CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE JOSEPH GAND

DEL 10 DICEMBRE 1969 ( 1 )

Signor Presidente,

Signori Giudici,

Col ricorso presentato in base all'articolo 169 del trattato, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che l'applicazione di dazi doganali all'importazione del piombo grezzo (voce 78.01 A della tariffa doganale), dello zinco grezzo (voce 79.01 A) ed in alcuni casi all'importazione dei cascami e rottami di piombo (voce 78.01 B) e dei cascami e rottami di zinco (voce 79.01 B), effettuata dalla Repubblica italiana a partire dal 1o gennaio 1968, costituisce una violazione degli obblighi che incombono al detto Stato sia in forza della decisione di acceleramento del Consiglio del 26 luglio 1966, che dell'articolo 23, n. 1 c) del trattato.

I dazi effettivamente applicati durante il periodo cui si riferisce la controversia, e che preciserò in seguito, non sono in discussione. Per contro, per le ragioni addotte nella fase scritta e nella fase orale, la Repubblica italiana ha sempre negato categoricamente di essere in qualsiasi modo vincolata da detta decisione del Consiglio. Prima di esaminare le rispettive argomentazioni delle parti è perciò opportuno richiamare i testi via via applicati in materia, che sono all'origine della controversia.

I

1.

Il piombo e lo zinco, che sono prodotti di primaria importanza per la Repubblica italiana e che occupano un posto di rilievo nell'economia delle zone più depresse della Sardegna, figurano nell'elenco G allegato al trattato di Roma. Perciò i dazi della tariffa doganale comune dovevano essere stabiliti nei loro confronti mediante trattative fra gli Stati membri, com'è effettivamente avvenuto con l'accordo del 2 marzo 1960. Tuttavia, contemporaneamente, il protocollo XV relativo a questi due prodotti contiene delle disposizioni intese a contemperare gli opposti interessi degli Stati membri. In primo luogo, al momento del primo allineamento sulla tariffa doganale comune, la Commissione autorizza, in base a loro richiesta, la Repubblica federale di Germania, il Belgio ed i Paesi Bassi ad istituire contingenti doganali a dazio nullo. In secondo luogo, gli Stati membri esprimono «parere favorevole» all'applicazione dell'articolo 226 del trattato, il che comporta l'isolamento per un periodo di sei anni a decorrere dalla firma del protocollo — cioè fino al 2 marzo 1966 — del mercato italiano del piombo e dello zinco, sia nei confronti degli altri Stati membri che dei Paesi terzi.

Per attenerci a questo secondo aspetto del problema, alcune decisioni della Commissione del 27 luglio 1961 e del. 28 febbraio 1962 hanno autorizzato l'Italia a mantenere fino al 7 agosto 1962 i dazi specifici minimi in vigore al 2 marzo 1960, per il piombo e lo zinco grezzi, e, rispettivamente, per i loro cascami e rottami. Esse sono state successivamente prorogate e modificate da altre decisioni che tenevano conto del programma di risanamento e di ristrutturazione dell'industria mineraria e metallurgica adottato dal go verno italiano per tale settore.

Cosi, in definitiva, una decisione della Commissione del 6 luglio 1966, modificata dalle decisioni del 22 marzo e del 1o agosto 1967, ha autorizzato la Repubblica italiana a colpire le importazioni provenienti dagli Stati membri e dai Paesi terzi con dazi superiori a quelli che avrebbe comportato l'applicazione sia delle norme del trattato, sia delle decisioni di acceleramento già in vigore. Questa decisione doveva restare in vigore fino al 31 dicembre 1967. Essa accoglieva solo in parte la richiesta presentata il 23 febbraio precedente dal governo italiano, richiesta intesa ad ottenere il mantenimento fino al 30 giugno 1968 dei provvedimenti di salvaguardia autorizzati con decisione del 20 dicembre 1963, come pure la fissazione, per il periodo successivo al 30 giugno 1968, delle scadenze e delle modalità per la progressiva riduzione dei dazi doganali intracomunitari e per l'applicazione integrale della tariffa doganale comune.

In seguito, il governo italiano sollecitava, il 7 dicembre 1967, un nuovo provvedimento di salvaguardia che avrebbe comportato il mantenimento fino al 30 giugno 1968 dei dazi autorizzati con la decisione del 6 luglio 1966, nonché l'applicazione di dazi ridotti fino al 31 dicembre 1969, data di scadenza del periodo transitorio, che avrebbe reso impossibile il ricorso all'articolo 226. Tale richiesta veniva respinta dalla Commissione il 20 marzo 1968. Una nuova richiesta presentata il 24 giugno 1969 venne anch'essa respinta il, 24 luglio 1969.

