte dichiarati necessari dalla Corte con riferimento alla possibilità di sopprimere la concorrenza.

In terzo luogo, si può anche osservare in via preliminare che il trattato non vieta affatto la costituzione di posizioni dominanti sul mercato né, in particolare, esclude la possibilità di crearle per legge. Anche ciò trova conferma nella giurisprudenza. È perciò inesatto desumere dall'art. 86 l'obbligo per gli Stati membri di non adottare alcun provvedimento che possa mettere in pericolo la concorrenza.

Andando poi alla ricerca di ulteriori ausili interpretativi per una soluzione del caso, nel senso cui sembrano tendere le questioni della Cour de cassation, si può osservare, in relazione al punto sostanziale del se sia effettivamente possibile nell'ambito delle citate disposizioni accertare obblighi per gli Stati membri, quanto segue.

Evidentemente l'art. 86 si rivolge soltanto alle imprese, di cui delimita il comportamento. Ne è dunque esclusa un'applicazione diretta agli Stati ed agli atti d'imperio. È altrettanto chiaro che l'art. 3, lett. f), si indirizza alle istituzioni comunitarie; l'art. 3 comincia infatti con le parole «… l'azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsto dal presente trattato …». Tutt'al più esso può essere adoperato per l'interpretazione degli artt. 85 e 86, come è stato posto in evidenza nelle cause 6/72 (Europemballage Corporation e Continental Can Company Inc./Commissione delle Comunità europee, sentenza 21 febbraio 1973; Racc. 1973, pag. 215) e 6 e 7/73 (Istituto Chemioterapico Italiano SpA e Commercial Solvents Corporation/Commissione delle Comunità europee, sentenza 6 marzo 1974; Racc. 1974, pag. 223). Neppure da questa disposizione si possono pertanto desumere direttamente obblighi degli Stati membri.

Viceversa, non è da escludere che, in conseguenza d'una combinazione di tali norme con l'art. 5, 2o comma, anche l'azione statale trovi dei limiti in questo settore, giacché l'art. 5, 2o comma, impone agli Stati membri di astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del trattato. Così nella sentenza 78/70 è stato precisato che l'art. 5, 2o comma, stabilisce un obbligo generale degli Stati membri, il cui contenuto concreto dipende in ciascun caso particolare, dalle disposizioni del trattato o dai principi generali in esso impliciti. Inoltre, nella sentenza 13 febbraio 1969 (causa 14/68, Walt Wilhelm e altri/Bundeskartellamt; Racc. 1969, pag. 1) si legge, con riferimento ai rapporti fra il diritto nazionale ed il diritto comunitario della concorrenza, una formulazione significativa secondo cui agli Stati membri non è consentito adottare provvedimenti che possano pregiudicare l'efficacia pratica del Trattato.

Sulla base di quanto sopra, occorre ammettere il principio che il diritto comunitario deve poter produrre i suoi effetti e che gli Stati membri sono quindi tenuti ad astenersi da qualsiasi iniziativa in senso contrario. Riferito all'art. 86 — sull'art. 85 non è necessario prendere posizione in quanto esso non è menzionato nelle questioni ed evidentemente è considerato dalla Cour de cassation come estraneo ai problemi che la interessano; ciò giustifica certamente l'affermazione che gli Stati membri non possono sottrarre imprese alla sfera d'applicazione dell'art. 86 né provocare mediante la loro azione risultati che le imprese stesse non potrebbero ottenere a causa del divieto posto dall'art. 86.

Nondimeno, è alquanto disagevole fornire una risposta adeguata al quesito della Cour de cassation in cui si parla di provvedimenti statali atti a favorire lo sfruttamento abusivo d'una posizione dominante.

Certo, è possibile appoggiarsi a quanto sostenuto dalla Commissione ed affermare che, se uno Stato pone in essere per legge un sistema di prezzi vincolati come quello in esame, è altresì tenuto ad emanare provvedimenti che impediscano prevedibili abusi. Al predetto Stato incombe, in altre parole, l'obbligo di vegliare affinché la fissazione di prezzi con effetto vincolante non sia accompagnata da abusi. Dubito però che la prima questione della Cour de cassation, così come è formulata, intenda dire questo. Non si può anzitutto trascurare che dette misure di prevenzione sono già vigenti nell'ordinamento belga, giacché le modifiche di prezzo dei tabacchi vanno approvate dal ministro dell'economia e possono entrare in vigore, con il suo consenso, solo dopo un certo periodo di tempo. Ci si può poi anche domandare se l'agevolazione indicata esista realmente, dal momento che o determinate imprese detengono sul mercato una posizione di forza che permette abusi nella fissazione dei prezzi, oppure, nel caso contrario, in mancanza di tale posizione va altresì esclusa qualsiasi influenza del sistema di prezzi fissi sul livello dei prezzi. A questo riguardo, è stato inoltre giustamente osservato che il diritto comunitario non viene affatto privato della sua efficacia per quanto riguarda la lotta contro i possibili abusi delle imprese.

