CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE KARL ROEMER

DEL 3 DICEMBRE 1969 ( 1 )

Signor Presidente,

Signori Giudici,

La causa odierna si ricollega alla causa 35/67. In sostanza posso quindi rimandare agli antefatti di quest'ultima, accennando in breve solo quanto segue. Come vi è noto, la Commissione dell'Euratom, in esito ad un formale procedimento disciplinare, decideva il 4 luglio 1967 di destituire il ricorrente a partire dal 1o agosto 1967. Tale decisione veniva annullata con sentenza 11 luglio 1968, motivata dal fatto che la Commissione non poteva affidare ad un suo dipendente l'incarico di procedere all'audizione del. ricorrente, prevista dall'art. 7 3o comma, dell'allegato IX allo statuto del personale. Veniva così affermato che non era risolto il rapporto di lavoro tra il ricorrente e le Comunità. L'intervenuto dichiarava allora, in una lettera del 20 luglio 1968, di essere disposto a riprendere servizio presso la nuova Commissione unica. Ciò nonostante, non si giungeva ad una sua reintegrazione. In un primo momento egli apprendeva da una lettera della Commissione, del 1o agosto 1968, che «il problema della sua reintegrazione era allo studio». Nella stessa lettera si accennava inoltre al fatto ch'egli poteva chiedere un'aspettativa per motivi personali oppure le ferie annuali cui aveva diritto. In seguito, dopo che il ricorrente aveva dichiarato ancora una volta, in una lettera de12 agosto 1968, di restare a disposizione della Commissione per essere reintegrato in servizio, egli veniva convocato, con lettera della Direzione generale personale e amministrazione del 20 settembre 1968, per un colloquio in cui sarebbero stati discussi i vari aspetti della sua posizione amministrativa. Il colloquio aveva luogo il 3 ottobre 1968, ma non portava ad alcun risultato concreto perché al ricorrente — secondo le sue non contestate affermazioni — veniva soltanto consigliato di dare spontaneamente le dimissioni, consiglio ch'egli non accettava. Con decisione del 13 novembre 1968, la Commissione affidava allora (come previsto nella sentenza 11 luglio 1968) a tre dei suoi membri l'incarico di procedere all'audizione del ricorrente, a norma dell'art. 7 dell'allegato IX allo statuto del personale. L'audizione avrebbe dovuto aver luogo il 10 dicembre 1968 a Bruxelles. Il ricorrente tuttavia, benché fosse stato tempestivamente convocato con lettera del 20 novembre 1968, non si presentava alla data stabilita. Egli dichiarava invece in una lettera del 6 dicembre 1968 che, in considerazione delle circostanze, non avrebbe avuto nulla da dire, se non esprimere le sue riserve. Di conseguenza la Commissione, senza procedere all'audizione, concludeva il 18 dicembre 1968 il procedimento disciplinare con una nuova decisione di destituzione del ricorrente, adottata in base al parere del consiglio di disciplina del 23 giugno 1967. Di tale decisione, entrata in vigore il 1o gennaio 1969, il ricorrente aveva notizia, a suo dire, il 24 dicembre 1968.

Avverso questa decisione egli ha adito nuovamente la Corte, il 10 marzo 1969, dando origine all'attuale procedimento. Nel ricorso egli chiede che la Corte voglia :

1)

Annullare la decisione 18 dicembre 1968;

2)

Statuire che egli ha diritto allo stipendio e ad ogni altra indennità ed assegno spettantigli come dipendente dal 1o gennaio 1969;

3)

Condannare la Commissione a rimborsargli le spese sostenute a seguito del procedimento disciplinare, nella misura di 25000 FB;

4)

Statuire che la decisione impugnata costituisce un illecito della Commissione, che dovrà quindi risarcire il danno nella misura che piacerà alla Corte stabilire.

La Commissione sostiene invece che tutte queste conclusioni sono infondate e vanno quindi respinte.

Se ora ci chiediamo quale valutazione debba darsi delle conclusioni presentate, sarà bene procedere separatamente all'indagine sui diversi punti. Seguendo l'ordine proposto dal ricorrente, esaminerò perciò, in primo luogo, la questione della legittimità della decisione di destituzione.