2.

Nel frattempo, però, era intervenuta la decisione del Consiglio del 26 luglio 1966 (GU n. 165 del 21.9.1966, pag. 2971/66), dalla quale trae origine tutta la controversia. Considerando che lo sviluppo economico in seno alla Comunità consente di giungere prima del previsto alla totale abolizione dei dazi doganali all'importazione fra Stati membri ed alla integrale applicazione della tariffa doganale comune, il Consiglio adotta i seguenti provvedimenti, che riguardano tutti i prodotti, eccettuati soltanto i prodotti agricoli enumerati nell'allegato II del trattato :

per i dazi doganali intracomunitari: riduzione del dazio al 15 % del dazio di base al 1o luglio 1967 e abolizione del dazio stesso al 1o luglio 1968;

per la tariffa doganale comune sulle importazioni da Paesi terzi: applicazione di detta tariffa a decorrere dal 1o luglio 1968.

3.

La tesi della Commissione è perciò la seguente :

a)

Non fruendo più di alcun provvedimento di salvaguardia dopo il 31 dicembre 1967, l'Italia avrebbe dovuto applicare, a partire dal 1o gennaio 1968, la decisione di acceleramento del 26 luglio 1966nelle relazioni intracomunitarie.

Poiché i dazi di base erano al 1o gennaio 1957 di 35 lire il kg per il piombo e di 25 lire il kg per lo zinco, essa avrebbe dovuto riscuotere rispettivamente 5,25 lire e 3,75 lire il kg fino al 30 giugno 1968, e abolire dopo tale data qualsiasi riscossione. Ora, è fuori discussione che essa ha applicato, durante il primo semestre 1968, dazi di 17,5 lire per il piombo e di 12,5 lire per lo zinco, portandoli, a decorrere dal 1o luglio 1968, a 7 e 5 lire il kg.

In altri termini, essa ha effettuato dal 1o gennaio al 30 giugno 1968 una riduzione del 50 % del dazio di base, invece della riduzione dell'85 % prevista dalla decisione di acceleramento, mentre a partire dal 1o luglio 1968 si è limitata ad una riduzione del dazio dell'80 % invece di abolirlo completamente.

Per i cascami e i rottami, la sua politica è stata un po' diversa.

Nel corso del 1o semestre 1968 essa avrebbe dovuto applicare dei dazi ad valorem dell'1,5 % sui cascami e rottami di piombo e dell'1,65 % sui cascami e rottami di zinco, mentre ha applicato rispettivamente dazi del 5 e del 5,5 %. A decorrere dal 1o luglio 1968, essa non avrebbe potuto riscuotere più alcun dazio, ma se in effetti non ne ha più riscossi sui cascami e rottami di zinco, ha invece mantenuto sui cascami e rottami di piombo dazi variabili fra le 3,8 e le 6,9 lire il kg, a seconda della qualità di questi sottoprodotti.

b)

Infrazioni analoghe sono state contestate dalla Commissione per quanto riguarda le importazioni da Paesi terzi.

Per il periodo che va dal 1o gennaio al 30 giugno 1968, gli obblighi imposti alla Repubblica non derivavano dalla decisione di acceleramento, ma direttamente dall'articolo 23, n. 1 c) del trattato. Non essendo più coperta da alcun provvedimento di salvaguardia, essa avrebbe dovuto, come previsto da questo articolo, effettuare la seconda riduzione del 30 % della differenza fra l'aliquota effettivamente applicata al 1o gennaio 1957 e quella della tariffa doganale comune. D'altro canto, a partire dal 1o luglio 1968, essa avrebbe dovuto, in questo caso in forza della decisione di acceleramento, applicare integralmente la tariffa doganale comune.

Ora, non vi è dubbio — su questo punto possiamo limitarci a far riferimento alle cifre riportate nella relazione d'udienza — che nel corso del primo semestre 1968 la Repubblica italiana ha riscosso dazi superiori a quelli che sarebbero risultati dall'applicazione dell'articolo 23, n. 1 c) del trattato, sia per il piombo e lo zinco che per i cascami e rottami di questi due prodotti È certo inoltre che a partire dal 1o luglio 1968 essa ha applicato la tariffa doganale comune soltanto ai cascami e rottami, continuando a riscuotere dazi superiori alla tariffa stessa per le importazioni di piombo e di zinco.

