52013DC0861

RELAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL PARLAMENTO EUROPEO Relazione sull’applicazione della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) /* COM/2013/0861 final */


RELAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL PARLAMENTO EUROPEO

Relazione sull’applicazione della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)

1.           Introduzione

Il 5 luglio 2005 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato la direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (in appresso “la direttiva”)[1]. La direttiva, che consolida e aggiorna l’acquis dell’UE in questo settore fondendo direttive precedenti[2] e introducendo elementi nuovi, si basa sull’articolo 157, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (in appresso “TFUE”).

La presente relazione valuta il recepimento da parte degli Stati membri degli elementi innovativi della direttiva e l’efficacia della sua applicazione e esecuzione[3], lasciando impregiudicate eventuali procedure di infrazione.

Il Parlamento europeo ha fatto ripetutamente appello a nuove azioni mirate a migliorare l’applicazione delle disposizioni in materia di parità retributiva a livello europeo e a tal fine ha adottato due risoluzioni, nel 2008[4] e nel 2012[5].

La strategia della Commissione per la parità tra donne e uomini 2010-2015[6] individua una serie di modalità per applicare nella pratica il principio della pari retribuzione in modo più efficace e azioni volte a ridurre il persistente divario retributivo di genere. La Commissione ha avviato uno studio per valutare come rafforzare l’applicazione di questo principio, per esempio migliorando l’attuazione e il rispetto degli obblighi e delle misure esistenti finalizzate a promuovere la trasparenza salariale.

La presente relazione prevede una sezione su come vengono applicate nella pratica le disposizioni in materia di parità retributiva. Nell’intento di promuovere e facilitare l’applicazione pratica di queste norme, la presente relazione è accompagnata da un documento di lavoro dei servizi della Commissione, suddiviso in quattro allegati: 1) una sezione sui sistemi di valutazione e classificazione professionali neutri sotto il profilo del genere; 2) una sintesi della giurisprudenza in materia di parità retributiva della Corte di giustizia dell’Unione europea (in appresso “CGUE”); 3) esempi tratti dalla giurisprudenza nazionale in materia di parità retributiva; 4) una descrizione dei fattori che causano il divario retributivo di genere, le azioni della Commissione per sopprimerlo e esempi di migliori prassi nazionali.

2.           Stato di recepimento e procedure d’infrazione

In esito ai controlli di conformità, la Commissione ha significato a 26 Stati membri dubbi in merito alla conformità della loro normativa nazionale con le novità introdotte dalla direttiva[7]. In due Stati membri il recepimento è sufficientemente chiaro e conforme e non richiede ulteriori informazioni[8].

Alcuni degli elementi della direttiva provengono da precedenti direttive, abrogate in esito alla rifusione. Il recepimento di questi elementi preesistenti era già monitorato nell’ambito dei controlli di conformità sulle direttive anteriori, più recentemente la direttiva 2002/73/CE[9]. Nel 2006 la Commissione ha avviato procedimenti d’infrazione nei confronti di 23 Stati membri per non conformità con la direttiva 2002/73/CE. A eccezione di uno[10], tutti questi procedimenti sono stati chiusi, perché gli Stati membri hanno uniformato le norme nazionali al diritto dell’UE. Il caso ancora aperto riguarda l’obbligo di tutelare adeguatamente i diritti dei lavoratori in congedo parentale, per maternità o adozione, quando tornano a lavorare. Il caso è stato rinviato alla CGUE il 24 gennaio 2013[11].

3.           Impatto della direttiva

Poiché la direttiva essenzialmente consolida il diritto dell’UE sulla parità di trattamento, riunendo, aggiornando e semplificando le disposizioni di cui alle direttive precedenti e incorporando la giurisprudenza della CGUE, l’obbligo di recepimento si limita alle disposizioni che introducono un cambiamento sostanziale[12]. Queste riguardano:

(1) la definizione di retribuzione[13];

(2) l’esplicita estensione dell’applicazione della parità di trattamento, nel quadro dei regimi professionali di sicurezza sociale, ai regimi pensionistici di una categoria particolare di lavoratori come quella dei dipendenti pubblici[14];

(3) l’esplicita estensione delle disposizioni orizzontali (tutela dei diritti, risarcimento o riparazione e onere della prova) ai regimi professionali di sicurezza sociale[15];

(4) il riferimento esplicito alle discriminazioni derivanti da un cambiamento di sesso[16].

