Conclusioni dell'avvocato generale

MAURICE LAGRANGE

20 novembre 1962

Traduzione dal francese

Signor Presidente, signori giudici,

Mi si consenta di esaminare congiuntamente i due gruppi di cause riunite (16 e 17-62 e da 19 a 22-62) discussi nella stessa udienza, e ciò perchè essi vertono sulla stessa questione di principio, sollevata per la prima volta davanti a questa Corte, ossia su come vada interpretato l'articolo 173, 2o comma, del Trattato C.E.E. il quale stabilisce in quali casi siano ricevibili i ricorsi d'annullamento proposti contro i regolamenti comunitari da una persona fisica o giuridica che non sia uno Stato membro, il Consiglio o la Commissione.

In tutte le presenti cause, i ricorsi sono stati introdotti da associazioni, persone giuridiche di diritto privato, e precisamente :

1o

da associazioni di produttori (frutta e verdura, uva da tavola), le quali impugnano il regolamento del Consiglio n. 23, relativo alla graduale instaurazione di un'organizzazione comune dei mercati nel settore della frutta e verdura ;

2o

da associazioni di grossisti (carni, prodotti agricoli), che impugnano il regolamento del Consiglio n. 26, relativo all'applicazione di determinate regole di concorrenza alla produzione ed al commercio dei prodotti agricoli.

In entrambi i casi è stato chiesto l'annullamento parziale: annullamento dell'articolo 9 del regolamento n. 23 (i motivi del ricorso riguardano anzi soltanto l'ultimo comma di questo articolo il quale concerne la rinuncia degli Stati membri ad applicare l'articolo 44 del Trattato che consente di fissare prezzi minimi durante il periodo transitorio) e, quanto al regolamento n. 26, annullamento dell'ultimo inciso del primo paragrafo dell'articolo 2, disposizione che determinerebbe una discriminazione, a favore degli agricoltori e a danno dei commercianti di prodotti agricoli che non siano al tempo stesso produttori.

Con ordinanza 24 ottobre 1962, la Corte ha ammesso l'intervento dell'Assemblée permanente des Présidents de Chambres d'agriculture a sostegno delle ragioni delle ricorrenti nelle cause 16 e 17-62. Non avrò più occasione di parlarne, posto che l'interveniente si è limitata a far proprie le tesi delle ricorrenti.

In tutte le cause, infine, il Consiglio ha sollevato l'eccezione d'irricevibilità, il che ha hato luogo al procedimento di cui all'articolo 91 del Regolamento di procedura. Ai sensi del paragrafo 4 di questo articolo, voi dovrete scegliere fra le tre seguenti alternative: accogliere l'eccezione, respingerla ovvero rinviare al merito. Le ricorrenti, naturalménte, contrastano l'eccezione, ma insistono perchè sia decisa insieme al merito.

È questa la prima questione che dovrete risolvere. Molto spesso si manifesta l'opportunità di statuire congiuntamente sulla ricevibilità e sul merito, sia perchè a prima vista le eccezioni opposte dal convenuto o atte ad essere sollevate d'ufficio danno adito a dubbi oppure hanno peso troppo scarso per costituire oggetto di un'apposita sentenza, sia perchè appaiono più o meno connesse al, merito o, quanto meno, tali che l'esame del merito fornirà ulteriori elementi per giudicare della loro fondatezza.

Non è però questo, o signori, il caso nostro. Si tratta infatti di una questione di principio vertente, in modo puramente astratto ed assolutamente generale, sull'interpretazione del Trattato e che, se ciò non bastasse, ha tale importanza ai fini del controllo giurisdizionale sull'attività degli organi esecutivi, Consiglio e Commissione, da far apparire estremamente opportuno che sia risolta in modo chiaro e definitivo, indipendentemente dal caso concreto.

Come il Trattato C.E.C.A., il Trattato C.E.E., nell'istituire il sindacato di legittimità sugli atti degli organi esecutivi — contro i quali fu ammesso il ricorso; d'annullamento davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità — ha fissato espressamente i limiti di questa impugnativa, sia per quanto -riguarda le persone legittimate ad agire, sia per quanto riguarda gli atti impugnabili. Sempre come il Trattato C.E.C.A., il Trattato C.E.E. fa a questo proposito una distinzione fra determinati soggetti privilegiati, in sostanza gli Stati membri, che non devono soddisfare alcuna particolare condizione, soprattutto per quanto riguarda l'interesse ad agire, ed altri soggetti, per i quali sono invece stabilite condizioni tassative, diverse a seconda della natura dell'atto impugnato.

