Conclusioni dell'avvocato generale

M. LAGRANGE

24 novembre 1960

Traduzione dal francese

SOMMARIO

Pagina
 

I — Causa 42-59

 

II — Causa 49-59

 

A — Ricevibilità

 

B— Merito

 

1. Il criterio dell'integrazione locale

 

a) Interpretazione delle decisioni normative di base

 

b) Legittimità delle decisioni di base

 

2. Esame dei casi Breda e Hoogovens

 

a) Breda Siderurgica

 

b) Hoogovens

 

Conclusioni finali

Signor Presidente, signori giudici,

Sarebbe difficile immaginare una controversia più matura per la decisione di quella presente, sia per quanto concerne la fase scritta, sia avuto riguardo alla fase orale ed agli atti istruttori. La mia ambizione sarebbe perciò quella di dare alle mie argomentazioni uno sviluppo inversamente proporzionale a quello che il procedimento ha sin qui avuto: senza pretendere di giungere a tanto, mi limiterò tuttavia ad esprimere il mio parere sulle varie questioni che vanno risolte, senza tentare di saggiare in modo sistematico tutti gli argomenti dedotti da ciascuna delle quattro parti e dispensandomi in primo luogo dall'esporre gli antefatti.

I — Causa 42-59

Anzitutto qualche considerazione sul ricorso 42-59. Con esso, intitolato «recours pour excès de pouvoir», viene chiesto l'annullamento della

«decisione individuale del 7 agosto 1959 con cui l'Alta Autorità ha respinto la richiesta, avanzata dalla ricorrente, pel risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle deroghe espresse od implicite in materia di contributi di perequazione, deroghe basate su una interpretazione estensiva del concetto di rottame di risorse proprie».

L'Alta Autorità non ha mancato di obiettare che un'azione per danni basata su un illecito dell'Amministrazione è ammissibile solo in forza dell'art. 40 del Trattato e non può essere esperita mediante un ricorso di legittimità, di cui l'espressione usata dalla ricorrente (recours pour excès de pouvoir) è senza dubbio a suo parere sinonimo.

Durante la discussione orale vi è stata esposta la funzione puramente cautelativa di questo ricorso; la ricorrente temeva di vedersi opporre una eccezione di decadenza qualora non avesse impugnato in termini la decisione di rifiuto dell'Alta Autorità. In realtà — essa ha precisato — la sua intenzione non era già di esperire sin d'ora un'azione per danni ma soltanto di chiedere alla Corte di darle atto che essa si riservava di presentare un «nuovo ricorso per danni» contro l'Alta Autorità : «un recours de pleine juridiction en dommages-intérêts pour faute de service», è detto nella replica, con una leggera modifica delle conclusioni iniziali.

Signori, capisco gli scrupoli della ricorrente; tuttavia il rimedio che essa ha creduto di adottare è a mio parere inefficace. Il suo errore, dato che essa non intendeva agire immediatamente per danni davanti alla Corte, è stato quello di presentare una richiesta in tal senso all'Alta Autorità. Infatti, per poter intentare davanti alla Corte di Giustizia una causa per danni non è necessario, come ad esempio davanti al Conseil d'État francese, sia intervenuta una decisione, espressa od implicita: non vi è traccia di ciò nell'art. 40 del Trattato e l'art. 40 del Protocollo sullo Statuto della Corte stabilisce unicamente un termine di prescrizione di 5 anni dal momento in cui è accaduto il fatto sul quale l'azione si basa. Di conseguenza la presentazione di un ricorso d'annullamento, fondato sull'illegittimità di questa o quella decisione dell'Alta Autorità relativa alla concessione delle deroghe, non avrebbe in alcun modo pregiudicato i diritti della ricorrente per quanto concerne un'eventuale successiva azione per danni provocati da «faute» (salvo stabilire se la semplice illegittimità possa costituire una «faute», questione questa che fa parte del merito). Lo stesso art. 40 del Protocollo, però, aggiunge :

«La prescrizione è interrotta sia dalla presentazione di un ricorso alla Corte, sia dall'inoltro alla competente istituzione della Comunità di una previa domanda. In quest'ultima ipotesi — aggiunge il citato articolo — il ricorso dev'essere presentato entro il termine di un mese stabilito dall'ultimo comma dell'art. 33; si applicano se del caso le disposizioni dell'ultimo comma dell'art. 35 (concernenti l'impugnazione del silenzio-rifiuto)».

Si è insomma voluto che il danneggiato, anzichè rivolgersi direttamente alla Corte — per il che ha un termine di 5 anni — possa, qualora lo preferisca e nella speranza di una soluzione amichevole, rivolgersi anzitutto all'istituzione, nel qual caso la prescrizione viene interrotta ed il ricorso contro un eventuale rifiuto viene assoggettato ai termini di decadenza stabiliti per i ricorsi di legittimità.

È questa appunto la procedura che la ricorrente ha scelto, aggiungendo alla sua lettera del 29 luglio 1959 una sezione III nella quale è formulata una richiesta di risarcimento per «faute de service», nella misura provvisoria di un franco; l'ammontare definitivo avrebbe dovuto essere stabilito mediante perizia. Questa è la richiesta che è stata respinta il 7 agosto 1959 con lettera del direttore della Divisione del Mercato.

Il ricorso è senza dubbio irricevibile.

In primo luogo, la lettera non proviene dall'Alta Autorità. Essa è firmata dal direttore della Divisione del Mercato, il quale non dichiara nemmeno di agire in nome del collegio dell'Alta Autorità :

«… la Divisione del Mercato… ritiene che la Vostra richiesta di risarcimento per faute de service, sia del tutto priva di fondamento»,

vi si dice. D'altro lato, il ricorso non si basa sull'art. 35.

Infine, dalle formali conclusioni della ricorrente, quali sono state precisate nella replica, risulta che la ricorrente intendeva presentare unicamente un ricorso di legittimità. L'atto introduttivo non contiene alcuna pretesa di risarcimento; non vi è ripetuta la domanda, già rivolta all'Alta Autorità, diretta ad ottenere il simbolico franco a titolo di risarcimento dei danni. Il ricorso non è perciò ricevibile a sensi dell'art. 40, nè a norma dell'art. 33, dato che in realtà non si tratta di un ricorso di legittimità: questo costituisce oggetto della causa 49-59.

Ritengo d'altronde che la ricorrente non abbia alcun interesse a che la Corte si sforzi di interpretare la sua domanda in senso estensivo: essa infatti correrebbe serio rischio di vederla respinta per non esser stati sufficientemente provati nè la «faute», nè l'ammontare del danno, mentre una pronunzia del genere non aumenterebbe certo le probabilità di successo di un'eventuale successiva azione. Del resto non sembra che la ricorrente vi chieda uno sforzo del genere, posto che si riserva di presentare alla Corte un «recours de pleine juridiction en dommages-intérêts» contro l'Alta Autorità per «faute de service». Essa ammette dunque di non averlo fatto sinora.

Quanto alla richiesta che venga «dato atto» alla ricorrente «che essa mantiene le sue riserve circa la presentazione di un altro ricorso di merito», la Corte non ha alcun motivo di accoglierla: la ricorrente stessa afferma di riservarsi questo diritto; essa deve conservare la piena responsabilità delle proprie azioni.

II — Causa 49-59

A — RICEVIBILIT À

La causa 49-59 presenta anch'essa delle questioni di ricevibilità, fra le quali alcune molto difficili da risolvere. Esse vi sono state particolareggiatamente illustrate ed io non starò a ripeterle.

