CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE HENRI MAYRAS

DEL 2 MAGGIO 1972 ( 1 )

Indice

 

Introduzione — 

 

A — Gli antefatti

 

B — Il procedimento

 

C — L'impostazione dei problemi

 

Titolo I — Pratiche concordate ai sensi dell'art. 85, n. 1, del trattato di Roma e del diritto comunitario derivato

 

Sezione I — La nozione di pratica concordata

 

A — Distinzione tra accordi e pratiche concordate

 

B — La disciplina della pratica concordata nella legislazione anti-trust americana

 

C — Le discipline vigenti negli Stati membri della Comunità

 

D — Criteri per la definizione di pratica concordata nel diritto comunitario

 

Sezione II — Le teorie di parte

 

Sezione III — La concertazione

 

A — Il comportamento parallelo

 

B — Origine e motivi del comportamento parallelo

 

1. Le caratteristiche del mercato dei coloranti

 

2. Il parere degli esperti

 

3. Conseguenze deducibili dalle perizie

 

4. Argomenti tratti dalla teoria economica dell'oligopolio

 

C — La situazione nella quale si sono verificati gli aumenti di prezzo

 

1. Gli aumenti del 1965 e del 1967

 

— Elementi comuni

 

— obiezioni tratte dalla possibilità di considerare il fenomeno abuso di posizione dominante

 

— elementi del fascicolo

 

2. L'aumento del 1964

 

3. La prova della concertazione

 

Sezione IV — Il pregiudizio alla concorrenza

 

A — L'applicazione dell art. 85, n. 1 del trattato in caso di pratica concordata

 

B — Le conseguenze della pratica concordata sulla concorrenza

 

C — Posizione particolare della società ACNA

 

Sezione V — Incidenza sugli scambi tra gli Stati membri

 

Titolo II — Competenza della Commissione ad infliggere ammende a società aventi sede fuori del mercato comune

 

Sezione I — Le legislazioni e le giurisprudenze nazionali — Il diritto comunitario

 

Sezione II — Il diritto internazionale

 

1. Le condizioni per l'applicazione del criterio degli effetti sul territorio

 

2. I limiti dell'applicazione extraterritoriale del diritto delle intese

 

Titolo III — Mezzi di forma e di procedura

 

Sezione I — Instaurazione della procedura

 

Sezione II — Comunicazione degli addebiti

 

Sezione III — Audizione dei rappresentanti delle imprese interessate

 

Sezione IV — Processo verbale dell'audizione

 

Sezione V — Motivazione formale della decisione impugnata

 

Sezione VI — Pubblicazione della decisione impugnata

 

Titolo IV — L'ammenda

 

Sezione I — La prescrizione

 

Sezione II — La rilevanza dell'ammenda inflitta dalle autorità nazionali

 

Sezione III — L'importo dell'ammenda

Signor Presidente,

Signori Giudici,

Introduzione

A — Gli antefatti

Su segnalazioni pervenute da parte di varie associazioni di categoria d'industrie utilizzatrici di materie coloranti e dopo aver effettuato accertamenti presso i produttori e presso le loro filiali, la Commissione delle Comunità europee constatava che tra il gennaio 1964 e l'ottobre 1967 i prezzi dei prodotti di questo settore venduti nel mercato comune avevano subito tre aumenti generali ed uniformi:

Tra il 7 e il 20 gennaio 1964 la maggior parte dei coloranti a base di anilina aveva subito un aumento di prezzo del 15 % sul mercato italiano, sul mercato del Benelux e su alcuni mercati extracomunitari;

il 1o gennaio 1965 l'aumento di prezzo si estendeva alla Germania; alla stessa data quasi tutti i produttori hanno praticato, in questo paese come in quelli in cui si era già registrato l'aumento nel 1964, un nuovo aumento uniforme del 10 % sui prezzi dei coloranti e dei pigmenti, che l'anno precedente si era deciso di lasciare invariati. Tuttavia, di fronte al rifiuto della società ACNA di aumentare i prezzi sul mercato italiano, anche le altre imprese hanno rinunciato a praticare in Italia prezzi più alti;

verso la metà di ottobre 1967, quasi tutti i produttori aumentavano dell' 8 % i prezzi dei coloranti in Germania e nel Benelux.

Sul mercato francese, rimasto immune dagli aumenti del 1964 e del 1965, i prezzi furono aumentati del 12 %, mentre in Italia i prezzi rimanevano invariati per l'atteggiamento assunto dall'ACNA. Il 31 maggio 1967 la Commissione delle Comunità europee instaurava il procedimento previsto dal regolamento del Consiglio n. 17/62 nei confronti delle imprese che avevano praticato gli aumenti di prezzo, in quanto la loro politica era considerata dalla Commissione incompatibile con l'art. 85 del trattato di Roma. L'11 dicembre successivo la Commissione notificava alle imprese ch'essa riteneva responsabili di questa iniziativa di aumento sistematico dei prezzi, i capi d'accusa specifici di cui si faceva loro carico. Le società interessate presentavano le loro osservazioni scritte e, il 10 dicembre 1968, venivano ascoltati alcuni loro rappresentanti; il 24 luglio 1969 la Commissione adottava una decisione in applicazione dell'art. 15 del regolamento n. 17/62.

Ritenuto che gli aumenti di prezzo praticati tra il 1964 e il 1967 erano conseguenza di pratiche concordate, ai sensi dell'art. 85, n. 1, del trattato tra le seguenti società: Badische Anilin- und Soda-Fabrik (BASF), di Ludwigshafen, Cassella Farbwerke Mainkur AG, di Francoforte sul Meno, Farbenfabriken Bayer AG, di Leverkusen, Farbwerke Hoechst AG, di Francoforte sul Meno, Française des matières colorantes SA, di Parigi (Francolor), Azienda colori nazionali affini Spa (ACNA), di Milano, CIBA SA, di Basilea, J. R. Geigy SA, di Basilea, Sandoz SA di Basilea e Imperial Chemical Industries Ltd. (IO), di Londra, la Commissione infliggeva un'ammenda di 50000 unità di conto ad ogni società, ad eccezione dell'ACNA che veniva multata di sole 40000 u. c.

Con nove ricorsi distinti, le società di cui sopra, salvo la CIBA, hanno impugnato la decisione summenzionata.

B — Il procedimento

Una prima perizia è stata elaborata dai proff. Bombach e Hill su richiesta delle ricorrenti, una seconda dal prof. Kantzenbach su richiesta della Commissione, infine voi stessi, su proposta unanime delle parti processuali, avete incaricato i proff. Kloten e Albach, di redigere una terza perizia, nella quale sono trattati particolarmente i problemi sollevati nella vostra ordinanza dell'8 luglio 1970. Lo stesso giorno avete riunito le cause ai fini della perizia.

Dopo uno scambio di memorie scritte, molto voluminoso, e dopo discussioni orali di durata eccezionale, l'istruzione della causa è proseguita nel modo più minuzioso e più esauriente possibile, con la collaborazione di esperti internazionali, la cui autorità ed il cui valore intellettuale e morale sono di livello indiscutibile. Inoltre i dati del fascicolo dovrebbero esservi familiari; nel mio intervento ritengo superfluo riesaminare tutti i punti che il mio predecessore, l'avvocato generale A. Dutheillet de Lamothe aveva già studiato con la coscienza e con l'acume a voi ben noti.

Mi sia consentito rendere omaggio alla sua memoria presentando alla Corte le mie prime conclusioni.

C — L'impostazione dei problemi

Le controversie di cui ci occupiamo vertono essenzialmente su quattro questioni o categorie di questioni.

La prima è importantissima, in quanto la vostra pronuncia potrà svuotare di contenuto le altre questioni o potrà rendere invece necessario sviscerarle a fondo.

Si tratta di sapere se gli aumenti di prezzo lineari, effettuati nella stessa misura sul mercato dei coloranti nei paesi del mercato comune, tra il gennaio 1964 e l'ottobre 1967, siano o meno conseguenza di una o più pratiche concordate vietate dall'art. 85 del trattato di Roma e dal diritto comunitario cui esso ha dato origine.

Se darete risposta affermativa, sarà necessario pure:

1.

decidere — poiché mi pare non sia ancora stato fatto — se le imprese la cui sede principale è in territorio extracomunitario (come l'Imperial Chemical Industries, inglese, e la Geigy e la Sandoz, svizzere), possano venir colpite da sanzioni pecuniarie in applicazione del regolamento n. 17/62 in quanto hanno aderito a pratiche concordate anticoncorrenziali che esercitano i loro effetti all'interno del mercato comune.

2.

Stabilire se l'inosservanza di formalità o di garanzie sostanziali nel corso del procedimento amministrativo non ha inficiato il procedimento stesso e se quindi tali irregolarità non implichino la nullità delle sanzioni che ne sono scaturite.

3.

Dovrete poi ancora pronunciarvi sulle ammende inflitte e stabilire se, non essendovi prescrizione, istituto finora ignorato dal diritto comunitario, un certo lasso di tempo trascorso tra il momento in cui i fatti si sono verificati e il momento in cui la Commissione ha instaurato il procedimento mirante a reprimerli, non ha fatto sì che le pratiche ritenute illecite non fossero più perseguibili.

Ritengo che la vostra giurisprudenza precedente possa fornire alcuni elementi per la soluzione degli ultimi due punti.

Titolo 1

Pratiche concordate ai sensi dell art. 85, n. 1, del trattato di Roma e del diritto comunitario derivato

Sezione I

La nozione di pratica concordata

A —

Una della finalità essenziali del trattato di Roma è la realizzazione di un mercato unico, comune ai sei Siati membri, nel quale i produttori possano liberamente esercitare e sviluppare la loro attività ed i consumatori, dal canto loro, abbiano la possibilità di avvalersi di prodotti e di servizi prescelti in virtù del loro prezzo e della loro qualità. Onde garantire tale libertà, l'azione delle autorità comunitarie tende soprattutto alla «creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune» (art. 3 f) del trattato).

Sotto questo profilo l'art. 85 stabilisce che «sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni d'imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune ed in particolare quelli consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita . ..».

Riferendosi alle azioni o ai comportamenti che limitano la concorrenza, designati come «intese» nella terminologia tradizionale, l'art. 85 fa una triplice distinzione: gli accordi, le decisioni di associazione d'imprese e le pratiche con cordate; l'elemento comune alle tre categorie è la pluralità di partecipanti.

Trascurando la categoria «decisioni d'associazione d'imprese», estranea alla causa odierna, tenterò di distinguere le pratiche concordate dagli accordi.

In tutte le vostre pronunce, sia sull'applicazione che sull'interpretazione dell'art. 85, vi siete occupati finora soltanto di accordi tra imprese, cioè di contratti stipulati tra produttori o tra produttori e venditori, indipendentemente dalla forma o dalle strutture giuridiche di tali accordi, per i quali non si può prescrivere a priori una determinata forma di prova. Ad esempio possono rientrare in tali accordi i contratti d'esclusiva: sentenza 12 dicembre 1967 — causa 3-67 — Brasserie de Haecht, Raccolta 1967, pag. 4792; sentenza 30 giugno 1966, LTM-MBU — causa 56-65 — Raccolta 1966, pag. 261; sentenza 16 luglio 1966, Grundig — cause riunite 56 e 58-64 — Raccolta 1966, pag. 457; oppure gli accordi sulla fissazione dei prezzi e sulla ripartizione dei mercati: sentenze 15 luglio 1970, Chemiefarma, Buchler e Bòhringer — cause 41, 44 e 45-59 — Raccolta 1970, pagg. 661 e segg.

In quest'ultimo caso avete quasi definito la nozione di pratica concordata.

A proposito dell'intesa internazionale sul chinino, il vostro avvocato generale J. Gand si era posto la questione del se un documento non firmato, intitolato «gentlemen's agreement», avente lo scopo di estendere al mercato comune un accordo che fissa prezzi e quote di vendita e pone restrizioni all'esportazione, stipulato tra i principali produttori di chinino e di chinidina della Comunità per disciplinare i rapporti coi paesi terzi, doveva considerarsi in sostanza una pratica concordata. L'avvocato generale rispondeva negativamente all'interrogativo, però il fattore determinante della risposta negativa era il nesso troppo stretto tra il gentlemen's agreement e l'accordo formale in materia di esportazione nei paesi terzi, che non potevano venir dissociati l'uno dall' altro. Avete riconosciuto che «tale atto costituiva perciò la fedele espressione della comune volontà dei membri dell' intesa circa il loro comportamento nel mercato comune». In realtà ciò significa che il limite tra accordo e pratica concordata non si può definire nettamente proprio per l'estrema varietà di forme e di gradi della concertazione fra imprese.

Ciò significa però anche che la nozione di pratica concordata non è stata ancora esattamente definita dalla vostra giurisprudenza. Non sarebbe consono alla vostra linea di condotta vincolarvi anche per il futuro con una definizione generale ed astratta: la giurisprudenza si deve creare con le necessarie sfumature, progressivamente, man mano che le fattispecie vengono analizzate.

B —

Pur se non sarà di utilità immediata per la nostra giurisprudenza, è comunque opportuno vedere come gli indirizzi giurisprudenziali, all'interno e all'esterno del mercato comune, e le legislazioni nazionali hanno tentato di definire la nozione di pratica concordata. L'origine storica va ricercata nella «concerted action» del diritto anti-trust americano. La nozione di «conspiracy», contemplata dallo «Sherman Act» è stata infatti applicata ogniqualvolta è stata dimostrata l'esistenza di un'azione concordata di più imprese che perseguivano la stessa finalità contraria alla legge.

Nella causa Stati uniti contro Hamilton Watch Co. e nella causa Stati Uniti contro Elgin National Watch Co. (DC N.Y. 1942) 47 F. Supp. 524 è stato stabilito che non è necessario un accordo formale per dare origine ad un'intesa vietata (conspiracy). L'intesa può essere il risultato di un'azione concordata tra i partecipanti, che agiscono tutti insieme onde perseguire uno scopo comune.

Nello stesso senso vi è ancora la sentenza Wisconsin Liquor Co. Park and Tilford Distillers Corp. (CA-7; 1959) 1959 Trade Cases contro 69,363, secondo la quale si può ritenere che sussista un'intesa vietata, anche se non è prodotta la prova di un accordo formale o specifico. La giurisprudenza americana non dà una definizione della «Concerted Action», comunque sottolinea che vi deve essere un piano comune.

D'altra parte, la giurisprudenza precisa che, se un comportamento parallelo intenzionale non basta di per sè a far ammettere l'esistenza di un'infrazione allo «Sherman Act», tale comportamento può costituire una presunzione di fatto in base alla quale il giudice, tenendo conto di altri particolari della fattispecie, può concludere che sussiste una «conspiracy».

Ciò è avvenuto ad esempio nella causa Morton Salt Co. contro U.S. (CA-10; 1956) 1956 Trade Cases/68,412, nella quale il giudice ha affermato che, «pur se un comportamento parallelo non costituisce la prova irrefutabile di un'intesa o di una violazione dello Sherman Act, tale comportamento è un elemento di cui si deve tener conto e che in genere avrà grave peso nella valutazione».

Alcune sentenze sottolineano pure che il comportamento uniforme di varie imprese in materia di prezzi è generalmente un elemento di prova di portata piuttosto determinante.

Sotto questo aspetto rcorderò la sentenza Pittsburgh Piate Glass Co. contro U.S. (CA-4; 1958) 1958 Trade Cases/69,157: Un fabbricante di vetri aderisce ad un'intesa vietata (conspiracy) con cui si concordano i prezzi, se il «parallelismo cosciente» di tale fabbricante, che annuncia un aumento di prezzo identico a quello annunciato quasi simultaneamente dai suoi concorrenti, messo in relazione con gli apparenti stretti vincoli tra questo fabbricante e coloro che sono a capo dell'intesa, consente ragionevolmente di concludere che un'iniziativa del fabbricante è stata concertata con alcuni o con tutti i partecipanti.

Inoltre, nella causa Morton Salt, già citata, il giudice si esprime come segue: «il fatto che alcuni venditori mantengano rapporti amichevoli e vi sia una stabilità nella domanda di un determinato prodotto costituisce di per sé un'occasione favorevole ed un incitamento a concertarsi onde mantenere i prezzi ad un livello artificialmente sostenuto, vantaggioso per tutti».

Analoga è la sentenza Safeway Stores contro FTC (366 F 2 d 795 — 1966, Trade Cases/71,891), nella quale si afferma: «la dimostrazione che i panettieri si riunivano a livello di associazione e discutevano, tra l'altro, dei prezzi, posta in relazione con i successivi aumenti di prezzo identici è sufficiente a corroborare l'assunto della Federai Trade Commission, secondo cui i panettieri si sono accordati per determinare i prezzi».

Sarebbe però temerario operare un accostamento sistematico tra il diritto americano e il diritto comunitario. Infatti, la legislazione americana anti-trust, istituita dopo la fine del secolo scorso, ha un carattere preminentemente penale: è applicata dal giudice penale, e le prove devono essere prodotte attenendosi alle norme della procedura penale americana. La legge è pure molto rigida, in quanto parte dal presupposto generale — o almeno questa era l'idea del legislatore — che ogni intesa è nociva e quindi vietata. Indubbiamente la giurisprudenza ha mitigato questo rigore e, vista l'evoluzione delle strutture economiche, ha tentato d'introdurre una certa elasticità nell'applicazione della legge, cioè ha forgiato, ricalcando le orme del sistema pretorio, la nozione di «workable competition»; non bisogna comunque dimenticare che il regime d'oltre Atlantico parte da una concezione che, sotto parecchi aspetti, è diversa da quella adottata dal diritto comunitario. Il diritto comunitario, che ha soprattutto una funzione preventiva, è attuato dalla Commissione; pur se prevede misure repressive, come l'applicazione di sanzioni pecuniarie, il diritto comunitario rimane d'indole amministrativa e non si trasforma in diritto penale. Infine è caratterizzato da una maggiore elasticità, in quanto ammette deroghe al principio del divieto di intese. Nonostante queste divergenze, la giurisprudenza americana offre elementi di raffronto ed anche di riflessione, particolarmente utili per valutare le condizioni che consentono d'individuare una pratica concordata e messa in atto in un mercato di tipo oligopolistico.

