Conclusioni dell'Avvocato Generale

MAURICE LAGRANGE

7 giugno 1961

Traduzione dal francese

Signor Presidente, signori giudici,

Le cause pendenti dinnanzi a Voi, riunite con ordinanza della Corte, hanno tutte lo stesso oggetto: ottenere che l'Alta Autorità sia condannata a risarcire il danno subito da ciascuna delle imprese ricorrenti per aver ricevuto con ritardo dati incompleti circa l'aliquota di perequazione e l'ammontare dei contributi di perequazione dovuti sul rottame ricuperato all'interno della Comunità che dette imprese hanno consumato dal 1o aprile 1954 al 31 marzo 1959.

Quest'azione di danni è fondata sull'art. 40 del Trattato. Ciascuna delle ricorrenti assume che l'Alta Autorità è incorsa in una colpa della P.A. (faute de service) che fa sorgere la responsabilità della Comunità in quanto le ha comunicato con notevole ritardo l'ammontare, per di più provvisorio, dei contributi di perequazione, il che l'ha costretta a pubblicare il listino dei prezzi e delle condizioni di vendita senza conoscere l'aliquota che sarebbe stata successivamente applicata. L'entità del danno non è precisata e nemmeno indicata in via approssimativa: vi è però stato chiesto di disporre una perizia al fine di

«stabilire quale sia il danno subito da ciascuna delle ricorrenti per aver dovuto vendere la propria produzione siderurgica senza aver avuto la possibilità di recuperare dagli acquirenti l'ammontare del tasso di perequazione».

Sorge una questione preliminare, quella della prescrizione.

Come Voi ricordate, l'eminente professore che patrocina l'Alta Autorità ha invocato, nella sua arringa, la prescrizione quinquennale prevista dall'art. 40 del Protocollo sullo Statuto della Corte :

«Le azioni previste nei due primi commi dell'art. 40 del Trattato si prescrivono in cinque anni a decorrere dal momento nel quale è accaduto il fatto da cui traggono origine. La prescrizione è interrotta sia dalla presentazione di un ricorso alla Corte, sia dalla previa richiesta che il danneggiato può rivolgere alla competente Istituzione della Comunità.»

Nella specie non vi è stata alcuna previa richiesta; si devono perciò prendere in considerazione le date di presentazione dei ricorsi, le quali vanno dal 30 settembre 1960 al 12 gennaio 1961. Quanto alla data in cui sono accaduti i fatti dai quali traggono origine le azioni, la convenuta non l'ha indicata in modo preciso. A mio parere, non può trattarsi della data di entrata in vigore del meccanismo di perequazione. Le azioni si basano sulla tardiva comunicazione dell'aliquota di perequazione e dell'ammontare dei contributi rispetto a ciascun periodo di conteggio. Pare quindi che la data più remota alla quale è possibile rifarsi sia la fine di ciascun periodo di conteggio, cioè di ciascun mese a partire dal 1o aprile 1954, data in cui il meccanismo di perequazione ha incominciato a funzionare. Sarebbe perciò caduto in prescrizione soltanto il credito relativo ai periodi mensili di conteggio anteriori di più di cinque anni alla data di presentazione dei ricorsi, cioè soltanto una parte del credito nascente dall'eventuale obbligo di risarcimento.

Ritengo però, signori, che questa eccezione, dedotta soltanto nella discussione orale, dopo la fine della fase scritta, non sia ammissibile. In primo luogo, infatti, è ben vero che il procedimento dinnanzi alla nostra Corte comprende due fasi, una scritta e l'altra orale: durante quest'ultima, però, è consentito unicamente di svolgere od ampliare i mezzi dedotti durante la fase scritta ed anzi, qualora si tratti di mezzi nuovi, ciò è possibile soltanto entro determinati limiti (art. 42 del Regolamento di Procedura).

In secondo luogo, non credo si tratti di una questione rilevabile d'ufficio. In Francia, l'art. 2223 del codice civile dispone che

«les juges ne peuvent pas suppléer d'office le moyen résultant de la prescription».