In linea generale gli Stati membri non si sono concentrati limitatamente a recepire queste novità. Alcuni Stati membri hanno esplicitamente recepito la direttiva sia con nuove leggi o con modifiche sostanziali alla legislazione esistente[17]. In due Stati membri la direttiva è stata recepita congiuntamente a altre direttive sulla non discriminazione[18]. In altri due Stati membri il recepimento è stato ritenuto necessario solo in relazione ai regimi professionali di sicurezza sociale[19] e al ritorno dal congedo di maternità[20].

Il recepimento non è stato ritenuto necessario in alcuni Stati membri, giacché il recepimento delle direttive precedenti era sufficiente per soddisfare i requisiti della presente direttiva[21].

3.1. Definizione di retribuzione

L’articolo 2, paragrafo 1, lettera e), della direttiva definisce la retribuzione negli stessi termini dell’articolo 157, paragrafo 2, del TFUE: “salario o stipendio normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore a motivo dell’impiego di quest’ultimo”. Nella maggior parte degli Stati membri la nozione di retribuzione, definita dalla legislazione nazionale, corrisponde a quella della direttiva[22]. In altri, la definizione giuridica di retribuzione non è identica a quella della direttiva, ma l’effetto complessivo sembra essere lo stesso[23] o i tribunali nazionali interpretano il termine “retribuzione” conformemente alla giurisprudenza della CGUE[24].

In altri Stati membri il concetto di retribuzione non è espressamente definito nella legislazione nazionale[25]. Per esempio la legislazione di uno Stato membro garantisce alle donne la parità di trattamento in termini contrattuali (che comprendono ma non si limitano alla retribuzione) rispetto a opportuni parametri maschili di riferimento[26].

3.2. Regimi pensionistici per particolari categorie di lavoratori, come i dipendenti pubblici

L’articolo 7, paragrafo 2, incorpora alcuni elementi consolidati della giurisprudenza della CGUE chiarendo che i regimi pensionistici per particolari categorie di lavoratori, come quella dei dipendenti pubblici, devono essere considerati alla stregua dei regimi pensionistici professionali e la retribuzione ai fini dell’articolo 157, paragrafo 2, del TFUE, anche se fanno parte di un regime giuridico generale[27]. Nella maggioranza degli Stati membri questa disposizione è stata attuata con una disposizione esplicita oppure implicitamente nei casi in cui la normativa nazionale non opera una distinzione tra categorie di lavoratori[28]. In numerosi Stati membri il recepimento è carente o poco chiaro[29]: in due Stati membri l’età pensionabile per uomini e donne differisce dal settore pubblico a quello privato[30]; in quattro Stati membri la normativa sui regimi professionali di sicurezza sociale non contiene disposizioni sulla parità di trattamento[31]; in uno Stato membro le disposizioni sulla parità di trattamento nei regimi professionali di sicurezza sociale non sono applicabili ai dipendenti pubblici[32].

3.3. Estensione delle disposizioni orizzontali ai regimi professionali di sicurezza sociale

Una delle grandi novità introdotte dalla direttiva è l’estensione delle disposizioni orizzontali di cui al titolo III ai regimi professionali di sicurezza sociale[33]. La precedente direttiva sui regimi professionali di sicurezza sociale[34] non prevedeva espressamente la tutela dei diritti[35], il risarcimento o riparazione[36], l’onere della prova[37], gli organismi per la parità[38], il dialogo sociale[39] e il dialogo con le organizzazioni non governative[40]. La direttiva, consolidando la legislazione dell’UE sulla parità di trattamento, estende esplicitamente l’applicazione di queste disposizioni orizzontali ai regimi professionali di sicurezza sociale. Nella maggior parte degli Stati membri le disposizioni orizzontali sono state recepite nella legislazione nazionale e si applicano ai regimi professionali di sicurezza sociale[41]. Non è però così per tutte le disposizioni orizzontali della direttiva in quattro Stati membri[42]. In uno Stato membro non è chiaro se l’organismo per la parità può intervenire sui regimi professionali di sicurezza sociale[43]. In un altro Stato membro il quadro normativo anti-discriminazione, che integra le disposizioni orizzontali, si applicherà una volta che sarà in essere la normativa sui regimi pensionistici professionali[44]. In due Stati membri la legislazione sui regimi professionali di sicurezza sociale non sembra contenere disposizioni in materia di parità di trattamento[45]. In un altro Stato membro che non dispone attualmente di regimi professionali di sicurezza sociale non è chiaro se la normativa nazionale sulle rilevanti disposizioni orizzontali troverebbe applicazione ove questi regimi venissero introdotti[46].