C —

Tra le legislazioni nazionali dei paesi membri della Comunità, solo la legge francese ha finora espressamente accolto la nozione di pratica concordata. Disponiamo però finora solo di poche sentenze, quasi tutte relative agli accordi. La legge tedesca del 1957 dal canto suo non ha accolto questa nozione. All'evidente scopo di colmare in parte questa lacuna, il governo federale ha recentemente elaborato un disegno di legge comprendente alcune disposizioni miranti a rafforzare il controllo sull'abuso di posizione dominante contemplato al § 22 della legge e in cui si ricorre alla nozione di pratica concordata. Questo progetto stabilisce cioè che si presume che più imprese non si facciano concorrenza allorché esse seguono un'uniforme politica di prezzi per un periodo piuttosto lungo. Quindi un ripetersi di atteggiamenti paralleli in materia di prezzi costituirebbe un illecito abuso di posizione dominante, nozione che emerge nell'art. 86 del trattato di Roma. A questo proposito non potrete trarre gran giovamento da alcuna delle decisioni degli enti amministrativi o dei tribunali tedeschi competenti emanate nei confronti dei produttori tedeschi che sono attualmente parti processuali. Nella fase orale si è cercato d'invocare queste sentenze, vuoi con una finalità, vuoi con un'altra. Mi pare fatica sprecata, giacché, di fronte ad un ricorso dinanzi a voi vertente sull'art. 85 del trattato, i tribunali tedeschi si sono prudentemente astenuti dall'includere nelle loro motivazioni considerazioni che avrebbero potuto suscitare l'impressione di pregiudicare il problema sul quale dovete pronunciarvi.

D —

Se gli elementi d'informazione che si possono desumere dai diritti interni possono giovare all'esame della presente causa, non si possono comunque considerare più importanti del testo stesso dell'art. 85 del trattato, illustrato dalla vostra giurisprudenza e corredato dai commenti di cui è stato oggetto.

Anzitutto bisogna comprendere le ragioni della distinzione esplicita tra accordi e pratiche concordate operata dall'art. 85. Se si conferisse alla nozione di pratiche concordate un senso talmente limitato e talmente angusto da farne una sottospecie della nozione di accordo, si contravverrebbe indubbiamente ad un principio interpretativo generale cui vi siete sovente ispirati, l'opportunità cioè che ogni disposizione del trattato possa perseguire pienamente la sua finalità e mantenga inalterata la sua portata.

È vero che la pratica concordata deriva in realtà da un accordo che si concreta in una certa coordinazione del comportamento, tuttavia mi pare sia evidente che gli autori del trattato hanno costituito una categoria separata per evitare che i divieti dell'art. 85, in materia di azioni anticoncorrenziali, non possano venire elusi da imprese che, pur seguendo una politica comune, sulla falsariga di un piano prestabilito, potrebbero fare in modo da rendere irreperibile qualsiasi documento scritto che possa comprovare l'accordo.

Un interpretazione che tenga realmente conto della distinzione effettuata dall'art. 85, si rivela utilissima per dimostrare l'esistenza di una pratica concordata che, pur implicando una certa manifestazione di volontà delle imprese partecipanti, non può venire accertata con gli stessi metodi che servono per fornire la prova di un accordo esplicito. È pure necessaria la presenza di un elemento oggettivo, essenziale alla nozione di pratica concordata: mi riferisco al comportamento di fatto comune alle imprese partecipanti. Questa è la prima differenza fondamentale rispetto alla nozione di accordo, poiché, secondo la vostra giurisprudenza, l'accordo, una volta fornita la prova materiale e constatata la sua finalità di pregiudicare la concorrenza all'interno del mercato comune, cade sotto il divieto dell'art. 85 senza bisogno di ricercare l'effetto reale di detto accordo sulla concorrenza. La pratica concordata invece mi pare che non possa dissociarsi interamente, anche nella sua stessa concezione, dall'effetto reale ch'essa esercita sulle condizioni della concorrenza all'interno del mercato comune.

Tuttavia, la semplice constatazione di un comportamento comune parallelo o concordante di certe imprese sul mercato, non può certo bastare per poter definire una determinata iniziativa «pratica con cordata» a norma dell'art. 85, n. 1. È per di più necessario che tale comportamento non sia conseguenza, o per lo meno la principale conseguenza della struttura e delle condizioni economiche del mercato.

Si deve aggiungere che gl'interessati devono aver l'intenzione di agire di conserva e quindi è necessario che si riesca a stabilire un nesso logico tra questa intenzione comune ed il comportamento reale delle imprese. Diversamente da quanto avviene per gli accordi, questa comune volontà, a seconda dei casi, potrà desumersi dagli elementi che caratterizzano il comportamento delle imprese sul mercato, come ad esempio le istruzioni date ai rappresentanti, i rapporti con gli acquirenti, le modifiche delle condizioni di vendita, le decisioni prese simultaneamente a distanza di tempo più o meno breve, i contatti tra i dirigenti, ecc.

Sezione II

Le teorie di parte

Ciò premesso, vediamo che cosa intendono le parti per pratica concordata.

Nella decisione 24 luglio 1969, la Commissione ha arguito che vi è stata una concertazione negli aumenti di prezzo del 1964, 1965 e 1967, in quanto la percentuale dell'aumento era uniforme per tutti i produttori e per tutti i paesi, inoltre — salvo rare eccezioni — gli aumenti di prezzo riguardavano tutti gli stessi tipi di coloranti ed infine le modifiche dei prezzi sono avvenute alla stessa data o al massimo a qualche giorno di distanza. La Commissione ha ritenuto che questi indizi fossero sufficienti a far concludere che gli aumenti di prezzo potessero essere giustificati solo dalla particolare struttura del mercato dei coloranti e — forse in termini un po' bruschi — la Commissione ha dichiarato che «non è credibile che, senza un minuzioso lavoro di preparazione, i principali produttori che forniscono il mercato comune abbiano ripetutamente aumentato i loro prezzi, nella stessa misura e per una notevole gamma di prodotti, con sorprendente sincronismo e in vari paesi che presentano diverse caratteristiche di mercato». Quest'affermazione è corroborata da un elenco preciso di fatti e di circostanze nel cui ambito sono stati decisi, annunciati ed applicati gli aumenti di prezzo; inoltre vi è un riferimento al contenuto delle istruzioni impartite dai produttori alle filiali o ai rappresentanti su vari mercati, istruzioni che per la Commissione, relativamente all'aumento del gennaio 1964, presentano spiccate analogie. Infine la Commissione si richiama pure alla riunione di Basilea del 18 agosto 1967, alla quale erano presenti tutti i produttori interessati, eccezion fatta per l'ACNA. In questa riunione il rappresentante della Geigy ha annunciato la sua intenzione di aumentare i prezzi di vendita entro la fine del 1967. La decisione impugnata aggiunge che questi aumenti hanno avuto ripercussioni sui prezzi di vendita al pubblico in tutti i mercati, poiché la distribuzione dei coloranti sul mercato interno si effettua tramite i servizi commerciali degli stessi fabbricanti, sui mercati esteri i prodotti sono venduti tramite esclusivisti, strettamente vincolati alle istruzioni dei produttori. La Commissione conclude che tali pratiche hanno soffocato il gioco della concorrenza, ristretta così al campo della qualità o del servizio post vendita. Infine la Commissione rileva che tali pratiche concordate, i cui effetti si estendono a vari paesi del mercato comune, possono anche ripercuotersi sul commercio fra gli Stati membri.

Nella decisione impugnata si conclude affermando che la prassi costituisce una serie di pratiche concordate, vietate a norma dell'art. 85, desumibili dalle condizioni in cui gli aumenti di prezzo sono stati decisi e applicati e dal fatto che tali aumenti non possono giustificarsi solo in base alla struttura del mercato dei coloranti. Gli agenti della Commissione hanno confermato in udienza questa doppia motivazione, corredandola di ulteriori chiarimenti destinati a ribattere le affermazioni delle ricorrenti.

Le ricorrenti invece si basano essenzialmente sull'analisi del mercato oligopolistico dei coloranti per affermare che vi è stato soltanto un parallelismo nella linea di condotta dei produttori, giustificabile con le stesse condizioni di mercato; tale comportamento non potrebbe venir assimilato ad una pratica concordata. Esse ritengono che gli aumenti di prezzo sono conseguenza di decisioni adottate autonomamente da ogni impresa, dettate da esigenze economiche ed in particolare dalla necessità di migliorare il livello di una produzione scarsamente redditizia. L'identità delle percentuali si spiegherebbe in quanto i produttori che hanno maggior autorità nella determinazione dei prezzi, i price-leaders, sono inevitabilmente imitati nelle loro decisioni dalle altre industrie facenti parte dell'oligopolio.

Ecco in sintesi l'atteggiamento delle parti.

Sezione III

La concertazione

Vediamo ora i vari argomenti alla luce di questi due interrogativi:

vi è stato comportamento parallelo?

questo comportamento si spiega in base alle sole condizioni economiche del mercato oppure è il risultato di una politica concordata in materia di prezzi?

A — Il comportamento parallelo

Il primo sintomo tangibile di una pratica concordata è il comportamento simile, parallelo o concordante, delle imprese che vi partecipano.

Sotto questo aspetto, ì fatti descritti nella decisione impugnata sarebbero sufficienti nella fattispecie a provare che vi è stato un tale comportamento, che le stesse imprese non contestano, almeno in linea di principio. È pacifico infatti che sia nel 1964 che nel 1965, poi nel 1967, le imprese hanno deciso e poi applicato, a pochi giorni di distanza o addirittura nello stesso giorno, aumenti lineari di prezzo per una vasta gamma di prodotti e nella stessa percentuale relativamente ai coloranti che gli stessi produttori vendevano direttamente o tramite le loro filiali.

Le ricorrenti contestano solo alcuni particolari del testo della decisione impugnata, sostanzialmente vengono criticate alcune formalità: l'elenco dei coloranti aumentati di prezzo non corrisponderebbe esattamente alla realtà, la Commissione non avrebbe fedelmente descritto le condizioni per l'applicazione dell' aumento di prezzo agli ordini in corso. A parte queste divergenze, sulle quali tornerò poiché esse tendono a negare l'idea stessa di concertazione, è innegabile che vi è stato un parallelismo di comportamento che non costituisce una semplice coincidenza, anzi i fatti dimostrano nettamente che si è trattato di un'azione cosciente, intrapresa da vari produttori sugli stessi mercati. È dimostrato che sussiste il primo presupposto di una pratica concertata: il presupposto è necessario, ma non sufficiente.

B — Origine e motivi del comportamento parallelo

II secondo presupposto è la sussistenza di una certa volontà comune. Questo elemento non deve consistere in una manifestazione espressa e precisa di un concorso di volontà che si concreta in un vero accordo, cioè in uno strumento giuridico che crea obblighi e vincoli, ma ritengo che quanto meno si debba dimostrare:

da un lato, che il comportamento parallelo cosciente non è esclusivamente od anche principalmente dovuto alle condizioni economiche nè alla struttura del mercato:

d'altra parte, che se non vi è un concorso esplicito di volontà, presunzioni sufficientemente precise e concordanti consentono di formarsi il convincimento che il comportamento parallelo è stato il risultato di una concertazione, di una politica coordinata.

Tale concertazione può ravvisarsi anche se, nell'iniziativa e nella realizzazione di detta politica, alcune imprese hanno avuto un ruolo preponderante, mentre altre, che disponevano di mezzi d'azione chiaramente inferiori, si sono limitate ad aderire alla concertazione. Si deve dunque appurare se questi indizi o tali presunzioni sussistono nella fattispecie. Poiché l'art. 17 del regolamento n. 17/62 del Consiglio vi conferisce anche una competenza di merito in questo campo, potete conoscere di tutta la controversia, come giustamente osservava l'avvocato generale J. Gand nella causa del chinino (Raccolta 1970, pag. 707). La vostra facoltà di valutazione dei fatti non ha limiti, spetta a voi formarvi un convincimento per decidere se e come sia stato violato l'art. 85, n. 1. Voi non valutate i fatti in abstracto, ma — come risulta dalla vostra giurisprudenza — in funzione dei dati specifici del mercato di cui trattasi.

Per stabilire se vi è stata concertazione, si deve dunque tener conto da un lato delle caratteristiche del mercato dei coloranti, e, dall'altro, del complesso di indizi su cui si fonda la decisione impugnata, indizi confermati dall'esame del fascicolo.

1. Le caratteristiche del mercato dei coloranti

a)

Le ricorrenti vogliono giustificare la loro condotta in materia di prezzi invocando esclusivamente strutture e meccanismo del mercato dei coloranti. In effetti, i rappresentanti di dette industrie hanno talmente insistito su questo punto che si potrebbe forse avere l'impressione che le caratteristiche di detto mercato, nel quale l'offerta è controllata da un numero ridotto di produttori, siano tali che l'art. 85 del trattato non può venire applicato in questo settore particolare.

Tale conclusione sarebbe evidentemente inesatta. L'art. 85 si applica sia ai mercati oligopolistici che ai mercati più «atomizzati». Per contro, si deve ammettere che gli oligopoli non sono di per sé vietati dal trattato e l'art. 85 non deve indurre a imporre alle imprese, la cui attività si esercita su mercati di questo tipo, obblighi tali che impediscano agli interessati lo svolgimento della loro attività o che rischino di risolversi in una completa trasformazione delle strutture del ramo specifico.

b)

Ciò premesso, di quali elementi oggettivi si deve tener conto, specie tra quelli che si desumono dalla descrizione del mercato fatta dai proff. Kloten e Albach?

Sul mercato mondiale vi sono più di 300 fabbricanti che offrono materie coloranti e pigmenti, ma l'intero mercato è dominato da una dozzina di ditte.

Nel periodo che c'interessa, l'80 % del mercato europeo era nelle mani di 10 produttori, i quali, ad eccezione della Francolor, non producono solo coloranti, ma anche materie sintetiche, prodotti farmaceutici e fitofarmaceutici, prodotti chimici, come la Bayer, la Hoechst e la BASF; altre come l'ACNA o la Cassetta acquistano i prodotti intermedi presso grandi industrie chimiche.

Le strutture produttive presentano quindi notevoli differenze e perciò i costi di produzione sono anche differenti.

Il numero dei coloranti prodotti e considerevole: sul mercato ne esistono 6000 ed ogni impresa ne fabbrica da 1500 a 3500 e sovente acquista da produttori terzi i tipi che le mancano per completare la sua gamma di produzione.

Tra il 1956 e il 1966 sono stati immessi sul mercato oltre 2000 prodotti nuovi, che hanno sostituito i coloranti di cui è cessata la produzione.

Questi prodotti sono più o meno intercambiabili. Sotto questo aspetto si può fare una distinzione tra i coloranti standard, la cui intercambiabilità è pressoché totale, ed i coloranti speciali, per i quali l'intercambiabilità è pressoché nulla; però stabilire un chiaro confine tra questi due tipi di coloranti è impresa assai ardua.

Le tecniche produttive sono tali che in genere sono necessarie almeno dieci trasformazioni chimiche per fabbricare materie coloranti partendo dai prodotti di base, prova ne sia che il ciclo di produzione giunge a 13 — 12 mesi.

Nella produzione, infine, i quantitativi messi in lavorazione vanno da 500 a 5000 kg, mentre la media degli ordini è di 50 kg. La domanda è aumentata rapidamente e notevolmente: dal 1958 al 1968 la vendita dei coloranti è quasi raddoppiata (indice 100 nel 1958 e 198 nel 1968). Tale richiesta è molto differenziata sia in funzione dei prodotti e dei mercati nazionali, che delle categorie di acquirenti. Il complesso delle richieste è fortemente determinato dall'espansione del settore tessile e, in misura minore, dall'espansione dell'industria delle vernici e delle lacche nonché dall'espansione della lavorazione delle materie sintetiche. I produttori forniscono contemporaneamente il loro mercato interno ed alcuni mercati esteri, ma la loro situazione non è uniforme. Alcuni, come gli svizzeri e i tedeschi, esportano il 75 — 90 % della loro fabbricazione, mentre francesi ed italiani vendono poco all'estero.

Sara utile rilevare che, secondo le statistiche delle esportazioni, i produttori forniscono i coloranti alle loro filiali e ai loro agenti all'estero, i quali prestano l'assistenza tecnica alla clientela locale.

Particolarmente ì clienti del ramo tessile e del ramo conciario, che devono seguire fedelmente l'evoluzione della moda, hanno mostrato maggior interesse per la rapidità e la sicurezza degli approvvigionamenti nonché per le prestazioni d'assistenza tecnica su cui possono contare più che per il livello dei prezzi. Tale preferenza non è così marcata per le altre categorie di acquirenti, come i fabbricanti di lacche e vernici.

Tenuto conto dell incidenza piuttosto debole del prezzo dei coloranti sui prodotti finiti, specie dei tessili, l'elasticità della domanda complessiva è molto ridotta. Ciò però non impedisce che i vari fornitori siano in concorrenza tra di loro, concorrenza facilitata dal fatto che non esistono listini ufficiali pubblicati per tutto il mercato, ma solo tariffe interne convenute per ogni mercato tra produttore e distributori.

Ogni ditta fa concessioni di prezzo praticando sconti, specie ai clienti che effettuano gli acquisti più consistenti, i venditori cercano di attirare la clientela più importante offrendo vantaggiose condizioni di fornitura. Le caratteristiche della politica dei prezzi si spiegano anche con la varietà di servizi che ogni venditore offre ai suoi clienti. Questi particolari mettono bene in risalto la debole trasparenza del mercato circa i prezzi effettivi delle materie coloranti, debole trasparenza che è inevitabilmente vincolata alla prassi di «limatura dei prezzi», seguita dai venditori. Tale politica può offrire seri vantaggi commerciali solo se i concorrenti non si rendono conto delle concessioni fatte alla clientela oppure se si astengono dal prendere provvedimenti di ritorsione.

Sempre in materia di prezzi, gli esperii da voi designati hanno sottolineato che i prezzi effettivi dei coloranti variano molto non solo da un anno all'altro, ma anche da un paese all'altro (cfr. tabelle 5 e 6).

Infine, sotto l'aspetto dell andamento della congiuntura, si può notare una tendenza generale allo sgretolamento dei prezzi dei coloranti ed è indubbio che verso il 1963 — 1964 questa situazione preoccupava assai il complesso dei produttori ed ha avuto un influsso determinante nella decisione di aumentare tutti i prezzi.

Gli esperti di parte non hanno contraddetto le constatazioni dei proff. Kloten e Albach che si possono così riassumere:

il mercato dei coloranti è un mercato oligopolistico controllato da pochi produttori;

è un mercato imperfetto, eterogeneo, proprio per la grande varietà di prodotti che vi sono offerti;

si tratta di un mercato chiuso, «cementato», come afferma il prof. Kantzenbach;

è un mercato nel quale il cliente non tratta direttamente col produttore, eccezion fatta per i produttori nazionali; l'acquirente non ha contatti con i produttori stranieri, ma solo con le loro filiali, rappresentanti od agenti;

è infine un mercato sul quale in pratica non vi è trasparenza in materia di prezzi.

