52002DC0332

Comunicazione della Commissione - L'area dell'euro nell'economia mondiale - Bilancio dei primi tre anni /* COM/2002/0332 def. */


COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - L'area dell'euro nell'economia mondiale - Bilancio dei primi tre anni

INDICE

RIASSUNTO

1. Situazione economica e risultati politici

1.1 Terzo anno di moneta unica, caratterizzato dal rallentamento mondiale dell'economia

1.2 Tasso di cambio dell'euro e conti esterni

1.3 Politiche macroeconomiche nell'area dell'euro

1.4 Coordinamento delle politiche economiche nell'UEM

2. Controllo dell'andamento dei salari nell'UEM

2.1 Introduzione

2.2 Evoluzione globale dei salari: alcuni fatti rilevanti

2.3 Fattori all'origine della moderazione salariale osservata in questi ultimi anni

3. Gli investimenti ed il potenziale di crescita dell'area dell'euro

3.1. Tendenze degli investimenti nell'area dell'euro nel corso degli anni '90

3.2 I fattori determinanti gli investimenti nell'area dell'euro

4. Il sistema finanziario dell'area dell'euro

4.1 Evoluzione generale del sistema finanziario dell'UE

4.2 Mercati monetari e derivati

4.3 Mercati obbligazionari

4.4 Mercati azionari

4.5 Capitale di rischio

4.6 Intermediari finanziari

4.7 Le sfide future per i politici

5. L'euro come valuta internazionale

5.1 Introduzione

5.2 L'utilizzo internazionale dell'euro da parte del settore privato

5.3 L'utilizzo internazionale dell'euro da parte del settore pubblico

5.4 I paesi candidati all'adesione e l'adozione dell'euro

5.5 Il contributo dell'area dell'euro al coordinamento mondiale delle politiche

L'area dell'euro nell'economia mondiale - sintesi

Il 1° gennaio 1999 la terza fase dell'UEM ha preso avvio con la partecipazione di 11 Stati membri che avevano raggiunto un grado elevato di convergenza nominale, come previsto dal trattato CE. Successivamente si è giunti alla conclusione che anche la Grecia soddisfaceva le condizioni richieste per poter partecipare con successo all'area dell'euro ed anche questo paese vi ha aderito il 1° gennaio 2001. L'introduzione delle banconote e delle monete il 1° gennaio 2002 è stata un esercizio logistico difficile che si è svolto nel miglior modo possibile. L'euro è così diventato una realtà tangibile.

I vantaggi della moneta unica, ancorata ad un quadro istituzionale sano di politiche macroeconomiche giudiziose e associata a riforme strutturali, sono stati visibili nel corso dei primi tre anni della terza fase dell'UEM. Durante i primi due anni il PIL è salito di circa il 3%, un tasso leggermente superiore al potenziale, senza creare il tipo di squilibri che minacciano la sostenibilità della crescita in numerose regioni del mondo. Il risparmio privato si è mantenuto ad un livello soddisfacente, pari a circa il 15% del reddito disponibile, i disavanzi di bilancio hanno continuato a ridursi, sebbene ad un ritmo inferiore rispetto alla fase di convergenza 1990-1998, rafforzando così il risparmio pubblico netto, e gli investimenti sono stati vivaci ma regolari, il che ha consentito di non incorrere in un problema di investimento eccessivo. Di conseguenza la bilancia corrente dell'area dell'euro è rimasta grosso modo in equilibrio.

Terzo anno di moneta unica: far fronte al rallentamento economico mondiale

Nel 2001 l'economia mondiale ha rallentato molto rapidamente ed il commercio mondiale ha registrato un tasso di crescita pari praticamente a zero, mentre nel corso dell'anno precedente era cresciuto circa del 12%. Anche se l'area dell'euro è un'entità economica chiaramente più chiusa di quanto non lo siano individualmente gli Stati membri che la compongono, il commercio resta un elemento importante ed inevitabilmente un calo degli scambi mondiali così consistente ha avuto un impatto significativo. Inoltre, essendo l'area dell'euro fortemente integrata nell'economia mondiale, gli sviluppi internazionali hanno riflessi anche sui legami finanziari, sulle partecipazioni straniere nelle imprese e sulla fiducia. Shock comuni, come l'aumento dei prezzi petroliferi, gli eventi dell'11 settembre e la variazione delle quotazioni azionarie, hanno contribuito a questo rallentamento mondiale. Ma anche i fattori nazionali hanno svolto un ruolo significativo. La crescita del PIL dell'area dell'euro ha decelerato durante l'anno per poi praticamente arrestarsi nel corso del quarto trimestre del 2001.