È giurisprudenza costante che questa norma non è applicabile in campo penale. Tuttavia è giurisprudenza non meno costante che essa è applicabile in materia amministrativa, nonostante in questo settore le questioni rilevabili d'ufficio siano più numerose: soltanto l'organo incaricato — ad esempio, per i debiti dello Stato, il ministro od il funzionario all'uopo delegato — può opporre quella che, a causa della sua durata, viene chiamata la «déchéance quadriennale» e che costituisce attualmente la regola in fatto di prescrizione dei debiti dello Stato. È stato persino affermato che un'osservazione contenuta in un atto del procedimento non è sufficiente: è necessario un apposito atto dell'organo competente con il quale venga opposta la prescrizione (Conseil d'État,21 luglio 1934, Gouvernement général de l'Indochine, Rec. p. 852).

Non conosco esattamente la situazione nel diritto degli altri paesi della Comunità. Sono però d'opinione che, da un lato, la prescrizione non può essere rilevata d'ufficio dal giudice civile: essa dev'essere opposta dal debitore, e d'altro lato, poichè la responsabilità dell'Amministrazione è di competenza dei tribunali ordinari in tutti i paesi della Comunità eccetto la Francia, ritengo che in questi paesi siano applicabili le norme del diritto privato.

Non vedo alcuna ragione speciale di riconoscere al fisco della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio un privilegio rilevantissimo di cui non gode il fisco dei singoli paesi membri.

Passiamo ora ad esaminare il merito.

Innanzitutto, per quanto riguarda la dottrina a proposito dell'art. 40, mi permetto di richiamarmi alle poche considerazioni di ordine generale da me svolte nelle conclusioni per la causa 23-59 FERAM (Racc. V, pp. 509-513) e delle quali pare sia stato tenuto implicitamente conto nella sentenza. È poi fuori di dubbio che le deliberazioni, tuttora in corso, sulla causa Vloeberghs vi daranno occasione di precisare la vostra giurisprudenza in materia.

Dirò soltanto che, contrariamenté a quanto ha sostenuto l'Alta Autorità nella fase scritta, non è esatto che la giurisprudenza francese esiga abitualmente la colpa grave (faute lourde) affinchè sorga la responsabilità dell'Amministrazione: al contrario, il più delle volte è sufficiente la colpa lieve (faute ordinaire). È vero piuttosto che il grado di gravità varia soprattutto a seconda della natura del servizio pubblico, della maggiore o minore difficoltà che s'incontra nell'espletarlo, della tutela più o meno ampia che gli interessi lesi meritano. In ciascun caso vanno contrapposti l'interesse pubblico e gli interessi particolari.

Nel caso del sistema di perequazione per il rottame non credo vi sia motivo di esigere la colpa grave oppure una «colpa di particolare gravità» : si tratta di una gestione pubblica la cui responsabilità deve poter essere messa in causa senza restrizioni particolarmente gravose, come si addice ai rilevanti interessi in gioco. Viceversa, l'estrema complessità del meccanismo e gli indugi inevitabili per un buon funzionamento mi paiono atti a giustificare il requisito di una colpa abbastanza grave, anche se non «inescusabile».

Ciò detto, mi sembra opportuno nella specie distinguere con cura quanto attiene all'illegittimità del comportamento dell'Alta Autorità da quanto si riferisce invece ad altri aspetti, quali la negligenza, la cattiva organizzazione del servizio, ecc. Con la sua ben nota perspicacia, l'avvocato delle ricorrenti ha chiaramente operato questa distinzione (ad esempio alle pagine 24 e 25 del ricorso 1-61). Anche se i due aspetti, come egli aggiunge, sono in certo modo connessi, ciò non significa che essi non siano autonomi e giuridicamente distinti.

Ora, se il danno è stato causato direttamente da una decisione annullata, la riparazione è possibile unicamente in forza dell'art. 34: in tal caso l'Alta Autorità

«è tenuta ad adottare i provvedimenti occorrenti per l'esecuzione della sentenza di annullamento»,

cosa che essa ha fatto, come Voi sapete, emanando la decisione 13-58 del 17 luglio 1958, la cui legittimità è stata riconosciuta dalla vostra sentenza 36-58 del 17 luglio 1959. Le imprese hanno diritto ad

«un'equa riparazione del pregiudizio direttamente causato dalla decisione annullata e… se necessario, [ad] una giusta indennità»

soltanto qualora la decisione annullata sia

«dichiarata dalla Corte inficiata da una colpa tale da far sorgere la responsabilità della Comunità»

e unicamente

«in caso di danno diretto e specifico».