I — Sulla decisione di destituzione

Il ricorrente sostiene che la decisione disciplinare, adottata il 18 dicembre 1968, è illegittima per diversi motivi.

1.

Egli attribuisce gran peso ad un argomento tratto dalle norme che regolano il procedimento disciplinare. Com'è noto, l'art. 7, 3o comma, dell'allegato IX allo statuto del personale stabilisce che l'autorirà che ha il potere di nomina prende la sua decisione nel termine di un mese dal momento in cui le è stato trasmesso il parere del consiglio di disciplina. Il ricorrente sostiene che si tratta qui di una disposizione da interpretare restrittivamente, e cioè della fissazione di un termine di decadenza paragonabile ai termini processuali. Decorso il termine, non si avrebbe più la facoltà di adottare provvedimenti disciplinari. Le decisioni eventualmente adottate dovrebbero essere annullate. Ciò comporterebbe, inoltre, la nullità dell'intero procedimento disciplinare, compreso il parere del consiglio di disciplina. Nel presente caso, le conseguenze ora prospettate sarebbero inevitabili, poiché il dies a quo del summenzionato termine di un mese sarebbe o il 26 giugno 1967 (data della notifica del parere del consiglio di disciplina alla Commissione) o il 15 luglio 1968 (data della notifica della sentenza 11 luglio 1968 sul primo provvedimento disciplinare). Si vede subito che ci troviamo di fronte ad un problema veramente complicato.

Già la valutazione degli interessi contrapposti dà luogo a qualche difficoltà. Si deve riconoscere che i dipendenti che siano implicati in un procedimento disciplinare hanno un legittimo interesse a che tale procedimento sia concluso nel più breve tempo possibile. Ho già accennato, nelle conclusioni delle cause 18 e 35/65 Racc. XII-1966, pag. 181), a questa situazione, che del resto risulta con chiarezza da tutta una serie di termini stabiliti nell'art. 7 dell'allegato IX dello statuto del personale. Si deve anche ammettere, d'altra parte, che il termine cui si riferisce il ricorrente avrebbe posto l'autorità che ha il potere di nomina — e la Commissione in quanto tale per i dipendenti della categoria A — in una situazione particolarmente imbarazzante. Entro questo termine deve aver luogo l'audizione dell'interessato per la quale si rendono necessari alcuni lavori preparatori — anche di carattere tecnico — e dev'essere rispettato un termine di comparizione qualora l'interessato — come nel nostro caso — non si trovi in servizio attivo presso la Commissione. Infine si deve prendere la decisione conclusiva, in genere tenendo conto di complesse circostanze e in base a difficili valutazioni. Tutto ciò viene ad aggiungersi alla mole di lavoro corrente che, proprio per la Commissione, è sempre considerevole. Nessuna meraviglia quindi che la Commissione sia propensa a riconoscere soltanto carattere ordinatorio al termine dell'art. 7.

Siamo poi costretti a constatare che nessun aiuto sostanziale può ricavarsi, per la soluzione del nostro problema, da un esame comparativo di casi retti da norme analoghe. Ciò vale, ad esempio, per le considerazioni da me svolte nella causa Gutmann (Racc. XII-1966, pag. 171) in merito al termine dell'art. 88 dello statuto del personale. Leggendo le mie considerazioni, si potrà constatare che esse non contribuiscono a definire la natura del termine stabilito per la sospensione dal servizio, ma pongono soltanto in evidenza che lo scadere del termine non esclude la prosecuzione dell'istruttoria, e cioè il compimento di atti non direttamente attinenti alla sospensione. Da quelle conclusioni non si possono perciò trarre argomenti validi per il presente caso.