Per tentare di risolverle ritengo convenga prendere le mosse dal sistema, abbastanza caratteristico, del meccanismo di perequazione, e precisamente dalla decisione 2-57, e dalle sentenze pronunziate in questa materia.

Vi sono innanzitutto due categorie di decisioni sulle quali non è possibile discutere, nè si è mai discusso: si tratta, in primo luogo, delle decisioni normative, adottate in forza dell'art. 53 (ad es. la decisione 2-57), con le quali è stato istituito il meccanismo e sono state stabilite le modalità del suo funzionamento; ed in secondo luogo delle decisioni esecutorie, emanate in forza dell'art. 92, alle quali è del resto opponibile l'eccezione d'illegittimità, il che in ultima analisi garantisce i diritti degli interessati.

Tuttavia, l'obbligo fatto alle imprese di attendere fino all'adozione di una decisione definitiva emanata a norma dell'art. 92 è parso costituisse una pretesa eccessiva a causa, sia del carattere provvisorio delle note di addebito inviate dagli organismi di Bruxelles, sia della spiacevole necessità in cui si trovavano le imprese di commettere deliberatamente un'infrazione se volevano sollevare davanti alla Corte un'eventuale controversia sull'ammontare dei contributi dovuti.

Un tentativo, da me compiuto, di porre riparo a questo inconveniente, tentativo basato sull'art. 15 della decisione 2-57 il quale autorizza od obbliga, a seconda dei casi, l'Alta Autorità a dirimere mediante una decisione le difficoltà manifestatesi nel funzionamento del meccanismo, non è stato suffragato dalla Corte (sentenza Phoenix Rheinrohr ed altri,17 luglio 1959) : si tratta, Voi avete detto, di un «provvedimento interno» il quale

«fa sorgere obblighi immediati solo per l'ufficio al quale è diretto e non già per le imprese consumatrici di rottame» ;

per questo le lettere in data 18 dicembre 1957 e 17 aprile 1958, la prima delle quali contiene il rifiuto di esentare il rottame di gruppo mentre con la seconda si ammette l'esenzione in caso d'integrazione locale, non sono state considerate come provvedimenti direttamente impugnabili, nonostante fossero state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.

Viceversa, Voi avete affermato che le imprese potevano impugnare, in quanto decisioni provenienti dalla stessa Alta Autorità, le note, inviate dalla Cassa alle imprese a norma dell'art. 12 della decisione 2-57, con le quali veniva stabilito, sia pure in via provvisoria, l'ammontare dei contributi dovuti (sentenza S.N.U.P.A.T., 32 e 33-58 del 17 luglio 1959). Voi avete inoltre affermato che con tale impugnativa le imprese potevano porre in discussione la fondatezza delle interpretazioni date dall'Alta Autorità nelle lettere del 18 dicembre 1957 e del 17 aprile 1958, nonostante queste non fossero delle decisioni.

D'altro lato, con la citata sentenza e con la sentenza SAFE, 42-58 dello stesso giorno, Voi avete affermato che un'impresa poteva impugnare una decisione dell'Alta Autorità, espressa o implicita (nei due casi in esame essa era implicita), con la quale fosse stata rifiutata la concessione di una deroga in materia di contributi di perequazione. In realtà, come emerge da successivi passi della motivazione della sentenza S.N.U.P.A.T., non si trattava propriamente del rifiuto di concedere una «deroga» nel senso di «esenzione», ma del rifiuto di concedere una riduzione dei contributi la quale sarebbe stata giustificata da una determinata interpretazione della decisione 2-57.

Infine, nella sentenza Pont-à-Mousson, 14-59 del 17 dicembre 1959, la Corte ha ritenuto fosse una decisione, e come tale impugnabile, una lettera dell'Alta Autorità con la quale essa

«ha inteso decidere una questione di diritto ed ha formalmente affermato che sussiste un obbligo della ricorrente, obbligo che quest'ultima aveva negato».

Si trattava naturalmente di un obbligo il quale implicava l'assoggettamento dell'impresa ai contributi di perequazione, contributi ch'essa aveva del resto regolarmente corrisposto per un certo periodo.

Perciò Voi avete negato siano decisioni secondo il Trattato determinate messe a punto dall'Alta Autorità su questa o quella questione giuridica qualora, anche se pubblicate, esse abbiano carattere generale ed impersonale e non producano effetti giuridici diretti nei confronti delle imprese. Per contro, Voi avete affermato che un'impresa può :

1o

impugnare, in quanto costituisce una decisione, qualsiasi atto della Cassa con il quale viene comunicato all'impresa stessa l'importo dei contributi a suo carico;

2o

provocare in qualunque momento una decisione dell'Alta Autorità circa una questione giuridica dalla soluzione della quale dipenda direttamente l'an od il quantum l'impresa stessa debba a titolo di contributi di perequazione. In entrambi i casi ha scarso rilievo che l'impresa di cui trattasi abbia in precedenza versato i contributi senza reclamare.

Questa è, signori, la Vostra giurisprudenza, se l'ho ben compresa, il che Voi soli potete stabilire.

Se le cose stanno come ho detto, ne consegue in primo luogo, con la massima chiarezza, che i provvedimenti impugnabili in questo campo possono essere soltanto decisioni individuali, dato che l'oggetto di queste consiste praticamente nel constatare l'esistenza, l'inesistenza od i limiti di un determinato obbligo a carico dell'impresa che ha presentato reclamo, obbligo dal quale deriva direttamente la determinazione dell'ammontare dei contributi da essa dovuti.

Ne consegue ancora che va totalmente escluso qualsiasi sistema il quale presupponga nell'Alta Autorità il potere di concedere deroghe od esenzioni mediante atti i quali attribuiscano dei diritti e siano impugnabili: l'Alta Autorità non ha tale potere; essa può soltanto applicare le decisioni normative di base, interpretandole ove occorra. Qualunque modifica di dette decisioni va apportata secondo le modalità stabilite nell'art. 53, cioè mediante una nuova decisione dell'Alta Autorità adottata previo conforme parere unanime del Consiglio. Non trova perciò applicazione qui la teoria della revoca degli atti amministrativi con la quale sono stati attribuiti dei diritti. Come in campo fiscale, il solo gravame ammesso è un gravame individuale, il quale consente al contribuente di contestare l'aderenza alla legge ed ai regolamenti dell'imposizione a suo carico; nel far che il contribuente, come del resto la stessa Amministrazione, non è vincolato dalle interpretazioni rese di pubblica ragione mediante circolari od istruzioni. La sola differenza nel caso nostro sta nel fatto che, non avendo le decisioni normative previsto alcuna possibilità di ricorso amministrativo, la Corte ha riconosciuto alle imprese il diritto di porre in discussione i criteri in base ai quali esse sono state tassate, entro gli ampi limiti sopra ricordati.

Se si ammette questa tesi, si deve anche ammettere che la società S.N.U.P.A.T. aveva il diritto di contestare la legittimità delle «deroghe» concesse ad altre imprese, cioè alla Breda ed alla Hoogovens. Senza dubbio essa non poteva far ciò impugnando come «decisione» (espressa o implicita) il rifiuto dell'Alta Autorità di «revocare» dette deroghe, giacchè queste consistevano in realtà nella mancata imposizione di determinate quantità di rottame impiegate dalle imprese di cui trattasi. E nemmeno essa avrebbe potuto farlo, mi sembra importante ricordarlo, impugnando la lettera del 17 aprile 1958 con la quale è stato stabilito il diritto all'esenzione del rottame nell'ipotesi di integrazione locale, posto che la Corte ha negato che detta lettera fosse un provvedimento impugnabile.