È vero che le decisioni-regolamento dell'Alta Autorità non sono state annullate : esse sono state semplicemente dichiarate illegittime incidentalmente; tuttavia l'Alta Autorità, com'era suo diritto e certamente suo dovere, le ha revocate nelle disposizioni dichiarate viziate dalla Corte e mi sembra cosa certa che l'art. 34 sia applicabile pure in questo caso.

Questo articolo riguarda il pregiudizio complessivo che le imprese possono aver subito in conseguenza del semplice — non dirò «ritardo», perchè questo termine può dar luogo ad equivoci — ulteriore indugio provocato dall'obbligo, nel quale l'Alta Autorità si è trovata per dare esecuzione alle vostre sentenze, di riassumere i poteri che aveva illegittimamente delegato e di rivedere tutti i calcoli del meccanismo di perequazione, lavoro la cui ampiezza e complessità risulta chiaramente dalla semplice lettura della Gazzetta Ufficiale del 24 agosto 1960…

Sorgono a questo punto due questioni :

1)

Se il vizio inerente alla delega dei poteri, affermato dalle vostre sentenze 9 e 10-56 del 13 giugno 1958, avesse il carattere di una «colpa tale da far sorgere la responsabilità della Comunità». Io sarei per l'affermativa.

2)

Se questo vizio abbia recato alle imprese ricorrenti un «danno diretto e specifico». Diretto, senza dubbio; specifico, non credo. L'atto illegittimo riguarda tutte le imprese siderurgiche della Comunità, tutte comprese nel meccanismo obbligatorio. Naturalmente l'entità del danno varia a seconda delle imprese; tuttavia il pregiudizio per sua natura non ha colpito in modo «specifico» una di esse od una particolare categoria: è inevitabile che tutte subiscano le conseguenze dell'indugio reso necessario dalla revisione di tutti i calcoli, in seguito alla riassunzione da parte dell'Alta Autorità dei poteri che essa aveva illegittimamente delegato ed al conseguente esercizio, inevitabilmente con effetto retroattivo, di questi stessi poteri. Possiamo dire che il danno è di diversa entità, cioè più grave, per le imprese le quali, come le ricorrenti, si riforniscono soprattutto od esclusivamente sul mercato interno del rottame? Ciò non è sicuro, giacché la revisione riguarda anche la quantità del rottame d'importazione preso in carico dalla Cassa di perequazione ed interessa perciò anche le imprese che si sono rifornite di detto rottame.

Se condividete la mia opinione considererete come elementi costitutivi di un'eventuale colpa soltanto le circostanze che, a prescindere da qualsiasi considerazione di illegittimità, si riferiscono al modo in cui ha funzionato il meccanismo di perequazione, alla luce delle varie decisioni che hanno presieduto a tale funzionamento.

A questo proposito, vi è nota la tesi delle ricorrenti, tesi sviluppata soprattutto nella fase scritta: l'art. 60 del Trattato, secondo l'interpretazione contenuta nella sentenza 1-54, obbliga le imprese a pubblicare nei loro listini dei prezzi esatti, il che le costringe a calcolare in modo preciso i loro costi ed a conoscere tutti gli elementi del costo di produzione. Ora, a causa della prassi seguita dagli organismi di Bruxelles e dall'Alta Autorità, il ritardo, di parecchi mesi e talvolta di parecchi anni, rispetto a ciascun periodo di conteggio, con il quale sono stati comunicati l'aliquota di perequazione e l'ammontare dei contributi ha impedito di calcolare esattamente i costi di produzione. Questa situazione è divenuta ancora più intollerabile quando l'aliquota di perequazione, in un primo tempo modesta, ha incominciato ad aumentare rapidamente ed ha raggiunto l'incidenza assolutamente imprevedibile di 13 dollari la tonnellata, il che significherebbe all'incirca un onere di 8 lire il chilo contro un costo di produzione complessivo di 20 lire, mentre l'utile è tavolta. soltanto di una lira. L'obbligo di pubblicare dei prezzi esatti ha inevitabilmente impedito alle imprese ricorrenti di far gravare sul prezzo di vendita, e quindi di trasferire sui clienti, la maggior parte dell'onere relativo ai contributi di perequazione.

Prima di esaminare se nella specie ricorrano gli estremi di una colpa della P.A. e, in caso affermativo, se questa colpa, abbia prodotto un danno, è opportuno che io mi pronunzi su di un punto di diritto, che è il seguente: l'art. 40 (che è il solo applicabile in proposito), esige forse, come l'art. 34, un danno «diretto e specifico» ? In verità, il problema si pone soltanto per la specificità del danno, giacchè si ammette generalmente che il danno indiretto non è risarcibile.