Sulla base di tali constatazioni, con lettera del 13 settembre 1968, la Commissione ha invitato la Repubblica italiana a presentarle le proprie osservazioni. Poiché queste ultime non le sono sembrate sufficienti, essa ha emesso il 2 aprile 1969 un parere motivato sulle presunte infrazioni commesse dalla Repubblica italiana agli obblighi che le incombono in forza dell'articolo 23, n. 1 c), del trattato, e della decisione del Consiglio del 26 luglio 1966, ed è su questi due testi che essa si basa nell'adire la Corte.

II

Tutta la discussione è imperniata sulla portata che deve riconoscersi alla decisione del Consiglio del 26 luglio 1966. Nella seduta in cui questa fu adottata, la Repubblica italiana fece una dichiarazione secondo la quale la decisione di acceleramento non poteva significare una rinunzia alle misure protettive nel settore del piombo e dello zinco. Essa ritiene oggi che tale dichiarazione, accettata senza obiezioni dagli altri Stati membri, debba essere interpretata come un rifiuto da parte sua di adeguarsi all'acceleramento dell'unione doganale per i due prodotti in questione. Sia in diritto internazionale che in diritto comunitario — è stato sostenuto nella fase orale del procedimento — quando le alte parti contraenti conducono dei negoziati per giungere ad un determinato accordo, le dichiarazioni delle parti ad esso allegate hanno lo stesso valore dello strumento diplomatico di cui trattasi.

Questa tesi richiede due osservazioni.

1.

La prima è che, com'è noto, le parti non sono d'accordo sui termini della dichiarazione fatta durante la seduta dal governo italiano. Agli atti figurano le posizioni via via assunte dalla delegazione italiana in occasione delle deliberazioni preparatorie dei rappresentanti permanenti; esse si limitano ora ad esprimere una riserva sulla questione, ora a richiamare l'attenzione sul problema sollevato dal protocollo n. XV, in quanto la delegazione auspicava che la decisione di acceleramento non costituisse un elemento tale da impedire l'eventuale applicazione dell'articolo 226 del trattato. Su questi testi non vi è alcun contrasto.

Non è la stessa cosa, invece, per quanto riguarda la seduta del Consiglio: qui ci si trova di fronte a due versioni differenti.

Una di esse è contenuta nel progetto di verbale della 191a sessione del Consiglio, nel luglio 1966, documento che porta la data del 7 maggio 1968. Il Consiglio si dichiara d'accordo su un certo numero di dichiarazioni :

la prima riconosce l'applicabilità delle clausole di salvaguardia e delle altre disposizioni del trattato nell'esecuzione della decisione del Consiglio;

con la seconda, la delegazione italiana richiama l'attenzione sul problema sollevato dal protocollo n. XV e sull'eventuale applicazione dell'articolo 226, in termini molto simili a quelli da me testé usati. Il rappresentante della Commissione dichiara quindi che la decisione del Consiglio non pregiudica i criteri di applicazione delle misure di salvaguardia necessarie per far fronte a difficoltà gravi e suscettibili di protrarsi in un settore dell'attività economica, come pure a difficoltà che possano determinare grave perturbazione in una situazione economica regionale, ai sensi dell'articolo 226.

Tuttavia si tratta solo di un progetto di verbale che sembra non sia mai stato approvato e neppure abbia mai formato oggetto di una richiesta di rettifica. Inoltre, durante la fase orale del procedimento, l'agente del governo italiano ha rifiutato in riconoscere in esso l'espressione esatta del pensiero del suo governo; il testo corretto, di cui egli vi ha dato lettura, dovrebbe essere il seguente: «La delegazione italiana richiama l'attenzione sul problema sollevato dal protocollo XV riguardante il piombo e lo zinco, allegato all'accordo relativo alla lista G. La nostra delegazione desidera che la decisione di acceleramento non costituisca un elemento tale da ostacolare una proroga del trattamento doganale di sostegno a favore dell'industria del piombo e dello zinco che fosse eventualmente necessaria, anche mediante ricorso all'articolo 226 del trattato».

In verità, questa nuova redazione non mi sembra abbia una portata molto diversa da quella contenuta nel progetto di verbale. In essa si parla dell'eventuale applicazione dell'articolo 226; è un desiderio espresso dalla delegazione italiana, ma esso non comporta da parte del Consiglio (soprattutto se si confronta la dichiarazione di cui trattasi con quella della Commissione) il riconoscimento di un diritto incondizionato della Repubblica italiana ad usufruire di nuove misure di salvaguardia a norma dell'articolo 226. Come dice la Commissione, l'Italia ha voluto avere la conferma — che non era necessaria — del fatto che fino al 31 dicembre 1969 l'articolo 226 avrebbe potuto eventualmente trovare applicazione; non è stato mai detto che ciò sarebbe avvenuto automaticamente.