Nonostante il rallentamento dell'attività, la creazione di posti di lavoro si è mantenuta ad un livello sorprendentemente buono, il che potrebbe spiegarsi con le ripercussioni positive delle riforme del mercato del lavoro intraprese in preparazione della moneta unica e tuttora in corso. Nel corso dei primi tre anni della moneta unica, circa 6 milioni di posti di lavoro sono stati creati nell'area dell'euro. La situazione è tuttavia leggermente meno favorevole sul versante dell'inflazione: dopo avere registrato un tasso molto moderato di poco superiore all'1% durante il primo anno della terza fase dell'UEM, si è attestata al 2 ½% nel 2001. Questa recrudescenza dell'inflazione è dovuta principalmente ad una serie di fattori, vale a dire due rincari dei prezzi del petrolio, il cui effetto è stato amplificato dalla debolezza dell'euro rispetto alle valute dei principali partner commerciali, ed una serie di aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari legati ad epidemie e a cattive condizioni climatiche.

Il tasso di cambio dell'euro e la posizione nei confronti dell'esterno

Rispetto al suo lancio nel 1999, l'euro si è deprezzato di oltre il 20% rispetto al dollaro statunitense. In termini nominali aveva già perso effettivamente più del 10% del suo valore nella primavera 2001, ma in seguito è rimasto relativamente stabile [1]. Il tasso di cambio reale dell'euro in termini di costi unitari del lavoro si situa di gran lunga al di sotto della sua media a lungo termine (1980-2000). Di conseguenza, i produttori dell'area dell'euro si trovano in una situazione concorrenziale favorevole rispetto ai fornitori dei paesi terzi. Il vantaggio concorrenziale di cui ha beneficiato la produzione nazionale rispetto all'offerta straniera spiega in parte perché le esportazioni nette hanno potuto apportare un contributo positivo al PIL nel 2001, nonostante la contrazione brutale del commercio mondiale. D'altro canto, però, l'incapacità dell'euro di apprezzarsi raggiungendo un livello più conforme ai fondamentali economici non ha contribuito a contenere l'inflazione.

[1] L'analisi contenuta in questa comunicazione si riferisce alla situazione al 21 marzo 2002.

A livello mondiale persistono squilibri esterni rilevanti. All'ampio deficit delle partite correnti degli Stati Uniti corrisponde un surplus sostanziale del Giappone e di alcuni altri paesi asiatici, mentre la bilancia delle partite correnti dell'area dell'euro nel suo insieme è rimasta prossima all'equilibrio. Mentre resta da appurare quale sia il peso dei fattori ciclici in questo contesto, ci si attende che gli squilibri mondiali si appianino una volta che la crescita economica nelle zone corrispondenti sarà ritornata al suo valore tendenziale.

Politiche di bilancio e monetarie

Considerate le situazioni di bilancio squilibrate da cui si è partiti, si è assistito in questi ultimi sei anni a reali progressi in materia di risanamento del bilancio. Dall'inizio del 1999 le politiche di bilancio sono attuate nel quadro del Patto di stabilità e crescita (PSC) e rispettano appieno il valore di riferimento del 3% del PIL. Gli sforzi di risanamento del bilancio sono continuati nella maggioranza dei paesi, anche se il loro ritmo si è moderato. Benché i tagli di imposte decisi anteriormente ed il rallentamento congiunturale del 2001 abbiano peggiorato i disavanzi di bilancio nominali, i disavanzi strutturali sono restati praticamente invariati. La maggior parte degli Stati membri ha lasciato che gli stabilizzatori automatici ammortizzassero gli effetti del rallentamento.

Nonostante questi progressi, i disavanzi di bilancio restano ancora rilevanti in Germania, in Francia, in Italia ed in Portogallo. Nuovi sforzi di risanamento sono necessari per raggiungere posizioni vicine all'equilibrio nel 2004. Impegni in questo senso sono stati assunti in occasione dei programmi di stabilità aggiornati del 2001 e sono stati confermati dal Consiglio europeo di Barcellona. A seguito dell'esame da parte del Consiglio del progetto della Commissione di raccomandazione per un avvertimento preventivo, la Germania ed il Portogallo hanno assunto impegni politici rigorosi rispondenti alle preoccupazioni della Commissione.