Le analogie finiscono però qui, giacche, nella loro struttura, i due Trattati presentano profonde differenze, manifestamente volute dagli autori del Trattato di Roma. È perciò necessaria la massima cautela nel richiamarsi, per interpretare l'articolo 173 del Trattato C.E.E., alle corrispondenti disposizioni del Trattato di Parigi, in ispecie all'articolo 33, ed alla relativa giurisprudenza. In via generale si può soltanto affermare che il Trattato C.E.E. è più liberale del Trattato C.E.C.A. quanto ai soggetti, che non siano quelli privilegiati, legittimati ad agire (imprese e loro associazioni, nella C.E.C.A. ; «qualsiasi persona fìsica o morale», nella C.E.E.) e quanto ai motivi di ricorso; mentre è pin rigido quanto ai requisiti richiesti per impugnare determinati atti. Infine il Trattato di Roma, come quello di Parigi, ha avuto cura di definire le varie categorie di atti che possono essere emanati dall'organo o organi esecutivi (art. 14 del secondo, art. 189 del primo); queste definizioni però non coincidono e naturalmente, nell'applicare il Trattato di Roma, si deve tener conto delle definizioni date dall'articolo 189 di questo Trattato, tutte le volte che un'altra disposizione, come ad esempio l'articolo 173 di cui ci stiamo occupando, usa uno dei termini che sono stati oggetto di definizione, quali «regolamento» o «decisione».

Fatta questa premessa, passiamo ad esaminare l'eccezione sollevata dal Consiglio.

Una prima questione, sollevata dal Consiglio ed anche dalle ricorrenti nelle cause 16 e 17-62, attiene alla ricevibilità del ricorso proposto da un'associazione.

Il Consiglio, pur ammettendo che la questione non è determinante agli effetti della controversia, dichiara di «nutrire dei dubbi circa la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, e ciò indipendentemente dalla natura dell'atto impugnato». In realtà, aggiunge il Consiglio, l'atto «non incide sulla situazione delle ricorrenti in quanto associazioni», bensì unicamente sulla situazione dei loro membri; non è dunque «tale da riguardare direttamente dette associazioni».

Questa osservazione, come vedete, ci conduce «direttamente» all'interpretazione del secondo comma dell'articolo 173 che costituisce il nocciolo della controversia: questa interpretazione non dipende però, nè può dipendere, dalla qualità del ricorrente : «qualsiasi persona fisica o giuridica» dice l'articolo, può proporre ricorso; un'associazione regolarmente costituita a norma delle leggi del suo paese è evidentemente una «persona giuridica», se queste leggi le attribuiscono tale qualità da cui deriva normalmente il diritto di stare in giudizio. Che un'interpretazione restrittiva dell'articolo 173, 2o comma, priverebbe praticamente le associazioni del diritto di ricorrere è fuori dubbio, giacchè è difficile immaginare che l'associazione possa essere, in quanto tale, destinataria di una decisione ovvero che un regolamento o una decisione adottata nei confronti di altri «la riguardi direttamente e individualmente» in quanto associazione. Si può, come ha fatto il patrono delle ricorrenti nelle cause 16 e 17-62, trarne argomento a favore di un'interpretazione meno rigida; l'interpretazione restrittiva, però, non significa che le associazioni siano escluse ipso iure dal campo d'applicazione dell'articolo 173, 2o comma: si tratta di persone giuridiche e come tali esse soddisfano le condizioni alle quali è subordinata la legittimazione ad agire.

Dopo di che, guardiamo il testo della disposizione : «Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni (cioè alle condizioni stabilite nel primo comma a proposito del controllo di legittimità sugli atti, del Consiglio e della Commissione che non siano raccomandazioni o pareri), un ricorso contro le decisioni prese nei suoi confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una decisione presa nel confronto di altre persone, la riguardano direttamente e individualmente».