Le erano però aperte due strade: in primo luogo, la S.N.U.P.A.T. poteva impugnare la lettera della Cassa di perequazione in data 12 maggio 1958, da equipararsi ad una decisione dell'Alta Autorità, non già in quanto nel determinare l'importo che le veniva con detta lettera richiesto a titolo di contributi di perequazione si era tenuto conto del valore del rottame proveniente dalla Renault, bensì in quanto vi era compreso, pro quota, il valore del rottame non tassato presso la Breda e presso la Hoogovens. Quanto meno avrebbe potuto far valere questo motivo in via subordinata. Essa non l'ha fatto.

Essa però poteva sollevare nuovamente la questione presso l'Alta Autorità, giacchè si trattava di una questione di principio la quale aveva dato luogo ad una interpretazione dell'Alta Autorità ed inoltre la soluzione di detta questione avrebbe influito direttamente sull'ammontare dei contributi a suo carico. Se ciò non bastasse — questo è però soltanto un motivo d'equità — sarebbe stato abbastanza naturale che essa lo facesse subito dopo la sentenza del 17 luglio 1959, dal momento che questa, pur senza risolvere la questione se le esenzioni concesse in considerazione dell'integrazione locale fossero legittime, poneva fortemente in dubbio — è il meno che si possa dire — tale legittimità.

Possiamo interpretare in questo senso la lettera inviata all'Alta Autorità dalla ricorrente il 29 luglio 1959?

Credo di sì. La ricorrente infatti, basandosi (forse a torto, ma ciò non ha importanza) sulla sentenza della Corte, ha sollevato una questione di diritto, assumendo che tutto il rottame di gruppo, senza eccezioni, dev'essere assoggettato ai contributi; di conseguenza essa ha chiesto all'Alta Autorità di

«revocare con effetto retroattivo… tutte le deroghe espresse o implicite»

che essa ha concesso o tollerato, il che allude chiaramente alla mancata imposizione del rottame di caduta delle imprese integrate localmente. In tal modo essa contesta l'interpretazione data dall'Alta Autorità nella lettera del 17 aprile 1958. D'altro lato, essa ha chiesto all'Alta Autorità «di fissare la nuova aliquota dei contributi», il che significa evidentemente che essa sollecita una nuova commisurazione dei contributi a suo carico nella quale si tenga conto dei contributi complementari che, a suo parere, devono essere posti a carico di determinate imprese.

Dopo questa diffida l'Alta Autorità non ha adottato alcuna decisione espressa entro il termine di due mesi; la sola risposta, la quale proveniva del resto soltanto dal direttore della Divisione del Mercato, si limitava a dire che

«la precisa portata delle sentenze pronunziate dalla Corte il 17 luglio, come pure le ripercussioni di queste sul versamento dei contributi di perequazione da parte delle imprese interessate sarebbero state prese in esame dagli uffici dell'Alta Autorità»,

che a tale scopo sarebbero state chieste informazioni

«a Voi ed a numerose altre imprese»,

e che

«in base agli elementi in tal modo raccolti l'Alta Autorità avrebbe in seguito adottato gli opportuni provvedimenti».

Secondo la vostra giurisprudenza (sentenza SAFE, 42-58 del 17 luglio 1959), questa non è una decisione.

Era perciò possibile presentare un ricorso per carenza, il quale è stato ritualmente introdotto entro il termine fissato dall'art. 35.

In ultima analisi, ritengo che il ricorso 49-59 sia ricevibile.

Sorge tuttavia un'altra questione, forse più complessa della prima, concernente gli effetti di un'eventuale sentenza d'annullamento. Benchè non si tratti di una questione di ricevibilità, reputo di dovermene occupare in ragione della sua importanza ed anche perchè essa è stata lungamente dibattuta in causa, ed è stata quasi sempre confusa con le questioni di ricevibilità.

Il problema ha due aspetti :

1o

l'eventuale annullamento della decisione impugnata dovrebbe produrre effetti unicamente nei confronti della ricorrente, oppure dovrebbe al tempo stesso provocare la tassazione delle imprese ingiustamente esentate, Hoogovens, Breda e forse altre, e la correlativa riduzione dei contributi gravanti su tutte le altre imprese soggette alla perequazione?

2o

In quest'ultima ipotesi, va posto un limite alla retroattività dei contributi supplementari da esigere?

Sul primo punto, il dubbio deriva dal fatto che si tratta (come abbiamo visto e come risulta dalla giurisprudenza della Corte) di un ricorso puramente individuale, il quale permette senza dubbio ad un'impresa di impugnare disposizioni aventi di per sé carattere generale, ma ciò unicamente nel momento in cui esse vengono applicate nei suoi confronti. In via generale, l'annullamento di una decisione individuale produce effetti soltanto nei confronti del destinatario della decisione stessa.

Nel presente caso, però, ritengo le cose stiano altrimenti. Il meccanismo di perequazione, infatti, interessa solidalmente tutte le imprese partecipanti: la Cassa non deve nè guadagnare né perdere e qualunque diminuzione od aumento del contributo di un'impresa si ripercuote automaticamente sull'ammontare dei contributi di tutte le altre. D'altro lato, sarebbe assolutamente iniquo e perfino assurdo commisurare in modo solo virtuale i. nuovi contributi calcolati in ossequio alle pronunzie della Corte e riscuoterne soltanto la parte, per necessità di cose esigua, corrispondente alla riduzione alla quale ha diritto l'impresa ricorrente. Ciò costringerebbe tutte le imprese consumatrici di rottame a presentare a loro volta reclamo, ed eventualmente dei ricorsi, per ottenere lo stesso vantaggio. Si deve perciò ammettere che, ad onta del carattere individuale della decisione eventualmente annullata, una sentenza d'annullamento produrrebbe l'effetto di costringere l'Alta Autorità a predisporre o ad ordinare che siano predisposti dei nuovi imponibili, conformi alle pronunzie della Corte e validi per tutte le imprese. Qualsiasi altra soluzione violerebbe il principio dell'uguaglianza e della solidarietà sul quale si basa un meccanismo di perequazione istituito nel comune interesse di imprese concorrenti. Si potrebbero trovare nei diritti nazionali dei casi analoghi al nostro; ne potrei citare alcuni esistenti nel diritto francese. Voi sapete d'altronde che l'Alta Autorità ha ampiamente applicato questo principio nella decisione 13-58 del 24 luglio 1958, adottata in seguito alla sentenza Meroni la quale aveva tuttavia annullato soltanto una decisione individuale di riscossione riguardante una sola impresa.

Secondo punto, concernante la retroattività.

Il principio della retroattività non mi sembra affatto contestabile, per i motivi che ho già avuto occasione di esporvi nelle mie conclusioni per la causa Phœnix-Rheinrohr ed altri, motivi ai quali mi permetto di richiamarmi (pag. 198-199 del vol. V, edizione italiana). Quanto al termine al quale attenersi, io avevo suggerito, in mancanza di precise disposizioni, di informarsi al concetto di «termine ragionevole» di cui la Corte si era valsa in una causa precedente (Algera ed altri,12 luglio 1957). Questa idea è stata ripresa e l'argomento è stato discusso soprattutto dalle intervenienti, le quali hanno fatto rilevare che un termine di parecchi anni non avrebbe potuto, a loro parere, essere considerato «ragionevole» ed avrebbe violato, a danno delle imprese, il principio della certezza del diritto.