2.

Inoltre — e questa è la seconda osservazione suscitata dalla tesi del governo italiano — per accertare la portata della decisione controversa, e la possibilità che questa ammetta delle riserve che ne restringerebbero la portata, si deve prendere in considerazione la natura giuridica della decisione stessa, il suo posto nel sistema del trattato.

Ora, su questo punto, non possono esservi dubbi. Si tratta di una decisione adottata in forza dell'articolo 235 del trattato, la quale, dal momento che esiste, produce tutti gli effetti riconosciuti alla decisione dall'articolo 189.

Non vi è bisogno di ricordare che, a norma dell'articolo 235, quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato l'Assemblea, prende le disposizioni del caso.

È quanto si è verificato nella fattispecie. Se ci si richiama alla motivazione della decisione controversa, si vede che uno degli obiettivi della Comunità consiste nel realizzare nel più breve termine il mercato comune; che a tale scopo è necessaria un'azione della Comunità e che, poiché il trattato non ha previsto con norme specifiche tutti i poteri d'azione a tal fine richiesti, è opportuno il ricorso all'articolo 235 del trattato. Sempre nella motivazione, si fa menzione di una proposta della Commissione e di un parere dell'Assemblea: su tali basi il Consiglio emana la propria decisione, i cui destinatari, come precisato nell'articolo 5, sono gli Stati membri.

Certamente, la forma che l'azione del Consiglio assume nel quadro dell'articolo 235 può essere diversa a seconda delle circostanze, dato che in questo articolo si parla di «disposizioni del caso». Può trattarsi di un regolamento (si veda, per esempio, il regolamento 167/64 CEE del Consiglio del 30 ottobre 1964, relativo al prelievo da applicarsi ad alcuni miscugli di prodotti lattiero-caseari e ad alcune preparazioni contenenti burro, GU, n. 173 del 31.10.1964, pag. 2752/64). Ma può trattarsi, come nella fattispecie, di una decisione nel senso attribuito a questo termine dall'articolo 189 e quindi «obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati». Senza dubbio essa è soggetta a procedure particolari e richiede l'approvazione unanime del Consiglio, ma una volta che tali condizioni siano soddisfatte — com'è avvenuto nel caso che ci interessa — essa rientra nel diritto comune dell'articolo 189. Perciò non posso condividere l'opinione espressa all'udienza dall'agente della Repubblica italiana quando parlava di «questo accordo che viene chiamato decisione, ma che è in realtà un accordo internazionale». Ciò significa voler trascinare la Corte sul terreno malsicuro delle decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in seno al Consiglio, quali le due precedenti decisioni di acceleramento del 12 maggio 1960 e del 15 maggio 1962. Ora, contrariamente a quanto avvenne a quell'epoca, noi ci troviamo qui di fronte ad un atto di un'istituzione pienamente ed unicamente comunitaria, atto che, una volta posto in essere, s'impone ai destinatari da esso designati — vale a dire agli Statimembri —, senza poter formare oggetto, da parte di questi ultimi, di un rifiuto di applicazione o di una riserva, e contro il quale è possibile soltanto il ricorso all'articolo 173.

Qualora si volesse un'ulteriore prova del fatto che l'atto approvato dal Consiglio è certamente una decisione nel preciso significato attribuito a questo termine dall'articolo 189, basterebbe confrontare la terminologia impiegata nelle diverse versioni linguistiche del testo. L'atto in parola è intitolato in tedesco «Entscheidung» e in olandese «Beschikking», che sono i termini impiegati nell'articolo 189, mentre, ad esempio, per le decisioni di acceleramento adottate dai rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in seno al Consiglio ci si è serviti dei vocaboli più ampi e meno precisi di «Beschluss» e «Besluit».

Comunque, il testo della decisione controversa è assolutamente chiaro. A parte i prodotti agricoli dell'allegato II, essa si applica a tutto ciò che è oggetto della tariffa doganale, e non ammette alcuna eccezione, restrizione, alleggerimento o dilazione, e ciò in particolare per il piombo e per lo zinco. In conformità all'insegnamento costante della Corte, non è necessario riferirsi ai lavori preparatori; basta applicare il testo come tale.