3.4. Cambiamento di sesso

Il terzo considerando della direttiva fa riferimento alla giurisprudenza della CGUE, secondo la quale il principio della parità di trattamento tra uomini e donne non può essere ridotto soltanto al divieto delle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso, ma si applica anche alle discriminazioni che hanno origine nel mutamento di sesso della persona interessata[47]. Pochissimi Stati membri hanno esplicitamente recepito questa novità[48]. Due Stati membri rinvengono tra le cause di discriminazione l’“identificazione sessuale o di genere”[49] e l’“identità di genere”[50]. In due Stati membri la normativa annoverava già in precedenza l’“identità sessuale” tra i motivi di discriminazione[51]. Queste formulazioni includerebbero il cambiamento di sesso, anche se non limitatamente. In uno Stato membro l’autorità per le pari opportunità ha elaborato orientamenti che includono tra i motivi di discriminazione la transessualità e non solo il cambiamento di sesso[52]. In quattro Stati membri che non hanno introdotto specifiche misure di attuazione, l’interpretazione data dai tribunali nazionali della normativa nazionale sulla parità di trattamento implica il divieto di discriminare in base al cambiamento di sesso[53]. In altri tre Stati membri, dove parimenti non esistono misure di attuazione specifiche, si fa affidamento direttamente agli effetti della giurisprudenza della CGUE sulla legislazione nazionale[54]. In molti altri casi in cui questa novità non è stata specificatamente recepita e non era precedentemente contemplata dalla normativa per le pari opportunità, i motivi di discriminazione esistenti potrebbero non essere sufficientemente esaustivi per coprire la discriminazione in base al cambiamento di sesso. È presumibilmente il caso di uno Stato membro che vieta la discriminazione basata su “circostanze personali”[55]. Rimane tuttavia che la maggior parte degli Stati membri non abbia colto l’occasione offerta dalla direttiva per sancire esplicitamente nel proprio ordinamento il diritto alla non discriminazione per chi si sottopone o ha subito un cambiamento di sesso.

3.5. Valutazione globale

Gli Stati membri erano tenuti unicamente a recepire le novità della direttiva e nelle grandi linee non sembrano aver sfruttato questa opportunità per rivedere in modo più esteso i propri sistemi nazionali in modo da semplificare e modernizzare la normativa sulla parità di trattamento.

I servizi della Commissione hanno chiesto a 26 Stati membri informazioni più dettagliate sulle rispettive soluzioni di recepimento e attuazione; gli aspetti più problematici dovranno essere risolti in via prioritaria. Per tutti gli Stati membri si tratterà in futuro di passare dal corretto recepimento della direttiva alla piena applicazione e al pieno rispetto nella pratica dei diritti ivi sanciti.

4.           Applicazione pratica delle disposizioni sulla parità retributiva

Se da un lato il principio della parità retributiva è parte integrante dell’ordinamento dell’Unione sin dal trattato di Roma e da allora è stato ulteriormente sviluppato nel diritto dell’UE e nelle legislazioni degli Stati membri, la sua effettiva applicazione pratica è ancora carente.

L’articolo 4 della direttiva stabilisce il principio della parità retributiva, prevedendo che, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. Qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, la direttiva stabilisce che questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso.

Gli Stati membri attuano il principio della parità retributiva in gran parte attraverso la legislazione sulle pari opportunità e i codici del lavoro. In diversi Stati membri il principio ha rango costituzionale[56]. Alcuni Stati si sono dotati di leggi che attuano nello specifico il principio della parità retributiva[57], mentre altri hanno recepito questa disposizione tramite i contratti collettivi di lavoro[58]. Le legislazioni di buona parte degli Stati membri vietano esplicitamente la discriminazione retributiva[59]. Tuttavia, sebbene i quadri giuridici nazionali vietino la discriminazione retributiva, l’applicazione del principio della parità retributiva resta, nella pratica, carente, come dimostra il persistente divario retributivo di genere e il numero ridotto di cause per discriminazione retributiva dinanzi ai tribunali nazionali nella maggior parte degli Stati membri.