Per quanto riguarda il diritto interno, sembra a prima vista che una setie di disposizioni militi a favore della tesi della Commissione, secondo cui l'art. 7 dell'allegato IX allo statuto avrebbe stabilito un termine avente carattere soltanto indicativo. In realtà, in base al diritto interno, si può ammettere il principio generale secondo cui i termini stabiliti per il compimento degli atti del processo in sede amministrativa o giurisdizionale sono termini cosiddetti ordinatori o impropri, e solo raramente termini perentori. Rimando in proposito al Traité élémentaire de droit administratif, di André de Laubadère, 3a edizione, volume I, n. 460. Circa il processo penale, affine a quello disciplinare, la Commissione è giunta, in base ad indagini comparative, a risultati analoghi (pag. 8 del controricorso). Quanto alla procedura disciplinare stessa, si possono trarre conclusioni simili in base al diritto tedesco che, come ho già detto in materia è decisamente improntato ad equità. A norma del par. 66 della «Bundesdisziplinar-ordnung», la comunicazione degli addebiti all'interessato deve avvenire entro il termine di sei mesi dalla notificazione della decisione d'instaurare il procedimento disciplinare. Il legislatore ha tuttavia disposto espressamente che l'inosservanza di questo termine non comporta automaticamente l'estinzione del procedimento. Questà può essere ordinata dal giudice (Bundesdisziplinargericht), ma soltanto dopo che siano stati ripetutamente fissati nuovi termini e che sia stato constatato un ritardo esagerato nello svolgersi del procedimento. Infine, ci si può richiamare in proposito — come ha fatto la Commissione — al diritto italiano, il quale prevede espressamente che, decorso un determinato termine, il procedimento disciplinare non può essere rinnovato (art. 119 del «testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato» — DPR 10 gennaio 1957 n. 3).

Queste riflessioni potrebbero in effetti opporsi alla tesi secondo cui il termine del nostro diritto disciplinare che ora ci interessa sarebbe senz'altro un termine perentorio. Dubito però che esse abbiano, in definitiva, valore decisivo. Prima di tutto, non si deve perdere di vista il fatto che anche per gli organi amministrativi e giurisdizionali possono esistere termini perentori veri e propri, e che ciò dipende esclusivamente dal se «le texte en question a entendu donner au délai un caractère impératif» (come dice Laubadère, loc. cit). Si deve perciò ammettere che gli esempi addotti dalla Commissione e tratti dal diritto penale sono inconcludenti per il nostro caso. Nel diritto penale — in particolare per quanto riguarda la stesura e la pubblicazione delle sentenze — risulta infatti in vario modo, dalla stessa lettera delle disposizioni di cui Trattasi, ch'esse sono soltanto delle cosiddette norme dispositive. A prescindere da questo, anche la situazione degli interessi è diversa. Naturalmente non avrebbe alcun senso l'escludere la possibilità di una sentenza di appello dopo la scadenza di un dato termine, poiché ciò equivarrebbe ad un diniego di giustizia. Si può dire, inoltre, che l'esistenza di norme sulla prescrizione in diritto penale impedisce di ravvisare nei termini indicati dei termini di decadenza.

Per quanto riguarda l'esempio del diritto italiano, si deve osservare ch'esso non può affatto costituire un argomento a contrario, proprio perché il legislatore, anche se non indica espressamente determinati effetti giuridici, può chiaramente manifestare in altro modo la natura del termine che intendeva stabilire per un determinato organo amministrativo.