2. Il parere degli esperti

a)

Pur partendo da considerazioni pressoché identiche, gli esperti giungono a conclusioni diametralmente opposte. I proff. Bombach e Hill ritengono che la simultaneità degli aumenti dipende dalla struttura particolare del mercato ed aggiungono che, in un mercato imperfetto, i prezzi non costituiscono un elemento determinante poiché l'assistenza alla clientela e le condizioni di fornitura hanno un'importanza tutta particolare; la struttura dei prezzi ritroverebbe così la sua elasticità, anche dopo gli aumenti uniformi, grazie alla concorrenza che continua a sussistere sul mercato.

Per contro il prof. Kantzenbach approva la conclusione della Commissione secondo la quale gli aumenti si spiegano solo con un'azione concertata tra le imprese e conclude il suo rapporto come segue: «All'interno della Comunità europea i venditori di materie coloranti si fanno una concorrenza oligopolistica su vari mercati ben distinti; poiché questi mercati sono imperfetti, non vi è obbligo di sorta di seguire un comportamento uniforme in materia di prezzi».

Le conclusioni degli esperti designati dalla Corte m'inducono a proporvi di accogliere la tesi secondo cui gli aumenti di prezzo in questione non sono giustificabili in base alle strutture ed ai sistemi di questo mercato.

b)

Ai proff. Kloten e Albach avete rivolto tre domande:

In primo luogo avete chiesto se, tenuto conto delle caratteristiche del mercato dei coloranti della Comunità economica europea, specie nel periodo 1964 — 1967, sarebbe stato possibile, secondo i criteri commerciali normali per un produttore che agisce in modo autonomo, e che avrebbe avuto interesse ad aumentare i suoi prezzi, seguire un criterio diverso dall'aumento generale, uniforme e pubblico, stabilendo percentuali diverse a seconda dei clienti con cui trattava e a seconda dei prodotti venduti.

A questa domanda gli esperti nanno ciato risposta affermativa, sostenendo che un produttore che agisce in modo autonomo, secondo normali criteri commerciali avrebbe potuto, in linea di massima, aumentare i prezzi in modo diverso a seconda dei clienti e dei prodotti. Quello che però mi ha colpito, è l'affermazione che in pratica un produttore avrebbe potuto aumentare i prezzi in modo diverso, ma vorrei osservare che l'aumento medio dei prezzi che un produttore in questo modo avrebbe potuto effettuare «sarebbe stato probabilmente inferiore all'aumento medio conseguente ad un rialzo dei prezzi generale ed uniforme».

Avete poi chiesto agli esperti quali vantaggi e quali svantaggi possono derivare da un aumento generale e lineare dei prezzi rispetto ad un aumento differenziale.

A questa seconda questione gli esperti hanno risposto che, se un aumento generale e lineare implica possibilità e rischi sia per il produttore che prende l'iniziativa dell'aumento, che per coloro che vi si devono allineare, in definitiva i vantaggi derivanti da un aumento generale ed uniforme dei prezzi sarebbero stati superiori agli inconvenienti.

Questa risposta mi pare ancor più significativa della prima.

Meno interessante è la terza questione circa la maggiore o minore sostituibilità dei coloranti diversi dai coloranti speciali. Come gli esperti, anch'io penso che tale distinzione non sia molto utile per valutare gli elementi di fatto della controversia. La sostituibilità dei prodotti mi pare infatti un elemento secondario in un mercato in cui la domanda è fortemente differenziata e nel quale soprattutto vi è un isolamento territoriale conservato dai produttori, che difficilmente consente agli utilizzatori di un paese di rivolgersi con facilità ai venditori di un altro paese per fruire di prezzi più vantaggiosi, anche su prodotti intercambiabili.

3. Conseguenze deducibili dalle perizie

Come si devono giudicare queste conclusioni, piuttosto sfumate? Ho l'impressione che non bastano le caratteristiche del mercato dei coloranti per giustificare gli aumenti di prezzo uniformi registrati nel periodo litigioso.

Senza voler concludere, come fa la Commissione, che questi aumenti devono at tribuirsi unicamente ad una concertazione, si può comunque ammettere che:

la struttura del mercato non imponeva affatto questi aumenti uniformi, mentre invece le esigenze della concorrenza tra i venditori, ammesso che tale concorrenza si fosse svolta liberamente, li avrebbero indotti a praticare, individualmente, aumenti di prezzo diversi;

l'interesse dei produttori giustifica invece il fatto che essi abbiano deciso e praticato aumenti nella stessa misura per tutti i prodotti offerti, obbligando quindi filiali e rappresentanti a riversare le maggiorazioni sulla clientela. Quest'interesse, come vedremo, risiede essenzialmente nel fatto che, tenuto conto dell'isolamento dei mercati nazionali in Europa e specie nella Comunità, praticando un aumento uniforme, i produttori avrebbero avuto il vantaggio di non sconvolgere un equilibrio ed in realtà una ripartizione geografica cui l'istituzione del mercato comune avrebbe dovuto por termine.

4. Argomenti tratti dalla teoria economica dell'oligopolio

Prima d'abbandonare il terreno dell'economia e per esaminare a fondo tutti gli argomenti esposti dalle ricorrenti su questo punto, analizzerò alcuni argomenti ch'esse pensano di poter trarre da un rapporto stretto e, per così dire necessario, tra la forma oligopolistica del mercato ed il parallelismo del loro comportamento. Per le ricorrenti tale parallelismo sarebbe normale ed addirittura tipico dell'oligopolio. La Commissione replica, a ragione, che tale tesi non tiene conto delle particolarità del mercato in questione.

Gli oligopoli, a giudizio di quasi tutti gli economisti, presentano un funzionamento caratterizzato da un parallelismo intenzionale; i produttori che vi operano sono rigorosamente interdipendenti, cosicché nessuno di loro può prendere una decisione in materia di concorrenza e più specialmente in materia di prezzi senza che tale decisione abbia ripercussioni sugli altri, che di fronte a tale atteggiamento devono automaticamente reagire.

In questa situazione il price-leader deciderà di praticare un aumento solo se potrà logicamente prevedere che i suoi concorrenti saranno indotti ad allinearsi al nuovo prezzo. Tale interdipendenza sussiste — stando alla dottrina economica — solo nei mercati che, indipendentemente dai criteri stabiliti degli oligopoli, presentano due caratteristiche fondamentali:

omogeneità dei prodotti e trasparenza del mercato per quanto riguarda i prezzi. Ciò è impossibile nel mercato dei coloranti, caratterizzato da una grande varietà di prodotti la cui sostituibilità è in effetti piuttosto ridotta e nel quale in pratica non vi è trasparenza di prezzi.

Passando dalla dottrina alla giurisprudenza, si rileva che la nozione di comportamento parallelo cosciente è stata accolta, salvo eccezioni giustificabili con considerazioni del tutto particolari, solo nell'ipotesi di mercati caratterizzati dalla produzione o dalla vendita di prodotti omogenei, come petrolio, legname, sale, cemento, tabacco, ecc.. .

American Columnand Lumber, ref. 257 US 377 (1921)

Socony Vacuum, ref. 310 US 178 (1940)

American Tobacco, ref. 328 US 781 (1946)

Cement Institute, ref. 333 US 683 (1948)

Morton Salt, ref. 235 F. 2 d 573 (10th Cir. 1956)

Gulf Oil, ref. 164 A. 2 d 656 (1960)

Si tratta indubbiamente di decisioni della magistratura americana cui mi richiamo solo a titolo di raffronto per l'esame della presente controversia; comunque, tenuto conto della materia che stiamo esaminando, tali sentenze possono avere la loro importanza.

A tali considerazioni voglio aggiungere un'osservazione:

La tesi secondo cui una modifica dei prezzi generale ed uniforme può giustificarsi con la coercizione esercitata sul mercato oligopolistico può apparire convincente se si tratta di una diminuzione di prezzo; in caso di aumento la coercizione del mercato non ha la stessa efficacia. Gli esperti hanno ammesso che sarebbe stato possibile effettuare aumenti differenziati. La BASF l'ha implicitamente ammesso nella lettera indirizzata al Bundeskartellamt il 13 ottobre 1967: «Sotto il profilo del calcolo del prezzo di costo, nell'ottobre 1967 sarebbe stato necessario un aumento maggiore (dell' 8 %)».

Nello stesso modo, la logica del sistema di coercizione oligopolistica descritto dai periti — secondo il quale su un mercato il produttore che prende l'iniziativa giunge a dominare la maggior parte del mercato — implicherebbe che tocca sempre all'impresa più forte sul mercato, ed in primo luogo sul mercato nazionale, assumere l'iniziativa di praticare gli aumenti. In un caso almeno, nel 1964, non è stata l'ACNA, industria italiana, a prendere l'iniziativa di aumentare i prezzi in Italia, ma la Ciba, mentre l'ACNA si allineava soltanto in seguito. Ciò dimostra che, se in un mercato oligopolistico un allineamento comune verso il basso si spiega nella maggior parte dei casi con un comportamento parallelo senza concertazione, vi sono invece seri dubbi che un allineamento parallelo verso l'alto, specie allorché l'aumento è notevole, possa spiegarsi escludendo la possibilità di una concertazione tra le ditte interessate.

C — La situazione nella quale si sono verificati gli aumenti di prezzo

In definitiva, non penso che le caratteristiche del mercato dei coloranti possano fornire una giustificazione razionale e soddisfacente. Per contro, la pratica concordata risulta chiaramente dall'analisi della situazione che ha portato agli aumenti di prezzo.

1.

Esaminando gli ultimi due aumenti, si desume ch'essi presentano vari punti comuni: il sistema adottato è lo stesso.

a)

Anzitutto un produttore rende nota la sua intenzione di aumentare linearmente i prezzi su uno o più mercati nazionali applicando una determinata percentuale ad una gamma altrettanto determinata ed estesa di prodotti. La BASF ha seguito questa politica nel 1965 e la Geigy nel 1967. Il fatto che l'entrata in vigore dell'aumento non sia immediata (dilazione di due mesi nel 1967) o non sia precisata, conferisce a confermare l'impressione che il price-leader intendesse concedere agli altri produttori un certo periodo di riflessione.

b)

In seguito le altre ditte sono messe al corrente dell'iniziativa, che è resa nota alle filiali, ai clienti e a tutti gl'interessati con altri mezzi. La diffusione della notizia non mi pare sia stata contestata.

c)

Nella maggior parte dei paesi del mercato comune i produttori impartiscono le istruzioni necessarie per mettere in pratica l'aumento, che viene applicato alla stessa data, sia nel 1965 che nel 1967.

Se invece su un mercato uno dei produttori rifiuta di allinearsi, come ad esempio l'ACNA in Italia nel 1965-1967, gli altri rinunciano a mettere in atto il loro progetto su quel mercato. Quindi il produttore che determina il prezzo prende la sua decisione e la rende nota: talvolta le altre ditte aderiscono all'iniziativa, talvolta l'iniziativa incontra un rifiuto totale o parziale; la possibilità di rifiuto non è esclusa dai concorrenti, che si comportano di conseguenza.

senza esaminare una simile operazione sotto il profilo delle norme che disciplinano i contratti, giacché nel nostro caso non si tratta di accordo, ritengo che in ogni caso questo atteggiamento implica la convergenza di più volontà: la volontà del price-leader, che non è una manifestazione di volontà prettamente unilaterale, giacché la messa in atto della sua decisione è subordinata all'accettazione degli altri produttori e poi vi è la manifestazione di volontà delle ditte che aderiscono all'iniziativa, almeno tacitamente, oppure vi fanno opposizione ed ostacolano la realizzazione del progetto o quanto meno limitano la portata dei suoi effetti.

Questi presupposti mi paiono sufficienti per definire una «concertazione» ai sensi del n. 1 dell'art. 85. Se fosse necessaria una manifestazione di volontà più evidente, più esplicita, si finirebbe per non tenere più conto della distinzione che il trattato intende fare tra accordo e pratica concordata. In pratica ciò equivarrebbe a non attribuire alla nozione di concertazione l'accezione realista che invece mi pare opportuno attribuirle. La concertazione non è un accordo, essa non si concreta in un documento che stabilisce gli impegni reciproci delle parti. D'altro lato essa non è nemmeno una «cospirazione» organizzata metodicamente nel corso di riunioni nelle quali trovano libera espressione le opinioni divergenti oppure vengono commisurati i rispettivi interessi. La concertazione può consistere — e la fattispecie è un esempio tipico — in un comportamento comune, ma coordinato, alla cui base stanno decisioni apparentemente unilaterali, la cui esecuzione è però subordinata all'adesione dei partecipanti.

A questa teoria si possono certo opporre obiezioni ed il prof. Von Simson lo ha fatto brillantemente in udienza su sollecito delle ricorrenti.

Se si tenesse conto soltanto dei rapporti tra il price-leader da una parte e gli altri produttori dall'altra, si qualificherebbe come concertazione una serie di rapporti bilaterali che, in un mercato oligopolistico, trovano la loro naturale spiegazione nell'interesse specifico di ogni impresa, soggetta alle esigenze del mercato ed al prevalente influsso del price-leader. Qualcuno afferma che una simile operazione potrebbe sfociare in un abuso di posizione dominante da parte del price-leader, come contemplato dall'art. 86 del trattato, comunque non costituisce una pratica concordata vietata dall'art. 85. Questo articolo non ritiene sufficiente una semplice adesione alla decisione di un produttore, ma richiede espressamente una vera e propria concertazione tra tutti i produttori.

L'obiezione del prof. Von Simson non mi pare fondata. Se il price-leader stipulasse un accordo vero e proprio con tutti gli altri produttori, ognuno dei quali esprimesse in chiari termini la sua adesione all'iniziativa, nessuno potrebbe dubitare che un simile accordo bilaterale, anche se restasse isolato, sarebbe tale da giustificare l'applicazione dell'art. 85, n. 1 senza dover indagare se siano stati stipulati altri accordi analoghi, nè se si siano stabiliti rapporti tra le parti contraenti.

È logico pretendere di più per una pratica concordata che per un accordo vero e proprio?

in secondo luogo l'obiezione ratta alla mia tesi varrebbe — e ciò si spiega con l'indirizzo generale degli argomenti esposti dalle ricorrenti — solo nell'ipotesi di un mercato oligopolistico di tipo classico, che comporta cioè una stretta interdipendenza tra produttori di prodotti omogenei. Come abbiamo visto, l'analisi del mercato dei coloranti porta a concludere che le caratteristiche specifiche di questo mercato non coincidono più, in vari punti, con lo schema tipico dell'oligopolio. È curioso constatare che nel 1965 e nel 1967 l'iniziativa dell'aumento non è sempre partita dalla stessa società: la prima volta è stata presa dalla BASF e la seconda volta dalla Geigy. Sarebbe quindi naturale pensare che l'iniziativa della decisione in materia di prezzi è stata studiata in modo che i vari produttori si alternassero alla guida delle operazioni. Tale manovra, se fosse provata, costituirebbe una indiscutibile concertazione, ma la prova non è stata fornita. Questo alternarsi delle varie ditte alla guida del mercato non sarebbe invece dovuto al fatto che l'isolamento dei mercati nazionali fa sì che diventi price-leader una delle imprese che hanno una forte esportazione sui mercati vicini, come ad esempio la BASF e la Geigy?

indubbiamente, sia la prima che la seconda ipotesi non sono adeguatamente corroborate dalla documentazione contenuta nel fascicolo, però ritengo la seconda ipotesi più verosimile in quanto meglio si inquadra nell'impostazione generale della controversia.

Comunque sia, non siete obbligati a condividere questo punto di vista a meno che non riesca a convincervi che già il meccanismo degli aumenti del 1965 e del 1967 rivela che vi è stata una concertazione. Se su questo punto nutrite ancora dubbi, la particolare situazione che funge da sfondo a questi aumenti fornisce indizi eloquenti. Per l'aumento del 1967 gli indizi sono più numerosi e più concordanti. Il 18 agosto 1967, presso la sede della Sandoz a Basilea si sono riuniti i rappresentanti di tutte le società ricorrenti, era solo assente l'ACNA. Non possediamo relazioni dettagliate su tale riunione, ma un punto è assodato: il delegato della Geigy ha annunciato l'intenzione della sua società di aumentare il prezzo dei coloranti solubili a base di anilina prima della fine dell'anno e si arguisce dalla documentazione del fascicolo che tale intenzione è stata espressa in termini precisi; si trattava di un aumento dell'8 % che sarebbe stato praticato dal 16 ottobre 1967.

I delegati della Bayer e della Francolor hanno annunciato che anche le loro ditte intendevano aumentare i prezzi.

Nulla prova formalmente che tali dichiarazioni siano state seguite da una deliberazione nella quale siano stati assunti impegni reciproci. Pare tuttavia poco verosimile che la questione non sia stata nemmeno discussa in un momento in cui il problema del prezzo dei coloranti e del rendimento delle imprese preoccupava seriamente tutte le ditte produttrici.

Subito dopo la riunione di Basilea, per ogni ditta inizia un periodo di febbrile attività per mettere in pratica gli aumenti previsti. I rappresentanti delle singole ditte riferiscono alle loro direzioni i risultati dei colloqui di Basilea; tuttavia due casi specifici si erano risolti nel frattempo: la Francia aveva istituito il controllo dei prezzi, quindi la Francolor non ha potuto praticare aumenti nel 1964-1965, ragion per cui decise di praticare un aumento supplementare del 4 %, che veniva a cumularsi con quello generale dell'8 %, onde rifarsi di quanto non aveva realizzato negli anni precedenti; in Italia il mercato era in fase di recessione, quindi l'ACNA si era opposta ad un aumento, che tuttavia era disposta a praticare sugli altri mercati ed in particolare in Belgio e in Francia.

L'aumento dell' 8 % che originariamente era stato previsto per tutti i mercati della Comunità ha quindi subito adeguamenti per il mercato francese e per il mercato italiano. Pare che anche la BASF, che in un primo tempo avrebbe desiderato praticare un aumento superiore, abbia infine consentito a rispettare la percentuale dell'8 %.

Comunque, il 19 settembre 1967, tutte le ditte presenti al convegno di Basilea, del mese precedente, annunciano un aumento dell'8 % a decorrere dal 16 ottobre 1967, aumento che per Francolor raggiunge il 12 %.

Ad eccezione dell'Italia, su quasi tutti i mercati l'aumento viene applicato a decorrere dalla data annunziata a Basilea e confermata il 19 settembre.

Questo sincronismo ìmpeccabile nelle operazioni è difficilmente giustificabile con un semplice scambio di informazioni, che comunque le ditte interessate non contestano. A mio avviso questa operazione non avrebbe potuto essere cosi perfetta senza una vera e propria concertazione.