La questione è sottile e l'addito alla vostra particolare attenzione. Da parte mia, dopo matura riflessione, ritengo che, applicando l'art. 40, non vi sia alcun motivo di esigere dei particolari requisiti in fatto di specificità del danno.

In primo luogo, contrariamente all'art. 34, l'art. 40 tace a questo proposito ed il suo tenore è assolutamente generico :

«danno [senz'altro] causato, nell'esecuzione del presente Trattato, da una colpa della P.A. della Comunità» :

il contrasto fra questa formula e quella dell'art. 34 è della massima evidenza. Ora l'art. 40 costituisce la norma generale in materia di responsabilità extracontrattuale; l'art. 34 è una norma speciale riguardante il caso particolare di un danno causato da una decisione annullata, qualora l'esecuzione della sentenza d'annullamento non sia sufficiente, ad onta della retroattività che tale esecuzione necessariamente implica, ad assicurare un'adeguata riparazione.

In secondo luogo, prendendo in considerazione il diritto interno, sembra che il pregiudizio specifico non sia richiesto qualora il danno sia stato causato da un illecito amministrativo. In questo senso la giurisprudenza del Conseil d'État francese (Sté aéronautique de l'Atlantique,3 décembre 1948, Rec. p. 460; Sté Brodard et Taupin, 21 mai 1954, Ree. p. 293, con conclusioni Letourneur pubblicate nella Revue de Droit social, 1954, p. 468). Odent (p. 463) ricorda questa norma dicendo che il sussistere di un danno specifico è richiesto soltanto quando la responsabilità trae origine dal rischio e non quando essa nasce dalla colpa. In caso di responsabilità nascente dal rischio, la necessità di provare il danno specifico costituisce la contropartita del non dover provare la colpa. Come vedete, questa distinzione è perfettamente logica e coerente.

Quanto al diritto italiano pare che, sia in diritto privato, sia in materia di responsabilità dell'Amministrazione per fatti illeciti, non esista la nozione di «danno specifico» : il danno dev'essere individuale, il che è completamente diverso. Nel diritto tedesco, la specificità del danno non è richiesta dal diritto civile, nè dal diritto amministrativo. Nel diritto lussemburghese lo Stato è responsabile soltanto se il danno è diretto.

Sembra che il principio secondo il quale ogni illecito dà diritto a risarcimento, purchè sussista un rapporto diretto di causa ed effetto tra l'illecito ed il danno, sia un principio giuridico generale che non trova applicazione soltanto nel campo della responsabilità amministrativa: è questa appunto la norma stabilita dall'art. 1382 del codice civile francese.

Cionondimeno è possibile un'obiezione attinente al carattere relativamente ristretto della Comunità. Questa, contrariamente agli Stati, conta un numero limitato di «soggetti», le imprese produttrici di carbone e d'acciaio, i quali sono al tempo stesso i soli «contribuenti» della Comunità. Ci si può chiedere se il porre a carico della collettività un danno da essa causato al complesso dei suoi membri o almeno, come nella specie, alla metà di essi, abbia ancora senso: ciò si risolverebbe in ultima analisi nel far sopportare dalle imprese carbonifere della Comunità la metà di un danno subito da tutte le imprese siderurgiche della stessa Comunità, a carico delle quali resterebbe in via definitiva l'altra metà (per semplificare, ragiono come se l'onere del prelievo fosse diviso in parti uguali fra le imprese carbonifere e le imprese siderurgiche).

Quest'obiezione va però disattesa. In primo luogo essa contrasta con il principio della solidarietà che sta alla base della Comunità. In secondo luogo, le risorse finanziarie della Comunità sarebbero indubbiamente abbastanza rilevanti per impedire che gli indennizzi, anche di considerevole entità, avessero inevitabilmente la conseguenza di far aumentare automaticamente il prelievo in misura uguale all'onere complessivo degli indennizzi stessi. Infine, l'obiezione avrebbe qualche fondamento soltanto qualora il danno fosse proporzionalmente uguale per ciascuna impresa, ad esempio se costituisse in ogni caso la stessa percentuale del giro d'affari che serve di base al prelievo, di guisa che vi fosse in realtà una compensazione fra l'idennizzo ricevuto da ciascuna impresa ed il maggiore onere rappresentato dall'aumento del prelievo.