Il divario retributivo di genere negli Stati membri dell’UE si attesta attualmente su una media del 16,2%[60]. L’incidenza della discriminazione retributiva, vietata dall’articolo 157 del TFUE e dall’articolo 4 della direttiva, su questa disparità reale varia secondo le stime, anche se pare esservi ampio consenso sul fatto che un’alta percentuale di casi sia attribuibile a pratiche discriminatorie[61]. Per quanto la discriminazione diretta riguardante uno stesso lavoro si sia ridotta, notevoli problemi sussistono tuttora per quanto riguarda la valutazione di mansioni svolte prevalentemente da donne o da uomini, soprattutto quando questa valutazione rientra nei contratti collettivi.

A parte poche eccezioni[62], nella maggior parte degli Stati membri il numero di cause per discriminazione retributiva davanti ai tribunali nazionali è basso o molto basso e quelle esistenti sono in genere troppo lunghe[63]. In molti Stati membri l’assenza di dati e di un monitoraggio efficace fa sì che non ci siano informazioni complete sulle decisioni dei tribunali nei casi di discriminazione retributiva, ed è quindi difficile valutare e quantificare appieno la portata della discriminazione retributiva tra uomini e donne[64].

Il fatto che la giurisprudenza nazionale sulla parità retributiva sia molto limitata può significare che le parti offese non godano di un reale accesso alla giustizia. L’effettiva applicazione delle disposizioni sulla parità retributiva può essere, nella pratica, ostacolata da tre fattori: i) la mancanza di chiarezza e di certezza del diritto sul concetto di lavoro di pari valore; ii) la mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi; iii) ostacoli procedurali. Questi tre fattori sono analizzati di seguito.

4.1.        Definizione e applicazione del concetto di “lavoro di pari valore” e sistemi di valutazione del lavoro utilizzati per determinare la retribuzione

A livello dell’UE non esiste né una definizione di lavoro di pari valore, né eventuali criteri di valutazione chiari che permettano di paragonare diverse mansioni. La CGUE ha tuttavia chiarito a più riprese il concetto di parità retributiva[65]. Una panoramica completa della giurisprudenza della CGUE è fornita all’allegato 2 del documento di lavoro dei servizi della Commissione. Il nono considerando della direttiva stabilisce che, a norma della giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, per valutare se i lavoratori stanno svolgendo lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, si dovrebbe stabilire se la situazione di detti lavoratori, tenuto conto di una serie di fattori quali la natura del lavoro e le condizioni di formazione e di lavoro, possa essere considerata comparabile.

In buona parte degli Stati membri le norme nazionali non chiariscono cosa si intenda per lavoro di pari valore, lasciando la questione all’interpretazione del giudice. In dodici Stati membri[66] la legislazione nazionale definisce il concetto e prevede un quadro analitico o indica i principali criteri per confrontare il valore di diversi lavori. Nella maggior parte di questi casi la normativa enumera le competenze, l’impegno, le responsabilità e le condizioni di lavoro tra i fattori che permettono di stabilire il valore di un dato lavoro. Garantire che questo concetto sia giuridicamente definito è uno strumento importante per chi subisce una discriminazione retributiva, che può così rivolgersi più facilmente al giudice. In molti degli Stati membri in cui gli ordinamenti nazionali non prevedono disposizioni specifiche di questo tipo, le autorità hanno spiegato che il concetto è sviluppato dal giudice nazionale[67] oppure è estrapolabile dal commento[68] o dai lavori preparatori della normativa sulla parità retributiva[69].

Un modo per stabilire se un lavoro è di pari valore consiste nell’introdurre sistemi di valutazione e classificazione neutri sotto il profilo del genere. La direttiva non obbliga però gli Stati membri a avvalersene e la loro diffusione a livello nazionale varia notevolmente. In alcuni Stati membri la normativa nazionale garantisce espressamente che i sistemi di valutazione e classificazione del lavoro utilizzati per determinare le retribuzioni devono essere neutri sotto il profilo del genere[70], mentre in altri il principio non è esplicitamente sancito dalla legge[71]. In qualche caso sono i contratti collettivi di lavoro a tutelare una valutazione del lavoro che non operi discriminazioni di genere[72]. Anche gli strumenti pratici per contribuire a sistemi di valutazione e retribuzione del lavoro neutri sotto il profilo del genere variano tra Stati membri. Alcuni hanno introdotto guide e liste di controllo che permettono di valutare e classificare i lavori in modo più oggettivo evitando pregiudizi di genere. Questi strumenti specifici sono messi a punto principalmente dalle autorità per le pari opportunità[73] o dalle autorità nazionali[74]. In diversi Stati membri esistono programmi di formazione per aiutare i datori di lavoro a applicare sistemi di classificazione non discriminatori[75].