La prima ipotesi, quella del ricorso proposto contro una decisione adottata «nei confronti» del ricorrente, non fa al caso nostro: le varie ricorrenti lo ammettono.

Quanto alla seconda ipotesi, essa si suddivide a sua volta in due alternative: decisione che ha l'apparenza di un regolamento e «decisione presa nei confronti di altre persone». Si tratta qui della prima alternativa ed è opportuno eliminare accuratamente dalla discussione tutto quanto attiene alla seconda, sulla quale dovrete ben presto pronunziarvi in altre cause.

Stando alla lettera della disposizione, nella prima alternativa sono necessarie quattro condizioni perchè il ricorso sia ricevibile :

1o

L'atto impugnato deve essere una decisione;

2o

deve avere l'apparenza di un regolamento;

3o

deve «riguardare direttamente il ricorrente»;

4o

deve pure riguardarlo «individualmente».

Cominciamo, se non vi dispiace, dalla seconda condizione, che è la più facile da verificare: atto avente l'apparenza di un regolamento. Essa ricorre evidentemente nei casi in esame, si tratti del regolamento n. 23 o del regolamento n. 26.

Prima condizione : l'atto dev'essere una decisione. È questo a mio parere il nocciolo del problema e la chiave della soluzione.

L'articolo 189, come ho detto, definisce i vari atti che possono essere emanati dal Consiglio o dalla Commissione, in particolare il regolamento e la decisione :

«Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».

«La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinari in essa indicati».

La prima definizione, quella del regolamento, è aderente alla nozione comunemente accolta di questa particolare categoria di atti amministrativi, nota nei sei paesi della Comunità: atto amministrativo, infatti, sotto l'aspetto formale, in quanto emesso dallo stesso potere esecutivo o da un organo dipendente da detto potere; ma, dal punto di vista sostanziale, atto di carattere normativo, vero provvedimento legislativo complementare contenente norme astratte e direttamente applicabili a tutti i casi contemplati, indipendentemente dalla persona del destinatario.

La seconda definizione, quella della decisione, è senza dubbio più utile, giacchè il termine «decisione» ha varie accezioni. In particolare, esso è spesso inteso in senso ampio e riferito a qualsiasi atto amministrativo che crei o modifichi una situazione giuridica ovvero abbia natura vincolante: il regolamento non è in tal caso che un tipo di decisione, alla stessa stregua della «deliberazione» di un organo collegiale, termine più peculiare del diritto amministrativo francese e che. ha dato luogo a difficoltà nel Trattato C.E.C.A. Si devono poi distinguere le decisioni «generali», che non sono necessariamente dei regolamenti (ad esempio la decisione che dichiara lo stato di penuria nella Comunità, art. 59 Trattato C.E.C.A.), e le decisioni individuali.

Il Trattato di Roma ha voluto precisare i termini usati e la definizione che esso ha dato della decisione (la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari in essa indicati) mi sembra perfettamente aderente alla nozione di decisione individuale. Naturalmente, la stessa decisione può avere più destinatari (ciò è implicito nel plurale) : in tal caso è una decisione collettiva, che corrisponde in pratica a un fascio di decisioni individuali.

La «decisione» in tal modo definita non comprende il regolamento, ma, al contrario, vi si contrappone. Per il Trattato di Roma, lo stesso atto non può essere contemporaneamente un regolamento e una decisione. Perciò l'articolo 173, quando parla di decisioni che hanno l'apparenza di un regolamento, si riferisce a provvedimenti che del regolamento hanno soltanto l'apparenza, ma in realtà sono delle decisioni, ed è questo il motivo per il quale il Trattato applica nei loro confronti le norme relative alle decisioni, in ispecie per quanto riguarda le impugnazioni di cui possono costituire oggetto.

Per giungere ad una diversa conclusione si dovrebbe ammettere che il termine «decisione» di cui all'articolo 173, 2o comma, sia usato in senso ampio, ad esempio como sinonimo di «atto», non già nel preciso significato attribuitogli dalla definizione dell'articolo 189. Pare essere questa la tesi delle ricorrenti nelle cause 16 e 17-62 le quali rilevano che l'espressione «decisioni individuali» non figura nell'articolo 173. Questa tesi, o signori, non è però affatto sostenibile, sol che si abbia cura di leggere l'intera disposizione di cui trattasi.