Si deve perciò prescindere dalla lettera dell'espressione «favorire un abuso» e ritenere che il giudice proponente abbia qui avuto in mente un ragionamento simile a quello esposto dalla INNO nelle sue osservazioni. Si tratta dunque d'accertare se il trattato vieti che un certo risultato — per essere precisi: il rispetto dei prezzi fissati dai produttori e dagli importatori — eventualmente ottenuto in precedenza mediante un abuso possa in seguito essere sancito dalla legge.

Anche in questo modo sarà però difficile concludere per l'inapplicabilità della norma belga citata dalla Cour de cassation.

Lasciamo pure da parte la circostanza che la norma si applica anche ai piccoli produttori ed ai piccoli importatori, cioè a soggetti per i quali è certo impossibile parlare della sostituzione d'una norma di legge ad un comportamento abusivo cosicchè in proposito sarebbe perlomeno lecito domandarsi se la norma controversa andrebbe comunque considerata integralmente inapplicabile. Decisivo è piuttosto il fatto che un criterio importante anche per l'applicazione dell'art. 86 è costituito dall'impedimento al commercio fra gli Stati membri. Se tuttavia, già quando esaminavamo il problema delle misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione, abbiamo dovuto ammettere che l'art. 58 della legge belga del 1969 non ha un effetto di questo genere, la stessa conclusione deve valere anche per l'art. 86.

Ciò premesso, si deve concludere che neppure l'art. 86 consente di affermare l'inapplicabilità della citata norma belga.

5. 

Dopo di ciò, non rimane che l'interpretazione dell'art. 90, cioè il problema d'accertare se si possa parlare di imprese cui lo Stato riconosce diritti speciali od esclusivi con riferimento ai produttori o agli importatori di determinati prodotti cui viene concessa la facoltà di fissare i prezzi al consumo, nonché il problema di stabilire se la conservazione di tali diritti urti contro gli artt. 7 e 85-94 del trattato.

Anche su tale punto c'è abbondanza d'opinioni divergenti. Chi voglia procedere ad una trattazione sistematica, dovrà anzitutto affrontare l'eccezione secondo cui nel presente caso sarebbe assolutamente inutile interpretare l'art. 90. Detta disposizione — si obietta — non potrebbe essere applicata in quanto la disciplina dei prezzi contemplata dall'art. 58 costituirebbe parte integrante del regime fiscale belga in materia di tabacchi, per la cui valutazione varrebbero disposizioni speciali; inoltre occorrerebbe tener conto della mancanza d'efficacia diretta dell'art. 90 e quindi della sua irrilevanza per i procedimenti dinanzi ai giudici nazionali.

L'eccezione può essere controbattuta con un paio d'osservazioni. Per la sua prima parte è sufficiente un richiamo a quanto ho già esposto trattando dell'art. 30 del trattato CEE in relazione agli artt. 99 e seguenti. Circa la seconda parte, rimando alla giurisprudenza della Corte (sentenza emanata nella causa 155/73, Giuseppe Sacchi), da cui si evince chiaramente che in ogni caso l'art. 90, n. 1, se collegato con norme direttamente efficaci — e l'art. 86 è una di queste — ha senz'altro efficacia diretta.

Ciò premesso, se si medita quale significato occorra attribuire all'espressione «imprese, cui riconoscono diritti speciali od esclusivi», si constaterà che il termine «imprese» non presenta difficoltà. In effetti, poiché la dizione generica «imprese» viene subito dopo l'espressione «imprese pubbliche», è senz'altro lecito argomentarne che anche imprese private possono essere imprese ai sensi della suddetta norma.

Più difficile, in quanto il problema è assai controverso, risulta invece accertare se per la disciplina belga si possa comunque parlare di riconoscimento di diritti. In proposito, s'è detto che non esiste un diritto delle imprese di fissare prezzi vincolanti al consumo, essendo invece lo Stato che dichiara vincolanti tali prezzi. Le imprese avrebbero soprattutto degli obblighi, e precisamente l'obbligo di versare sulla base del prezzo di fascetta l'imposta sui tabacchi e l'imposta sul valore aggiunto, nonché quello di dichiarare gli aumenti di prezzo. Inoltre, non si tratterebbe affatto di diritti riconosciuti alle imprese per facilitare le loro operazioni commerciali, bensì di misure volte ad agevolare una particolare politica statale.