L’allegato 1 del documento di lavoro dei servizi della Commissione che accompagna la presente relazione tratta i sistemi di valutazione e classificazione del lavoro neutri sotto il profilo del genere nell’intento di contribuire a una migliore applicazione pratica del principio della parità retributiva.

4.2.        Trasparenza della retribuzione

Una maggiore trasparenza delle retribuzioni può rivelare un pregiudizio di genere e discriminazioni delle strutture retributive di un’impresa o di un settore e consentire a lavoratori, datori di lavoro o parti sociali di adottare le misure appropriate per garantire l’attuazione del principio della parità retributiva. In linea con le disposizioni dell’articolo 21, paragrafi 3) e 4), della direttiva, diversi Stati membri hanno messo in atto misure specifiche di trasparenza salariale che possono essere suddivise essenzialmente in due categorie: 1) misure che divulgano informazioni sulla retribuzione dei singoli lavoratori e 2) misure che rendono noti i dati salariali collettivi per categoria. Se da un lato le misure che divulgano le retribuzioni individuali possono favorire i ricorsi per mancato rispetto del principio della parità retributiva e avere quindi un effetto deterrente, quelle che divulgano le retribuzioni collettive possono aprire la strada a misure di più ampia portata in grado di ridurre il divario retributivo di genere.

In casi di presunta discriminazione retributiva, in alcuni Stati membri il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore informazioni sulle retribuzioni, il che contribuisce a stabilire se vi sia stata discriminazione[76]. In alcuni casi queste informazioni possono essere richiedeste dal rappresentante del lavoratore, con il consenso di quest’ultimo[77]. In alcuni Stati se il datore di lavoro si rifiuta di divulgare i dati richiesti, il lavoratore può rivolgersi al giudice[78]. Le normative di alcuni Stati membri prevedono l’obbligo di indicare il salario minimo legale negli annunci di lavoro[79] o proibiscono al datore di lavoro di impedire ai lavoratori di divulgare la propria retribuzione, se l’intento è determinare eventuali disparità di retribuzione e se le informazioni sono rivelate a categorie tutelate, come il sesso[80]. In molti Stati membri le autorità per le pari opportunità hanno il diritto di chiedere informazioni sulla retribuzione[81], per esempio richiedere all’ente previdenziale i dati sul reddito per categorie di lavoratori comparabili[82]. Tuttavia le informazioni sulle retribuzioni sono spesso considerate riservate in forza delle norme nazionali sulla tutela dei dati e della vita privata e quindi in molti Stati membri non possono essere divulgate dai datori di lavoro. In alcuni casi i lavoratori sono tenuti per contratto a non divulgare a altri lavoratori informazioni sulla propria retribuzione. La divulgazione di informazioni salariali è di solito più problematica nel settore privato che in quello pubblico.

Per quanto riguarda le misure collettive, numerosi Stati membri incoraggiano una pianificazione mirata all’uguaglianza obbligando i datori di lavoro a valutare regolarmente le prassi e le differenze di retribuzione e a elaborare piani d’azione per la parità retributiva[83]. Tale obbligo incombe di solito ai datori di lavoro di grandi dimensioni e le violazioni sono in alcuni casi soggette a sanzioni pecuniarie[84]. Alcuni Stati membri richiedono inoltre ai datori di lavoro di condurre sondaggi sulle retribuzioni[85], mentre in altri i datori di lavoro sono tenuti a raccogliere dati statistici occupazionali in funzione del sesso[86]. In alcuni Stati membri i datori di lavoro devono fornire periodicamente ai rappresentanti dei lavoratori una relazione scritta sull’uguaglianza di genere nell’impresa, con dettagli sulle retribuzioni[87].