III

Inoltre, la critica della Repubblica italiana che abbiamo ricordato è diretta esclusivamente contro la decisione del Consiglio del 26 luglio 1966. Anche se, accogliendo la sua richiesta, tale decisione venisse disapplicata, l'Italia sarebbe stata sempre obbligata, per le importazioni da Paesi terzi, sulla base dell'articolo 23, n. 1 c), del trattato, ad effettuare una seconda riduzione del 30 % della differenza tra l'aliquota effettivamente applicata al 1o gennaio 1957 e la tariffa doganale comune. Di questo testo essa non parla affatto; essa tuttavia non può implicitamente ignorarlo, se non invocando una specie di diritto ad usufruire di misure di salvaguardia per l'industria del piombo e dello zinco.

Non si vede, pero, su quale base tale diritto potrebbe esserle riconosciuto.

In nessun caso ciò potrebbe avvenire sulla base del protocollo XV. In occasione della firma di quest'ultimo, gli Stati membri avevano sì espresso un «parere favorevole» circa l'applicazione dell'articolo 226 per un periodo di sei anni. Per una fattispecie analoga, trattandosi del protocollo n. VIII sulla seta, la Corte ha considerato che un simile parere costituisse un orientamento di cui la Commissione doveva tener conto, senza tuttavia essere vincolata da un obbligo giuridico preciso, in quanto essa conservava interamente il suo potere di apprezzamento (causa 32-64, Repubblica italiana c/Commissione della CEE, 17.6.65, Racc. XI, pag. 485). A maggior ragione, la stessa cosa avviene quando, come nel caso attuale, il termine di sei anni previsto dal protocollo è scaduto.

Certamente, allorché l'ultima misura di salvaguardia ha cessato di aver efficacia il 31 dicembre 1967, la Repubblica italiana aveva sempre il diritto di sollecitarne la proroga, ed essa non ha mancato di farlo, ma spettava alla Commissione valutare se fosse opportuno dar seguito alle sue richieste. I rifiuti che sono stati opposti all'Italia avrebbero potuto giustificare da parte sua un ricorso in sede giurisdizionale alle condizioni previste dall'articolo 173, non già il rifiuto di ottemperare agli obblighi impostile dalla decisione del Consiglio del 26 luglio 1966 e dall'articolo 23, n. 1 c), del trattato. E, contrariamente a quanto sembra credere la Repubblica italiana, non vi è alcuna contraddizione, da parte della Commissione, nel sostenere nello stesso tempo che le infrazioni contestate riguardano la violazione della decisione del Consiglio e dell'articolo 23 del trattato, e che l'Italia avrebbe dovuto ricorrere contro il rifiuto opposto alle sue richieste di misure di salvaguardia. Soltanto su quest'ultimo terreno essa avrebbe potuto utilmente invocare le considerazioni ampiamente svolte sulla particolare situazione dell'estrazione del piombo e dello zinco in Sardegna, considerazioni che, per quanto interessanti, esulano completamente dalla valutazione della Corte nell'ambito della presente controversia.

In base alle precedenti osservazioni, le mie conclusioni sono le seguenti :

1.

Durante il primo semestre 1968, la Repubblica italiana ha applicato all'importazione da altri Stati membri di piombo grezzo, di zinco grezzo, di cascami e rottami di questi due prodotti, dazi doganali superiori al 15 % di quelli applicati al 1o gennaio 1957. Su questo punto essa è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell'articolo 1 della decisione del Consiglio del 26 luglio 1966.

Nel corso dello stesso periodo, essa ha applicato, alle importazioni degli stessi prodotti da Paesi terzi, dazi doganali superiori a quelli effettivamente applicati al 1o gennaio 1957, ridotti della differenza fra questi ultimi dazi e quelli della tariffa doganale, contravvenendo su questo punto all'articolo 23, n. 1 c), del trattato.

2.

Il 1o luglio 1968, essa non ha soppresso i dazi doganali sulle importazioni di piombo grezzo, di zinco grezzo e dei cascami e rottami di piombo in provenienza dagli altri Stati membri e, alla stessa data, non ha applicato i dazi della tariffa doganale comune al piombo grezzo e allo zinco grezzo importati dai Paesi terzi. In tal modo, essa è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza degli articoli 1 e, rispettivamente, 2 della decisione del Consiglio.

Vi propongo infine che le spese siano poste a carico della Repubblica italiana.


( 1 ) Traduzione dal francese.