È controverso anche se, dando per scontato il riconoscimento di diritti, vada ammessa la concessione di diritti speciali. In proposito, è stato osservato che il problema va risolto confrontando fra di loro tutte le imprese del settore considerato fra le quali esista concorrenza, e non già tutti gli operatori economici. Procedendo in tal modo, non sarebbe possibile negare la validità della disciplina belga nei confronti di tutti i produttori e gli importatori di tabacchi manifatturati.

Su questo punto mi sembrano pertinenti le seguenti osservazioni.

In linea di principio, interpretando l'art. 90 non vanno dimenticati i motivi ispiratori di tale norma. Quest'ultima intende impedire che gli Stati aprano una breccia nel diritto comunitario influenzando coi propri mezzi le imprese ed agendo su di esse per giungere ad uno scopo contrario al trattato, che è vietato alle imprese stesse. Quanto siano disparate le relative possibilità d'azione a seconda della struttura economica e dell'organizzazione dei vari Stati risulta chiaro sfogliando le trattazioni scientifiche relative all'art. 90. In base ad esse, e dovendosi ogni deroga alle norme del trattato valutare in senso particolarmente restrittivo, per l'art. 90 va adottata, in linea di principio, un'interpretazione che invece di seguire pedissequamente la lettera della norma, tenga piuttosto conto delle sue finalità e si impronti allo sforzo di attribuire alla norma stessa il massimo di efficacia.

Da questo punto di vista, mi sembra del tutto lecito parlare nel caso di specie d'un riconoscimento di diritti ai sensi dell'art. 90. Decisiva è la considerazione che gli operatori economici interessati ottengano, anche se in concorso con una legge, l'eccezionale facoltà di fissare i prezzi e di imporne il rispetto ai dettaglianti, risultato che, in mancanza d'una legge, sarebbe raggiungibile solo mediante accordi. Irrilevante considero invece la circostanza che nel contesto della norma siano compresi anche degli obblighi — quello di versare le imposte e quello di dichiarare gli aumenti di prezzo — tanto più che tali obblighi possono venire facilmente separati dalle succitate facoltà. Altrettanto privo d'importanza è, a mio parere, lo stabilire quali interessi la norma tuteli e quali motivi la ispirino. Senza dubbio l'art. 90 sarebbe interpretato in senso troppo stretto e quindi privato di una parte della sua efficacia, se si tenesse conto solo di diritti garantiti nell'interesse delle imprese, senza che nel loro perseguimento abbiano alcuna parte obiettivi statali. Ciò contrasterebbe con la constatazione che è caratteristico dell'art. 90 il contemplare in tal modo l'azione congiunta di provvedimenti — e quindi anche di obiettivi — statali e dell'azione imprenditoriale. Perciò debbono qui essere posti in primo piano nella valutazione gli effetti sull'applicazione e sulla realizzazione delle norme del trattato.

È difficile infine negare — se nell'interpretazione dell'art. 90 si parte dalla premessa considerata — che la disciplina belga dei prezzi fissi nel settore dei tabacchi implichi la concessione di diritti speciali ai produttori ed agli importatori. A questo riguardo, il fatto che, nel settore della produzione e della distribuzione dei tabacchi, solo i produttori e gli importatori, cioè non tutti gli operatori economici interessati, abbiano la facoltà di fissare i prezzi, non può assumere importanza decisiva. L'approccio che, in tale contesto, prende in considerazione i singoli settori e mette in evidenza il problema della struttura della concorrenza nell'ambito d'un settore è, secondo me, sostanzialmente errato. La portata dell'art. 90 è ovviamente più estesa, come mostra il richiamo all'art. 7 e ad altre disposizioni del trattato estranee al diritto della concorrenza. Si deve quindi riconoscere che l'art. 90 trova applicazione anche quando un settore economico è del tutto monopolizzato e vengono creati diritti esclusivi a vantaggio di una sola impresa. Anche in questo caso si deve aver cura che non si producano, grazie ai provvedimenti statali, risultati che le imprese per conto proprio non potrebbero ottenere a norma del trattato.

Qualora, per la prima parte delle questioni, si accettino queste conclusioni, rimane ancora da risolvere il problema del se in base all'art. 90 sia già illegittima la semplice creazione d'un sistema di prezzi fissi. È questa l'opinione della INNO la quale, richiamandosi alla dottrina (cfr. ad es. Mestmäcker, Europäisches Wettbewerbsrecht, pag. 652), ha sostenuto che l'art. 90 entra in gioco quando a delle imprese viene consentito di sottrarsi alla concorrenza; non potendosi nel presente caso distinguere fra l'esercizio del diritto, da considerarsi illegittimo ai sensi del trattato, ed il suo riconoscimento, già il riconoscimento stesso andrebbe ritenuto illegittimo. S'oppongono a questa tesi coloro che, richiamandosi alla lettera dell'art. 90, affermano doversi distinguere fra creazione di diritti speciali ed ulteriori misure statali, in relazione alle quali occorrerebbe poi pure accertare se si debba trattare di provvedimenti individuali oppure possano essere presi in considerazione anche provvedimenti di carattere generale.