4.3.        Ostacoli procedurali

Le vittime di discriminazioni retributivi incontrano alcuni ostacoli d’accesso alla giustizia –procedimenti giudiziari lunghi e costosi, tempi di decorrenza, assenza di sanzioni efficaci e di risarcimenti sufficienti – è non sono sufficientemente informate su come presentare un ricorso.

I singoli lavoratori non dispongono di solito di tutte le informazioni necessarie per intentare una causa che abbia buone possibilità di riuscita, per esempio informazioni su quanto guadagnano le persone che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. Questa situazione ostacola l’effettiva applicazione della norma sull’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 19 della direttiva, in forza del quale chi si ritiene leso deve produrre in prima battuta gli elementi di fatto dai quali è presumibile che vi sia stata una discriminazione, dopo di che spetta al datore di lavoro dimostrare che non c’è stata alcuna discriminazione. L’applicazione della norma sull’inversione dell’onere della prova continua a porre problemi in alcuni Stati membri dove le soglie per far scattare l’inversione sono più elevate di quelle stabilite dalla direttiva[88].

Le spese procedurali e di assistenza legale, solitamente elevate, disincentivano in genere le persone lese. Inoltre spesso il risarcimento e la riparazione ottenibili sono esigui[89]. Il ruolo attivo delle autorità per le pari opportunità e dei sindacati nel fornire un’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni potrebbe agevolarne l’accesso alla giustizia, garantendo al contempo l’efficacia del quadro giuridico sulla parità retributiva, riducendo il rischio di perdere la causa per i singoli lavoratori e eventualmente aumentando il numero di cause per disparità retributiva. Il coinvolgimento delle autorità per le pari opportunità è quindi fondamentale per un’effettiva applicazione del principio della parità retributiva. Queste autorità hanno comunque compiti e competenze molto diversi a seconda degli Stati membri e solo in alcuni casi possono rappresentare i singoli lavoratori[90]. In alcuni Stati membri sono i sindacati[91] e le ONG a assistere legalmente i lavoratori.

La direttiva impone agli Stati membri di adottare misure preventive per tutelare il principio della parità retributiva[92], lasciando ancora una volta a loro la scelta delle misure. Tra le misure preventive rientrano indagini finalizzate a prevenire disparità retributive, corsi di formazione rivolti ai portatori di interessi e campagne di sensibilizzazione.

5.           Conclusioni e prospettive

La direttiva ha introdotto una serie di importanti novità che mirano a rendere più coerente la legislazione dell’UE in materia, a allinearla alla giurisprudenza della CGUE e, in ultima istanza, a renderla più efficace e accessibile agli operatori e al grande pubblico.

Quanto al corretto recepimento di queste novità negli ordinamenti nazionali, i servizi della Commissione hanno significato obiezioni a gran parte degli Stati membri e i problemi in sospeso saranno chiariti in via prioritaria, se necessario attraverso procedure d’infrazione. Per il futuro, la sfida principale per tutti gli Stati membri sarà la corretta applicazione e attuazione nella pratica dei diritti sanciti dalla direttiva.

L’applicazione pratica delle disposizioni sulla parità retributiva negli Stati membri è a quanto pare uno dei punti più problematici della direttiva, come dimostra il persistere del divario retributivo di genere, divario causato presumibilmente in buona parte da pratiche retributive discriminatorie e dal fatto che i singoli lavoratori siano poco incentivati a ricorrere al giudice.

È opportuno che gli Stati membri si avvalgano degli strumenti indicati nel documento di lavoro allegato per garantire un’applicazione più efficace del principio della parità retributiva e risolvere il persistente divario retributivo di genere.

La Commissione continuerà a monitorare attentamente l’applicazione del principio della parità retributiva. In linea con la strategia Europa 2020, oltre alle attività di sensibilizzazione e alla diffusione delle migliori pratiche, nel quadro del semestre europeo la Commissione continuerà a proporre raccomandazioni specifiche per paese miranti a risolvere le cause a monte del divario retributivo di genere.

La Commissione prevede inoltre di lanciare nel 2014 un iniziativa non legislativa per promuovere e facilitare l’effettiva applicazione nella pratica del principio della parità retributiva e assistere gli Stati membri a individuare l’approccio giusto per ridurre il persistente divario retributivo di genere[93]. L’iniziativa si concentrerà probabilmente sulla trasparenza salariale.

[1]               GU L 204 del 26.7.2006, pagg. 23-26.