La politica monetaria è rimasta focalizzata sull'obiettivo primario della stabilità dei prezzi nell'area dell'euro, stabilità che secondo la definizione della BCE corrisponde ad un tasso di inflazione (IPCA) inferiore al 2% da raggiungere nel medio termine. Questo orientamento sul termine medio ha permesso nel 2001 di abbassare a quattro riprese i tassi di interesse per portarli al livello del 3¼ %, pari ad una riduzione complessiva di 150 punti base, in un contesto di rallentamento economico che esercita pressioni al ribasso sull'inflazione. Le condizioni di finanziamento hanno continuato ad essere favorevoli alla crescita. Nello stesso tempo, le aspettative di inflazione sono restate compatibili con la definizione quantitativa di stabilità dei prezzi data dalla BCE. I tassi di inflazione continuano tuttavia a divergere tra gli Stati membri e le condizioni monetarie sono in generale troppo restrittive quando le tensioni inflazionistiche sono deboli e troppo morbide quando la domanda finale eccede la produzione potenziale. La politica di bilancio può essere utilizzata in questo contesto, ma rischia di essere troppo sollecitata senza un sistema più flessibile di formazione dei prezzi e dei salari.

Coordinamento delle politiche

Durante i primi tre anni di esistenza dell'UEM, il quadro delle politiche economiche è stato sano. Questo quadro si basa su un certo numero di principi sanciti nel trattato: l'impegno di promuovere un'economia di mercato aperta, fondata sulla libera concorrenza e su prezzi stabili e finanze pubbliche sane, che conducono ad una crescita sostenibile e ad un livello di occupazione elevato. La politica monetaria unica è affidata alla BCE, che è indipendente. Il suo obiettivo primario è di preservare la stabilità dei prezzi. Gli Stati membri conservano la responsabilità della maggior parte delle politiche economiche, in particolare delle loro politiche nazionali di bilancio e strutturali.

Il trattato prevede un sistema di coordinamento di queste politiche, che favorisce gli effetti di ricaduta positivi e tiene conto delle esternalità negative che potrebbero derivare dall'assenza di coordinamento dei processi decisionali. Gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e della Comunità costituiscono l'elemento centrale di questo dispositivo. Il dinamismo del processo di creazione di posti di lavoro osservato dal 1997 riflette anche le riforme del mercato del lavoro intraprese dagli Stati membri, in particolare nel quadro della strategia europea per l'occupazione. Gli orientamenti annuali per l'occupazione sono lo strumento offerto dal trattato per il coordinamento delle politiche per l'occupazione. La sorveglianza multilaterale, prevista anch'essa dal trattato, è un altro elemento importante.

Si dovrebbe rafforzare il coordinamento delle politiche economiche (cioè di bilancio e strutturali) semplificando le procedure quando ciò è opportuno e attuando le misure proposte dalla Commissione e approvate dal Consiglio europeo di Barcellona. Per migliorare la valutazione comune della situazione economica, occorre dedicarsi maggiormente alle necessità statistiche dell'UEM. D'altra parte, per fare in modo che ci si accordi meglio su ciò che si deve intendere per buona politica economica nell'UEM, la Commissione ha l'intenzione di proporre una serie di norme comuni per la conduzione delle politiche economiche al fine di facilitare il consenso e migliorare la governance economica e la trasparenza.

Formazione dei salari nell'UEM

L'Unione monetaria ha modificato per molti aspetti il contesto macroeconomico della fissazione dei salari e dei prezzi nell'area dell'euro. A livello delle trattative salariali i comportamenti devono essere adattati al nuovo quadro politico che esige una maggiore flessibilità delle retribuzioni nominali per garantire la competitività dell'area dell'euro. Nello stesso tempo, gli aumenti salariali a livello nazionale devono tenere conto del loro impatto sull'inflazione di tutta l'area dell'euro.