La situazione offre indizi che consentono di affermare che concertazione vi è stata, non solo tra la Geigy e le altre ditte singole, ma anche tra le stesse ditte, sia circa le decisioni da prendere a seguito della dichiarazione d'intenzioni del price-leader, sia quanto alle modalità per aderire ad una simile decisione.

Sotto questo aspetto l'esempio dell'Italia è significativo. Poiché l'ACNA ha rifiutato di praticare l'aumento, il mercato italiano non ha fatto registrare variazioni di prezzo e le altre imprese hanno tenuto in debito conto tale rifiuto, per contro l'ACNA ha aumentato i suoi prezzi in Francia e in Belgio.

L'aumento del 1965 ha avuto la funzione di estendere alla Germania l'aumento apportato ai prezzi nel 1964, nonchè di aumentare del 10 % il prezzo dei prodotti che nel 1964 non avevano subito aumenti, cioè in sostanza i prezzi dei pigmenti non solubili. Le modalità di applicazione dell'aumento del 1965 presentavano grande analogia con le modalità seguite per l'aumento del 1967.

Il 14 ottobre 1964, cioè con notevole anticipo, la BASF preannunciava l'aumento, seguita dalla Bayer il 30 ottobre e dalla Cassella il 5 novembre. L'aumento è deciso ed entra in vigore solo dopo un periodo comparabile a quello che nel 1967 è trascorso tra la riunione di Basilea e l'effettiva applicazione dell'aumento; per tutte le società infatti la decisione è adottata il 28 dicembre ed avrebbe esercitato i suoi effetti dal 1o gennaio 1965. Durante i mesi di novembre e di dicembre sono state risolte due difficoltà: anzitutto l'opposizione dell'ACNA ha fatto sì che il mercato italiano fosse risparmiato una prima volta dagli aumenti che si pensava effettuare sugli altri mercati, in secondo luogo il blocco dei prezzi in Francia ha impedito l'applicazione di ogni aumento in questo paese.

Come nel 1967, la sincronizzazione è stata perfetta, non vi è alcuna differenza nel modo in cui l'aumento è stato applicato. Quindi, per motivi analoghi a quelli già esposti, penso che l'aumento del 1965 sia effetto di una concertazione non dissimile da quella del 1967.

2. L'aumento del 1964

Non ho seguito l'ordine cronologico degli aumenti, in quanto nel fascicolo i dati relativi agli aumenti successivi sono decisamente superiori a quelli concernenti l'aumento apportato nel 1964. Conosco soltanto le condizioni in cui è stato applicato l'aumento, tra il 13 e il 20 gennaio; so pure che l'iniziativa è partita dalla Ciba, che probabilmente alla fine del 1963 o all'inizio del 1964 ordinava alla sua filiale italiana di aumentare i prezzi del 15 % per la maggior parte dei coloranti a base di anilina: eccezion fatta per alcuni prodotti, specie per i pigmenti.

Per contro, non so quando e in che circostanze il price-leader ha annunciato l'aumento e non so quali siano state le reazioni degli altri produttori; mi risulta che i produttori abbiano aderito all'iniziativa, salvo sui mercati tedesco e francese.

Non si può quindi affermare che per questa prima operazione, si fosse già messo in azione il sistema che ha poi servito per i successivi aumenti.

L'insufficienza delle informazioni non mi consente comunque di escludere che nel 1964 vi sia stata una concertazione. Sottolineo di sfuggita che la lacuna del fascicolo è evidente conseguenza del fatto che allora la Commissione non era ancora stata avvertita e quindi non aveva potuto assumere informazioni. Allorché in un secondo momento si sono iniziate operazioni di controllo, sarebbe stato molto difficile riuscire a reperire gli indizi di una concertazione che si può supporre elaborata negli ultimi mesi del 1963.

Tenterò quindi di convincervi basandomi unicamente sui dati di fatto citati nel fascicolo.

Quali sono tali dati di fatto?

Circa le date di entrata in vigore dell aumento, è assodato che il 7 gennaio la Ciba Italia applicava con decorrenza immediata, un aumento del 15 % sui prezzi dei coloranti a base di anilina diversi dai pigmenti, dei coloranti alimentari e dei cosmetici. La reazione degli altri produttori si faceva attendere due o tre giorni: il 9 gennaio la ICI Olanda annunciava ed applicava l'aumento. La sera del 9 tutti gli altri produttori ordinavano alle loro filiali ed ai loro rappresentanti di aumentare i prezzi sul mercato italiano. Lo stesso giorno la Bayer imponeva alla filiale belga di aumentare i prezzi degli stessi prodotti nella stessa misura a partire dal 10 gennaio successivo. Anche l'ACNA decideva di aumentare i prezzi in Italia dal 10 gennaio, il 13 gennaio l'aumento veniva esteso al mercato belga. Il 13 gennaio la Sandoz Svizzera inviava alla Sandoz Italia le istruzioni per applicare l'aumento, già preannunciato in una comunicazione del 9 gennaio.

Circa le modalità: i prezzi sono stati aumentati nella stessa misura; in pratica l'aumento è stato applicato agli stessi prodotti. Vi sono state alcune piccole differenze, sottolineate dalla Bayer e dalla Geigy, sia nella gamma di prodotti soggetti all'aumento, sia nelle modalità di applicazione dell'aumento nei confronti dei clienti, tuttavia tali diversità non hanno molta rilevanza e non possono far sorgere fondati dubbi circa il chiaro parallelismo, talvolta persino sorprendente, tra le istruzioni che alcune ditte hanno impartito alle loro filiali o ai loro rappresentanti. La Commissione sostiene che tali istruzioni costituiscono una delle prove più evidenti della concertazione. Non condivido appieno questo modo di vedere, comunque ammetto che la concordanza quasi letterale di alcune di tali comunicazioni inviate per telescrivente, non solo sulle date, sulla percentuale di aumento e sulle categorie di prodotti contemplati, ma anche circa la condotta da adottare nei rapporti coi clienti, costituisce un indizio supplementare non indifferente. La convenuta afferma inoltre che sarebbe inconcepibile che gli interessati abbiano potuto applicare con tanta rapidità un aumento uniforme se in precedenza non vi erano stati contatti. Tale argomento non è privo di valore, ma si può obiettare che la stessa celerità con cui hanno reagito le società potrebbe invece ritorcersi contro i fautori di una concertazione, poichè questa richiede evidentemente un certo tempo.

Tuttavia non è vietato pensare che le istruzioni alle filiali e ai rappresentanti fossero solo l'ultimo atto di un'operazione che si può logicamente presumere iniziata alcune settimane prima. Per gli aumenti del 1965 e del 1967 le fasi della concertazione si distinguono chiaramente mentre per il 1964 si può dire che vediamo unicamente la parte emersa dell' «iceberg». Ció si comprende, poiché il procedimento di concertazione si è per così dire perfezionato nel tempo ed è stato difinitivamente messo a punto solo con l'aumento del 1967.

3. La prova della concertazione

Non è il caso di attardarci su elementi secondari. Vi è un'altra considerazione che m'induce ad affermare che la concertazione risale ad un periodo anteriore all'aumento del 1964. Penso che vi è un nesso di continuità fra la prima operazione e quelle successive, che fanno tutte parte di un piano unico, cui i produttori hanno partecipato in piena coscienza. Non è forse vero che l'aumento del 15 %, praticato in Germania nel 1965 non è che il «recupero» dell'aumento che non era stato effettuato l'anno prima? Inoltre nel 1965 sono stati aumentati del 10 % i prezzi dei coloranti e dei pigmenti che non erano stati aumentati in precedenza, vale a dire si è trattato semplicemente di un ampliamento della gamma di prodotti soggetti all'aumento. Nel 1967 è stato deciso un secondo aumento, che questa volta doveva comprendere anche il mercato francese, in precedenza escluso dall'iniziativa in virtù del piano di stabilizzazione.

Questa continuità nel procedimento mi dimostra che la concertazione è stata condotta in modo sistematico, quindi le piccole divergenze rilevate nel modus operandi non sono tali da scalfire l'unità e la continuità del piano.

È inoltre perfettamente naturale che gli aumenti di prezzo vengano effettuati gradualmente e progressivamente, anzitutto per evitare di aumentare bruscamente i prezzi in una sola volta, poi per smorzare le reazioni nella clientela, infine per accertarsi che l'iniziativa ha raggiunto gli scopi che si prefiggeva, prima di intensificare l'azione, al fine di mettersi al riparo da conseguenze impreviste e controproducenti.

Propongo quindi di sancire che le tre azioni del 1964, 1965 e 1967 costituiscono le tre fasi di un unico piano di aumenti scientemente concertati.

Vi sono ancora due punti da esaminare prima di ammettere che tale comportamento concordato poteva giustificare la decisione impugnata.

Sezione IV

Il pregiudizio alla concorrenza

A — L'applicazione dell'art. 85, n. 1 del trattato in caso di pratica concordata

L'art. 85, n. 1 si applica agli accordi tra imprese o alle pratiche concordate se questi «hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune». Quanto agli accordi, avete interpretato l'espressione «per oggetto o per effetto» nel senso che basta l'oggetto affinché sussista il presupposto, senza bisogno di indagare quali siano gli effetti reali di un accordo sul gioco della concorrenza (sentenza 13 luglio 1966, cause riunite 56-58/64 Grundig, Raccolta 1965, pag. 520).

Una parte della dottrina definisce la nozione di pratica concordata tenendo soprattutto in considerazione gli elementi oggettivi e conclude che una pratica è vietata a norma dell'art. 85 se effettivamente e concretamente si risolve in un' alterazione della concorrenza.

Nelle conclusioni pronunciate nella causa Chemiefarma, l'avvocato generale J. Gand pare assuma lo stesso atteggiamento. A suo giudizio, «ai fini dell'applicazione dell'art. 85, è superfluo prendere in considerazione gli effetti concreti di un accordo, ove risulti ch'esso ha per oggetto di restringere, impedire o falsare il gioco della concorrenza. Le cose stanno certo diversamente per quanto riguarda una pratica concordata, che, secondo l'opinione dominante, presuppone che la concertazione si traduca in fatti concreti, di guisa che occorre accertare l'esistenza sia di un determinato comportamento obiettivo degli interessati, sia di un nesso fra questo comportamento ed un piano prestabilito» (Raccolta 1970, pag. 719).

Ho già dato ad intendere che il mio punto di vista è analogo a quello testé esposto.

È possibile andare oltre, prendendo in considerazione non solo gli effetti reali, ma anche gli effetti virtuali? Potrebbe parere strana l'ammissione che una prati ca concordata, che materialmente non ha avuto ripercussioni sul gioco della concorrenza, nonostante l'intenzione dei partecipanti, per circostanze ad essi estranee, non sia vietata a norma dell'art. 85; direi che in questo caso il tentativo o qualunque iniziativa per mettere in pratica il piano sono sufficienti a giustificare l'applicazione dell'art. 85, n. 1.

B — Le conseguenze della pratica concordata sulla concorrenza

Se condividete il mio punto di vista non dovrete pronunciarvi su questo interrogativo, poiché nella fattispecie la pratica concordata litigiosa ha avuto sia come oggetto che come effetto concreto una restrizione o un'alterazione del gioco della concorrenza nel mercato comune. Quali sono state le ripercussioni dell'aumento dei prezzi dei coloranti? Secondo le ricorrenti le conseguenze sarebbero state nulle in quanto paralizzate sia dalla stessa struttura del mercato dei coloranti che dalle pratiche normalmente seguite nella vendita agli utilizzatori. Questa affermazione deriva naturalmente dalla tesi generale già esaminata parlando delle giustificazioni del comportamento parallelo delle imprese. In questa sede però la teoria può apparire sorprendente in quanto, contemporaneamente, la maggior parte delle ricorrenti sostiene che sul mercato vi era una viva concorrenza tra i venditori. Tuttavia tale contraddizione è solo apparente: richiamandosi alle perizie, le ricorrenti affermano che il livello dei prezzi non è l'unico — e nemmeno il principale — elemento di questa concorrenza tra distributori. L'osservazione non è errata; i proff. Kloten e Albach hanno fatto la stessa constatazione; capacità e termini di consegna, qualità dei prodotti, servizio d'assistenza tecnica post vendita e garanzie offerte ai clienti, che possono estendersi fino all'assicurazione contro gli eventuali danni provocati dall'impiego di coloranti di qualità insufficiente, costituiscono in effetti fattori molto importanti per le industrie utilizzatrici che acquistano coloranti; questo elemento non è negato dal prof. Kantzenbach. Vorrei però sottolineare che questi elementi di concorrenza persistono indipendentemente dal livello generale dei prezzi, per lo meno se le variazioni dei listini valgono per tutti i mercati e vengono apportate nella stessa percentuale. Questi fattori della concorrenza avrebbero fondamentale importanza solo se gli aumenti fossero differenziati.

È a questo risultato che vogliono giungere le ricorrenti affermando che i listini dei prezzi base non sono pubblicati, quindi la concorrenza sui prezzi di vendita si concreta in sconti concessi isolatamente ad alcuni acquirenti; quindi un aumento di prezzo effettuato sulla base di un parametro costante non può ripercuotersi sulla concorrenza, poiché in effetti i prezzi continuano ad essere differenziati. Di riflesso, gli aumenti lineari non avrebbero alcun effetto sui prezzi effettivi, come è per di più dimostrato dalla tendenza ad uno sgretolamento dei prezzi registrata su tutto il mercato dei coloranti, nonostante gli aumenti lineari durante il periodo 1964-1967. Vista l'argomentazione, è logico chiedersi perché i produttori hanno effettuato questi aumenti se i prezzi reali di vendita, come essi affermano, sono determinati, se non sempre, almeno nella maggior parte dei casi, dagli sconti concessi dai distributori onde conservare un cliente o acquisirne uno nuovo.

La tesi mi pare poco consistente.

Anzitutto si deve stabilire se questa corsa al ribasso costituisce una pratica comunemente diffusa. Dai documenti del fascicolo non risulta, anzi mi pare che di Tegola una filiale, e di conseguenza un distributore, possono concedere sconti solo se autorizzati dalla casa madre. Ciò almeno è quanto mi risulta da alcuni telex contenenti tali istruzioni. Non mi pare molto naturale che un simile sistema possa applicarsi alla totalità o alla quasi totalità delle vendite.

Per alcune ditte disponiamo di dati precisi: la Bayer ha concesso circa 1500 sconti all'anno (relazione Kloten e Albach, pag. 29, n. 50). La ICI nel 1967 ha ricevuto 689 richieste di sconti e ne ha accolto 429 (memorandum ICI sull'industria dei coloranti in Europa, pag. 14).

Questi dati paiono esigui rispetto al numero complessivo delle vendite effettuate dalle stesse società. La Bayer avrebbe almeno 5000 clienti nel mercato comune (Kloten e Albach, pag. 30, n. 52). Pur ammettendo che ad alcuni clienti si concedono regolarmente sconti, il loro numero non raggiungerebbe la terza parte della clientela globale. Quanto all'ICI, impresa di dimensioni relativamente modeste, gli sconti praticati sono sostanzialmente irrilevanti.

Del resto, indipendentemente dalla cifra d'affari rappresentata dalle vendite a prezzo ridotto, resta il fatto che gli sconti possono solo venir praticati partendo dal prezzo di base. Quindi gli aumenti di prezzo, pur se praticati in base alla stessa percentuale, hanno indubbie ripercussioni sui prezzi effettivi in un mercato non trasparente nel quale è impossibile stabilire gli sconti in considerazione di quelli accordati da un concorrente. Aggiungerò che, nei confronti dell'acquirente, l'aumento uniforme ha un indubbio effetto scoraggiante in quanto prepara psicologicamente il cliente a rinunciare allo sconto di cui fruiva in precedenza oppure ha un effetto persuasivo in quanto predispone la clientela ad accettare uno sconto più ridotto.

Infine gli aumenti lineari, della stessa percentuale, non hanno avuto l'effetto di sopprimere del tutto la concorrenza, però hanno incontestabilmente avuto per oggetto e per effetto di mantenere la concorrenza nei limiti in cui essa si svolgeva in precedenza. I produttori hanno ottenuto una specie di garanzia contro il rischio di un eventuale acuirsi della concorrenza e soprattutto contro il rischio che venissero sconvolti le posizioni raggiunte e l'equilibrio instauratosi sui mercati nazionali isolati.

Quest'analisi m'induce dunque a pensare che gli aumenti lineari hanno avuto un effetto concreto sul gioco della concorrenza, effetto che non avrebbero invece potuto avere aumenti di prezzo differenziati e non concertati. Ritengo inoltre che il mio modo di vedere sia confermato dalla situazione specifica in alcuni mercati.

C — Posizione particolare della società ACNA

Un piccolo incidente verificatosi in udienza tra un agente della Commissione ed un rappresentante delle ricorrenti ha dato la stura ad importanti precisazioni su questo punto. Il rappresentante della Commissione ha affermato che la cifra d'affari dell'ACNA sul mercato tedesco è notevolmente salita nei mesi successivi all'aumento del 1o gennaio 1965, aumento cui l'ACNA non aveva aderito. Il fatturato sul mercato tedesco nel 1964 ammontava a 64 milioni di lire e nei primi quattro mesi del 1965 è salito a 97 milioni. La Commissione stima che in tutto l'arco del 1965 le esportazioni dell'ACNA in Germania si siano aggirate sui 300 milioni di lire. Fenomeni analoghi sono stati registrati dopo l'aumento del 1967.

Le ricorrenti non hanno ribattuto a questo argomento, limitandosi ad affermare che la Commissione nella fase orale non poteva invocare un mezzo non invocato anche nella fase scritta. L'eccezione non può venire accolta.

Non è la Commissione, ma una ricorrente che ha invocato in udienza un argomento che non compare nelle memorie scritte e che mira a dimostrare che l'ACNA non avrebbe tratto alcun vantaggio, quanto al volume delle vendite, dal rifiuto ad aderire all'aumento del 1965. Per ribattere a questo nuovo argomento l'agente della Commissione ha citato i dati di cui sopra. La Commissione poteva certo ricorrere a tutti gli elementi che riteneva opportuni per opporsi ad un nuovo argomento delle ricorrenti.

La materiale esattezza dei ratti ricordati non è stata formalmente contestata. Per l'aumento del 1965, la Commissione ha precisato che le constatazioni esposte risultavano anche dal resoconto stenografico delle dichiarazioni del direttore commerciale dell'ACNA rilasciate nel luglio 1965 ad uno degli inquirenti della Commissione. Per l'aumento del 1967 la Commissione si è offerta di fornire indicazioni nello stesso senso. Questi elementi sembra debbano essere considerati esatti. Li ritengo inoltre molto importanti per valutare gli effetti delle pratiche concordate sulla concorrenza. Se l'unica impresa che non ha praticato gli aumenti è riuscita ad aumentare le vendite in un mercato sul quale le altre ditte avevano uniformemente aumentato i prezzi, ciò dimostra chiaramente che il comportamento delle altre ditte mirava a porre alla concorrenza determinati limiti che non intendeva superare. Il comportamento dell'ACNA e il vantaggio ch'essa ne ha tratto sono particolarmente significativi e confermano la mia opinione sui reali effetti della pratica concordata.