A questo proposito è necessario spiegarsi chiaramente: anche se il concetto di «termine ragionevole» lo traiamo dalla sentenza Algera, è chiaro che il criterio di valutazione dell'ampiezza del termine dev'essere ben diverso nei due casi. Nella causa Algera si trattava del termine entro il quale l'Amministrazione, in materia di pubblico impiego, può revocare un atto viziato il quale ha attribuito un diritto soggettivo ad un dipendente: un termine del genere deve necessariamente essere relativamente breve, dell'ordine di qualche mese (in Francia, ad esempio, è di due mesi, ossia di durata pari a quella del termine d'impugnazione, decorso il quale l'atto diventa definitivo). Nella presente causa, la situazione è del tutto diversa: si tratta del termine entro il quale possono essere riscossi dei contributi supplementari, quindi della riparazione di omissioni o manchevolezze nella commissurazione di un tributo; i contribuenti non acquistano affatto il «diritto soggettivo» di non pagare le imposte per il semplice fatto che non sono state loro richieste oppure che è stata loro richiesta solo una parte del dovuto. Siamo perciò di fronte ad una questione di prescrizione ed in questo campo l'ordine di grandezza del «termine ragionevole» è di qualche anno, non di qualche mese.

Non credo che la Corte, nel caso accolga il ricorso, abbia motivo di risolvere la questione, dato che si tratterebbe dell'esecuzione della sentenza d'annullamento la quale, a norma dell'art. 34, incombe all'Alta Autorità. Osserverò soltanto che, a causa dell'unità del meccanismo, della relativa brevità del periodo di funzionamento (1o aprile 1954-31 ottobre 1958) e del carattere provvisorio delle note di addebito, sembrerebbe equo ammettere che i contributi supplementari possano essere eventualmente riscossi per tutto il periodo di attività del meccanismo. Del resto, l'Alta Autorità intende regolarizzare il meccanismo di perequazione proprio secondo questo criterio (Ottava relazione generale, no 78, pagg. 157 e 158).

B — MERITO

Nel merito, la discussione verte su due questioni :

1o

Il criterio detto della «integrazione locale», quale è stato definito nella lettera dell'Alta Autorità in data 17 aprile 1958, vale a dire l'esistenza di un «complesso industriale unico, nel quale le cadute di lavorazione circolano come all'interno di una stessa impresa», è atto a giustificare l'equiparazione del rottame di caduta, ricuperato in dette imprese, alle «cadute proprie», le quali sono esenti dai contributi di perequazione in quanto non costituiscono «rottame d'acquisto»?

2o

Le «deroghe» concesse alla Breda ed alla Hoogovens sono giustificate?

È inutile dire che, se si risponde affermativamente alla prima domanda, si dovrà rispondere affermativamente anche alla seconda. Non è infatti contestabile, nè è stato contestato, che i due complessi industriali di Sesto S. Giovanni e di IJmuiden corrispondano alla definizione data dall'Alta Autorità.

Se viceversa detta definizione risultasse priva di giuridico fondamento, occorrerebbe stabilire ancora se l'esenzione non fosse giustificata per altre ragioni.

La prima questione si ricollega all'interpretazione delle decisioni di base, interpretazione per la quale la Vostragiuris prudenza, e soprattutto la sentenza S.N.U.P.A.T.; 32 e 33-58, del 17 luglio 1959, fornisce importanti indicazioni.

La seconda questione ci porta ad esaminare il caso particolare di ciascuna delle due imprese di cui trattasi. Questa circostanza, lo accennerò di sfuggita, accentua il carattere «individuale» della controversia, in quanto la ricorrente critica essenzialmente le «deroghe» concesse a dette due imprese le quali, dal canto loro, difendono con energia la legittimità del provvedimento addottato nei loro confronti in considerazione della loro particolare situazione.

1. Il criterio dell'integrazione locale

I contributi di perequazione sono dovuti, come Voi sapete, dalle «imprese di cui all'art. 80 del Trattato che consumino rottame» (art. 2 della decisione 2-57, art. 2 della decisione 16-58, l'ultima in ordine di tempo). Quanto all'imponibile dei contributi, esso è dato dal «consumo di rottame d'acquisto», il quale viene determinato calcolando il consumo globale di rottame e deducendone le «risorse proprie».

Possono perciò sorgere due, e due sole, questioni :

1o

Cosa si debba intendere per «rottame d'acquisto», in contrapposizione alle «risorse proprie», a sensi delle decisioni di base.

2o

Una volta interpretato il tenore di dette decisioni, se esse siano in contrasto con lo scopo stesso del meccanismo finanziario, oppure contrarie al Trattato. La sentenza del 17 luglio 1959 è in gran parte dedicata proprio all'esame di questo secondo gruppo di questioni.

In ogni caso, come ho già rilevato, non si può assolutamente ammettere che, in mancanza di espresse disposizioni (quale, ad esempio, l'art. 7 della decisione 2-57), l'Alta Autorità abbia il diritto di derogare alle decisioni adottate in forza e secondo le forme dell'art. 53.

Cosa è stato deciso nella sentenza del 17 luglio 1959?

È stato affermato che :

1o

le consegne di rottame aventi il carattere di «compravendita» producevano l'effetto di assoggettare il rottame stesso ai contributi di perequazione, a norma della decisione 2-57, anche trattandosi di rottame detto «di gruppo» ;

2o

la tassazione del «rottame di gruppo», in tal modo tratta dalla decisione 2-57, èra di per sé conforme agli scopi del meccanismo di perequazione e conforme al Trattato, mentre l'esenzione di esso sarebbe stata illegittima sotto entrambi gli aspetti;

3o

l'esenzione delle risorse proprie è legittima e poteva essere sancita dalla decisione 2-57.

Il punto saliente della motivazione, rispetto al quale tutto il resto ha carattere accessorio, mi sembra sia quello in cui la Corte richiama il principio che ha presieduto all'istituzione del meccanismo di perequazione :

«È vero infatti che scopo del sistema di perequazione è di mantenere il rottame ad un prezzo moderato, tuttavia per raggiungere tale scopo l'Alta Autorità ha istituito un sistema inteso a far gravare su tutti i consumatori di rottame il sovraprezzo del rottame importato e perciò il contributo di perequazione è dovuto non per il fatto di partecipare al mercato del rottame, bensì per il fatto di consumare rottame. Al versamento dei contributi per finanziare la perequazione sono pertanto tenuti tutti i consumatori di rottame come tali…»

La Corte ha in tal modo escluso categoricamente l'aspetto «economico», cioè il punto di vista del mercato, a proposito del quale mi ero chiesto, nelle mie conclusioni per le cause tedesche, se non se ne dovesse tener conto almeno entro certi limiti.

Signori, sono d'opinione che un richiamo così netto al principio sul quale si basa la riscossione dei contributi di perequazione, ossia il fatto di consumare rottame, non già il fatto di 'partecipare al mercato, implichi la condanna del criterio dell'integrazione locale, quale è stato ammesso dall'Alta Autorità.

a) Interpretazione delle decisioni normative di base

Innanzitutto non ritengo ammissibile, in quest'ordine d'idee, che l'esenzione venga concessa in base ad una semplice interpretazione delle decisioni di base, ossia che il rottame in questione venga considerato come non facente parte del «rottame d'acquisto» a sensi di dette decisioni.

Per quanto riguarda il rottame di gruppo, sarebbe stato concepibile uno sforzo del genere (ed io stesso l'avevo prospettato) entro i limiti in cui fosse stato ammesso il punto di vista del mercato; in tal caso, l'espressione «rottame d'acquisto» avrebbe potuto essere intesa nel senso di «rottame acquistato sul mercato» : non è più il caso di parlarne dopo la vostra sentenza.

Ma ciò mi sembra non meno inconcepibile anche per il rottame «di caduta» che circoli entro un complesso industriale, fra imprese aventi ragione sociale diversa: se lo avevo ritenuto ammissibile, ciò è da attribuirsi al fatto che, anche in questa ipotesi, reputavo di dover tener conto del concetto di mercato.