In questi ultimi dieci anni i progressi registrati sul piano della stabilizzazione nominale dei prezzi e dei salari nell'insieme dell'area dell'euro sono stati impressionanti. Durante gli anni '90 infatti il processo di disinflazione è stato notevole e nel 1997 il tasso di inflazione è sceso al di sotto della barriera del 2%. Nonostante un aumento nel 2001, la crescita nominale del costo unitario del lavoro in tutta l'area dell'euro si è ridotta rapidamente. Inoltre, nonostante una riduzione sensibile della disoccupazione negli ultimi anni, ci sono stati pochi segni di una nuova accelerazione significativa della crescita nominale dei costi unitari del lavoro. Globalmente è indubbio che nel corso dei primi anni dell'UEM, e persino in alcuni degli anni precedenti, la moderazione osservata a livello dei salari nominali è stata rimarchevole e può difficilmente spiegarsi se si prescinde da una modifica dei comportamenti sottostanti.

In questi ultimi anni la moderazione dei salari reali ha dato i suoi frutti contribuendo al dinamismo della creazione di posti di lavoro. Per l'area dell'euro, si stima che il NAIRU (tasso di disoccupazione che stabilizza l'inflazione) si sia ridotto di circa 1½ punti percentuali, il che fa supporre che circa la metà della riduzione della disoccupazione effettiva possa essere considerata di natura strutturale. Per comprendere meglio la natura della moderazione salariale che ha dato luogo al ribasso del NAIRU, occorre ricordare le riforme relativamente ampie intraprese sui mercati dei prodotti e del lavoro nella maggior parte dei paesi dell'area dell'euro, riforme che hanno rafforzato la concorrenza sui mercati delle merci e dei servizi e hanno ridotto le divisioni esistenti nel mercato del lavoro tra insider e outsider nel corso della seconda metà degli anni '90.

Occorre tuttavia riconoscere che i progressi registrati nelle riforme sono stati piuttosto disuniformi da un paese all'altro e che tutte le grandi economie dell'area dell'euro continuano a risentire di una disoccupazione strutturale relativamente elevata. Queste riforme sono state inoltre poco organiche, il che sembrerebbe dimostrare che sono necessarie altre misure perché il NAIRU continui ad abbassarsi.

È dunque difficile spiegare la moderazione salariale generale senza citare il ruolo delle politiche dei redditi praticate in un certo numero di paesi. L'obiettivo deve essere quello di conciliare la necessità che in tutta l'area dell'euro i salari restino compatibili con l'obiettivo di stabilità dei prezzi fissato dalla BCE con la necessità di una maggiore flessibilità, che consenta di riflettere le divergenze nel livello e nei tassi di crescita della produttività in modo da reagire in modo adeguato alle variazioni della domanda di alcune regioni o alcuni settori e rendere più remunerativi i posti di lavoro.

Investimenti e potenziale di crescita nell'area dell'euro

Gli investimenti pubblici e privati sono fondamentali per lo sviluppo del potenziale di crescita dell'area dell'euro a medio e lungo termine. L'UEM ed il quadro politico sul quale si basa influiranno probabilmente in modo positivo sui principali fattori che determinano gli investimenti, come la redditività ed i tassi di interesse reali: la maggiore integrazione finanziaria migliorerà le condizioni di finanziamento e la riduzione del rischio di cambio consentirà un'allocazione più efficiente degli investimenti. Infine, la messa in atto di una disciplina di bilancio conterrà l'effetto di "crowding out" sugli investimenti privati.

L'introduzione dell'euro è ancora troppo recente per poter trarre conclusioni definitive sull'impatto dell'UEM sugli investimenti, ma alcuni segni incoraggianti dimostrano che si sta andando nella direzione giusta. Se si considera anche la fase di preparazione all'UEM iniziata a metà degli anni '90, si vede che i tassi di interesse reali sono diminuiti, che la variazione dei tassi di cambio reali si è ridotta e che la redditività al netto delle imposte si mantiene ad un livello relativamente elevato. Si osserva inoltre una convergenza considerevole dei tassi di investimento nell'area dell'euro, accompagnata da una convergenza di parametri economici quali la redditività ed i tassi di interesse. Questa evoluzione è dovuta ad una più forte integrazione dei mercati e ad un quadro istituzionale più armonizzato. I dati riguardanti i flussi degli IDE (investimenti diretti esteri) sono meno chiari. Le attività di fusione e di acquisizione sono state dominanti nei flussi di IDE di questi ultimi anni, riflettendo forse gli obiettivi strategici a più lungo termine delle imprese.