Per la soluzione del nostro caso, dovremmo perciò attenerci anzitutto al testo dell'art. 7 dell'allegato IX allo statuto del personale. E qui sembra veramente significativa la formulazione categorica che vi incontriamo. «L'autorità che ha il potere di nomina» — dice l'art. 7 — «prende la sua decisione nel termine massimo di un mese». A ciò corrisponde la decisa formulazione delle altre versioni linguistiche : «dans le délai d'un mois au plus» nel resto francese, «innerhalb einer Frist von höchstens einem Monat» nel testo tedesco. A ciò si aggiunga che questa Corte ha già avuto occasione di sottolineare, nella causa 35/67, Racc. XIV-1968, pag. 456) che «l'articolo in questione va interpretato «restrittivamente» (è una «disposition de droit strict»). Il fatto ch'essa abbia contemporaneamente dichiarato che il procedimento dinanzi al consiglio di disciplina e il parere di quest'ultimo erano regolari (dal che la Commissione ha giustamente concluso di poter proseguire su questa base il procedimento disciplinare) non fornisce — a ben vedere — alcun argomento a favore della tesi secondo cui il termine di un mese dell'art. 7 avrebbe soltanto carattere indicativo. L'affermazione della Corte può infatti essere intesa anche nel senso che alla Commissione, dopo l'annullamento della sua decisione per motivi formali e quindi dopo il chiarimento della questione processuale controversa, si dovesse riconoscere, per così dire, una restitutio in integrum, come avviene anche in diritto interno per analoghe situazioni (rimando in proposito alla decisione 14 marzo 1957 del Bundesverwaltungsgericht, pubblicata in «Verwa ltungsrechtsprechung», Racc. X, n. 189). Inoltre, applicando analogicamente un principio affermato nella causa 6/60 (Racc. VI-1960, pag. 1116), si può sostenere che nell'interpretare testi aventi manifestamente lo scopo di tutelare interessi individuali, si deve preferire l'interpretazione che garantisce la tutela più efficace. Ciò equivale indubbiamente, nel nostro caso, ad ammettere che il termine dell'art. 7 è un rigido termine di decadenza e che la sua inosservanza non solo giustifica la pretesa al risarcimento dei danni (difficilmente realizzabile in realtà), ma comporta anche la nullità della decisione adottata dall'autorità che ha il potere di nomina.

Sembra così imporsi, in realta, la conclusione proposta dal ricorrente col suo mezzo principale. Tuttavia, per affermare che tale conclusione è l'unica possibile non bastano le considerazioni fin qui svolte.

Date le difficoltà ricordate all'inizio, che possono sorgere in determinati casi per l'amministrazione, si dovrà infatti ammettere almeno la prova dell'eventuale impossibilità assoluta di rispettare il termine di un mese, si dovrà stabilire cioè se per la Commissione si possa prendere in considerazione la restitutio in integrum che è in genere possibile per il caso fortuito o il caso di forza maggiore. In quest'ordine di idee, si devono richiamare alla memoria i seguenti fatti. La notificazione della sentenza è avvenuta il 15 luglio 1968, che può considerarsi il dies a quo. In seguito il ricorrente riceveva una lettera della Commissione del 1o agosto 1968, in cui si diceva che la questione della sua reintegrazione era all'esame. Il 3 ottobre 1968 aveva luogo un colloquio fra il ricorrente ed il Direttore generale del personale e dell'amministrazione, che evidentemente aveva in sostanza lo scopo d'indurre il ricorrente a dare spontaneamente le dimissioni. Il 13 novembre 1968 la Commissione incaricava tre dei suoi membri, in conformità all'art. 7 dell'allegato IX allo statuto, di procedere all'audizione del ricorrente. Questa avrebbe dovuto aver luogo il10 dicembre 1968. Poiché il ricorrente non compariva, si addiveniva infine, il 18 dicembre 1968, alla decisione ora impugnata. La Commissione giustifica in sostanza la così lunga durata del periodo intercorso fra la notifica della sentenza e la conclusione del procedimento disciplinare adducendo che l'inizio del termine era venuto a coincidere con l'inizio delle ferie, ch'essa aveva voluto, in adempimento del suo dovere di assistenza, offrire al ricorrente la possibilità di risolvere spontaneamente il suo rapporto d'impiego, e che proprio a quell'epoca essa stava provvedendo alla riorganizzazione dei suoi servizi.

Chiediamoci dunque se la Commissione possa giustificare in tal modo il fatto che la decisione impugnata è stata adottata soltanto 5 mesi dopo la pronunzia della sentenza. Per anticipare la risposta, a me pare che non si possa seguire la Commissione fino a questo punto.

In primo luogo non è sufficiente l'argomento relativo al periodo delle vacanze. Queste non possono impedire il disbrigo di affari importanti e urgenti, quali sono precisamente, secondo la chiara definizione dello statuto del personale, le decisioni nelle questioni disciplinari. Lo stesso può dirsi per l'adempimento del dovere di assistenza che — come giustamente ha osservato il ricorrente — ha effetti addirittura controproducenti, qualora l'autorità che ha il potere di nomina ritardi in modo esagerato la conclusione del procedimento disciplinare.