Sezione V

Incidenza sugli scambi tra gli Stati membri

Vediamo ora se questa politica concertata poteva avere ripercussioni sugli scambi tra gli Stati membri, ai sensi dell'art. 85, n. 1. Alla domanda si deve rispondere affermativamente.

Anzitutto è assodato che la pratica concordata ha esercitato i suoi effetti sui mercati di vari Stati membri, in pratica su tutti i mercati comunitari; il mercato francese ne è rimasto immune fino al 1967, il mercato tedesco non ha subito l'aumento del 1964 e il mercato italiano non ha subito l'aumento del 1967. Questa circostanza può da sola giustificare l'affermazione che la politica concordata poteva aver influenza sul commercio tra gli Stati membri? La Commissione ritiene di sì, schierandosi con i fautori della tesi che il termine «aver influenza», di per sé neutro, ha solo lo scopo di delimitare la sfera d'applicazione del diritto comunitario delle imprese rispetto alla sfera d'applicazione dei diritti interni. Mi pare però che si desuma dalla vostra sentenza Grundig che la vostra interpretazione è più sfumata. Indubbiamente il fatto che un accordo possa avere ripercussioni o, mutatis mutandis, che una pratica concordata abbia esercitato i suoi effetti in vari Stati membri è una condizione necessaria per poter affermare che essa «influenza» il commercio tra gli Stati. Ma questo presupposto è anche sufficiente? Riprendendo la terminologia della vostra sentenza Grundig, si deve stabilire se l'accordo «possa incidere, in modo diretto o indiretto, in potenza o in atto, sulla libertà del commercio fra Stati membri, in un senso che possa nuocere alla realizzazione degli obiettivi di un mercato unico fra Stati». A questo proposito le ricorrenti affermano che non vi era un mercato comune dei coloranti; esistevano solo dei mercati nazionali, nettamente delimitati e separati tra i quali la corrente dei prodotti era incanalata per «vie cementate» (perizia Kantzenbach, pag. 14, n. 18). Gli utilizzatori si riforniscono esclusivamente presso i rivenditori nazionali, che sono filiali o rappresentanti dei produttori. Prima degli aumenti di prezzo del 1964 il mercato dei coloranti era già rigidamente frazionato, per conseguenza l'aumento dei prezzi e quindi una pratica concordata, sulla quale non nutro più dubbi, non avrebbe potuto esercitare alcuna influenza sul commercio fra gli Stati membri.

A questo argomento risponderò come ho già fatto parlando degli effetti sulla concorrenza: se si può ammettere che l'isolamento del mercato dei coloranti non è effetto della politica concertata dei produttori, resta il fatto che gli aumenti concordati hanno mantenuto tale isolamento, che invece sarebbe stato messo in pericolo da un atteggiamento non concordante. La prassi litigiosa anche sotto questo aspetto ha assunto la funzione di garanzia a favore dei produttori, che temevano la formazione di nuove correnti commerciali intracomunitarie e la rottura di equilibri artificiali. La situazione specifica dell'ACNA conferma questo modo di vedere: il suo rifiuto ad aderire all'aumento generale del 1o gennaio 1965, ha consentito a questa società di aumentare le sue esportazioni in Germania. L'aumento generale ed uniforme dei prezzi ha quindi modificato le correnti di scambio, poiché il solo fatto che uno dei produttori non si sia allineato ha fatto aumentare le esportazioni di coloranti dall'Italia alla Germania, mettendo in risalto le conseguenze di notevoli diversità di prezzo da un paese all'altro.

La pratica concordata ha quindi impedito la realizzazione di un mercato unico dei coloranti nella Comunità. Quindi la fattispecie presenta tutti i presupposti contemplati dal n. 1 dell'art. 85.

Potrei terminare qui la mia illustrazione della nozione di pratica concertata. Mi pare però opportuno aggiungere due osservazioni:

1.

Ho già messo in evidenza che la pratica concordata è unica e i vari aumenti in cui tale pratica si è concretata non possono venire scissi tra di loro. Si potrà osservare che questa concezione unitaria della pratica concordata non coincide perfettamente con la motivazione della decisione impugnata, poichè la Commissione ha tenuto conto di tre aumenti distinti. Penso che le facoltà a voi conferite per giudicare anche sul merito vi consentano di accogliere questo ragionamento e, se si valuteranno i fatti come io propongo, nulla vi impedirà di associarvi al mio punto di vista.

2.

Sono convinto che, giuridicamente parlando, la Commissione ha correttamente applicato l'art. 85, ritenendo di trovarsi di fronte ad una pratica concordata, vietata dall'articolo stesso. Per questo motivo risponderò brevemente ad alcune obiezioni generiche che le ricorrenti sollevano per tutelarsi dalle conseguenze pericolose che tale soluzione implicherebbe per la loro gestione e per la loro attività.

Esse affermano che ogni politica di prezzo economicamente razionale sarebbe impossibile:

Di quali mezzi dispone un price-leader per impedire alle altre imprese di adeguarsi alla sua decisione di aumentare i prezzi?

Come potrebbero essere costrette a riunciare ad un aumento le altre imprese?

Le altre imprese, per conto loro, dovrebbero limitare l'aumento ad una percentuale inferiore?

Queste questioni non mi paiono pertinenti e tali apprensioni mi paiono ingiustificate.

Sottolineo che le obiezioni delle ricorrenti non tengono in eccessiva considerazione le conclusioni dei proff. Kloten e Albach, i quali ritengono che in pratica si possono verificare aumenti di prezzo differenziati, decisi da ogni società in modo autonomo.

Senza tornare su questo punto, osserverò soltanto che, se i produttori avessero il sospetto di violare il trattato praticando un aumento di prezzo, nulla impedirebbe loro di cercare di fruire delle disposizioni di cui al n. 3 dell'art. 85, iniziando quindi un dialogo preliminare con la Commissione che potrebbe risolversi in una soluzione accettabile per le imprese e compatibile con le norme sulla concorrenza. Avete già dimostrato come la situazione economica di un mercato oligopolistico possa conciliarsi con le disposizioni del trattato. I principi sanciti nelle vostre sentenze del 18 maggio 1962 (uffici di vendita della Ruhr) e del 15 maggio 1964 (governo dei Paesi Bassi), relative all'accordo sui prezzi nel settore carbosiderurgico al momento opportuno potrebbero venire trasferiti o adattati ad altri mercati.

Sono pure insensibile agli sforzi fatti in udienza per convincervi che, se nella fattispecie si applicasse il divieto dell'art. 85, si consacrerebbe un dirigismo contrario allo spirito del trattato. Non credo affatto che né l'esistenza, né i sistemi su cui si impernia il mercato oligopolistico siano condannati, vuoi dall'art. 85, vuoi dalle norme generali del trattato. Dirò francamente che è proprio in questi settori economici che alcune pratiche abusive possono arrecare ai consumatori della Comunità i più gravi pregiudizi. Il fatto che tra gli scopi fondamentali della Comunità vi sia il «costante miglioramento del tenore di vita» implica automaticamente che i consumatori devono essere protetti.

Non vi è quindi nulla di arbitrario nell'interesse specifico che le autorità comunitarie dedicano ai mercati le cui strutture e il cui funzionamento si prestano più facilmente a manovre illecite ed è logico che detti mercati siano sottoposti ad attenta sorveglianza.

Sotto questo aspetto non ravviso lo sviamento di potere invocato dalla BASF, che afferma che la Commissione avrebbe inteso influenzare la politica dei prezzi avvalendosi di disposizioni sulla repressione delle intese e delle pratiche illecite, mentre il trattato non le avrebbe conferito alcuna facoltà per impostare la politica dei prezzi; la mia affermazione si basa su quanto è stato detto circa l'esistenza di una simile pratica nella fattispecie.

Se la ricorrente intende soltanto affermare che la decisione della Commissione (supposto che la riteniate conforme all' art. 85) doveva solo impedire futuri aumenti decisi e praticati in condizioni analoghe, si deve ammettere che le sanzioni inflitte hanno raggiunto il loro scopo, sia preventivo che repressivo.

Se essa intende affermare che la Commissione aveva una finalità recondita, cioè quella di fungere da calmiere sul mercato dei coloranti, mi limiterò ad osservare che lo sviamento di potere non si desume da alcun documento del fascicolo e quindi l'affermazione si rivela un'interpretazione molto libera del pensiero della Commissione, interpretazione del tutto arbitraria della quale la ricorrente deve subire le conseguenze.

Titolo II

Competenza della Commissione ad infliggere ammende a società aventi sede fuori del mercato comune

Tra le imprese produttrici di coloranti che, come ho tentato di dimostrare, hanno aderito alla pratica concordata vietata dal diritto comunitario, vi sono tre società che hanno sede fuori dal mercato comune e queste tre società sono tra quelle che vanno per la maggiore:

l'Imperial Chemical Industries (causa 48/69) è una società britannica con sede in Londra;

la Geigy (causa 52/69) e la Sandoz (causa 53/69) hanno sede in Basilea e sono disciplinate dal diritto svizzero.

Circa la competenza della Commissione nei loro confronti, la decisione impugnata è così motivata:

«La presente decisione si applica a tutte le imprese che hanno aderito alle pratiche concordate, sia che abbiano sede all'interno del mercato comune che al di fuori di esso».

Dal tenore dell'art. 85, n. 1, la Commissione conclude che le norme del trattato in materia di concorrenza si applicano a tutte le restrizioni che sul mercato comune provocano gli effetti contemplati dall'art. 85, quindi è superfluo accertare se le imprese che hanno provocato le restrizioni della concorrenza hanno sede all'interno o all'esterno della Comunità.

Con argomenti molto simili, che tuttavia presentano sfumature diverse, l'Imperial Chemical Industries da un lato, la Geigy e la Sandoz dall'altro, negano formalmente che la Commissione sia competente ad infliggere loro ammende. La decisione impugnata sarebbe contraria sia alle legislazioni interne degli Stati membri, sia allo stesso trattato di Roma ed ai principi comunemente accolti dal diritto internazionale pubblico.

Le ricorrenti considerano le infrazioni alle norme della concorrenza illeciti di indole penale, quindi ritengono che è impossibile affermare che l'art. 85, n. 1 può venire applicato anche ad imprese extracomunitarie, in quanto il loro comportamento provoca effetti all'interno del mercato comune. La teoria secondo cui l'effetto costituisca il fatto generatore di una competenza repressiva sarebbe ripudiata dai diritti nazionali parecchi dei quali — per di più — sarebbero stati integrati con nuove norme onde tutelare lo stato ed i suoi cittadini dall'applicazione extraterritoriale, in materia di concorrenza, di misure coercitive, ingiuntive, oppure semplicemente istruttorie, adottate da autorità straniere.

Il trattato di Roma non ha conferito — e nemmeno avrebbe potuto farlo — alle autorità comunitarie il potere di adottare decisioni proibitive o repressive nei confronti di imprese aventi sede al di fuori della sfera di competenza territoriale delle istituzioni, almeno nel caso in cui tali imprese non esercitino alcuna attività nell'ambito del mercato comune. La decisione impugnata — violando il diritto internazionale — applicherebbe pure in modo errato, o comunque con eccessivo rigore, la teoria che basa la competenza sugli effetti dell'atto.

Fondandosi rispettivamente sui pareri espresi da due eminenti specialisti del diritto internazionale pubblico, i proff. R. Y. Jennings dell'Università di Cambridge e Hans Huber, membro della Commissione costituzionale svizzera, la società britannica e le società elvetiche espongono considerazioni che giungono alle stesse conclusioni, pur se per vie di verse.

L'Imperial Chemical Industries sottolinea che la lettera del 22 gennaio 1968, inviatale dal direttore generale della concorrenza, tenta di giustificare l'applicazione dell'art. 85, n. 1 in base al comportamento della ricorrente sul mercato comune. La ricorrente osserva invece che la sua attività nella fattispecie si è limitata a fornire coloranti alle proprie filiali del mercato comune in virtù di contratti caf. Tali contratti sono disciplinati dalla legge inglese e l'attività risultante dalla loro stipulazione si è esercitata nel Regno Unito. D'altro canto la Commissione, nella sua decisione, censurerebbe solo gli effetti nel mercato comune del comportamento dell'ICI. Sarebbe erroneo fondare solo sul territorio in cui si verificano gli effeti l'esercizio di una competenza nei confronti di atti commessi all'estero, se questi hanno prodotto effetti altrove ed in particolare sul territorio del mercato comune, a meno che l'attività di cui trattasi ed i suoi effetti non siano considerati elementi costitutivi di un illecito penale, secondo l'opinione predominante negli Stati il cui sistema legislativo è piuttosto progredito. La dottrina non è concorde su questo criterio d'applicazione del diritto della concorrenza e la prassi attualmente seguita dagli Stati non sarebbe favorevole ai tentativi di applicare la legislazione sulle intese anche secondo criteri di extraterritorialità. Inoltre la Comunità non ha competenze intrinseche, ma solo competenze d'attribuzione. Nessuna disposizione del trattato giustifica, di per se stessa, l'esercizio di una competenza extraterritoriale, anzi l'art. 85 è applicabile solo al commercio tra Stati membri.

La Geigy e la Sandoz riprendono, sul terreno del diritto internazionale pubblico, gli stessi argomenti, ma sottolineano che, ammesso che la teoria «dell'effetto» possa essere invocata in via subordinata per giustificare la competenza della Commissione nei loro confronti, l'effetto dell'attività dovrebbe essere sostanziale e dovrebbe esservi nella fattispecie uno stretto vincolo tra il comportamento delle società e gli scompensi arrecati alla concorrenza all'interno del mercato comune.

Sezione I

Le legislazioni e le giurisprudenze nazionali — Il diritto comunitario

Vedrò anzitutto se dal diritto positivo degli Stati, sia all'interno del mercato comune che all'esterno, si può desumere un criterio d'applicazione delle norme sulla concorrenza che possa giustificare la competenza delle autorità nazionali a vietare o reprimere ogni atto che pregiudichi la concorrenza, i cui effetti si producano sul territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità e dalla residenza di coloro che hanno commesso le infrazioni.

A —

a)

La legge tedesca del 1957, § 98, 2o comma, definisce chiaramente la sua sfera d'applicazione; la norma si applica a tutte le restrizioni della concorrenza che hanno conseguenze nel territorio in cui la legge è applicabile (cioè la Repubblica federale tedesca), anche se queste restrizioni sono conseguenza di atti compiuti fuori da questo territorio.

Pur se — a quanto pare — si deve interpretare questa norma nel senso ch'essa va applicata soltanto agli effetti che si ripercuotono direttamente sul gioco della concorrenza nel mercato tedesco, il principio va comunque tenuto in considerazione.

b)

In Francia, l'ordinanza del 30 giugno 1945 in materia di prezzi e quella del 25 settembre 1962 riguardante il rispetto della lealtà in materia di concorrenza, distinguono tra la posizione dominante, caratterizzata da una situazione di monopolio o da una concentrazione manifesta della potenza economica che deve sussistere sul mercato interno, e il divieto d'intese che non implica alcuna limitazione di questo genere.

La Commissione tecnica delle intese, che il ministro dell'economia e delle finanze deve interpellare prima di esperire qualsiasi azione in giudizio, ha più volte applicato la legge ad imprese straniere:

parere del 26 maggio 1956, intesa tra i fabbricanti di lampade elettriche;

parere del 5 novembre 1960, intesa franco-belga sui materiali di viabilità, relativa ad un accordo di ripartizione dei mercati;

parere del 17 dicembre 1960, intesa tra gli importatori di legname del Nord; si trattava di un accordo di esclusiva reciproco tra la federazione francese d'importazione che controlla i quattro quinti del mercato interno e l'unione degli esportatori di legname del Nord e d'America, ente svedese;

parere del 20 marzo 1965, intesa tra fabbricanti di piastrelle; si trattava di un accordo riguardante tutti i fabbricanti francesi di questo prodotto e di un fabbricante straniero.

Quindi l'applicabilità della legge francese dipende dalla constatazione che sul mercato francese si è prodotto un effetto contrario alla concorrenza o alla libertà economica.

D'altro canto la Commissione tecnica delle intese evita accuratamente di menzionare il luogo in cui è stato stipulato l'accordo, il che implica ch'essa non attribuisce alcuna rilevanza a tale località. A questo proposito è anche opportuno ricordare il secondo parere della Commissione del 22 aprile 1966, sull'intesa tra i produttori di lampade elettriche, parere che ha definito il comportamento della società olandese Philips sul mercato francese abuso di posizione dominante, pur se tale condotta è stata evidente mente impostata, nei suoi tratti essenziali, nei Paesi Bassi.

c)

Sia in materia d'intese che d'abuso di posizione dominante, questo orientamento si ritrova nelle legislazioni degli altri Stati membri. Il criterio dell'effetto sul territorio nazionale è seguito dalla legge belga del 27 maggio 1960 contro l'abuso di potenza economica, il cui art. 1 si fonda sull'esercizio di una potenza economica «sul territorio del Regno», espressione che Van Reepinghen e Waelbroeck interpretano come segue:

l'esercizio in Belgio dell'influenza preponderante rende applicabile la legislazione belga. La nazionalità dei detentori della potenza economica, il luogo di stipulazione dell'intesa o la sede degli organi centrali del cartello non vengono presi in considerazione sotto questo profilo.

L'art. 1 della legge olandese sulla concorrenza economica del 16 luglio 1958 mi pare meno netto: ai sensi della presente legge — esso recita — costituisce posizione dominante una situazione economica di fatto o di diritto che conferisce ad uno o più titolari d'imprese un'influenza predominante sul mercato dei beni o dei servizi nei Paesi Bassi. Questa disposizione è però stata interpretata, alla luce dei lavori preparatori, nel senso seguente:

Al fine di evitare malintesi, è opportuno sottolineare che la nazionalità dei membri di un'intesa che opera nei Paesi Bassi o di coloro che hanno una posizione dominante sul mercato olandese, non ha alcuna importanza (Mulder e Mok, Kartelrecht, 1962).