L'euro ed il sistema finanziario dell'area dell'euro

Il ritmo di integrazione dei mercati finanziari dell'area dell'euro si è chiaramente accelerato dal passaggio all'euro nel gennaio 1999. L'euro non è ovviamente il solo fattore ad aver determinato questa accelerazione: anche la mondializzazione, stimolata dalla liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali, dalla deregulation finanziaria e dai progressi tecnologici, ed i progressi registrati nella messa in atto di un quadro regolamentare comune in tutta l'UE (che si iscrivono nel quadro degli sforzi per completare il mercato interno dei servizi finanziari) sono stati determinanti, così come le riforme finanziarie intraprese a livello degli Stati membri.

L'introduzione dell'euro ha posto fine al rischio di cambio come fonte di frammentazione del sistema finanziario dell'area dell'euro e ha rivelato nel contempo i costi di opportunità generati dagli ostacoli all'integrazione che ancora esistono. Il rafforzamento dell'integrazione dovuto all'euro ha determinato una maggiore omogeneità dei mercati, un'ondata di fusioni tra gli intermediari e tra le borse e l'introduzione di tecniche e di prodotti nuovi ed innovativi.

Giacché gli operatori del mercato hanno adottato strategie più paneuropee, le istanze decisionali a livello dell'UE hanno reagito elaborando una strategia coerente per il completamento del mercato interno dei servizi finanziari ed impegnandosi ad attuarla rapidamente (cfr. ad esempio le conclusioni del Consiglio europeo di Barcellona nel marzo 2002). Innanzitutto, ed è il punto più importante, l'UE ha fissato un termine ambizioso, il 2005, per l'attuazione del Piano d'azione per i servizi finanziari (PASF), un "pacchetto" di 42 iniziative politiche che mirano a migliorare il funzionamento del sistema finanziario dell'UE. Un termine ancora più ravvicinato, il 2003, è stato fissato per le misure che riguardano i mercati dei valori mobiliari e il Piano d'azione per il capitale di rischio (PACR). Quest'ultimo costituisce il progetto di un mercato integrato ed efficace per il finanziamento del capitale delle imprese giovani ed innovative. In secondo luogo, l'attuazione del PASF deve essere omogenea in tutti gli Stati membri se si vuole avere un'integrazione effettiva - e non soltanto nominale - dei mercati finanziari nazionali. Il nuovo quadro decisionale per la legislazione sui valori mobiliari, adottato in base alle proposte del comitato Lamfalussy, dovrebbe contribuire al raggiungimento di questo obiettivo e permettere un adattamento più rapido della legislazione all'evoluzione dei mercati finanziari. In terzo luogo, la politica della concorrenza deve svolgere un ruolo pro-attivo nel movimento di integrazione finanziaria per fare in modo che i vantaggi economici siano interamente sfruttati. In quarto luogo, i consumatori e gli investitori devono essere protetti in modo adeguato cosicché possano avere la fiducia necessaria per esercitare un'attività in un mercato unico che si estende su tutta l'Unione in modo da trarre il massimo profitto.

L'euro come valuta internazionale

Il dollaro resta ancora la valuta internazionale dominante, ma l'euro è diventato la seconda valuta del mondo dopo il suo lancio. Vi sono un certo numero di fattori che contribuiranno a promuovere il suo utilizzo a livello internazionale. Il primo è costituito dalle notevoli dimensioni dell'economia dell'area dell'euro. Essa rappresenta approssimativamente il 16% del PIL mondiale ed è pertanto leggermente inferiore a quella degli Stati Uniti (21%), ma superiore a quella del Giappone (8%). Le cifre riguardanti la quota di ciascuna di queste tre aree nel commercio mondiale di beni e di servizi sono simili. Il secondo fattore che contribuisce all'attrattiva dell'euro come valuta internazionale è la sua stabilità, che riflette i fondamentali economici sani dell'area dell'euro, supportati dal quadro di politica economica dell'UEM orientato verso la stabilità. Il terzo fattore è il processo di integrazione dei mercati finanziari nazionali in Europa in vasti mercati finanziari paneuropei, dotati di profondità e liquidità, che rafforzeranno il ruolo dell'euro nell'ambito delle attività internazionali di mutuo e di prestito. È tuttavia probabile che a causa di effetti di rete e di scala il dollaro statunitense resterà la valuta dominante. In ogni caso l'internazionalizzazione dell'euro è un processo trainato dal settore privato, poiché l'Eurosistema non si è fissato come obiettivo politico né di ostacolare né di promuovere attivamente questa internazionalizzazione.