Soltanto per quanto riguarda la riorganizzazione dei servizi, resa necessaria dalla fusione degli esecutivi, le cose, potrebbero essere diverse. Constatiamo però, che già il 3 ottobre 1968 aveva avuto luogo un colloquio col ricorrente per la regolarizzazione della sua posizione amministrativa. A quell'epoca, perciò, l'amministrazione doveva ormai aver concluso l'esame della pratica e completato il relativo «dossier». Tutto quanto era necessario per la prosecuzione e la conclusione del procedimento disciplinare avrebbe potuto aver luogo al più tardi nelle settimane successive. Il fatto che ciò sia avvenuto soltanto nel dicembre 1968 non è dunque giustificabile, neppure ad un esame benevolo.

Di conseguenza, se non si vogliono completamente svuotare di contenuto le disposizioni dello statuto del personale, si deve concludere che la Commissione non ha portato a termine con la necessaria rapidità il procedimento disciplinare instaurato contro il ricorrente. E questo impone — in conformità alle conclusioni del ricorrente — l'annullamento della decisione adottata nel dicembre 1968. In seguito si dovranno accertare le ulteriori ripercussioni dei risultati fin qui raggiunti sul procedimento disciplinare.

2.

Prima, tuttavia, si devono esaminare gli altri mezzi dedotti dal ricorrente, tanto più che le considerazioni finora svolte hanno sollevato problemi assai delicati ed oltremodo controversi.

a)

Il primo di questi mezzi presenta vari aspetti, sui quali si deve prendere posizione.

In primo luogo, il ricorrente assume che in realtà si tratta dell'applicazione dissimulata dell'art. 51 dello statuto del personale, della norma, cioè, che prevede il licenziamento dei dipendenti per insufficienza professionale. Tuttavia su questo punto non è necessario dilungarsi. L'unico appiglio al riguardo è il penultimo capoverso della motivazione della decisione, dove è detto che non ci si può attendere in futuro dal ricorrente alcun valido contributo all'attività della Commissione. Ad un esame più preciso appare tuttavia chiaro che con questa formula la Commissione si riferiva al comportamento illecito tenuto dal ricorrente in passato, comportamento di cui è fatta menzione nel comma precedente. In relazione a ciò si conclude in conformità a quanto proposto dal consiglio di disciplina, che non deve essere irrogata una delle sanzioni disciplinari più lievi. A favore dell'ipotesi che si tratti effettivamente di una decisione disciplinare sta del resto anche il fatto che la Corte, nella causa 35/67, ha espressamente dichiarato valido il parere del consiglio di disciplina. Data questa circostanza, per la Commissione era più che ovvio fare propri gli argomenti del consiglio di disciplina e trarne le opportune conseguenze ai fini della decisione. Sarebbe stato invece incomprensibile ch'essa avesse fatto ricorso all'art. 51 (in questo caso valgono comunque le stesse norme processuali stabilite per le decisioni disciplinari). Non vi è quindi alcun motivo di parlare di sviamento di procedura.

Il ricorrente sostiene poi che la Commissione si è basata su considerazioni di opportunità nell'infliggergli una grave sanzione disciplinare. Egli cita in proposito una frase contenuta nella motivazione della decisione, in cui è detto che non sarebbe stato opportuno infliggere soltanto la sanzione disciplinare più lieve proposta dal consiglio di disciplina. Neppure su questo punto si può seguire il ricorrente. Dalla motivazione nel suo complesso risulta infatti chiaramente in qual senso debba essere inteso il passo indicato. Si trattava evidentemente di basare sul precedente comportamento contestato al ricorrente (più precisamente, sul fatto ch'egli non aveva dimostrato alcuno spirito d'iniziativa nel servizio presso la biblioteca ed aveva anche rifiutato di compiere determinati lavori) la risposta al quesito se fosse ragionevole concedere al ricorrente la possibilità di riabilitarsi, come proposto dal consiglio di disciplina. Nel suo sovrano potere di valutazione del comportamento del ricorrente, la Commissione riteneva di non poter decidere in senso affermativo al riguardo, e giungeva quindi alla conclusione che la sanzione disciplinare più grave era la più appropriata. La punizione del ricorrente non ebbe luogo, perciò, per motivi di opportunità. La formula cui si è accennato è servita invece alla Commissione solo per motivare, rispetto alla proposta del consiglio di disciplina, la scelta della sanzione che le sembrava più idonea.