B —

Fuori dal mercato comune vi sono altri Stati che hanno precisato la sfera d'applicazione territoriale della loro legislazione sulle intese.

a)

In Gran Bretagna, ad esempio, varie leggi adottate tra il 1948 e il 1965 determinano la loro sfera d'applicazione in modo molto estensivo; specie la legge del 1964 sui prezzi di rivendita, applicabile agli accordi o ad altre pratiche che mirano ad imporre un prezzo minimo per la rivendita di merci nel Regno Uni to, indipendentemente dal luogo in cui si esercita l'attività delle imprese produttrici, s'ispira incontestabilmente al criterio dell'effetto sul mercato britannico. Inoltre, la legge del 1948 sui monopoli e sulle pratiche restrittive contempla, all'art. 3, i prodotti forniti nel Regno Unito o in una parte sostanziale del suo territorio, mediante pratiche che restringono la concorrenza. L'art. 4 s'ispira allo stesso criterio per le operazioni di trasformazione. È vero che la legge del 1956 si applica agli accordi stipulati tra le imprese che esercitano nel Regno Unito un'attività («carrying on business») avente per scopo la produzione, la trasformazione o la vendita delle merci. Ciò non toglie che né la nazionalità di queste imprese, né l'ubicazione della loro sede, hanno rilevanza, giacché l'unico elemento determinante è l'esercizio di un'«attività» in Gran Bretagna, caratterizzata soprattutto dalla stipulazione di contratti commerciali nel Regno Unito.

b)

Secondo questo criterio è anche stata applicata la legge federale svizzera sui cartelli, del 20 dicembre 1962, ad un contratto per la ripartizione del mercato, cui si affiancava un contratto di esclusiva stipulato dalle intese francesi e svizzere per disciplinare la distribuzione di giornali nella Confederazione.

Il tribunale federale ha ritenuto che, pur se la legge del 20 dicembre 1962 non contiene alcuna disposizione esplicita sulla sua portata in campo internazionale, essa si applica pure alle pratiche che possono ostacolare la concorrenza concertate all'estero, ma che esercitano i loro effetti in Svizzera.

L'art. 7, 2o comma, lettera b), della legge legittima a citare in giudizio in Svizzera le società straniere le cui intese provocano sul mercato svizzero risultati incompatibili con l'art. 4 della legge, indipendentemente dalla località in cui gli accordi sono stati stipulati. La disposizione mira in effetti a reprimere gli ostacoli alla concorrenza, qualunque sia la loro origine, se le iniziative hanno ripercussioni dirette sulla concorrenza entro il territorio svizzero. Il tribunale federale stabilisce la propria competenza unica mente in base alle conseguenze economiche provocate in territorio' svizzero da pratiche o atti commessi all'estero.

c)

Naturalmente il diritto anti-trust applicato negli Stati Uniti ed ancor più la giurisprudenza sintetizzata nel «Restatement of Foreign Relations Law» è quello che fornisce gli elementi più precisi e più elaborati per quanto riguarda il criterio d'applicazione territoriale delle leggi sulla concorrenza.

Lo «Sherman Act» del 1890 si applica incontestabilmente alle intese internazionali, pur se il criterio di questa applicazione non è stato definito dal legislatore. Il «Clayton Act» s'ispira incontestabilmente alla teoria dell'effetto «sul territorio» in quanto dichiara illeciti i comportamenti discriminatori in materia di prezzi «allorché i prodotti sono venduti per essere utilizzati, consumati o rivenduti all'interno degli Stati Uniti o di qualsiasi altro territorio soggetto alla giurisdizione degli Stati Uniti» (art. 2), formula che ricorre anche, per quanto riguarda gli accordi di esclusiva, nell'art. 3.

D'altro canto, la legge «Webb — Pomerene» del 10 aprile 1918 esclude dal divieto d'intese gli accordi riguardanti l'esportazione, a condizione che tali accordi non implichino ostacoli al commercio all'interno degli Stati Uniti, né contribuiscano ad aumentare o a diminuire artificialmente i prezzi negli Stati Uniti; il luogo ove sono stati stipulati gli accordi non ha importanza, quello che conta è il territorio ove essi esercitano i loro effetti.

La giurisprudenza giunge alla stessa conclusione e la sentenza Alcoa (U.S. Aluminium Company of America, 148 f 2 416, 1945) abbondantemente commentata sia dalle ricorrenti che dalla convenuta, delinea esattamente l'orientamento della magistratura. Pronunciandosi su un'azione intentata contro una società canadese controllata dall'Alcoa, il giudice Learned Hand afferma che «per tradizione consolidata, ogni Stato può imporre immediati obblighi a persone, anche estranee alla sua giurisdizione, che hanno compiuto atti fuori dalle frontiere, che però hanno conseguenze all'interno di esse». Il tribunale non ha esitato ad affermare l'applicabilità dello Sherman Act ad un'impresa straniera a motivo degli effetti del suo comportamento sul gioco della concorrenza negli Stati Uniti.

La sentenza pronunciata nella causa Stati Uniti c/ Imperial Chemical Industries (145 f suppl. 215 SD N.Y. 1952) va ancora oltre. La causa riguardava un accordo per la ripartizione del mercato mondiale tra la società britannica, la società americana Du Pont de Nemours ed altre imprese. La sentenza afferma molto chiaramente che una coalizione per dividere i territori, anche stranieri, che tocchi il commercio americano, viola la legge Sherman. Ma solo in occasione delle azioni intentate nella causa degli orologiai svizzeri (U.S. c/Watch Makers of Switzerland Information Center, Trade Cases 70,600 SD N.Y. 1962) la legge americana applicata ad imprese straniere è stata portata alle estreme conseguenze. La controversia riguardava intese stipulate tra la Federazione svizzera dei fabbricanti di orologi e varie imprese o associazioni d'imprese svizzere, americane e di altre nazionalità, circa la produzione, la vendita e l'esportazione di orologi o materiale Der orologeria.

Il giudice non si è limitato a sancire che tali accordi erano vietati dalla legge Sherman; esso ha ingiunto alla Federazione svizzera di annullare alcuni contratti stipulati in Svizzera e disciplinati dal diritto svizzero, di astenersi da ogni restrizione alle esportazioni negli Stati Uniti, pur se tali restrizioni erano conformi alla disciplina emanata dalle autorità svizzere; esso ha disposto che venissero annullate o comunque private d'efficacia negli Stati Uniti alcune clausole degli accordi stipulati con produttori inglesi, tedeschi o francesi.

La sentenza implica anche ingiunzioni, direttamente rivolte alla Federazione svizzera degli orologiai, miranti a far si che la Federazione svizzera vieti, sotto pena di sanzioni, ai propri membri ogni attività proibita dal giudice, inoltre è stato imposto all'associazione degli orologiai svizzeri di recepire alcune disposizioni della sentenza nel contesto dei propri statuti.

Non si trattava più di semplice applicazione della legge americana, ma di provvedimenti coercitivi, miranti a garantire l'esecuzione forzata della sentenza fuori del territorio americano. Si comprende quindi come, su intervento del governo della Confederazione elvetica e dopo negoziati, la sentenza sia stata modificata e le sia stata conferita un'impostazione meno draconiana.

Quanto al principio, esso è affermato molto categoricamente dalla sentenza definitiva che ribadisce: «… l'affermazione della competenza (del giudice americano) a controllare le attività di imprese straniere e i loro accordi con contraenti terzi stranieri, anche stipulati fuori dagli Stati Uniti, qualora gli accordi abbiano conseguenze sul commercio interno o esterno degli Stati Uniti».

Se, come affermano le ricorrenti, questa giurisprudenza non rispecchia più esattamente l'attuale situazione del diritto americano, le stesse parti interessate citano il testo dell'American Restatement of Foreign Relations Law (§ 18), secondo il quale uno Stato ha la facoltà di emanare disposizioni legislative che determinino le conseguenze legali di un determinato comportamento, pur se tenuto fuori dal territorio, ma i cui effetti sono risentiti all'interno del territorio qualora il comportamento e i suoi effetti costituiscano secondo criteri obiettivi elementi costitutivi di un fatto punibile o di un atto illegale, a norma del diritto degli Stati in cui vige un sistema giuridico sufficientemente evoluto; l'effetto prodotto sul territorio dello Stato in questione deve essere rilevante e deve essere incontestabilmente il risultato diretto e prevedibile del comportamento in questione.

Non è quindi il caso di attribuire valore dogmatico alla giurisprudenza della sentenza «Fabbricanti svizzeri d'orologeria», comunque ritengo che il principio citato fornisca un'indicazione di primaria importanza circa l'accoglimento della teoria dell'«effetto» nel diritto internazionale.

C —

Veniamo ora al diritto comunitario che, almeno nel trattato di Roma, applica nettamente questo principio: l'art. 85, n. 1 fa una distinzione nella sfera d'applicazione territoriale.

1.

La norma entra in gioco anzitutto se vi sono ripercussioni sul commercio tra gli Stati membri; gli autori del trattato hanno inteso essenzialmente stabilire il limite tra l'applicazione del diritto nazionale degli Stati, disciplina interna cui sono soggette le imprese e i cui effetti sono limitati ad un solo paese e, d'altro canto, l'applicazione del diritto comunitario qualora le conseguenze summenzionate si estendano agli scambi tra almeno due dei sei paesi delle Comunità.

2.

L'art. 85 tiene incontestabilmente conto del solo criterio dell'effetto anticoncorrenziale nel mercato comune, senza prendere in considerazione né la nazionalità, né l'ubicazione della sede delle imprese responsabili delle infrazioni alle norme sulla concorrenza. Lo stesso dicasi per l'art. 86 circa lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante. Il trattato di Roma non presenta le difficoltà d'interpretazione che s'incontrano invece con il trattato di Parigi, che ha istituito la Comunità carbosiderurgica, il cui art. 65, relativamente ai prodotti ch'esso disciplina, vieta «ogni accordo tra imprese … che tenda … direttamente o indirettamente, ad impedire, limitare o alterare il gioco normale della concorrenza», però l'art. 80 definisce le imprese ch'esso contempla come «quelle che esercitano un'attività di produzione nel campo del carbone e dell'acciaio nell'interno dei territori indicati all'art. 79, 1o capoverso», cioè nella Comunità, nonchè le imprese «che esercitano abitualmente un'attività di distribuzione» negli stessi territori. La dottrina prevalente propende per un'interpretazione restrittiva di dette disposizioni, nel senso che l'art. 80 limiterebbe l'applicazione dell'art. 65 alle imprese la cui sede si trova all'interno del mercato comune o che almeno abbiano su questo territorio uno stabilimento secondario.

Senza pronunciarmi su questa tesi, rilevo semplicemente ch'essa è insostenibile per quanto riguarda le disposizioni del trattato di Roma relative alle intese.

In effetti avete già dichiarato, in occasione di una questione pregiudiziale deferitavi dal tribunal de commerce di Nizza, che se un'impresa ha aderito ad un accordo contemplato dall'art. 85 del trattato ed ha sede in un paese terzo, è comunque soggetta a questa disposizione se l'accordo produce i suoi effetti sul territorio del mercato comune (sentenza 25 novembre 1971 — Beguelin Import C, Raccolta 1971, pag. 949).

Sezione II

Il diritto internazionale

A conclusione di queste prime osservazioni, si può affermare che l'effetto di un'intesa o di una pratica restrittiva sul mercato interno di uno Stato, è l'elemento che nella maggior parte delle legislazioni nazionali può giustificare la competenza dello Stato ad applicare la legge interna alle imprese, anche straniere, che hanno aderito all'accordo, indipendentemente da ogni altra considerazione di carattere geografico.

Perche dovrebbe essere negata alla Comunità una facoltà che gli Stati membri si sono autoattribuiti?

A —

Il problema è stato sollevato dalla Imperiai Chemical Industries, che si è fondata sulla perizia del prof. Jennings. L'esame di questa perizia ci porta sul terreno del diritto internazionale.

In virtù dell'art. 210 del trattato, la Comunità economica europea ha un'indubbia personalità giuridica, personalità che sul piano del diritto internazionale si desume anche dagli artt. 113 e 114 del trattato, concernenti i negoziati per gli accordi commerciali, inoltre ricorderò gli artt. 228 e 238 concernenti la stipulazione di accordi internazionali in genere e la possibilità d'inviare rappresentanze diplomatiche presso la Comunità.

Avete ammesso che il trattato di Roma ha costituito una Comunità senza limiti di tempo, dotata d'istituzioni proprie, di personalità e di capacita giuridica, munita della capacità di farsi rappresentare in campo internazionale e, più particolarmente, di facoltà effettive derivanti da una autolimitazione di competenze o da un trasferimento di attribuzioni da parte degli Stati alla Comunità (sentenza 15 luglio 1964, Costa contro Enel, Raccolta 1964. pag. 1127).

Questi elementi non trasformano la Comunità in uno Stato, ma vi sono molti altri soggetti di diritto internazionale che differiscono dagli Stati sia per la natura che per la portata delle loro competenze, nei limiti in cui dette competenze sono necessariamente adattate alle finalità ed alle particolari funzioni attribuite a questi soggetti di diritto.

Ciò vale anche per la Comunità economica europea, la cui personalità giuridica e la cui capacità sono determinate tenendo conto dei fini e delle funzioni stabiliti dal trattato di Roma.

La Comunità non dispone di tutta la gamma di competenze tipiche dello Stato, ma è fornita soltanto delle competenze d'attribuzione necessarie a svolgere i propri compiti. Nella sfera delle sue attribuzioni — ed in particolare nel campo delle intese — la Comunità dispone di poteri identici a quelli dello Stato, che però può esercitare soltanto nei confronti delle intese che hanno riflessi sulla concorrenza nel mercato comune.

Ciò premesso, la Comunità può far ricorso ai propri poteri solo esercitandoli in modo conciliabile con il diritto internazionale. Le ricorrenti censurano la Comunità di aver applicato principi accolti sì dal diritto internazionale pubblico, applicati però in modo erroneo o comunque eccessivamente rigoroso:

erroneo in quanto, secondo la Imperial Chemical Industries, il criterio dell'effetto sul territorio non è applicabile per la repressione delle azioni anticoncorrenziali;

eccessivo, affermano le tre ricorrenti, perché la decisione impugnata consacrerebbe un'interpretazione pericolosamente estensiva della teoria dell'effetto.

B —

Vediamo anzitutto se la competenza della Commissione può trovare un' adeguata giustificazione nel comportamento dei produttori stranieri all'interno del mercato comune: d'altronde questa è la prima linea di difesa della Commissione che, richiamandosi soltanto alla realtà economica, giustifica la sua competenza con la condotta delle società madri, che hanno impartito alle loro filiali nei paesi della Comunità tassative disposizioni circa l'aumento dei prezzi di vendita alla clientela e quindi hanno «influenzato la condotta» delle filiali che, d'altro canto, non disponevano di alcuna libertà di decisione ed hanno dovuto comportarsi, nonostante la loro personalità giuridica ben definita, come semplici esecutori. Il ragionamento non stride con la logica della decisione impugnata, nella quale si sottolinea che «le prove dell'esistenza delle pratiche concordate risultano a carico dei vari produttori e non a carico delle loro filiali e dei loro rappresentanti» e si aggiunge che «gli ordini di aumento erano tassativi»; comunque questo ragionamento mi lascia perplesso.

Esso presume infatti che le filiali fossero completamente ed esclusivamente dipendenti dalle società madri e non potessero sottrarsi alle loro direttive. A rigore questa tesi equivale ad una negazione della personalità giuridica delle filiali, negazione che dovrebbe essere corroborata da prove che la Commissione non fornisce. Inoltre la Commissione trascura disinvoltamente gli argomenti svolti dalla Imperial Chemical Industries, che afferma dal canto suo di non aver svolto alcuna attività giuridicamente criticabile sul territorio del mercato comune, poiché i contratti per la fornitura di coloranti erano stipulati nel Regno Unito e disciplinati dalla legge britannica, argomento che la Commissione considera soltanto una «imperdonabile sottigliezza giuridica».

A mio giudizio, la posizione della Commissione su questo punto non è delle più solide.

Sorvolerò perciò questo assunto, specie dal momento che esso lascia trasparire un'esitazione, per non dire una certa reticenza ad ammettere che già gli effetti oggettivi del comportamento delle società madri che si ripercuotono direttamenté sul gioco della concorrenza nel mercato comune sono sufficienti a giustificare la competenza della Commissione a prendere provvedimenti nei loro confronti. Per quanto mi riguarda, non esiterò a condividere questo punto di vista, confermando indirettamente la validità del principio dell'«effetto» che la Commissione ha invocato solo in via subordinata.

C —

Esaminando le discipline nazionali, ho rilevato che il criterio principale per l'applicazione delle leggi in materia di intese è proprio quello degli effetti sul territorio. Questo criterio non potrebbe però essere accolto se non si definissero le sue condizioni ed i suoi limiti nei confronti del diritto internazionale pubblico.

1) Le condizioni per l'applicazione del criterio degli effetti sul territorio

a)

Una prima condizione, a mio avviso, è costituita dal fatto che l'accordo o la pratica concordata devono provocare una restrizione diretta ed immediata della concorrenza sul mercato nazionale o, come nella fattispecie, sul mercato comunitario. In altri termini, un'intesa che avesse effetti soltanto secondari, che rappresentano il riflesso di avvenimenti economici che si svolgono all'estero, non potrebbe giustificare una competenza nei confronti delle imprese che fanno parte dell'intesa e le cui sedi si trovano all'estero.

Mi pare che sia questa l'interpretazione che si deve dare al testo elaborato dall' American Restatement Relations Law, nel punto in cui si precisa che la competenza nei confronti di un comportamento tenuto fuori dal territorio sussiste se gli effetti di questa condotta risultano esserne la conseguenza immediata.

b)

Una seconda condizione è connessa all'indole di ragionevole previsibilità dell'effetto, senza dover anche accertare se l'effetto è stato perseguito intenzionalmente.

c)

La terza condizione si riconnette al carattere sostanziale dell'effetto prodotto

sul territorio.

Si dovrebbe ancora esigere che l'effetto sul territorio costituisca uno degli elementi costitutivi dell'infrazione? È opportuno in quest'occasione prendere a prestito questo elemento dal diritto penale internazionale ed in particolare dalla sentenza della Corte permanente di giustizia pronunciata nel 1972 nella celebre causa «Lotus», alla quale hanno fatto ampi riferimenti sia le ricorrenti che la convenuta? La Corte internazionale ha riconosciuto «che le giurisdizioni di molti paesi interpretano la legge penale nel senso che gli illeciti i cui autori, al momento dell'atto, si trovano sul territorio di un altro Stato, vanno considerati commessi sul territorio nazionale se su di esso si è prodotto uno degli elementi costitutivi dell'illecito e soprattutto i suoi effetti».