Ora, quest'ipotesi è assolutamente irreale: innanzitutto non è affatto certo che il danno di cui sto parlando, cioè quello causato da ritardi provocati dal cattivo funzionamento del servizio (non già, come prima, dall'illegittimità del sistema), — che questo danno, dicevo, non sia specifico. Il servizio avrebbe potuto funzionare peggio nei confronti di questa che nei confronti di quella impresa o categoria d'imprese: un ufficio regionale avrebbe potuto commettere un maggior numero di negligenze di un altro ufficio regionale, ecc… Ma anche volendo ammettere che il danno non abbia affatto carattere specifico, è chiaro che l'entità relativa del danno varierà per ciascuna impresa e varierà in relazione a diverse circostanze: rapporto fra la data di pubblicazione dei listini e la comunicazione dell'aliquota o dell'ammontare dei contributi, ecc… Non dimentichiamo che nelle sue conclusioni ciascuna delle ricorrenti ha chiesto che venga disposta una perizia al fine di

«stabilire quale sia il danno subito dalla ricorrente per aver dovuto vendere la propria produzione siderurgica senza aver avuto la possibilità di ricuperare dagli acquirenti l'ammontare del tasso di perequazione».

È evidente che il danno non sarebbe, proporzionalmente, lo stesso per ciascuna impresa. Anche prendendo in considerazione delle ampie categorie, si riscontrerebbe senza dubbio ancora una differenza media fra l'entità dei danni subiti dalle imprese importatrici di rottame e quelli subiti dalle imprese che consumano rottame interno. Perciò l'indennizzo esatto e completo di ogni singolo danno si risolverebbe in un equo risarcimento distributivo, anche se si dovesse in conseguenza aumentare in modo uniforme l'aliquota del prelievo.

Sono queste le ragioni per cui ritengo che l'art. 40 non esiga un danno «specifico». Sarebbe, inoltre, sconveniente che il «mutamento di sovranità» di cui le imprese a sensi dell'art. 80 sono state oggetto implicasse un affievolimento della tutela giurisdizionale di cui godevano quando il «sovrano» era uno degli Stati membri.

Posso ora affrontare la questione se la colpa sussista e, se del caso, la questione del danno.

Innanzitutto, è opportuno chiarire l'equivoco sorto dalla parola «ritardo», impiegata nelle domande rivolte alle parti. Nella discussione orale la difesa dell'Alta Autorità ha fatto rilevare che il ritardo è una delle forme di inadempimento delle obbligazioni (art. 1218 del codice civile italiano). Ora, ci è stato detto, non vi è qui alcuna data di scadenza, non essendo prescritto alcun termine per la comunicazione alle imprese dell'aliquota di perequazione.

Ciò è perfettamente esatto. È chiaro però che il termine «ritardo» non è stato impiegato qui nella sua accezione giuridica: la Corte desiderava unicamente conoscere il termine, diciamo anzi (dato che la parola «termine» ha anch'essa un significato giuridico) l'intervallo che è di fatto intercorso fra ciascun periodo di conteggio e la data in cui sono state ricevute le comunicazioni riguardanti l'ammontare dei relativi contributi.

Vi sono delle divergenze fra le parti circa il modo di calcolare detto intervallo. Le ricorrenti si riferiscono al numero di giorni trascorsi fra la fine di ciascun mese del periodo di conteggio e la comunicazione dell'aliquota di perequazione. Esse giungono così a quello che esse chiamano un «ritardo medio» di 98 giorni nel 1954, 66 giorni nel 1955, 57 giorni nel 1956, 65 giorni nel 1957 e 115 giorni nel 1958. Da parte sua, l'Alta Autorità calcola l'intervallo tra la fine del periodo di conteggio e la data in cui è stato comunicato l'ammontare dei relativi contributi.

Un'altra divergenza deriva dal fatto che, per quanto riguarda l'applicazione delle aliquote supplementari applicate in seguito, le ricorrenti calcolano l'intervallo partendo dall'originario periodo di conteggio, con il risultato che il «ritardo» diventa di parecchi anni.

Il problema va risolto in diritto ed in fatto.