Una terza censura ratta valere dal ricorrente è che, tanto prima quanto dopo la sentenza 35/67, mai gli fu data l'occasione di lavorare per la Commissione e di tenere un comportamento tale da infirmare gli addebiti fattigli sotto il profilo disciplinare. In proposito egli si richiama più volte alla già ricordata «chance», di cui al penultimo capoverso della motivazione della decisione.

Al riguardo va fatta una distinzione:

Per quanto si riferisce al periodo precedente alla sentenza, il mezzo dedotto dal ricorrente è certamente infondato. Al riguardo non è necessaria alcuna ulteriore considerazione circa il periodo posteriore all'adozione del provvedimento di destituzione già impugnato. Questo infatti era immediatamente esecutivo, ed ha quindi privato il ricorrente della possibilità di svolgere la sua attività alle dipendenze della Commissione. Lo stesso vale però anche per il periodo anteriore all' adozione della prima decisione di destituzione, e ciò per la semplice ragione che si deve negare al ricorrente la possibilità di rimettere in discussione la valutazione del suo comportamento da parte del consiglio di disciplina, mediante giustificazioni ch'egli avrebbe dovuto addurre già in precedenza. Qualora si agisse diversamente, si ammetterebbe — nonostante la mancanza dei necessari presupposti — una revisione, per così dire, di atti che la Corte ha espressamente dichiarato validi nella sentenza 35/67.

In quanto, d'altra parte, il ricorrente accenna al fatto che, anche dopo l'emanazione della sentenza di annullamento, egli non ebbe modo di prestare servizio, le sue argomentazioni non possono essere senz'altro respinte. Dalle lettere del ricorrente 20 luglio 1968 e 12 agosto 1968, già menzionate nell'esposizione dei fatti, mi sembra risulti chiaramente ch'egli era pronto a dedicarsi con impegno al servizio. Il tenore delle lettere sopra indicate non consente di ravvisare in esse precise riserve, benché la Commissione abbia interpretato come tale l'accenno ad una diversa attività nel frattempo intrapresa dal ricorrente. Cionondimeno la Commissione non riammetteva in servizio il ricorrente, ma procedeva soltanto — com'essa dice — ad una «intégration pour ordre», cioè in sostanza glicorrispondeva lo stipendio. Uno status del genere non è previsto nel nostro diritto amministrativo. Neppure mi sembra dimostrato che la Commissione, per tutta la durata del periodo di cui trattasi (voglio prescindere da un certo periodo iniziale), non fosse in grado, per motivi tecnico-amministrativi, di assegnare al ricorrente una qualsiasi attività adeguata al suo grado. Non possiamo d'altra parte escludere che il ricorrente, qualora fosse rientrato in servizio attivo presso la Commissione, avrebbe svolto in modo soddisfacente le mansioni affidategli. Ciò avrebbe potuto avere grande importanza per la valutazione del suo comportamento in sede disciplinare, poiché ai fini della determinazione della sanzione adeguata al caso, tutte le circostanze, quindi anche il comportamento in servizio in epoca successiva al momento in cui furono commesse le infrazioni contestate, hanno un certo peso. Nella circostanza che la Commissione non abbia riammesso in servizio il ricorrente, dopo l'annullamento della prima decisione impugnata, potrebbe vedersi perciò un altro elemento di prova della illegittimità della decisione adottata nel dicembre 1968. Voglio tuttavia astenermi da un ulteriore approfondimento di queste considerazioni, perché a mio parere la decisione impugnata è già viziata da violazione dell'art. 7 dell'allegato IX allo statuto del personale.

b)