Le «persone fisiche o giuridiche» che non siano gli Stati membri, il Consiglio o la Commissione, possono impugnare in primo luogo «le decisioni prese nei loro confronti» : ciò corrisponde perfettamente alla definizione della decisione data dall'articolo 189. Quanto agli altri due casi in cui è possibile ricorrere, in entrambi è prescritto che la decisione «riguardi direttamente e individualmente» la persona fisica o giuridica che agisce. Si può seriamente ammettere che una decisione la quale «riguardi individualmente» un soggetto non è una decisione individuale? Non è quésto forse un giocare con le parole? È invece proprio il carattere individuale dell'atto nei confronti di una persona fìsica o giuridica ciò che giustifica l'attribuzione del diritto di ricorrere a questa persona, assimilata in tal caso al destinatario.

Ritengo quindi che la decisione di cui all'articolo 173, 2o comma, non possa essere che una decisione individuale avente l'apparenza di un regolamento.

Talune delle ricorrenti (è questa la tesi fondamentale dei ricorsi da 19 a 21-62, del pari svolta in via principale nel ricorso 22-62) sostengono appunto che gli atti impugnati, quanto meno nelle disposizioni che costituiscono oggetto dei ricorsi, sono in realtà delle decisioni individuali, non già dei regolamenti. Per l'articolo 189, il regolamento deve avere «portata generale», caratteristica questa che il regolamento n. 26 non possederebbe giacchè, ci è stato detto, non può avere tale caratteristica un atto che riguardi soltanto delle categorie, dei gruppi di soggetti ben determinati.

Signori, questa concezione della nozione di regolamento è errata. Il regolamento è caratterizzato, non già dalla maggior o minor ampiezza del suo campo d'applicazione, per materia o per territorio, bensì dal fatto che le sue norme si applicano in modo impersonale a situazioni obiettive, per quanto limitate e precisate esse siano. In ciò il regolamento si contrappone, come abbiamo visto, alla decisione individuale, la quale riguarda uno o più soggetti, uno o più individui. Queste nozioni sono talmente elementari che mi sembra inutile dilungarmi.

Orbene, nelle disposizioni criticate dalle ricorrenti, ai due regolamenti impugnati manca, sia in complesso, sia in particolare, ogni carattere di decisione individuale, di «decisione» ai sensi degli articoli 173 e 189 del trattato.

Mi sembra quindi inutile stabilire se le disposizioni impugnate «riguardino direttamente e individualmente» le ricorrenti.

Mi limiterò a rilevare, ad abundantiam, che è inutile seguire le ricorrenti nel loro tentativo di porre in relazione gli interessi o la sfera d'interessi che esse rappresentano con le disposizioni dei regolamenti che ledono gli interessi stessi. Questo tentativo potrebbe esser coronato da successo in un sistema giuridico diverso da quello stabilito dal Trattato e in ispecie se questo si fosse limitato ad esigere — come il diritto interno di quelli fra i paesi membri che ammettono l'impugnazione diretta dei regolamenti — che il ricorrente abbia interesse ad agire, precisamente un interesse diretto, secondo il principio generale vigente in materia di ricorso d'annullamento. Come sapete, nell'applicare il Trattato C.E.C.A. la Corte si è più volte richiamata alla nozione d'interesse, benchè l'espressione corrispondente non si riscontri nel testo di questo Trattato. Il richiamo è stato generalmente implicito e talvolta espresso. Gli avvocati generali, dal canto loro, ne hanno fatto esplicitamente il fondamento di determinate loro tesi e la dottrina ha spesso posto in rilievo questo aspetto del ricorso di annullamento. In tutti questi casi si trattava però d'interpretare determinate disposizioni del Trattato C.E.C.A. che avevano appunto bisogno di essere interpretate. La Corte non ha poi mai ammesso che la nozione d'interesse possa di per sè influire sulla natura giuridica dell'atto impugnato; essa non ha ad esempio accolto la mia proposta d'introdurre la nozione di decisione individuale in senso relativo e si è invece attenuta alla nozione ortodossa di regolamento, assimilandovi a quanto pare la decisione generale (sentenza Fédé char 8-55, del 16 luglio 1956, Racc. II, pagg. 219 e 220; conclusioni pag. 241 e segg.). Una possibilità del genere è, a fortiori, da escludersi, sotto il regime del Trattato C.E.E.