«Orbene — avevo detto (vol. V, pag. 195) — il rottame che circola nell'ambito di uno stesso complesso industriale generalmente sfugge ad ogni influenza del mercato».

Se viceversa ci si attiene strettamente, come Voi avete fatto, al principio che fa del consumo di rottame il fondamento della riscossione dei contributi, diviene assolutamente impossibile interpretare l'espressione «rottame d'acquisto» in modo diverso che in base al criterio puramente giuridico di «rottame acquistato» e, di conseguenza, l'espressione «risorse proprie» altrimenti che come risorse di proprietà dell'impresa. Così l'esenzione del rottame di caduta ceduto da un'impresa ad un'altra nel quadro di una integrazione locale mi sembra contraria alle decisioni di base.

b) Legittimità delle decisioni di base

Cionondimeno, ed è questo il secondo punto, dette decisioni non sarebbero per caso a loro volta contrarie al Trattato od ai principi fondamentali del meccanismo di perequazione, nel qual caso l'esenzione dovrebbe essere considerata legittima e solo per errore non contemplata nelle decisioni? L'eccezione d'illegittimità, ammessa dalla giurisprudenza, consente, anzi costringe, a pronunziarsi su questo punto.

Signori, credo che anche sotto questo aspetto il criterio della integrazione locale adottato dall'Alta Autorità sia insufficiente a giustificare le esenzioni.

Infatti, se il fondamento della riscossione dei contributi è costituito dal fatto di consumare rottame, ne deriva che in questo consumo deve essere incluso tutto il rottame che un'impresa acquista, allo scopo di impiegarlo nei suoi apparecchi come materia prima, in vista dell'attività produttiva nel settore dell'acciaio che le è propria.

A questo proposito, ha scarsa rilevanza che detta attività riguardi l'elaborazione di un prodotto grezzo destinato ad essere venduto come tale oppure la fabbricazione, in uno stabilimento integrato, di prodotti più lavorati: purchè si tratti di un «prodotto» compreso nell'Allegato I del Trattato, il produttore è considerato un'impresa a sensi del Trattato. Nella sentenza Pont-à-Mousson è stato affermato precisamente questo.

Se quindi la fabbricazione dei vari prodotti si svolge a cura di persone giuridiche distinte, ciascuna di queste rappresenta una «impresa» a sensi del Trattato, dato che essa esercita una distinta «attività di produzione», ed il fatto che una di esse si procuri del rottame di caduta prodottosi presso le altre imprime al rottame stesso il carattere di rottame d'acquisto, impiegato in un'attività produttiva diversa da quella esercitata dall'impresa che l'ha ceduto: non si tratta di cadute «proprie», nè di risorse «proprie» dell'impresa che acquista.

Si potrebbe senza dubbio essere tentati di addurre a sostegno del contrario l'argomento accolto nella sentenza S.N.U.P.A.T. e tratto dalla circostanza che il rottame in tal modo' ricuperato verrebbe tassato due volte. A mio parere, non bisogna però esagerare la portata di questo argomento di cui la Corte si è valsa per giustificare il principio dell'esenzione delle risorse proprie (astenendosi rigorosamente dal toccare la questione dell'integrazione locale).

In realtà, è solo parzialmente esatto il dire che se il rottame in parola non venisse esentato esso sarebbe gravato due volte dai contributi di perequazione. Ciò è vero soltanto nella misura in cui il rottame è stato incorporato nel prodotto. Con grande abilità, ma con lealtà anche maggiore, l'illustre patrono dell'Alta Autorità, nel valersi dell'argomento a suo profitto, ha scelto l'ipotesi di una acciaieria la quale impieghi soltanto rottame. Ora, nessun acciaio, nemmeno quello elettrico, viene prodotto col 100 % di rottame. Alla Hoogovens, ad esempio, ci sono state indicate le proporzioni: nel forno Martin viene introdotto circa il 50 % di ghisa contro 50 % di rottame e nel forno ad ossigeno, pure impiegato per i prodotti destinati alla Breedband, la percentuale di rottame è soltanto del 25 %. Ne consegue, per continuare l'esempio, che il rottame di caduta ricuperato presso la Breedband contiene una parte di rottame notevolmente inferiore alla metà: naturalmente non bisogna intendere alla lettera l'espressione «parte di rottame» che ho testé usato, trattandosi in realtà di un prodotto nuovo, sia dal punto di vista chimico, sia dal punto di vista produttivo.

Del resto, se ci si lasciasse fuorviare dal criterio in parola, non si potrebbe fare a meno di giungere ai due corollari seguenti :

1o

Non vi sarebbe alcun valido motivo di tassare le cadute proprie provenienti dalla lavorazione di prodotti non soggetti al Trattato, per i quali è stato impiegato dell'acciaio: perchè, ad esempio, si dovrebbero tassare le cadute della Renault, la quale fabbrica automobili servendosi di acciaio per produrre il quale è stato impiegato del rottame? Determinati prodotti non soggetti al Trattato possono contenere più rottame di altri compresi nello Allegato I.

2o

Si dovrebbero del pari esentare le cadute proprie d'acciaio ed anche di acciaio grezzo, qualora siano vendute e l'acciaio sia a base di rottame, il che sarebbe veramente paradossale, dato che implicherebbe l'esenzione del rottame d'acciaio, cioè del più puro e del più ricercato !

Ritengo perciò che non si debba tener conto dell'argomento tratto da un'asserita doppia imposizione, posto che gli apparecchi che producono le cadute e quelli che le impiegano appartengono a due imprese distinte le quali fabbricano prodotti diversi a sensi dell'Allegato I ed il rottame ricuperato presso l'una viene ceduto all'altra.

Nè mi persuade l'argomento, sul quale hanno insistito soprattutto le intervenienti, tratto dai vantaggi dell'integrazione industriale agli effetti della produttività e della «Leistungswettbewerb». Questo argomento infatti vale, ai nostri fini, soltanto nell'ambito dell'attività di una impresa. Se si tratta però di due imprese distinte, di cui una fornisce all'altra del rottame a copertura del fabbisogno di quest'ultima, non si vede perchè queste consegne dovrebbero essere esenti dai contributi, i quali vengono riscossi proprio in ragione del fatto di consumare rottame. Non vi è dubbio che sia più razionale ricorrere all'integrazione: la perequazione non ha però lo scopo di favorire la razionalizzazione della produzione. Se il produttore d'acciaio grezzo non impiegasse il rottame proveniente dalle successive fasi della lavorazione, questo verrebbe posto sul mercato ed il produttore dal canto suo dovrebbe acquistarlo all'esterno e corrispondere i contributi sulle partite in tal modo ottenute.

In realtà ritengo che il motivo che ha indotto ad esentare dai contributi le risorse proprie sia stato suggerito dal buon senso e dall'equità. Si è giustamente pensato che sarebbe stato sconveniente assoggettare ad un tributo l'impiego da parte di un'impresa di un materiale ad essa appartenente, di un materiale che, come dice la sentenza S.N.U.P.A.T., è uno dei sottoprodotti che essa reimmette nel ciclo produttivo: di quale attività? Di quella esercitata dall'impresa stessa, cioè diretta alla fabbricazione di uno o più prodotti compresi nell'Allegato I, non già di quella esercitata dal vicino (anche se appartenente alla stessa famiglia) e diretta alla fabbricazione di un altro prodotto. Le disposizioni con le quali sono state esentate le risorse proprie vanno perciò interpretate in base al significato giuridico dell'espressione, ossia come valide per il rottame di cui l'impresa è proprietaria, senza averlo acquistato: questo criterio di diritto civile collima perfettamente con il criterio della stessa natura adottato per definire il rottame d'acquisto.