Sul secondo altro mezzo posso essere più breve. Il ricorrente assume che i motivi disciplinari sono stati soltanto un pretesto per la sua destituzione, mentre in realtà si trattava di un provvedimento adottato nell'ambito di una generale riduzione del personale scientifico alle dipendenze della CEEA. Indubbiamente, questa grave censura di sviamento di potere richiede un'adeguata motivazione e dev'essere fondata su importanti indizi. Non basta la semplice supposizione che nelle considerazioni della Commissione abbia potuto avere un certo peso anche la precaria situazione dell'Euratom, della quale del resto non è responsabile la Commissione, bensì il Consiglio. Poiché non troviamo nel ricorso alcun indizio serio, il mezzo in esame va respinto, senza che siano necessarie ulteriori considerazioni.

c)

Con un terzo mezzo si fa carico infine alla Commissione di aver valutato in modo inesatto il comportamento del ricorrente durante il servizio presso la biblioteca del Centro di ricerca nucleare di Ispra. Questo argomento è diretto contro l'addebito, contenuto nel parere del consiglio di disciplina e nella decisione impugnata, secondo cui il ricorrente non avrebbe preso alcuna iniziativa e si sarebbe perfino rifiutato di eseguire i lavori a lui affidati.

Ora posso limitarmi a poche parole per quanto riguarda il tentativo del ricorrente di metter in dubbio la consistenza degli addebiti mossigli (come egli sembra fare sotto vari aspetti). Ho già detto in precedenza che ciò è in linea di principio impossibile. In proposito è decisivo il fatto che la Corte, nella sentenza 35/67, ha espressamente dichiarato che il parere del consiglio di disciplina è valido (Racc. XIV-1968, pag. 455). Poiché il ricorrente, anche a questo riguardo, non ha dedotto avverso la validità delle dichiarazioni del consiglio di disciplina, alcun argomento che non avrebbe già potuto dedurre nel precedente procedimento, egli deve rassegnarsi a che le sue attuali argomentazioni non vengano prese in esame.

Tuttavia la portata delle deduzioni del ricorrente è più ampia. Evidentemente esse hanno di mira la valutazione, da parte dell'autorità che ha il potere di nomina, del comportamento constatato dal consiglio di disciplina, e quindi le modalità secondo le quali è avvenuta la commisurazione della sanzione. Per quanto attiene a questo aspetto, vorrei in primo luogo richiamare le mie conclusioni nella causa 35/67 (Racc. XIV-1968, pag. 472). Ho sostenuto allora che la valutazione del comportamento di un dipendente sotto il profilo disciplinare implica problemi che in sede giurisdizionale non possono essere riesaminati a fondo. Al massimo si tratta di determinare se tale valutazione sia complessivamente obiettiva, giusta e comprensibile. Ritengo che questo modo di vedere sia sempre valido. Continuo cioè ad essere convinto che la Corte di giustizia non può sostituire la propria valutazione a quella effettuata dalla Commissione. Non si tratta infatti del sindacato di merito. Questo era stato previsto in un progetto di statuto del personale per il controllo delle decisioni in questa materia, ma il progetto è stato in seguito abbandonato. Né ci si può richiamare all'art. 91 per il fatto che la cessazione dal servizio implica conseguenze di natura pecuniaria. Ci dovremo perciò limitare ad un controllo di legittimità, come quello esercitato in generale nel processo disciplinare derivato dal diritto romano, cui s'ispira evidentemente il sistema comunitario (rimando in proposito alla trattazione del diritto disciplinare belga, francese, italiano e lussemburghese svolta da Clemens nel suo «Der europäische Beamte und sein Disziplinarrecht» pagg. 163, 167, 170 e 172). Ci si può quindi chiedere, in primo luogo, se la valutazione della Commissione sia manifestamente erronea o particolarmente severa. Questo, tuttavia, non si può certo affermare, data la gravità degli addebiti mossi al ricorrente (ripetute e prolungate assenze senza autorizzazione, mancanza d'iniziativa, rifiuto di eseguire determinati lavori) e nonostante si ammetta ch'egli ha trascorso solo un periodo relativamente breve in servizio presso la biblioteca di Ispra. Resterebbe inoltre la questione del se la decisione impugnata contenga un'adeguata motivazione della commisurazione della sanzione. Riguardo a questo punto, su cui la Corte non si è pronunciata nella sentenza 35/67, vorrei precisare che l'opinione da me sostenuta nelle mie precedenti conclusioni mi sembra ora inesatta. In effetti, la motivazione della decisione deve rispondere a requisiti particolarmente severi, quando si tratti d'infliggere la sanzione più grave prevista dal nostro diritto disciplinare e quando la Commissione intenda discostarsi da una proposta del consiglio di disciplina che comporta effetti meno gravi, cioè non attenersi al parere di un organo che si è occupato in modo particolarmente approfondito di tutti i dettagli della procedura. Ho già accennato a quanto è stato addotto nel presente caso a motivazione della decisione adottata. In sostanza, si tratta del penultimo capoverso della motivazione, che recita : «Considérant, eu égard au comportement de l'intéressé tel qu'il vient d'ètre décrit, qu'il ne subsiste aucune chance de voir à l'avenir l'intéressé fournir une contribution valable aux travaux de la Commission; que dès lors, il n'apparaît pas opportun, de ne prononcer qu'une sanction lui ménageant cette chance, ainsi que l'avaient suggéré les membres du Conseil de discipline». Ciò non può assolutamente considerarsi sufficiente, se non si vuole svuotare di contenuto l'obbligo della motivazione. Ai vizi del procedimento già denunciati se ne aggiunge così un altro, che giustifica l'annullamento della decisione impugnata.