In questo Trattato la nozione d'interesse ad agire non si presta infatti ad esser elaborata dalla giurisprudenza, essendo perfettamente chiaro che gli autori di esso hanno inteso fissare fin dal principio i limiti del diritto d'impugnazione per i soggetti diversi da quelli che ho chiamato i «privilegiati», e l'hanno fatto in termini così precisi da rendere superflua qualsiasi interpretazione. Quanto alle associazioni, è vero che esse non avranno mai l'occasione di agire direttamente: esse possono però svolgere una importante funzione nel campo dell'intervento, una volta instaurato il giudizio in base alle norme vigenti; la giurisprudenza della Corte è abbastanza liberale in proposito e l'intervento è uno strumento particolarmente adatto alle associazioni che hanno il compito dì tutelare gli interessi generali della categoria che rappresentano.

Questo è il sistema del Trattato: il giurista, dal canto suo, può trovarlo criticabile, ma il giudice è tenuto ad applicarlo. Non è mio compito difendere tale sistema e mi limiterò ad osservare che esso è coerente e che a suo favore militano seri argomenti.

È coerente giacchè, mentre nega in linea di principio ai singoli il diritto d'impugnare direttamente i regolamenti comunitari, prevede espressamente l'eccezione d'illegittimità (art. 184) ed il rinvio alla Corte di Giustizia delle questioni pregiudiziali riguardanti anche la validità dei regolamenti (art. 177), il che ovvia in parte agli inconvenienti inerenti alla mancanza di azione diretta. A questo proposito, la situazione giuridica nella Comunità è senza dubbio meno favorevole di quella alla quale sono giunti, da lungo tempo o recentemente, un certo numero di Stati membri, ma è simile a quella esistente in altri Stati membri.

Quanto agli argomenti a favore, essi sono essenzialmente attinenti al carattere quasi legislativo che è generalmente proprio dei regolamenti, emanati per l'attuazione di un Trattato che è in gran parte una «legge quadro», ed altresì dall'estrema gravità che avrebbe in certi casi l'annullamento, anche solo parziale, di provvedimenti che, come è a tutti noto — e ciò è yero particolarmente dei regolamenti agricoli — sono nati da trattative laboriosissime e hanno talvolta richiesto difficili compromessi in seno al Consiglio, ancora tenuto a deliberare all'unanimità. È lecito chiedersi — come taluno ha fatto recentemente — se, in questa materia che rientra largamente nel campo legislativo, un efficace contrappeso all'azione dei governi rappresentati nel Consiglio non potrebbe essere costituito dall'attribuzione di' maggiori poteri all'organo parlamentare della Comunità.

Chiedo venia di questa, digressione di carattere politico; essa aveva unicamente lo scopo di dimostrare che ci troviamo di fronte alla precisa volontà degli autori del Trattato che non spetta al giudice di modificare.

Per finire, vorrei ribattere all'argomento sostenuto dalla ricorrente nella causa 22-62 e tratto dai principi di diritto costituzionale interno relativi alla tutela giurisdizionale concessa dall'ordinamento giuridico in Germania. La questione è già stata risolta in una delle vostre sentenze (Uffici di vendita del carbone della Ruhr e Nold,15 luglio 1960, 36, 38 e 40-59, Racc. VI, pag. 859) : «La Corte, cui è demandato di sindacare la legittimità delle decisioni emanate dall'Alta Autorità e quindi quelle nella specie adottate ai sensi dell'articolo 65 del Trattato, non è chiamata a garantire l'osservanza delle norme di diritto interno, seppure costituzionale, vigenti nell'uno o nell'altro degli Stati membri».

In definitiva; ritengo che l'eccezione sollevata dal Consiglio in tutte le presenti càuse debba essere accolta e di conseguenza concludo proponendovi di respingere i ricorsi e di porre le spese a carico delle associazioni ricorrenti; le spese provocate dall'intervento nelle cause 16 e 17-62 dovranno essere sopportate dall'interveniente.