In ultima analisi, ritengo che :

1o

le decisioni normative di base (in ispecie le decisioni 2-57 e 16-58) non consentono di esentare il rottame di caduta ceduto da un'impresa ad un'altra impresa avente diversa ragione sociale, nemmeno nel caso in cui le due imprese siano integrate localmente in un complesso industriale;

2o

le stesse decisioni non sono illegittime per il fatto di non: aver previsto un'eccezione per tale ipotesi.

2. Esame dei casi Breda e Hoogovens

Occorre ora esaminare i due casi concreti che vi sono stati sottoposti.

a) Breda Siderurgica

Per quanto riguarda la Breda Siderurgica, non vi possono essere dubbi qualora si accettino le conclusioni alle quali sono testé pervenuto.

A Sesto S. Giovanni l'integrazione locale consiste nel fatto che quattro imprese, fra cui la Breda, hanno i loro impianti nello stessorecinto e si valgono di servizi comuni: impiego dell'energia elettrica, rete di distribuzione dell'acqua, fognatura, servizi sociali, ecc.,. ed altresì lo stesso raccordo ferroviario. Le quattro imprese esercitano però un'attività produttiva in settori nettamente distinti: solo la Breda Siderurgica produce acciaio. Il rottame ricuperato' presso le imprese che consumano acciaio viene ceduto alla Breda, e tale cessione ha senza dubbio il carattere di una compravendita. D'altronde, solo una parte del rottame ritorna alla Breda e, d'altrolato, la Breda vende una parte considerevole della propria produzione ad imprese che non rientrano fra quelle di Sesto S. Giovanni.

Il rottame di caduta ceduto alla Breda dalle altre tre società va a mio parere assoggettato ai contributi di perequazione.

b) Hoogovens

La situazione è più complessa per quanto riguarda la Hoogovens. Vi sono infatti senza dubbio due società aventi ragione sociale diversa; tuttavia, in primo luogo l'integrazione è chiaramente più spinta ad IJmuiden che a Sesto S. Giovanni dal punto di vista tecnico, produttivo ed anche commerciale, e in secondo luogo, sotto l'aspetto giuridico, non è certo che si tratti di una vendita o di una cessione da un'impresa all'altra. A dire il vero, ci si può chiedere sevi siano due imprese oppure una sola.

Per quanto riguarda gli aspetti tecnici dell'integrazione, essi vi sono perfettamente noti grazie alle esaurienti delucidazioni che vi sono state fornite soprattutto nel corso del sopraluogo e grazie al ricordo che certamente conservate di quella visita tanto interessante ad ogni riguardo. Dirò soltanto che sarebbe difficile immaginare un'organizzazione più razionale ed un'integrazione produttiva più spinta. Mi limiterò a ricordare che le capacità produttive delle due imprese sono attualmente in equilibrio, cosicchè la Breedband, la quale ha dovuto talvolta acquistare all'esterno delle bramme per alimentare i suoi laminatoi, impiega attualmente soltanto prodotti della Hoogovens. Inoltre, tutto il rottame ricuperato presso la Breedband ritorna alla Hoogovens; infine, la Breedband fabbrica soltanto prodotti C.E.C.A.

Cionondimeno, signori, se si accetta il mio punto di vista, nessuna di queste varie circostanze, da sola o unita alle altre, è atta a giustificare l'esenzione del rottame ricuperato dalla Breedband ed impiegato dalla Hoogovens. Per stabilire se, ad onta del fatto che vi sono due società aventi diversa ragione sociale, non si debba ugualmente ritenere che i trasferimenti di rottame di cui trattasi non hanno il carattere di una compravendita fra due imprese, occorre esaminare la questione sotto l'aspetto giuridico.

Voi conoscete la tesi della Hoogovens: in forza di un contratto, il quale non è noto ma la cui esistenza è certa, le due imprese hanno deciso di mettere in comune le rispettive capacità produttive. La produzione si svolge in comune, dall'inizio alla fine, i rischi sono parimenti comuni, la vendita dei prodotti è curata da un ufficio vendite comune e tutte le operazioni contabili attinenti vengono riassunte in un unico conto; gli utili risultanti da questo conto sono ripartiti fra le due imprese, non già in ragione del rispettivo capitale, bensì secondo un criterio del quale ci è stato detto, pur senza precisarlo, che esso dipende dal volume degli investimenti. È vero che per le consegne di rottame proveniente dalla Breedband viene a questa rilasciata una nota di credito, basata sul prezzo di mercato del rottame; tuttavia, si aggiunge, questo prezzo è irrilevante, giacché serve unicamente per calcolare con precisione i costi nelle varie fasi del ciclo produttivo.

Questa esposizione dei fatti termina con una tesi giuridica: la massa in comune della produzione, date le circostanze, renderebbe manifesta l'esistenza di una società a sensi dell'art. 1655 del codice civile olandese, di una «maatschap», il cui oggetto sarebbe appunto la produzione in comune. Poichè detta società è priva di ragione sociale, ne conseguirebbe una comunione indivisa fra i soci, comunione che comprenderebbe tutti i prodotti in corso di fabbricazione; il rottame ricuperato dalla Breedband cesserebbe ad un dato momento di essere indiviso e diverrebbe proprietà della Hoogovens: cionondimeno, in base ad un principio analogo alla natura dichiarativa della divisione, esso andrebbe considerato come appartenente ab initio a quest'ultima. Non si potrebbe perciò parlare di un trasferimento di proprietà fra la Breedband e la Hoogovens, donde deriva che il rottame in questione andrebbe di pieno diritto annoverato fra le «risorse proprie» della Hoogovens, anche agli effetti del codice civile. …

Signori, come ben potete credere, mi sono accinto alla valu fazione di questa tesi in piena umiltà, ma con il massimo scrupolo. Come l'illustre avvocato della ricorrente, ho incominciato il ragionamento in base al diritto francese; indi ho fatto dei confronti col diritto olandese e ciò per due motivi: innanzitutto questo è il solo metodo possibile per lo studioso di diritto comparato, il quale deve procedere dal noto all'ignoto, ed anche perchè, ad onta di considerevolissime differenze, il diritto civile francese ed il diritto civile olandese presentano, in fatto di principi e di concetti giuridici, delle indubbie analogie, dovute alla comune origine ed anche alle disposizioni comuni tuttora in vigore.

La prima questione è se si possa ritenere che nella specie una società sussista. In questa materia i principi sono comuni e sono contenuti nella stessa disposizione, l'art. 1655 del codice civile olandese il quale è identico all'art. 1832 dei codici civili francese e belga :

«la société est un contrat par lequel deux ou plusieurs personnes conviennent de mettre quelque chose en commun dans la vue de partager le bénéfice qui pourra en résulter».

Mi sembra sia questo il caso: la Hoogovens e la Breedband hanno senza dubbio, inteso «mettre quelque chose en commun», cioè la rispettiva capacità produttiva, ed hanno fatto ciò allo scopo di dividersi gli utili dell'operazione.

Ma che tipo di società?

Se si trattasse del diritto francese, potrebbe essere soltanto un'associazione in partecipazione. L'attività della società è infatti puramente commerciale ed inoltre essa non possiede la personalità giuridica. Ora, per il diritto francese, le sole società commerciali prive di personalità giuridica e dispensate dalla pubblicità sono le associazioni in partecipazione (sociétés en participation) contemplate nell'art. 49 del codice di commercio sotto il nome di «associations en participation».