In diritto, le successive decisioni dell'Alta Autorità hanno autorizzato la Cassa o l'Alta Autorità stessa a far variare l'aliquota dei contributi ed anche a rivedere le aliquote provvisorie (cfr. le decisioni 3 e 4-60, art. 3). Inoltre, il punto di partenza e la durata del periodo di conteggio sono stati pure modificati (cfr. la decisione 38-59, artt. 2, 1o, e 3; decisione 19-60, art. 1o), di guisa che comunque, come ha rilevato l'avv. Stolti nella sua arringa,

«il punto di partenza per calcolare l'intervallo di cui trattasi non può mai coincidere con la fine del mese considerato.»

Queste successive modifiche sono in parte la conseguenza delle modifiche sostanziali apportate al meccanismo di perequazione: così, a norma della decisione 26-55, art. 3, 1o comma, il calcolo del premio per la perequazione detta «ghisa-rottame» doveva essere effettuato ogni mese separatamente per ciascun stabilimento; indi il termine fu portato a tre mesi con la decisione 2-57, art. 18 a. Sono poi intervenuti altri fattori, come ad esempio il corso dei cambi, le cui variazioni non coincidevano con i periodi di conteggio. Altre modifiche furono determinate dalla necessità in cui si trovò l'Alta Autorità di adottare nuove decisioni con effetto retroattivo nelle materie per le quali aveva illegittimamente delegato i suoi poteri.

Abbiamo visto che a questo proposito non sono soddisfatte le condizioni dell'art. 34, le sole applicabili a mio parere.

In fatto, tenendo conto dell'estrema complessità del sistema e delle successive modifiche ad esso apportate ed altresì della necessità di rivedere le precedenti decisioni, non credo che, nell'esecuzione, l'Amministrazione si sia mostrata negligente oppure abbia commesso degli errori atti a costituire una colpa. In proposito non è stata fornita alcuna prova nè è stato svolto alcun argomento pertinente.

Senza dubbio, per tutta la sua durata il sistema ha avuto carattere provvisorio ed anche le più recenti aliquote modificate sono state stabilite soltanto in via provvisoria. Ciò è però unicamente conseguenza della natura stessa del meccanismo e delle varie modifiche radicali ad esso apportate durante il suo funzionamento. In realtà, pare che l'intervallo intercorso fra ciascuno dei mesi ai quali si riferisce l'aliquota dei contributi e la data in cui l'ammontare dei contributi stessi è stato comunicato all'impresa sia normale: in media circa due mesi (salvo all'inizio, epoca nella quale l'aliquota era però modesta). D'altro lato, la comunicazione dell'ammontare dei contributi è stata quasi sempre preceduta (e solo raramente seguita) dalla comunicazione dell'aliquota da applicare, il che permetteva all'impresa di farsi un'idea abbastanza precisa circa il futuro ammontare dei contributi.

Quanto alla successiva comunicazione dell'aliquota supplementare e dei contributi supplementari, Voi ne conoscete il perchè. Di fatto esse si sono risolte in modifiche minime dell'aliquota.

In definitiva sembra che l'Amministrazione abbia fatto tutto il possibile per comunicare entro un termine ragionevole l'ammontare provvisorio dei contributi di pari passo con la determinazione delle aliquote successive e con il ricevimento delle dichiarazioni sulle quantità fatte dalle imprese, di guisa che queste, nella misura in cui hanno versato i contributi nel momento in cui sono stati loro richiesti, non hanno subito gravi contraccolpi a seguito delle successive rettifiche.

In ultima analisi, non mi sembra sia stata dimostrata alcuna colpa nella fase esecutiva.

Stando così le cose, mi pare superfluo indagare su quale sarebbe stata l'incidenza sul costo di produzione delle modifiche dell'aliquota e sulla misura in cui detta incidenza avrebbe danneggiato le ricorrenti in conseguenza del fatto che, essendo esse vincolate dai loro prezzi di listino, si sarebbero trovate nell'impossibilità di trasferire l'onere sugli acquirenti.

Mi limiterò a rilevare che è estremamente arduo stabilire se ed in quale misura il prezzo di vendita dipenda dal costo di produzione piuttosto che dal prezzo di mercato determinato dalla domanda e dall'offerta. Si può soltanto osservare che nella specie, in base ai documenti in atti, non vi è sempre stata una corrispondenza, anche solo approssimativa, fra l'andamento dei prezzi di listino delle ricorrenti e l'andamento delle aliquote di perequazione.

Concludo proponendovi

di respingere i ricorsi

e di porre le spese a carico delle ricorrenti.