II — Sul risarcimento dei danni

Finora ci siamo occupati della legittimità della decisione di destituzione. Ora si deve dire qualcosa sulle conclusioni del ricorrente, dirette ad ottenere determinate prestazioni pecuniarie. Anche in proposito potrò essere molto breve.

1.

Vi è in primo luogo la richiesta di rimborso delle spese occasionate dall'assistenza di un avvocato durante il procedimento disciplinare. Al riguardo ritengo che dobbiamo procedere comenella causa 35/67. Se si accolgono le considerazioni da me svolte fino a questo punto, la sanzione disciplinare inflitta al ricorrente dovrebbe essere annullata. Tuttavia si dovrà ammettere che non vi è nullità di tutto il procedimento disciplinare (nel qual caso le spese dovrebbero effettivamente, a norma dell'art. 10 dell'allegato IX allo statuto del personale, essere a carico della Commissione). Ritengo invece che si debba continuare a ritenere validi il procedimento disciplinare e il parere del consiglio di disciplina. Ciò sembra possibile perché l'annullamento deriva in primo luogo dall'inosservanza del termine stabilito dall'art. 7 dell'allegato IX, quindi dall'applicazione di una norma che dev'essere definita una «lex imperfecta» e la cui portata viene accertata ora per la prima volta in sede giurisdizionale. In tal caso può essere concessa la cosiddetta restitutio in integrum (come risultava già dalla sentenza 35/67) : è ammessa, cioè, la prosecuzione del procedimento dal momento in cui, dopo la notificazione della sentenza 35/67, esso si era svolto in modo irregolare. La pretesa di rimborso delle spese sostenute in seguito al procedimento disciplinare non richiede perciò, come nella causa 35/67, alcuna particolare decisione.

2.

Ancor meno c'è da dire sulla pretesa di risarcimento dei danni. Accogliendo le argomentazioni della Commissione, si può far presente al riguardo che il ricorrente non ha fornito indicazioni sull'entità del danno eccedente le conseguenze finanziarie del licenziamento, che devono essere eliminate in concomitanza con l'annullamento della decisione impugnata. La domanda tendente al risarcimento dei danni è perciò infondata.

III — Conclusioni finali

Concludo come segue :

Il ricorso è ricevibile e fondato in quanto diretto all'annullamento della decisione della Commissione che prevedeva la destituzione del ricorrente dal 1o gennaio 1969. Spetta alla Commissione stabilire le conseguenze che derivano sul piano amministrativo da una sentenza di questo tenore, mentre non sono necessarie particolari statuizioni nella sentenza stessa. La pretesa di rimborso delle spese sostenute per il procedimento disciplinare non richiede alcuna pronuncia. La pretesa di risarcimento dei danni va respinta.

Poiché il ricorso va sostanzialmente accolto, le spese del procedimento devono essere poste totalmente a carico della Commissione.


( 1 ) Traduzione dal tedesco.