Commentando questo testo, si potrebbe a rigore sostenere che il criterio dell'effetto predomina su quello dell'elemento costitutivo dell'illecito o addirittura che quest'ultimo può — da solo — giustificare una competenza extraterritoriale. Nel diritto delle intese, che, come ho già specificato, non rientra nel diritto penale classico, non è il caso di ammettere che l'effetto stesso dell'infrazione è uno degli elementi costitutivi e fors'anche l'elemento essenziale? Propongo una risposta affermativa, poiché mi pare questa l'unica risposta conforme all'analisi dei fatti.

L'Imperial Chemical Industries afferma che gli accordi o pratiche anticoncorrenziali non sono universalmente considerati infrazioni. La soluzione accolta dalla Corte internazionale di giustizia non presenta alcun interesse in questo settore. Se però il «Restatement of Foreign Relations Law» subordina l'applicabilità del criterio dell'effetto alla condizione che il comportamento da cui deriva detto effetto sia riconosciuto censurabile, secondo i canoni seguiti dagli Stati giuridicamente più evoluti, non penso che tale condizione venga meno per quanto riguarda i comportamenti che pregiudicano la concorrenza. Infatti la generalità dei paesi sviluppati ed industrializzati, assoggetta gli accordi o pratiche anticoncorrenziali a divieti di diritto positivo e a repressioni in sede penale ed in sede amministrativa.

Ciò si verifica nel Regno Unito ed in Svizzera, paesi che non sono certo retti da un sistema giuridico «arretrato».

2) I limiti dell'applicazione extraterritoriale del diritto delle intese

Definite le condizioni per l'applicazione extraterritoriale del diritto sulla concorrenza, si tratta ora di stabilirne i limiti.

Non nego che quest applicazione ha sovente provocato vive reazioni in Europa da parte dei governi e delle magistrature; essa è stata la causa di conflitti ed ha indotto vari Stati ad adottare contromisure legislative di cui le ricorrenti hanno fornito esempi.

In effetti contro che cosa si è protestato? Qual era l'oggetto delle contromisure legislative?

Si osserverà anzitutto che le obiezioni del governo sono state mosse contro la concezione estensiva — giudicata abusiva — della competenza extraterritoriale, come talvolta è stata messa in atto da alcuni tribunali statunitensi. L'ho già constatato a proposito della questione degli orologiai svizzeri; proteste analoghe sono state formulate nel Regno Unito contro la sentenza Stati Uniti contro Imperial Chemical Industries, sentenza che in alcuni punti intendeva ingiungere alla ditta di restituire alla società Du Pont de Nemours brevetti britannici le cui licenze esclusive erano state concesse ad un'altra, società, anch'essa inglese. Ciò indusse la Corte d'appello del Regno Unito a sancire che «non rientra nella competenza dei tribunali americani impartire ordini la cui osservanza da parte dei nostri tribunali implicherebbe che essi si astengano dall'esercitare la competenza ad essi attribuita e che essi sono tenuti ad esercitare».

Osserverò inoltre che le contromisure adottate in Francia, nei Paesi Bassi ed in altri paesi, mirano essenzialmente a vietare ai rispettivi cittadini di assoggettarsi a provvedimenti investigativi, di controllo ed alle ingiunzioni loro fatte dalle autorità straniere.

Queste constatazioni m'inducono ad associarmi alla distinzione che la Commissione e la dottrina traggono dal diritto internazionale pubblico tra la competenza legislativa e la competenza d'esecuzione, cioè tra «jurisdictio» e imperium». Sia in diritto penale che in diritto amministrativo, come nella fattispecie, i tribunali o le autorità amministrative di uno Stato e, mutatis mutandis, della Comunità, non hanno facoltà, sotto il profilo del diritto internazionale, di adottare provvedimenti coercitivi fuori dalla loro sfera di competenza territoriale, né di procedere a misure istruttorie, di verifica o di controllo, la cui esecuzione sarebbe inevitabilmente incompatibile con la sovranità interna dello Stato sul cui territorio si dovrebbe agire.

Per contro, queste stesse autorità devono avere la necessaria competenza per vietare un accordo o una pratica che abbia effetti anticoncorrenziali immediati, previsibili e sostanziali sul territorio di loro competenza e, nella fattispecie, sul mercato comune oppure per infliggere sanzioni, anche pecuniarie, mediante decisioni giurisdizionali o amministrative.

Non si potrebbe però obiettare che l'inflizione di un'ammenda rientra ipso facto nella competenza d'esecuzione? Direi di no per due motivi:

Il fatto di decretare una sanzione pecuniaria, mirante a reprimere un comportamento anticoncorrenziale, oppure ad impedirne la continuazione o la ripetizione, si deve distinguere dalla riscossione dell'ammenda inflitta che, se non è volontariamente versata dall'impresa condannata, deve avvenire mediante esecuzione forzata.

Si deve anche distinguere, a mio parere, la condanna ad un'ammenda dalla vera ingiunzione, derivante, ad esempio, da una decisione sotto pena di ammenda, onde ottenere la comunicazione di certi documenti o impiegata come mezzo di pressione per ottenere l'annullamento di alcune clausole ritenute illecite.

Prescindendo dal problema dell'impossibilità di garantire una applicazione effettiva delle proprie disposizioni, ritengo che la Commissione avesse la facoltà di adottare la decisione impugnata nei confronti di ditte extracomunitarie.

Infatti sussistono i presupposti testé elencati, indispensabili per l'attribuzione e l'esercizio di questa competenza:

Gli aumenti lineari ed uniformi dei prezzi di vendita delle materie coloranti agli utilizzatori, decisi dalle ricorrenti, erano direttamente ed immediatamente applicabili nel mercato comune e nella prima parte di queste conclusioni ho già affermato ch'essi avevano l'effetto reale di falsare il gioco della concorrenza.

A questo punto è inutile voler accertare se, in effetti, le filiali avessero autonomia sufficiente per sottrarsi alle istruzioni delle società madri; sta di fatto che tali istruzioni sono state seguite. Comunque stiano le cose, è però difficile immaginare che le filiali, malgrado la loro indipendenza giuridica e il loro potere di decisione, che è conseguenza diretta della loro personalità, avrebbero potuto tenere immuni i loro clienti dagli aumenti di prezzo che venivano imposti dall'alto .

L'effetto di tali pratiche non solo è stato diretto, esso era manifestamente prevedibile e mi risulta che sia stato voluto e deliberato, poiché è frutto di una concertazione; non è il caso di dilungarmi oltre.

L'effetto è stato infine sostanziale, sia per la percentuale degli aumenti praticati all'intera gamma dei coloranti, sia perché i produttori controllano i quattro quinti del mercato dei coloranti.

Non esito quindi a chiedervi di disattendere il mezzo invocato dall'Imperial Chemical Industries e dalle ditte Geigy e Sandoz, che negano la competenza della Commissione. Mi permetto tuttavia un' ultima osservazione, che si ricollega a quelle iniziali.

Poiché la nozione di pratica concordata non può venir declassata fino a considerarla soltanto una sottospecie della nozione di accordo, con l'evidente rischio di privare il n. 1 dell'art. 85 della vasta portata che gli autori del trattato hanno voluto attribuirgli, se si negasse per di più alle autorità comunitarie il diritto di avvalersi delle facoltà che loro attribuisce lo stesso art. 85 nei confronti di ogni impresa esterna al mercato comune — facendo beninteso le dovute riserve per le competenze di esecuzione — si svuoterebbero di gran parte del loro contenuto queste disposizioni ed in ogni caso verrebbe seriamente pregiudicata la loro efficacia.

La Commissione si troverebbe disarmata se, di fronte ad una pratica concordata, la cui iniziativa è stata presa esclusivamente da imprese esterne al mercato comune, che si assumono anche la piena responsabilità dei loro atti, dovesse essere privata della possibilità di prendere decisioni nei loro confronti. Ciò significherebbe nello stesso tempo una rinuncia alla tutela del mercato comune, tutela necessaria alla realizzazione degli obiettivi più alti della Comunità economica europea.

Devo ancora esaminare molto brevemente due mezzi, tratti, uno dall'insufficiente motivazione della decisione impugnata per quanto riguarda la competenza extraterritoriale della Commissione, l'altro dalla mancata notifica della decisione impugnata alle tre ditte aventi sede fuori del mercato comune.

Sul primo punto, che riesaminerò sotto un altro profilo tra breve, mi limito a ricordare che la Commissione non era tenuta, come invece affermano le ricorrenti, a dimostrare appieno la sua competenza per rispondere su ogni punto all' eccezione ch'esse hanno sollevato sia nel le osservazioni scritte che in quelle orali in risposta alla notifica delle censure.

La decisione impugnata è motivata in diritto dall'illustrazione concisa, ma esatta, direi, del contenuto dell'art. 85 del trattato su questo punto. La Commissione attribuisce la responsabilità della pratica concordata ai soli produttori e non alle filiali o ai loro rappresentanti, ai quali sono stati impartiti ordini tassativi di aumentare i prezzi. Vi ho suggerito di motivare la vostra decisione in modo leggermente diverso, comunque la vostra facoltà di pronunciarvi sul merito mi pare vi autorizzi a modificare la valutazione dei fatti e, quindi, la vostra motivazione.

Sul secondo punto risponderò che le decisioni destinate all'Imperial Chemical Industries, alla Geigy ed alla Sandoz sono state in realtà notificate alle filiali o ai rappresentanti invece che alle sedi centrali — che, tra l'altro, hanno volutamente ignorato tale notifica — comunque l'asserita irregolarità costituita dalla mancata notifica non avrebbe alcuna influenza sulla legittimità della decisione impugnata, giacché la notifica è una formalità posteriore alla decisione. È quindi inutile riprendere il ragionamento della Commissione secondo il quale le filiali, interamente controllate dalle società madri, rientrerebbero praticamente nella loro «sfera interna» e di riflesso è inutile fare appello alla vostra giurisprudenza Alma (sentenza 10 dicembre 1967, causa

Mi limiterò ad affermare che l'unico effetto dell'irregolarità della notifica di una decisione, di cui le ricorrenti comunque ammettono di aver preso atto, sarebbe stata quella d'impedire che nei loro confronti cominciasse a decorrere il termine d'impugnazione; però esse hanno impugnato il provvedimento prima della scadenza del termine, quindi il problema non si pone.

Titolo III

Mezzi di forma e di procedura

Terminata la lunga analisi che precede, vediamo ora i mezzi procedurali e formali invocati dalle ricorrenti. Nella vostra sentenza Grundig, avete affermato che i procedimenti instaurati in applicazione del regolamento del Consiglio n. 17 hanno indole amministrativa. D'altro canto, nelle vostre sentenze Chemiefarma, Buchler e Böhringer, del 15 luglio 1970 vi siete pronunciati su alcuni punti che si riferiscono alla messa in atto della facoltà di cui gode la Commissione di infliggere ammende per penalizzare intese vietate. Anche ora confermerete la precedente giurisprudenza e preciserete l'interpretazione del regolamento d'esecuzione n. 99, adottato dalla Commissione il 25 luglio 1963.

Le ricorrenti tanno carico alla Commissione di aver mal applicato le due norme di cui trattasi.

Cercherò di compendiare gli argomenti svolti seguendo lo svolgimento cronologico del procedimento amministrativo che si inizia con una decisione che rappresenta l'atto d'apertura del procedimento stesso, in un secondo tempo si comunicano alle imprese interessate le accuse che s'intende loro muovere ed in terzo luogo si ascoltano i loro rappresentanti, il processo verbale dell'audizione deve essere approvato dai rappresentanti interrogati; infine, prima di adottare la sua decisione, la Commissione deve interpellare il comitato consultivo competente in materia di politica della concorrenza.

Sezione I

Instaurazione della procedura

Le ricorrenti fanno carico alla Commissione di aver aperto un procedimento nei loro confronti, il 31 maggio 1967, soltanto in base all'art. 3 del regolamento n. 17 che recita: «Se la Commissione constata, su domanda o d'ufficio, una infrazione alle disposizioni dell'art. 85 del trattato, può obbligare, mediante decisione, le imprese o associazioni d'imprese interessate a porre fine all'infrazione constatata».

La Commissione ha direttamente intimo alle imprese le ammende contemplate dall'art. 15 dello stesso regolamento, impedendo agli interessati di rendersi conto che stavano commettendo un'irregolarità.

Il mezzo manca di una base di fatto. È noto che la decisione del 31 maggio 1967, con cui è stato instaurato il procedimento, si riferisce al regolamento n. 17 nel suo complesso ed in particolare all' art. 3, formula che non può essere considerata limitativa.

Inoltre si devono aggiungere due osservazioni in merito:

a)

Il n. 3 dell'art. 3 del regolamento n. 17 recita: «Fatte salve le altre disposizioni del presente regolamento, la Commissione … può rivolgere alle imprese … raccomandazioni dirette a far cessare le infrazioni». Questa norma non esclude affatto che la presunta infrazione possa comportare le ammende contemplate dall'art. 15.

b)

D'altro canto ritengo che per l'instaurazione del procedimento l'elemento essenziale è la comunicazione delle censure alle imprese interessate, in quanto è l'atto iniziale del contraddittorio. Tale comuncazione, eseguita l'11 dicembre 1967 nei confronti di tutte le imprese interessate, contiene nel finale un richiamo esplicito all'art. 15 del regolamento e precisa che la pratica concordata di cui si fa carico alle imprese è tale da giustificare le ammende inflitte alle società aderenti all'accordo.

Sezione II

Comunicazione degli addebiti

A questo proposito s'invocano vari mezzi, che inducono a pensare che le ricorrenti, ignorando la vostra sentenza Grundig, hanno ragionato come se il procedimento davanti alla Commissione avesse carattere giurisdizionale e non amministrativo. La loro concezione della salvaguardia del principio del contraddittorio è troppo rigida per servire nell' ambito di una semplice procedura amministrativa.

a)

Anzitutto si deve disattendere un mezzo tratto dal fatto che la lettera con cui sono stati comunicati alle imprese i capi d'accusa è stata firmata dal direttore generale della concorrenza, che agiva per delega, e quindi non sarebbe stato competente a firmare un simile atto. Le ricorrenti affermano che l'atto di delega non è compreso nel fascicolo; d'altro canto, tale delega sarebbe illecita. In questo caso però bisogna pensare che non si tratta di una delega di poteri, la «delega» è una semplice autorizzazione a firmare rilasciata al direttore generale della concorrenza dal membro della Commissione competente ad esaminare i problemi della concorrenza. L'atto è regolare, in quanto si tratta di un provvedimento interno adottato per il buon andamento della Commissione e dei suoi servizi, quindi adottato nel rispetto dell' art. 27 del regolamento interno provvisorio emanato in virtù dell'art. 7 del trattato di fusione, cioè del trattato 8 aprile 1965 che istituisce un Consiglio unico ed una Commissione unica delle Comunità europee.

b)

Quanto all'elencazione delle censure, le ricorrenti affermano che è imcompleta ed imprecisa; una simile comunicazione non ha loro consentito di presentare utilmente le loro osservazioni; la decisione impugnata si fonda su fatti che non sono stati resi noti alle imprese interessate. Nella sentenza Grundig avete affermato a questo proposito che è sufficiente che le imprese interessate siano informate degli elementi di fatto essenziali sui quali si fondano le censure e non è necessario che venga loro reso noto l'intero fascicolo della pratica giacente dinanzi alla Commissione. Avete confermato questa soluzione anche allorché la Commissione infligge ammende in base all'art. 15 del regolamento n. 17. La lettura dell'elencazione delle censure basta a dimostrare che i fatti su cui esse si fondano, cioè gli aumenti uniformi di prezzo del gennaio 1964, del gennaio 1965 ed infine del 1967, sono stati chiaramente e completamente descritti, la Commissione inoltre ha precisato le condizioni di tempo e di luogo nelle quali sono stati annunciati e sono stati praticati gli aumenti, ed ha pure indicato quali imprese hanno ricevuto l'ordine di aumentare i prezzi e si descrivono i mezzi con i quali tali ordini sono pervenuti alle ditte.

Il tatto che le circolari, i telex e le altre comunicazioni non siano allegate all' elenco delle censure, mi pare irrilevante per l'irregolarità del procedimento, specie dal momento che le imprese interessate erano perfettamente in grado di conoscerli. La decisione impugnata non si fonda quindi su alcun fatto essenziale che non sia stato prima comunicato agli interessati. Al massimo si può osservare che, per quanto riguarda la riunione di Basilea, espressamente menzionata a pag. 9 dell'elenco delle censure, l'esposizione non è perfettamente coerente con il resto dell'atto, in quanto vi si precisa che la società Geigy ha annunciato durante questa riunione, ch'essa «pensava di aumentare i prezzi di vendita alla clientela prima della fine dell'anno», mentre l'esposto si concludeva con l'affermazione che l'aumento dei prezzi del 1967 era stato deciso da tutti i produttori riuniti a Basilea nell'agosto 1967. Inoltre, la decisione impugnata si riferisce alla decisione del Bundeskartellamt del 28 novembre 1967, dalla quale risulta che la stessa società Geigy avrebbe resa nota la sua intenzione di aumentare il prezzo dei suoi prodotti dell'8 % a decorrere dal 16 ottobre 1967, però il riferimento non costituisce un considerando della decisione impugnata, ma un semplice richiamo di fatto alla decisione del Bundeskartellamt.

c)

Le ricorrenti affermano inoltre che la comunicazione delle censure è stata effettuata ancor prima che terminasse l'inchiesta della Commissione sui fatti litigiosi; dopo tale comunicazione sono state fatte delle verifiche. Ciò è esatto, ma non penso che questo modo di procedere sia stato irregolare. Non vi sono disposizioni che vietino alla Commissione, qualora le giunga notizia che alcuni accordi o comportamenti possono essere incompatibili con l'art. 85 del trattato, di continuare i propri controlli, le proprie indagini o le verifiche, pur dopo aver informato le imprese interessate dei fatti che sono stati riscontrati a loro carico.

Inoltre la Commissione dichiara che la prosecuzione delle indagini aveva la sola funzione di controllare alcune dichiarazioni fatte dalle imprese, sia in risposta alla comunicazione delle censure, sia verbalmente. Ciò comunque non può costituire una violazione del principio del contraddittorio, se dopo la verifica susseguente alla comunicazione delle censure, la Commissione non ha preso in considerazione elementi nuovi a carico delle ricorrenti e non ha basato la propria decisione su questi elementi senza comunicarli in precedenza alle imprese interessate, che non sarebbero quindi state in grado di presentare le loro osservazioni su questi punti. Ciò però non si è verificato, poiché la decisione impugnata non s'impernia su elementi che non erano già stati resi noti alle imprese nella comunicazione dell'11 dicembre 1967.

