Conclusioni dell'avvocato generale
MAURICE LAGRANGE
7 novembre 1962
Traduzione dal francese
Signor Presidente, signori giudici,
Ricordo brevemente gli antefatti.
Mediante raccomandate con ricevuta di ritorno in data 27 novembre 1961 (scritte su carta intestata dell'Alta Autorità, Direzione Generale Acciaio, e firmate dal Direttore generale e da un direttore), un certo numero di imprese italiane erano invitate ad inviare a Lussemburgo, nel termine di 21 giorni dal ricevimento della lettera :
1. |
gli originali o, in mancanza, copie e fotocopie certificate conformi di tutte le fatture relative all'energia elettrica consumata dall'impresa dall'aprile 1954 al novembre 1958 compreso; |
2. |
(cito testualmente) «la dichiarazione che i documenti inviati riflettono l'intero consumo di energia elettrica di codesta impresa nel periodo dal 1o aprile 1954 al 30 novembre 1958». |
Qualora l'impresa non fosse stata in possesso di tutte le fatture, nel medesimo termine di 21 giorni avrebbe dovuto chiedere ai suoi fornitori di energia elettrica d'inviare gli stessi documenti all'Alta Autorità. Alla raccomandata erano allegati dei moduli, diversi per le due ipotesi, da restituirsi compilati.
La motivazione di questo invito si trovava all'inizio ed alla fine della lettera, la quale così esordiva : «La mancanza di una parte rilevante della documentazione contabile ed extracontabile di codesta impresa ci ha impedito di controllare in modo adeguato i dati necessari per determinare il vostro imponibile» e terminava come segue : «Teniamo ad informarvi che le manovre dilatorie poste in opera da un certo numero d'imprese ed altesì la scoperta di numerose irregolarità passibili di sanzioni penali obbligano attualmente l'Alta Autorità ad agire con la massima severità».
Vi è stato detto che un certo numero d'imprese aderivano all'invito e che la verifica dei documenti esibiti dava luogo a rettifiche per più di un'impresa.
Per contro, le dieci ricorrenti non ritennero di doversi comportare nello stesso modo. Le prime sette (cause da 5 a 11-62), con lettere di analogo contenuto e tutte in data 27 dicembre 1961, protestavano energicamente contro la richiesta loro fatta e diffidavano l'Alta Autorità a revocare la propria decisione o, quanto meno, estenderla a tutte le imprese dello stesso settore produttivo. Esse negavano di aver impedito agli agenti dell'Alta Autorità di effettuare adeguati controlli presso i loro uffici e contestavano, per varie ragioni, che l'articolo 47 del Trattato permettesse all'Alta Autorità di esigere quanto richiesto. Esse sostenevano che il consumo di energia elettrica non costituisce un criterio adeguato per verificare il consumo di rottame, rilevavano il carattere discriminatorio della richiesta inerente al fatto di non essere stata estesa a tutte le imprese e terminavano invitando l'Alta Autorità «ad adottare in via preliminare una decisione, a norma dell'articolo 14 del Trattato, nella quale si pronunzi su tutti i punti controversi indicati nella presente lettera».
È perfettamente chiaro che, nelle intenzioni delle ricorrenti, queste lettere dovevano costituire il presupposto di un eventuale ricorso per carenza ai sensi dell'articolo 35. Il ricorso è stato in effetti proposto, nonostante l'Alta Autorità avesse emanato, il 23 febbraio 1962, una serie di decisioni in debita forma, che le ricorrenti hanno del pari impugnato invocando l'articolo 33. Queste decisioni, tutte uguali, sono state adottate dall'Alta Autorità collegialmente e rispondono ai requisiti di forma stabiliti dalla decisione 22-60, del 27 dicembre 1960, relativa all'esecuzione dell'articolo 15 del Trattato. Esse differiscono inoltre dalle lettere del 27 novembre 1961 sotto due aspetti: 1. nella motivazione ci si limita a menzionare i poteri di controllo attribuiti all'Alta Autorità dall'articolo 47 ed a dichiarare che l'Alta Autorità «ritiene opportuno valersi» nella specie «dell'appropriato criterio di controllo» costituito dal consumo di energia elettrica; non vi è quindi più cenno dell'insufficienza dei precedenti controlli causata dalla mancanza di una parte rilevante della documentazione contabile ed extra-contabile dell'impresa; 2. nel dispositivo non si parla più di chiedere la documentazione ai fornitori di energia elettrica.