[2]               Direttiva 75/117/CEE del Consiglio, GU L 45 del 19.2.1975, pag. 19; direttiva 76/207/CEE del Consiglio, GU L 39 del 14.2.1976, pag. 40; direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, GU L 269 del 5.10.2001, pag. 15; direttiva 86/378/CEE del Consiglio, GU L 225 del 12.8.1986, pag. 40; direttiva 96/97/CE del Consiglio, GU L 46 del 17.2.1997, pag. 20; direttiva 97/80/CE del Consiglio, GU L14 del 20.1.1998, pag. 6; direttiva 98/52/CE del Consiglio, GU L 205 del 22.7.1998, pag. 66.

[3]               Conformemente all’articolo 31 della direttiva.

[4]               P6_TA(2008)0544.

[5]               P7_TA-PROV(2012)0225.

[6]               COM(2010) 491.

[7]               Questi dubbi sono sorti nel quadro del sistema EU Pilot della Commissione, che permette lo scambio di lettere amministrative prima dell’avvio di qualsiasi procedura d’infrazione ai sensi dell’articolo 258 del TFUE.

[8]               NL, FR.

[9]               GU L 269 del 5.10.2002, pag. 15.

[10]             NL.

[11]             Il caso riguarda la mancata conformità dei Paesi Bassi all’articolo 2, paragrafo 7 della direttiva 76/207/CEE modificata dalla direttiva 2002/73/CE, che specifica che alla fine del periodo di congedo per maternità, paternità e/o adozione i lavoratori hanno diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente e di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero loro spettati durante la loro assenza. L’assenza nella legislazione dei Paesi Bassi di disposizioni esplicite in materia getta dubbi sul grado di protezione garantito e pone i cittadini nella difficoltà di conoscere e far valere i propri diritti.

[12]             Articolo 33, paragrafo 3.

[13]             Articolo 2, paragrafo 1, lettera e).

[14]             Articolo 7, paragrafo 2).

[15]             Articoli 17-19.

[16]             Considerando 3.

[17]             CZ, DK, EE, EL, HR, IT, CY, LT, PT, SI, SK, SE, UK.

[18]             FR, PL.

[19]             RO dove si attende la legislazione su questi regimi.

[20]             BG.

[21]             BE, DE, IE, ES, LV, LU, HU, MT, NL, AT, FI.

[22]             BE, BG, CZ, DK, IE, EL, ES, FR, HR, CY, LT, LU, HU, MT, PT, RO, SI, SK.

[23]             EE, PL. In EE le attività di un datore di lavoro sono considerate discriminatorie se le condizioni relative a remunerazione o benefici sono meno vantaggiose per un lavoratore di un sesso rispetto a un altro di sesso opposto che svolga un lavoro identico o di pari valore.

[24]             NL. Cfr. cause 80/70, 43/75, 12/81, C-262/88, C-360/90, C-200/91, C-400/93, C-281/97, C-366/99, consultabili al seguente indirizzo: http://curia.europa.eu/.

[25]             DE, IT, LV, AT, FI, SE, UK.

[26]             UK.

[27]             Cause C-7/93 e C-351/00.

[28]             BE, BG, CZ, DE, EE, IE, EL, FR, CY, LT, LU, NL, AT, FI, UK. In HU la legislazione non opera una distinzione tra categorie di lavoratori, ma non esistono regimi pensionistici specifici per i dipendenti pubblici.

[29]             DK, EL, ES, HR, IT, LV, MT, PL, PT, RO, SI, SK, SE.

[30]             IT, SK.

[31]             LV, PL, PT, SE.

[32]             RO.

[33]             Sebbene questi regimi non siano espressamente menzionati nelle disposizioni orizzontali, il chiarimento della CGUE secondo cui una pensione professionale è una retribuzione (differita) fa sì che le norme orizzontali pre-esistenti sulla parità retributiva e sulle condizioni di lavoro (compresa la retribuzione) si applichino anche a questi regimi.

[34]             Direttiva 86/378/CEE del Consiglio.

[35]             Articolo 17.

[36]             Articolo 18.

[37]             Articolo 19.

[38]             Articolo 20.

[39]             Articolo 21.

[40]             Articolo 22.

[41]             BE, BG, CZ, EE, IE, EL, ES, FR, IT, CY, LV, LT, LU, HU, MT, NL, AT, SE, UK (permangono dubbi per l’Irlanda del Nord).