Circa quest'ultimo gruppo di problemi sollevati nel procedimento conviene, a mio parere, svolgere ancora le seguenti brevi osservazioni.

Alla tesi secondo cui già la semplice creazione di diritti speciali del tipo di quelli in esame urterebbe contro l'art. 90, s'oppone indubbiamente la lettera della norma. Per di più — si può osservare — la giurisprudenza ha già chiarito che il trattato non proibisce né la creazione di situazioni di monopolio, caratterizzate proprio dall'esclusione di qualsiasi concorrenza, né l'ampliamento di tali diritti esclusivi. Ciò appare con estrema chiarezza nella sentenza 155/73. Ritengo dunque che l'art. 90 non produca l'effetto di rendere illegittime le corrispondenti misure statali già nel momento in cui si concede alle imprese la possibilità di sottrarsi alla concorrenza.

Poiché nel presente caso non si discute tuttavia di ulteriori provvedimenti statali che vadano oltre la concessione di diritti, sembra senz'altro logico affermare — e ciò, senza che sia necessario accertare quale debba essere la natura dei provvedimenti statali — che anche dall'art. 90 non si evince alcun elemento atto a suffragare l'incompatibilità del regime di prezzi fissi con il trattato.

Questa conclusione negativa concernente l'art. 90 può inoltre ancora essere rafforzata da ulteriori riflessioni. Se si tien conto degli effetti non consentiti dal trattato, non si constata certo una violazione dell'art. 7, cioè del divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità. Basta in proposito rilevare che la disciplina dei prezzi fissi si applica senza distinzioni sia ai prodotti nazionali sia ai prodotti importati. Per quanto concerne poi le norme di concorrenza, cui si riferisce l'art. 90 — essendo gli artt. 92-94 chiaramente estranei al presente caso — è importante con riferimento all'art. 86 la circostanza che il provvedimento belga non influisce affatto sulla creazione d'una posizione dominante, per la quale assumono rilievo non solo la situazione giuridica, ma altresì fatti di natura economica. Non si può neppure sostenere che tale provvedimento influisca su eventuali abusi nella fissazione del livello dei prezzi. Non da ultimo, occorre poi ricordare che gli artt. 85 e 86 entrano in gioco solo di fronte ad un ostacolo al commercio fra gli Stati. Tuttavia ho già illustrato precedentemente in un altro contesto come di ciò non si possa parlare se si considerano soltanto gli effetti dell'art. 58 della legge belga.

Si può dunque concludere, anche in relazione all'art. 90, che tale norma non offre, neppure se interpretata in senso lato — interpretazione verso la quale io propendo per varie ragioni — la possibilità di dichiarare inapplicabile l'art. 58 della citata legge belga.

6. 

Sulla base di quanto finora esposto, propongo, per le questioni pregiudiziali sottopostevi dalla Cour de cassation belga, le seguenti soluzioni:

a)

Gli artt. 3 f), 5, 2o comma e 86 del trattato CEE non vanno interpretati nel senso che uno Stato membro non possa, mediante norme di legge, dichiarare vincolante, per i tabacchi manifatturati nazionali ed esteri, il prezzo al consumo fissato dal produttore o dall'importatore ed indicato sulla fascetta fiscale, purché venga garantita la possibilità di effettuare importazioni con fissazione autonoma del prezzo senza che ciò sia impedito da altri operatori commerciali o da una prassi seguita dall'amministrazione nella distribuzione delle fascette.

b)

Lo stesso vale per le norme comunitarie che vietano misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione.

c)

Si può parlare di imprese cui lo Stato riconosce, ai sensi dell'art. 90, diritti speciali od esclusivi anche quando lo Stato garantisce ai produttori o agli importatori di determinati prodotti mediante norme di legge, in base alle quali i prezzi fissati dai produttori o dagli importatori sono obbligatori per la vendita al consumo, la possibilità di fissare prezzi vincolanti al consumo. Tali norme vigenti nel settore dei tabacchi non contrastano né con l'art. 7 né con gli artt. 85-94 del trattato CEE, cui si riferisce l'art. 90.

d)

Dall'art. 5 della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 464, sulle imposte diverse dall'imposta sulla cifra d'affari gravanti sul consumo di tabacchi manifatturati non si ricava un divieto per gli Stati di emanare norme che rendano vincolante sia per i tabacchi manifatturati nazionali sia per quelli importati il prezzo al consumo indicato sulla fascetta fiscale, vietando dunque di vendere a maggior prezzo o a minor prezzo.


( 1 ) Traduzione dal tedesco.