Le tre ultime ricorrenti (cause 13, 14 e 15-62) rispondevano invece in altro modo alla lettera del 27 novembre 1961. Le prime due facevano esplicitamente rilevare che in seguito alle verifiche compiute presso i loro uffici erano state effettuate delle rettifiche che esse avevano accettate per chiudere definitivamente la partita. Quanto alla ricorrente nella causa 15-62, essa dichiarava di sottomettersi all'articolo 47 del Trattato, ma faceva al tempo stesso presenti le difficoltà provocate dal licenziamento di tutti i suoi impiegati e dalla morte della persona incaricata dell'amministrazione; essa chiedeva che le fosse comunque concesso un termine più ampio.
A queste tre imprese fu cionondimeno notificata una decisione identica a quelle inviate alle altre sette, senza alcuna allusione alla loro particolare situazione.
Ho ritenuto di dover rilevare queste differenze, per la precisione. Le tre ultime ricorrenti hanno però svolto le stesse tesi e formulato le stesse conclusioni delle altre, di guisa che, delle particolarità della loro situazione la Corte, presumibilmente, non potrà tener conto. La sola differenza dal punto di vista processuale è che le tre ultime ricorrenti si sono limitate ad impugnare la decisione del 23 febbraio 1962 a norma dell'articolo 33, senza proporre ricorso per carenza ai sensi dell'articolo 35.
Ricevibilità dei ricorsi per carenza
L'Alta Autorità sostiene che questi ricorsi sono irricevibili, in quanto privi d'oggetto e non basati su un ligittimo interesse, sia ai sensi del primo, sia ai sensi del secondo comma dell'articolo 35. Gli argomenti delle parti su questo punto vi sono noti ed io non ne riparlerò.
Il nocciolo della questione mi sembra essere la natura e la portata delle lettere del 27 novembre 1961. Se infatti, come vorrebbe l'Alta Autorità, queste lettere non erano decisioni, cioè non erano vincolanti, è evidente che le domande delle ricorrenti, dirette ad ottenere che l'Alta Autorità rinunci alla sua pretesa ovvero l'estenda ad altre imprese, erano prive di oggetto.
Questa tesi è però sostenibile? Ho dei dubbi in proposito.. Come ha rilevato il patrono delle ricorrenti, le «lettere» avevano infatti tutta l'apparenza di decisioni adottate in forza dell'articolo 47. La circostanza che esse non fossero conformi ai «canoni» della decisione 22-62 non è a mio parere determinante, giacchè la Corte si è finora attenuta a criteri di contenuto, piuttosto che di forma, nello stabilire di volta in volta se ci si trovi di fronte ad una decisione ai sensi dell'articolo 14 del Trattato. Trattandosi dell'articolo 47, si potrebbe senza dubbio sostenere che il compito dell'Alta Autorità — consistente nel «raccogliere le informazioni necessarie per l'adempimento delle sue funzioni» e nel «far effettuare le verifiche necessarie» — ha carattere esecutivo, cioè riguarda il funzionamento degli uffici, e come tale non rende necessaria l'adozione di decisioni, cioè di atti che creino o modifichino una situazione giuridica; o perlomeno si potrebbero operare determinate distinzioni in base al carattere più o meno generale e personale dell'atto di cui trattasi.