[42]             DE, SI, SK, FI.

[43]             DK

[44]             RO

[45]             PL, PT.

[46]             HR.

[47]             Cause C-13/94, C-117/01 e C-423/04.

[48]             BE (a quanto pare a eccezione della regione “Bruxelles capitale”), CZ, EL, UK.

[49]             SK.

[50]             MT.

[51]             DE, HU.

[52]             FI.

[53]             DK, IE, ES, FR.

[54]             CY, AT. In HR la legge sulla parità di genere stabilisce che le sue disposizioni non possono essere interpretate o attuate in contraddizione con il diritto dell’UE.

[55]             SI.

[56]             EL, ES, IT, HU, PL, PT, RO, SI, SK, FI.

[57]             DK, EL, CY.

[58]             BE, DK.

[59]             La normativa di diversi Stati membri (ad es. BE, DE, PL, SE) non contempla un divieto esplicito. In questi paesi a quanto pare il divieto di discriminazione basata sul sesso copre anche la discriminazione retributiva.

[60]             Banca dati online Eurostat 2011, disponibile al seguente indirizzo:         http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&plugin=1&language=en&pcode=tsdsc340.

[61]             Si veda per esempio la relazione della presidenza belga del Consiglio del 2010: The gender pay gap in the Member States of the European Union: quantitative and qualitative indicators [Il divario retributivo di genere negli Stati membri dell’Unione europea: indicatori quantitativi e qualitativi], disponibile al seguente indirizzo: http://register.consilium.europa.eu/pdf/en/10/st16/st16516-ad02.en10.pdf.

[62]             Per es. IE, UK. Nel 2011 la valutazione d’impatto del Regno Unito delle misure legislative volte a promuovere la parità di retribuzione stima a 28 000 il numero annuale di ricorsi davanti ai tribunali del lavoro.

[63]             Anche nel Regno Unito. Secondo le statistiche annuali dei tribunali per il 2011-2012, le cause per disparità retributiva sono le più lente rispetto alle altre categorie: http://www.justice.gov.uk/downloads/statistics/tribs-stats/ts-annual-stats-2011-12.pdf.

[64]             In diversi Stati membri non sono disponibili dati statistici specifici sul numero e sui tipi di cause per discriminazione retributiva.

[65]             Cfr. cause 237/85, C-262/88, C-400/93, C-381/99. Cfr. altresì considerando 9 della direttiva.

[66]             CZ, IE, FR, HR, CY, HU, PL, PT, RO, SK, SE, UK.

[67]             DK, DE, EL, ES, LV, AT.

[68]             AT.

[69]             FI.

[70]             Per es. EL, FR, IT, CY, LT, AT, SI.

[71]             Per es. BE, DE, EE, IE, HR, LV, LU, HU, PL, FI.

[72]             Per es. in BE.

[73]             Per es. BE, NL, PT, SE, UK.

[74]             Per es. BE, EE, LU, AT.

[75]             Per es. BE, EE, CY, SE.

[76]             Per es. BG, EE, IE, SK, FI.

[77]             Per es. FI.

[78]             Per es. CZ, LV.

[79]             Per es. AT.

[80]             Per es. UK.

[81]             Per es. EE, SE.

[82]             Per es. AT.

[83]             Per es. BE, ES, FR, FI, SE.

[84]             È il caso in FR.

[85]             Per es. FI e SE.

[86]             Per es. DK ed EE.

[87]             Per es. BE, DK, FR, IT, LU, AT.

[88]             Per es. CY, MT, BG. RO ha recentemente modificato la propria normativa per risolvere il problema.

[89]             Nella maggior parte dei casi il risarcimento è pari ai mancati guadagni basati sulla differenza retributiva tra il richiedente e il comparatore. In alcuni Stati membri sono inclusi anche i danni morali subiti. Il quadro giuridico nazionale sulle sanzioni differisce significativamente tra Stati membri.

[90]             Per es. BE, BG, EE, IE, HU, MT, AT, RO, SK, FI, SE, UK.

[91]             Per es. in BE, DK, FR, SE, UK.

[92]             Articolo 26 della direttiva.

[93]             Programma di lavoro della Commissione 2014, allegato I, COM(2013) 739 final, http://ec.europa.eu/atwork/pdf/cwp_2014_annex_it.pdf