Le ricorrenti, informate della censura, dovevano poi poter disporre di un termine adeguato per presentare le loro osservazioni scritte. Ritengo che le otto settimane fissate dalla Commissione fossero un termine sufficiente, inoltre era stato loro concesso di poter presentare osservazioni orali tramite i loro rappresentanti, come previsto dall'art. 7 del regolamento della Commissione n. 99/63. È noto che l'audizione dei rappresentanti si è effettuata il 10 dicembre 1968, cioè un anno dopo la comunicazione delle censure. Quindi le imprese interessate hanno avuto tempo più che sufficiente per formulare le loro difese ed è impossibile parlare di violazione del principio del contraddittorio.

d)

La Geigy e la Sandoz ritengono poi che la notifica delle censure mosse nei loro confronti, effettuata mediante raccomandata con ricevuta di ritorno alla loro sede di Basilea, costituisce un «atto ufficiale coercitivo di un'autorità straniera». Il diritto svizzero, in assenza di ogni accordo di reciprocità, o di autorizzazioni delle autorità elvetiche, non consente il compimento di un tale atto sul territorio della confederazione. La comunicazione sarebbe nulla ed inefficace perché incompatibile con il diritto svizzero e con i principi generali del diritto internazionale.

La notifica è stata ricusata dopo aver sentito il parere delle competenti autorità nazionali e le ricorrenti non hanno nemmeno partecipato all'audizione del dicembre 1968 disconoscendo la loro Qualità di parti processuali.

In questo modo esse non sarebbero state messe in grado di presentare validamente le loro difese, in contrasto con le disposizioni dell'art. 19 del regolamento n. 17, 2 e 4 del regolamento n. 99/63.

Condivido il parere della Commissione, che nega l'indole coercitiva delle notifiche, che hanno unicamente la funzione di avvertire il destinatario circa i capi d'accusa formulati nei suoi confronti e di invitarlo a presentare le sue difese nell'ambito di un procedimento amministrativo che può risolversi con l'irrogazione di un'ammenda.

Così stando le cose, mi pare quanto meno dubbia la possibilità di appellarsi al diritto internazionale. La Commissione non lo ha violato inviando la notifica alla sede delle case madri, in Svizzera. Sta di fatto che dette società conoscevano le censure loro mosse e potevano validamente esporre le loro difese per salvaguardare i loro interessi.

Il mezzo va dunque disatteso.

Sezione III

Audizione dei rappresentanti delle imprese interessate

Per quanto riguarda l'audizione dei loro rappresentanti, alcune imprese (Bayer e Hoechst) hanno sottolineato di aver ricevuto la convocazione tardivamente. In effetti la convocazione è stata loro inviata il 20 novembre 1968, cioè circa tre settimane prima della data stabilita per l'interrogatorio. Ancora una volta il termine non mi pare eccessivamente breve, specie dal momento che, a quella data, le censure mosse alle varie società erano ormai state comunicate da oltre undici mesi.

Per quanto riguarda l'audizione, la Basf si duole del rifiuto opposto dai funzionari della Commissione, designati a svolgere questo compito, ad ascoltare come rappresentante il suo mandatario ad litem, che era stato esplicitamente incaricato di rappresentare la Basf all'interrogatorio. Il rifiuto è stato giustificato in base all'art. 9, n. 2, del regolamento n. 99/63, che autorizza la comparizione delle imprese convocate solo in persona dei loro rappresentanti legali o statutari. Tale disposizione non è contraria né al trattato né al regolamento n. 17 del Consiglio, giacché la Commissione — in virtù dell'art. 24 dello stesso regolamento n. 17 — ha la facoltà di emanare le disposizioni d'applicazione in materia di audizioni. Per di più, la norma può anche giustificarsi con il fatto che i rappresentanti legali o statutari delle imprese sono in linea di massima le persone meglio informate e in miglior posizione per discutere delle censure mosse alla società. Comunque, non potendo farsi rappresentare da un mandatario ad litem, nulla impediva alla Basf di chiedere al proprio procuratore di assistere i suoi rappresentanti legali.

Sezione IV

Processo verbale dell'audizione

Alcune ricorrenti dichiarano di non essere state in grado di approvare il verbale d'audizione, per questo motivo la procedura sarebbe stata viziata.

In virtù dell art. 9, n. 4, del regolamento n. 99/63, il verbale delle dichiarazioni essenziali di ogni persona interrogata dev'essere controfirmato dall'interessato. Il rispetto di questa formalità ha la funzione di fornire al Comitato consultivo ed alla Commissione informazioni complete sul contenuto essenziale delle dichiarazioni rilasciate durante l'interrogatorio delle parti (causa 44-69, sentenza 15 luglio 1970, Raccolta 1970, pag. 756). Se questa formalità non è stata osservata, ma se è dimostrato d'altro canto che non vi sono errori nella riproduzione delle dichiarazioni degli interessati e le stesse dichiarazioni non costituiscono prova a loro carico, non vedo come una simile omissione potrebbe loro arrecare pregiudizio.

Non è contestato che durante l'audizione del 10 dicembre 1968 è stato convenuto che il verbale dell'interrogatorio sarebbe stato redatto ed approvato dagli interessati solo in un secondo tempo. È pure pacifico che il progetto di verbale è stato inviato alle imprese rappresentate con lettera 27 giugno 1969, nella quale le imprese erano invitate ad approvare il testo nel più breve termine. Pur ammettendo che alla Bayer sia stata inviata per errore una copia non firmata all'indirizzo del suo rappresentante, comunicazione con cui si invitava questa impresa ad approvare il verbale entro il 15 settembre 1969, resta il fatto che lo stesso giorno la società ha ricevuto un originale firmato nel quale le si chiedeva, al pari di ogni altra ricorrente, di far pervenire il proprio accordo sul progetto di verbale il più presto possibile. Facendosi parte diligente, la società avrebbe potuto inviare il proprio accordo in tempo utile aggiungendovi eventuali osservazioni. La Bayer non ha mai chiesto di sopprimere dal verbale eventuali inesattezze quanto alle dichiarazioni del proprio rappresentante e tale silenzio si giustifica: la Commissione ha riprodotto la registrazione integrale delle dichiarazioni del rappresentante della Bayer. Ne risulta che i delegati della Bayer non hanno fornito grandi lumi sul merito della controversia e in sostanza si sono limitati ad affermare che la redazione delle censure, in assenza di ulteriori precisazioni, non aveva consentito loro di approfondire gli argomenti sui quali sarebbero stati interrogati. Quest' affermazione non è nuova, giacché costituisce l'arma con cui si è difesa la Bayer fin dall'inizio (cfr. lettera alla Commissione in data 9 dicembre 1968) e questa linea di condotta è stata ribadita e rigidamente osservata nel processo verbale (vedi pagg. 16 e 24). Il testo non è dunque redatto in modo da indurre in errore su un punto essenziale (sentenza 15 luglio 1970 — causa 44-69, Buchler, Raccolta 1970, pag. 755).

Sezione V

Motivazione formale della decisione impugnata

In ultimo si fa carico alla Commissione, da parte di alcune ricorrenti (Basf, Sandoz, Cassella e Hoechst), di aver formalmente motivato in modo insufficiente la decisione relativa ad una pratica concordata.

In virtù dell art. 190 del trattato la Commissione è tenuta a motivare le proprie decisioni, però questa esigenza si ritiene soddisfatta allorché i considerandi indicano chiaramente ed in modo coerente gli elementi essenziali di fatto e di diritto sui quali si fonda la decisione, anzi la Commissione non deve tenere in considerazione tutti i punti discussi durante il procedimento amministrativo.

Nella fattispecie la decisione impugnata tiene conto, nella motivazione, di tutti i punti essenziali comunicati alle ricorrenti nel documento in cui si specificano le censure. Tale decisione elenca in modo chiaro ed esauriente il complesso dei fatti in base ai quali si è ritenuto che sussistesse una pratica concordata. Inoltre la Commissione ha motivato in diritto la propria decisione rispettando tutti i requisiti imposti dall'art. 85, n. 1 relativamente alle pratiche concordate, specie circa gli effetti che deve avere detta pratica sul gioco della concorrenza e circa le ripercussioni sul commercio tra gli Stati membri.

Ritengo che la Commissione non avesse l'obbligo di comunicare ad ogni impresa interessata i particolari dei fatti che le venivano addebitati, poiché in definitiva l'accusa più grave mossa a tutte le imprese era quella di aver aderito alla concertazione; d'altro canto la Commissione nella motivazione della propria decisione, ha fornito precisazioni specifiche circa alcune ditte, precisazioni che non sarebbero state indispensabili nell'ambito di un procedimento per reprimere cumulativamente le infrazioni commesse in condizioni analoghe ad opera di varie imprese.

Infine le stesse ricorrenti affermano che la Commissione avrebbe dovuto, nella sua decisione, replicare agli argomenti svolti per iscritto o verbalmente durante la procedura amministrativa. Esse sollevano problemi che costituiscono esattamente l'oggetto della controversia deferita alla Corte, questioni che si riferiscono all'esistenza dell'infrazione assertivamente commessa dalle imprese e che quindi possono venire oggettivamente analizzate solo nell'ambito di un procedimento giurisdizionale.

Sezione VI

Pubblicazione della decisione impugnata

La ricorrente Francolor fa carico alla Commissione di aver pubblicato la decisione impugnata nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, mentre l'art. 21 del regolamento n. 17, che contempla la pubblicazione di alcune decisioni, non contempla quelle adottate in applicazione dell'art. 15 di detto regolamento, cioè delle decisioni che sanciscono un'ammenda.

La Commissione pero ribadisce giustamente che la pubblicazione della decisione impugnata, posteriore alla sua notifica, non potrebbe come tale implicare la nullità dell'atto. L'unico elemento essenziale è la notifica della decisione: la data della notifica è determinante per stabilire il termine d'impugnazione e ii testo notificato al destinatario è l'unico facente fede.

Il 15 luglio 1970, nella vostra sentenza Chemiefarma, avete sancito che la Commissione non era tenuta a pubblicare le decisioni che infliggevano ammende, anzi «né la lettera né lo spirito dell'art. 21 le impedivano di procedere a tale pubblicazione, visto che questa non costituiva una divulgazione del segreto degli affari delle imprese» ed inoltre «la pubblicità data in tal modo alla decisione può anzi contribuire a garantire l'osservanza delle norme sulla concorrenza stabilite dal trattato».

Titolo IV

L'ammenda

Esaminiamo infine il problema delle ammende.

come attermava l'avvocato generale J. Gand nelle conclusioni sulla controversia definita del «chinino», le decisioni che sanciscono un'ammenda trovano fondamento nell'art. 15, n. 2, del regolamento n. 17, in virtù del quale la Commissione può infliggere ammende ad imprese che, intenzionalmente o per negligenza, contravvengono alle disposizioni dell'art. 85 del trattato. Il testo precisa che, per determinare l'importo dell'ammenda, si deve tener conto della gravità dell'infrazione e della sua durata.

Nelle stesse cause avete stabilito che l'entità dell'ammenda andava commisurata alla gravità dell'infrazione, tenendo conto particolarmente della natura delle restrizioni causate alla concorrenza, del numero e dell'importanza delle imprese interessate, della rispettiva parte di mercato ch'esse controllano e della situazione del mercato nel momento in cui è stata commessa l'infrazione. La situazione, il comportamento singolo di ogni impresa e l'importanza che l'impresa ha rivestito nell'accordo, avete aggiunto, possono entrare in linea di conto nel momento in cui si determina l'entità della singola ammenda.

Ho quindi l'intenzione di conformarmi alla falsariga che si desume dalle vostre sentenze: è però opportuno esaminare in precedenza un mezzo già invocato a proposito dell'accordo internazionale del chinino e tratto dalla prescrizione delle infrazioni.

Sezione I

La prescrizione

Nelle controversie esaminate oggi, le ricorrenti affermano che se non vi è prescrizione delle infrazioni, istituto scono sciuto al diritto comunitario in materia d'intese, si dovrebbe applicare il principio accolto dalle legislazioni similari degli Stati membri. Secondo tali legislazioni le infrazioni commesse con l'aumento dei prezzi del 1964 ed anche del 1965 sarebbero cadute in prescrizione perché troppo tempo è trascorso tra il fatto illecito e l'instaurazione del procedimento amministrativo ad opera della Commissione, il 31 maggio 1967.

Così impostata, la questione mi pare identica a quella su cui vi siete pronunciati nelle sentenze del 15 luglio 1970 (Chemiefarma ed altri, Raccolta 1970, pag. 661): dopo aver rilevato che le norme che disciplinano la facoltà della Commissione d'infliggere ammende in caso d'infrazioni alle norme sulla concorrenza non stabiliscono alcuna prescrizione, avete sottolineato che «onde adempiere la sua funzione di garantire la certezza del diritto, il termine di prescrizione deve essere stabilito in precedenza», ed avete riconosciuto che «la determinazione della sua durata e delle modalità d'applicazione è di competenza del legislatore comunitario». Con quest'affermazione avete implicitamente, ma indubbiamente, disatteso l'argomento tratto dall'applicazione al diritto comunitario di un principio comune ai diritti interni, ritenendo che questo principio non fosse scindibile dalla disciplina che lo ha accolto.

Non intendo ritornare su questa giurisprudenza, poiché mi pare — sempreché le mie informazioni siano esatte — che una proposta della Commissione potrebbe tra breve essere presentata al Consigliò per definire la questione della prescrizione.

Ma l'argomento delle ricorrenti m'induce a chiedervi se eventualmente la Commissione — almeno per quanto riguarda l'aumento del 1964 — non abbia tacitamente rinunciato al suo diritto di esperire un'azione.

Il patrono dell'ACNA ha fatto osservare in realtà che, nell'ambito delle facoltà che le sono state conferite in forza della competenza di merito di cui essa dispone allorché si pronuncia sull'impugnazione di provvedimenti che dispongono sanzioni pecuniarie, la Corte dovrebbe stabilire se il lasso di tempo trascorso dal momento in cui i fatti si sono verificati e quello in cui è stato adottato il primo provvedimento con cui la Commissione ha messo in atto il proprio diritto di perseguire un illecito, non equivalga ad una rinuncia a detto diritto.

Supponendo che una tale decisione rientri nella vostra competenza di merito, non credo che tale tesi sia fondata. È pacifico che con l'attuale disciplina comunitaria, la Commissione è libera di esperire azioni in materia d'intese; è pur vero che, se la Commissione esperisce un' azione, essa non è soggetta a vincoli temporali in virtù del principio generale dell'opportunità, che a questo settore può senz'altro venire applicato.

Però da un lato:

con quali atti la Commissione ha chiaramente manifestato la sua intenzione di esperire un'azione?

D'altro canto:

quanto tempo doveva trascorrere senza che venisse adottato un nuovo provvedimento per poter affermare che il diritto era stato rinunciato?

I due interrogativi mi riportano inesorabilmente sul terreno della prescrizione.

Il primo interrogativo mira a stabilire quale sia stato il primo atto che ha interrotto una prescrizione che in diritto comunitario non esiste. Tuttavia, facendo astrazione dall'assurdità della domanda, noterò che i controlli effettuati nel giugno-luglio 1965 dagli agenti della Commissione, in virtù del regolamento n. 17 e in base a mandati scritti, conformemente alle prescrizioni dell'art. 14 dello stesso regolamento, dovrebbero essere assimilati ad atti istruttori che hanno l'effetto d'interrompere la prescrizione. La. tesi delle ricorrenti, che vorrebbero vedere nella decisione con cui si è instaurato il procedimento (31 maggio 1967) la prima fase dell'esperimento dell'azione sarebbe quindi criticabile già per questo fatto.

Circa il secondo interrogativo, riguardante la rinuncia all'esperimento dell' azione, va risolto come segue: una qualsiasi autorità, avente competenza per perseguire e reprimere infrazioni, ha solo due mezzi per rinunciare a continuare nel perseguimento di azioni già intentate:

la rinuncia espressa che in questo caso non è stata pronunciata;

il decorso del tempo e l'inattività finchè sopraggiunga la prescrizione. In questo caso però riaffiora il termine «prescrizione» che è sconosciuto al linguaggio comunitario.

Aggiungo che, nella fattispecie, il periodo trascorso tra i primi controlli del giugno 1965 e la decisione d'intentare il procedimento amministrativo del 31 maggio 1967, sarebbe troppo breve, comunque, per corroborare l'idea di una rinuncia implicita all'esperimento dell' azione. Gli aumenti litigiosi, indici di una pratica concordata, non sono dissociabili gli uni dagli altri; secondo la terminologia del diritto repressivo, si potrebbe affermare che questa pratica concordata ha costituito un'infrazione continuata.

Comunque la si interpreti, la censura basata sulla prescrizione va respinta.

Sezione II

La rilevanza dell ammenda inflitta dalle autorità nazionali

La Bayer, la Cassetta e la Hoechst censurano la decisione impugnata perchè non terrebbe conto dell'ammenda inflitta alle tre società con la decisione del Bundes kartellamt del 28 novembre 1967 per l'aumento praticato in quell'anno, mentre invece la sentenza Walt Wilhelm, del 13 febbraio 1969 vietava formalmente il cumulo delle sanzioni.

Senza dilungarmi sulle conclusioni che le ricorrenti traggono da questa sentenza, mi limiterò a rispondere, come fa la Commissione, che la decisione amministrativa impugnata non è mai stata eseguita per l'effetto sospensivo delle impugnazioni cui è andata soggetta e per di più i tribunali tedeschi hanno deciso di annullare il provvedimento.

Sezione III

L'importo dell'amenda

Se condividete le opinioni finora esposte, dovrete logicamente confermare integralmente l'importo delle ammende inflitte dalla Commissione.

Infatti gli aumenti sistematici dei prezzi dei coloranti sono effetto di un piano concertato emanante da un chiaro proposito. La gravità dell'infrazione mi sembra pure provata. Certo che il sistema di sgretolamento dei prezzi non ha consentito a questi aumenti di rimanere in vita per lungo tempo, ma il modesto importo dell'ammenda, vista l'entità delle imprese colpite, mi pare calcolato tenendo conto anche di questo elemento.

In ispecie l'importo particolarmente moderato dell'ammenda inflitta all'ACNA mi pare corrisponda esattamente al comportamento tenuto dalla società: se in effetti essa si è opposta ed ha impedito l'aumento del 1967 sul mercato italiano, essa ha però aderito all'aumento del 1964 e si è associata sui mercati del Benelux all'aumento del 10 % del prezzo dei pigmenti deciso nel 1965.

In conclusione propongo :

di respingere i ricorsi 48, 49, 51-57/69;

e di porre le spese a carico delle ricorrenti.


( 1 ) Traduzione dal francese. Conclusioni della causa 48, 49 e da 51 a 57/69.