Questa tendenza a limitare l'ambito di applicazione delle decisioni per quanto riguarda l'articolo 47 mi sembra però difficilmente giustificabile, in considerazione del tenore dell'articolo stesso: il 3o comma consente infatti d'infliggere sanzioni pecuniarie «alle imprese che venissero meno agli obblighi loro imposti dalle decisioni addottate in forza del presente articolo». È lecito ritenere che questa dizione comprenda tutti gli atti mediante i quali l'Alta Autorità esercita il potere di raccogliere le informazioni e di fare effettuare verifiche in conformità al 1o comma. Essa è del resto testualmente richiamata nelle lettere del 27 novembre 1961, il che indica che almeno i firmatari, dal canto loro, le consideravano delle decisioni. Oltracciò, il negare qualsiasi effetto, a parte quello di minaccia platonica, a ingiunzioni del genere non potrebbe dar luogo a gravi inconvenienti? E non è eccessivo esigere che siffatte decisioni siano adottate collegialmente dall'Alta Autorità? A mio avviso, sarebbe questo il campo ideale per una delega di poteri ai direttori competenti. Sarei quindi incline a considerare le lettere del 27 novembre 1961 come delle decisioni. D'altronde, ha scarso rilievo la loro eventuale invalidità per mancanza di delega, posto che non è stato chiesto il loro annullamento; una siffatta invalidità, benchè causata da incompetenza, non ci può far considerare l'atto come inesistente.
Quali conseguenze devo ora trarre dall'opinione che vi ho testé esposto?
Ritengo che si debba distinguere fra il primo comma dell'articolo 35 e il secondo comma dello stesso.
a) |
In base al primo comma non è possibile proporre ricorso per carenza. Cosa chiedevano infatti le ricorrenti all'Alta Autorità? O di revocare la sua decisione, il che equivale ad un ricorso gerarchico diretto contro il provvedimento, senza alcun obbligo da parte dell'Alta Autorità di agire nel senso richiesto; il solo rimedio a disposizione degli interessati sarebbe stata l'azione per l'annullamento di questa decisione espressa, cioè a norma dell'articolo 33; ovvero (seconda alternativa) di fare la stessa ingiunzione ad altre imprese: è però evidente che il Trattato non obbliga affatto l'Alta Autorità a valersi dei poteri attribuitile dall'articolo 47 nei confronti di chicchessia; se le ricorrenti consideravano la mancata estensione dell'ingiunzione ad altre imprese alla stregua di una discriminazione nei loro confronti, avrebbe dovuto anche in tal caso impugnare le decisioni a norma dell'articolo 33. |
b) |
Il secondo comma consente per contro di sostenere che se l'Alta Autorità, la quale aveva il potere (ma non l'obbligo) di agire contro le altre imprese, si è astenuta dal farlo, ciò è avvenuto perchè essa era spinta da motivi diversi da quelli che avrebbero dovuto animarla nell'adempimento del suo compito, in altre parole si può sostenere che «la sua astensione costituisce uno sviamento di potere», per dirla con l'articolo 35, 2o comma. Lo sviamento di potere è stato in realtà espressamente denunciato. Da questo punto di vista ritengo che i ricorsi siano ricevibili. Naturalmente, lo sviamento di potere dovrà essere provato, ma ciò rientra nel merito, del quale parlerò fra poco. |
Riassumendo, o si nega che le lettere del. 27 novembre 1961 siano delle decisioni, e in tal caso il ricorso per carenza non è configurabile: è la soluzione più semplice, ma non la più soddisfacente a mio avviso; ovvero si ammette che dette lettere siano decisioni e in tal caso i ricorsi per carenza vanno considerati ricevibili a norma del secondo comma dell'articolo 35 — non già del primo comma: naturalmente soltanto per quanto riguarda la seconda alternativa (l'Alta Autorità avrebbe dovuto fare le stesse ingiunzioni ad altre imprese) che è la sola attinente all'estensione.