È vero che è talvolta difficile distinguere la società giuridicamente nulla, la quale viene presa in considerazione solo come società di fatto, da una associazione in partecipazione. Mi pare tuttavia che nella specie sussistano tutti gli elementi di quest'ultima.

Innanzitutto riguardo all'oggetto di essa. Nel Manuel des sociétés, di Moliérac (1956), leggiamo, al no 325, che il campo di applicazione dell'associazione in partecipazione sta diventando sempre più ampio :

«il existe même des associations en participation entre de très importantes sociétés anonymes pour la mise en commun de l'ensemble de leurs résultats».

È proprio questo il nostro caso, almeno per quella parte degli utili che si riferisce alla produzione comune.

Indi il requisito della segretezza, che è essenziale. Ciò implica che l'esistenza dell'associazione non dev'essere resa nota ai terzi.

«La jurisprudence — leggiamo nell'opera citata (no 328) — a toujours dégagé ce caractère essentiel. Dès lors qu'elle le perd, dès lors que les associés se révèlent et agissent en associés, elle devient une société de fait. Mais la simple connaissance que les tiers pourraient acquérir, en fait, de son existence ne suffit pas toutefois à lui faire perdre son caractère».

Anche questo corrisponde: l'esistenza della «maatschap» non è stata resa nota ai terzi. In particolare, il conto comune (compte d'exploitation) non è di pubblica ragione, e nemmeno il criterio di ripartizione degli utili. Non vi è traccia di ciò nei bilanci delle due società. Come ci è stato detto in risposta ad una domanda dell'avv. de Richemont durante il sopraluogo, i prodotti consegnati dalla Breedband attraverso l'ufficio vendite sono fatturati in nome di questa sola società.

Altro requisito: la necessità di un apporto :

«Il suffit (op. cit., no 330) qu'il y ait mise en commun d'un apport: apport en numéraire ou en nature, en propriété ou en jouissance, en industrie, etc… Cependant, on a considéré qu'il y avait une association en participation quand deux personnes décident de mettre en commun le resultai de leur éxploitation et que chacune d'elles exploite de son côté avec ses propres biens».

Mi sembra che ciò si adatti perfettamente al caso nostro. L'interveniente ci ha detto che quello che è stato messo in comune è la capacità produttiva di ciascuna società. Ma, sempre per il diritto francese, in cosa ciò si concreterebbe? In primo luogo, non vi sarebbe conferimento della proprietà degli apparecchi occorrenti per la produzione; è infatti pacifico che ciascuna società conserva la proprietà dei rispettivi apparecchi. Non è nemmeno certo che vi sarebbe conferimento in godimento, giacchè ciascuna società provvede mediante i propri apparecchi a quella parte del processo produttivo che corrisponde alla sua normale attività: solo le gru a ponte le quali, come abbiamo visto sul posto, si spostano da un capo all'altro degli opifìci vengono impiegate in ambedue le parti di detto processo.

Quale sarebbe la sorte dei prodotti? Non ritengo affatto che essi diverrebbero proprietà comune delle due società, a meno di un'espressa stipulazione in questo senso. Infatti, non si tratta di un «conferimento» cioè di qualche cosa che viene attribuito all'associazione all'atto della sua costituzione, per essere poi ripreso, sia in natura, sia sotto forma di riscossione di un credito (se si tratta di un conferimento in danaro), allo scioglimento della stessa. Quello che è stato conferito nel caso nostro è la capacità produttiva, cioè un elemento immateriale, non già i prodotti. Se ciò non bastasse, anche ammettendo che i prodotti vengano «conferiti» mano a mano che essi sono fabbricati, ciò non significherebbe che essi divengano ipso facto di proprietà comune.

Leggiamo infatti nell'opera citata, al no 333 :

«Comme l'association en participation n'a pas la personnalité morale, les biens apportés en nature restent, en principe, la propriété de l'associé qui les a apportés… Cependant, il peut être convenu que les apports deviendront la copropriété de tous les associés; cette convention est même présumée lorsque les parties achètent en commun un objet déterminé, des pierres précieuses par exemple, en vue de la revente».

Questo esempio fa chiaramente comprendere quanto sia diverso il caso in esame. Nell'esempio testé citato, infatti, l'acquisto in comune di una determinata merce destinata ad essere rivenduta costituisce l'oggetto vero e proprio dell'associazione: detta merce rappresenta senza dubbio un conferimento ed è naturale ammettere ch'essa diventi proprietà comune degli associati. Nel caso nostro la situazione è completamente diversa: ciascuna società provvede per conto proprio alla fase produttiva di sua spettanza e quello che è messo in comune è il risultato dell'attività produttiva, attività alla quale ciascuno degli associati si è impegnato a riservare la propria capacità produttiva. Le materie prime impiegate dalla Hoogovens (ghisa proveniente dai suoi altiforni, rottame acquistato all'esterno, ecc.) sono incontestabilmente di sua proprietà. Non vi è alcun motivo di riteneré che i prodotti che escono dai suoi apparecchi, i quali risultano dalla trasformazione di materie prime di sua proprietà, diventino di proprietà comune; così pure, non vi è alcun motivo che i prodotti fabbricati dalla Breedband nei suoi apparecchi e venduti per suo conto ai clienti appartengano anche alla Hoogovens.

Ritengo perciò che, in base al diritto francese, non sarebbe ammissibile, senza espressa stipulazione in contrario, nè che i prodotti in corso di fabbricazione o i prodotti finiti costituiscano un conferimento, nè che essi divengano proprietà comune degli associati.

Vediamo ora di stabilire come stanno le cose nel diritto olandese.

A quanto pare, la principale differenza rispetto al diritto francese consiste nel fatto che nei Paesi Bassi l'esistenza di una società (maatschap) non è condizionata dal sussistere nè della personalità giuridica, nè di un patrimonio sociale, mentre in Francia, come abbiamo visto, sono indispensabili ambedue questi requisiti, eccezion fatta per l'associazione in partecipazione.

Cionondimeno, come si legge nell'opera di Asser-Kamphuisen, Handleiding tot de beoefening van het Nederlandsch burkerlijk rechi, 1960, p. 484.

«la questione ha rilevanza soltanto se la società compare come tale all'esterno ed inoltre in veste unitaria. Il che è molto raro; giacché, se la società esercita un'attività industriale o commerciale, essa va collocata nella categoria delle società con ragione sociale (vennootschap onder firma)».

L'articolo 16 del codice commerciale, infatti, stabilisce :

«La società con ragione sociale è la società (maatschap) costituita allo scopo di esercitare un'impresa sotto un nome comune».

Ne consegue che una società a sensi dell'art. 1655 del codice civile (maatschap), la quale «non compaia all'esterno in veste unitaria» ed eserciti un'attività imprenditoriale, non è nulla (come lo sarebbe in Francia, eccezion fatta per l'associazione in partecipazione), ma non ha personalità giuridica e non può avere un patrimonio proprio.

Se ciò è esatto, la situazione giuridica, ad onta delle apparenze, è molto vicina a quella del diritto francese; la maatschap, qualora eserciti un'attività industriale o commerciale, mi sembra molto simile all'associazione in partecipazione del diritto francese: la sola differenza consisterebbe nel fatto che, in un caso (in Francia) si tratta di una deroga, espressamente prevista dalla legge, alla regola della personalità giuridica, mentre nei Paesi Bassi si tratterebbe semplicemente di una manifestazione dell'autonomia dei privati.

Ciò posto, il problema che sorge (op. cit., p. 476) verte su quale sia

«la situazione giuridica delle cose che… vengono poste a disposizione della società (maatschap)… Detta questione è molto complessa, poichè in primo luogo la legge tace completamente su questa parte del diritto delle società ed in secondo luogo ci si trova di fronte alla nozione di comunione, la quale rappresenta uno dei punti più oscuri della dottrina dei diritti reali».

In realtà, la questione più controversa, a quanto pare, è se i conferimenti dei soci restino di proprietà del conferente oppure diventino proprietà comune: nel primo caso occorre inoltre stabilire se, all'atto della liquidazione, si debba tener conto dell'aumento o della diminuzione di valore della cosa conferita; nel secondo caso (comunione), occorre stabilire se, sempre all'atto della liquidazione, il conferente abbia il diritto alla restituzione del valore del suo conferimento oppure le cose conferite vengano ripartite in ragione dei diritti dei soci.

Cionondimeno, signori, tutti questi dubbi affiorano soltanto in caso di liquidazione e le sentenze citate in corso di causa riguardano appunto la liquidazione: Hoge Raad, 24 gennaio 1947, in Nederlandsche Jurisprudentie, 1947, no 71; Hoge Raad, 29 ottobre 1952, ibid., 1953, no 557. Nel secondo caso si trattava anzi di una società con ragione sociale. Quanto alla sentenza dello Hoge Raad (sezione tributaria) del 7 dicembre 1955, N.J., 1956, no 163, essa afferma che, perchè una società con ragione sociale (vennootschap onder firma) esista, non è necessario vi sia un patrimonio sociale, il che esula dal caso nostro.

Nella presente controversia la questione che sorge è un'altra, cioè se, nella fattispecie, i prodotti fabbricati nel quadro dell'attività comune costituiscano un conferimento e, in caso affermativo, se i beni conferiti siano divenuti proprietà comune dei soci.

Signori, non posso che richiamarmi alle interessantissime considerazioni che Asser fa seguire a quanto vi ho. testé citato. Richiamo soprattutto la vostra attenzione sul passo seguente che mi pare riassuma adeguatamente i termini essenziali del problema (p. 478) :

«La legge non dice per nulla che i soci siano tenuti a conferire in comunione, ma così avviene soltanto qualora ciò risulti dal contratto di società (maatschap). Stabilire se di ciò si tratta è ancora una questione di interpretazione… Giungiamo così alla conclusione che, sotto l'aspetto del regime giuridico dei beni, l'obbligo del conferimento non produce di per sè alcun effetto; tutto dipende dalla volontà ielle parti».

Ora, signori, il contratto Hoogovens-Breedband non è stato prodotto; vi è stato detto perchè. In occasione del sopraluogo, in risposta ad una domanda del giudice relatore, l'interveniente ha dichiarato che

«a suo. parere, la prova della comunione risultava da varie clausole del contratto; tuttavia nessuna disposizione riguardava direttamente detto ' problema».

La Corte avrebbe evidentemente potuto, e lo potrebbe ancora riaprendo il procedimento, ordinare l'esibizione del contratto secondo modalità atte a conciliare la tutela del segreto professionale, nella misura in cui esso è lecito, con il rispetto del principio del contradditorio. Ritengo però che ciò non sia necessario.

Si ammette infatti che il contratto non contiene alcuna clausola riguardante espressamente la questione della comunione ed io sono del parere che, in mancanza di un preciso patto in contrario, non si possa ammettere nella specie una comunione dei prodotti. A questo proposito non posso che richiamarmi a quanto già detto: l'associazione, qualora esista, ha per oggetto la messa in comune dei risultati dell'attività produttiva e ciascuno degli associati si è impegnato a riservare la propria capacità produttiva al raggiungimento di detto oggetto. La messa in comune ha carattere economico e finanziario, ma, sotto l'aspetto dei diritto reali, non vi è alcun motivo di ritenere, salvo patto contrario, che i soci abbiano voluto mettere in comune la proprietà dei vari prodotti che ciascuno fabbrica per conto proprio nei suoi reparti. Quindi, anche dando per dimostrata l'esistenza di una maatschap, non è provato che ne discenda la comunione dei prodotti elaborati. Sembra viceversa certo che questi siano ceduti dalla Hoogovens alla Breedband mano a mano che essi passano dagli apparecchi della prima a quelli della seconda e che, nella stessa guisa, il rottame ricuperato presso la Breedband venga da questa ceduto alla Hoogovens: ciò pare senz'altro confermato dal fatto che dette cessioni, nettamente distinte, sono contabilizzate con la massima precisione a debito o a credito di ciascuna società. Per di più, come ho già detto, è. del tutto insolito che un conferimento in società sia costituito da prodotti industriali fabbricati durante tutto il periodo di esistenza della società.

Quanto alla circostanza che il rischio delle perdite stia a carico di ambedue, essa non mi pare atta a dimostrare la comunione. L'art. 1688 del codice civile, ad esempio, dispone che il rischio è comune qualora si tratti di cose consumabili, oppure che si deteriorano col tempo, oppure destinate ad essere vendute, anche qualora esse siano state conferite solo in godimento. I soci sono comunque liberi di accordarsi come credono.

Se viceversa, a differenza di quanto ritengo, si ammettesse la comunione di detti prodotti, ne conseguirebbe forse che il rottame ricuperato dalla Breedband uscirebbe automaticamente dalla comunione per divenire proprietà della Hoogovens presso la quale esso ritorna, e quest'ultima dovrebbe esserne considerata proprietaria ab initio?

Ciò mi sembra estremamente discutibile. Per il diritto francese la natura dichiarativa della divisione ha rilevanza soltanto all'atto della liquidazione della società e non potrebbe essere invocata in un caso del genere. Qual'è la situazione per il diritto olandese? Confesso di ignorarlo. Osserverò soltanto che, a mio parere, a torto l'interveniente cita a sostegno un estratto del Weekblad voor Privatrecht, 1935, no 3397, p. 62, nel quale è detto che i soci possono liquidare determinati utili nel corso di una divisione parziale, pur mantenendo in vita la società. Questo parere infatti, in primo luogo riguarda soltanto «i soci di una società semplice o di una società con ragione sociale», ed in secondo luogo vi si parla di liquidare determinati utili e non, come nel caso nostro, di far cessare la comunione di un bene. Nella fattispecie, perciò, potrebbe a quanto pare trattarsi soltanto di un trasferimento di proprietà effettuato dai partecipanti alla comunione a favore di uno di essi: un negozio siffatto non ha, di per sè, effetto retroattivo.

In ultima analisi, ritengo che i rapporti particolari in atto fra la Hoogovens e la Breedband, come del resto la circostanza della loro integrazione produttiva, non sia atta a giustificare l'abbandono del criterio della «ragione sociale» stabilito dalla vostra giurisprudenza. Si tratta di due imprese, le quali esercitano attività produttive diverse nel settore dell'acciaio: senza dubbio queste due diverse attività potrebbero essere esercitate da una sola impresa; tuttavia, per motivi «contingenti» che non siete chiamati a giudicare, sta il fatto che esse sono esercitate da due imprese distinte. I contributi di perequazione a carico della Hoogovens devono perciò essere calcolati sul suo consumo complessivo di rottame, ivi compreso quello cedutole dalla Breedband il quale, a mio parere, non può essere considerato come «cadute proprie» della Hoogovens.

Concludo proponendovi :

1o

nella causa 42-59

che il ricorso sia respinto

e le spese poste a carico della ricorrente ;

2o

nella causa 49-59

che il silenzio-rifiuto impugnato sia annullato;

che la pratica sia rinviata all'Alta Autorità per i provvedimenti del caso; e le spese poste a carico dell'Alta Autorità

e delle intervenienti in base al criterio di ripartizione che la Corte riterrà più opportuno.