Nel merito
Le ricorrenti denunciano la mancanza o l'insufficienza di motivazione, la violazione del Trattato — in ispecie dell'articolo 47 — e lo sviamento di potere. Ciascuno di questi tre motivi si articola in varie censure. Per maggior chiarezza mi sembra preferibile esaminare successivamente i quattro capi nei quali sono ripartite le tesi delle ricorrenti, seguendo lo stesso ordine adottato nella relazione d'udienza. Esaminerò cionondimeno congiuntamente le due prime censure.
Prima censura.«Le lettere in data 27 novembre 1961 della Direzione Generale Acciaio dell'Alta Autorità sono inficiate da mancanza di motivazione e da sviamento di potere in quanto vi si afferma, in contrasto con la verità, che le ricorrenti si sono sottratte alle verifiche».
Seconda censura.«Le stesse lettere sono inficiate da mancanza di motivazione, violazione del Trattato e sviamento di potere in quanto vi si invitano le ricorrenti ad inviare esse stesse, oppure chiedere ai loro fornitori di energia elettrica d'inviare all'Alta Autorità, le fatture relative ai vari consumi, attestando che le fatture sono veritiere e riflettono l'intero consumo di energia elettrica».
L'Alta Autorità sostiene che le lettere del 27 novembre 1961 vanno tenute distinte dalle decisioni impugnate, le quali non ne ripetono la motivazione.
È esatto che «la mancanza di una parte rilevante dei documenti contabili ed extracontabili di un'impresa», la quale avrebbe reso impossibile un adeguato controllo, non è più menzionata nelle decisioni impugnate; queste si limitano a ricordare le esigenze delle verifiche e l'opportunità di valersi nella specie dell'appropriato criterio di controllo costituito, secondo l'Alta Autorità, dal consumo di energia elettrica nei forni dell'impresa.
Una motivazione del genere sarebbe senza dubbio sufficiente se si trattasse dell'invito a dichiarare l'entità dei consumi. La si deve però ritenere adeguata trattandosi della richiesta di esibire delle fatture e di rilasciare un attestato del tipo di quello chiesto nella specie? La cosa appare molto opinabile.
In realtà, la richiesta dell'Alta Autorità era giustificata soltanto se essa aveva qualche motivo per dubitare dell'esattezza di una semplice dichiarazione del consumo di energia elettrica ed è questa la ragione per la quale la motivazione delle decisioni impugnate non può essere considerata separatamente dal tenore delle lettere in data 27 novembre 1961 le quali permettono di vedere la pratica nel suo complesso. Ora, rileggendo una di queste lettere, si scorgono chiaramente i motivi della richiesta dell'Alta Autorità; la sua diffidenza non riguarda del resto in particolare alcuna delle imprese individualmente considerata, bensì le indagini precedenti e gli strascichi penali che esse hanno talvolta avuto, hanno istillato il dubbio nel suo animo e l'hanno resa più esigente nelle verifiche. È quanto si riscontra anche presso le amministrazioni nazionali: i contribuenti onesti sopportano le conseguenze dei provvedimenti intesi a reprimere le frodi. Orbene, in base all'insegnamento di questa Corte (sentenza 31-59, 14 aprile 1960, Racc. VI — 1, pag. 169), il limite dei poteri dell'Alta Autorità nell'applicare l'articolo 47 è determinato dalle esigenze del controllo in vista dello scopo perseguito. Ciò significa forse che la necessità può giustificare ogni cosa? Senza dubbio no: come in qualsiasi altro campo, spetta al giudice amministrativo di conciliare le esigenze dell'interesse pubblico col rispetto dei diritti dell'individuo. Nella specie, però, non ritengo che, tenuto conto delle circostanze, si possa ravvisare una pretesa eccessiva nell'aver chiesto l'esibizione delle fatture ed altresì l'attestazione, non già della loro autenticità, bensì «che i documenti esibiti riflettono l'intero consumo di energia elettrica dell'impresa durante il periodo» di cui trattasi.
Quanto allo «sviamento di potere» inerente alla circostanza che lo stesso invito non sarebbe stato rivolto a tutte le imprese, l'Alta Autorità ha ribattuto in udienza che tutte le imprese produttrici di acciaio al forno elettrico avevano ricevuto tale invito: questa affermazione non è stata contestata. Non vi è quindi sviamento di potere, nè discriminazione.
Terza censura.«Le stesse lettere e, inoltre, le decisioni dell'Alta Autorità in data 23 febbraio 1962 sono inficiate da mancanza di motivazione e da violazione del Trattato, giacchè le fatture di energia elettrica non costituiscono un valido mezzo per determinare la quantità di rottame usato».
Questa censura è stata svolta soprattutto nella discussione scritta. Le ricorrenti si sono adoperate a dimostrare che il consumo di energia elettrica nei forni non consente di stabilire, nemmeno in via approssimativa, il consumo di rottame.
Signori, si tratta di una questione tecnica nella quale mi pare inutile entrare. Mi sembra infatti diffìcilmente contestabile che il consumo di energia elettrica, mentre è di per sè insufficiente per calcolare il consumo di rottame — come d'altronde l'Alta Autorità ammette — costituisce per contro un valido elemento di controllo, in concomitanza con altri elementi. Le imprese avranno ampia opportunità di discutere in seguito l'ammontare dei loro contributi e l'imponibile in base al quale essi sono stati calcolati. Tutto questo non costituisce nè sviamento di potere, nè sviamento di procedura.
Quarta ed ultima censura.«Le stesse lettere e le stesse decisioni sono inficiate da mancanza di motivazione e da violazione del Trattato, giacchè i poteri attribuiti all'Alta Autorità non le consentono di ordinare l'invio a Lussemburgo dei documenti soggetti a verifica».
Dal punto di vista formale, non credo fosse necessaria un'apposita motivazione per spiegare per quali motivi fosse stato richiesto l'invio dei documenti a Lussemburgo.
Questa richiesta è tuttavia giustificata? A prima vista, una pretesa del genere può sembrare stravagante. Normalmente, in caso di controlli fiscali, non vige la prassi di verificare i documenti sul posto?
A questo proposito sembra che la disciplina vigente non sia esattamente la stessa nei vari paesi della Comunità. Non si può, cionondimeno, affermare che il procedimento consistente nel chiedere al contribuente di esibire determinati documenti negli uffici dell'Amministrazione sia del tutto sconosciuto. Ci è stato detto che in Italia gli agenti del fisco hanno il potere di esigere che il contribuente, o il suo rappresentante, compaiano di persona. Nella Comunità non vi sono norme in proposito. A mio parere, è una questione di misura: le esigenze del controllo non devono avere carattere abusivo, nè essere sproporzionate allo scopo perseguito. Sotto questo aspetto, sono incline a ritenere che nella specie la pretesa non è eccessiva in vista delle circostanze.
In realtà, verifiche sul posto erano già state effettuate, sia da parte degli agenti dell'Alta Autorità, sia ad opera della «Fiduciaire Suisse», e proprio queste verifiche avevano fatto sorgere seri dubbi circa l'esattezza dei consumi di rottame dichiarati da determinate imprese. Sembra che il controllo, presso gli uffici dell'Alta Autorità, di tutte le fatture, accompagnate dalle richieste attestazioni, costituisse un procedimento adeguato e presumibilmente meno gravoso per gli interessati che non nuovi controlli sul posto, in considerazione degli ostacoli che tali controlli immancabilmente frappongono, per tutta la loro durata, al buon funzionamento dell'impresa.
Un'ultima osservazione, relativa all'argomento svolto nella discussione orale e tratto dalla circostanza che, secondo le leggi italiane, le fatture devono essere conservate per soli cinque anni. Mi limiterò a rispondere che questa circostanza è di per sè irrilevante agli effetti della legittimità delle decisioni impugnate: spetterà all'Alta Autorità di trarre le debite conseguenze dall'eventuale mancanza di fatture causata dalla loro distruzione, tenendo naturalmente conto delle circostanze di tale distruzione.
Concludo per il rigetto dei ricorsi, ponendosi le spese a carico delle ricorrenti.