È l'area dell'euro, e non i suoi Stati membri, ad essere presa in considerazione dal resto del mondo quando ci si occupa dei problemi macroeconomici internazionali. Le istituzioni internazionali incaricate della sorveglianza multilaterale, come l'FMI e l'OCSE, hanno iniziato a riconoscere le implicazioni dei cambiamenti in corso valutando in modo regolare l'orientamento macroeconomico generale dell'area dell'euro. Questa evoluzione si riflette anche nelle dichiarazioni dei ministri delle finanze del G7 che non parlano più dell'orientamento macroeconomico dei singoli Stati membri, bensì della situazione globale di questa area.

L'UEM ha dato impulso ad un processo di elaborazione di posizioni comuni europee che permette alla Comunità di iniziare a svolgere un ruolo internazionale commisurato al suo peso economico e finanziario. Questa evoluzione deve essere completata da nuovi progressi sul piano della rappresentanza.

1. Situazione economica e risultati politici

1.1 Terzo anno di moneta unica, caratterizzato dal rallentamento mondiale dell'economia

Nel corso dei primi due anni della terza fase dell'UEM, il PIL è aumentato ad un ritmo superiore al suo potenziale, registrando una crescita media annua del 3%, mentre il terzo anno si è verificata una brusca ma breve recessione. Nel 2001 la crescita del PIL ha rallentato e dovrebbe restare sotto tono anche durante la prima parte del 2002. Le cause di questa flessione dell'attività sono allo stesso tempo interne ed esterne. Sul piano interno, il consumo privato ristagna dall'autunno 2000 in quanto il potere d'acquisto delle famiglie dell'area dell'euro è stato indebolito dall'impennata dei prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari nonché dall'apprezzamento del dollaro rispetto all'euro. Inoltre l'incertezza crescente in materia di redditi ed il ribasso delle quotazioni di borsa hanno deteriorato la fiducia dei consumatori. Il ribasso dei profitti ed un deterioramento delle prospettive riguardanti la domanda hanno comportato una contrazione degli investimenti.

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D'altra parte, è evidente una migliore sincronizzazione con l'economia mondiale. Dal lancio della moneta unica, il tasso di crescita del PIL dell'area dell'euro ha colmato in parte il gap rispetto a quello degli Stati Uniti, mentre il ciclo congiunturale si è sincronizzato notevolmente con quello delle altre grandi economie, diversamente da quanto accadeva nel periodo di convergenza (1990-98). Il grado elevato di sincronizzazione osservato durante la recessione dell'anno scorso è stato attribuito agli shock comuni subiti: l'aumento dei prezzi del petrolio, lo scoppio della "bolla" speculativa attorno alle TI, gli eventi dell'11 settembre. Ma può essere visto anche come il segno che l'area dell'euro ha iniziato a comportarsi maggiormente come ci si potrebbe aspettare da un'economia così integrata nell'economia mondiale.

Sul piano esterno, il forte ribasso dell'attività mondiale ha depresso la domanda esterna. La crescita del commercio internazionale ha bruscamente rallentato e, nonostante la debolezza dell'euro, le esportazioni reali, che aumentavano al ritmo del 12½% nel 2000, hanno registrato un incremento contenuto di poco più del 2% nel 2001. Tuttavia, giacché la contrazione delle importazioni è stata ancora più rapida di quella delle esportazioni, il settore esterno ha contribuito positivamente alla crescita. Il miglioramento della fiducia dei consumatori, accompagnato dall'aumento dei redditi reali disponibili, dalla debolezza delle scorte, da condizioni monetarie favorevoli alla crescita e da un clima esterno più propizio, potrebbe comportare una ripresa dell'attività.

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L'accelerazione dell'attività economica nel corso dei primi due anni ha avuto un effetto benefico sull'occupazione. Tuttavia è interessante constatare che la creazione di posti di lavoro è continuata ad un ritmo ragionevole anche durante il rallentamento congiunturale. Circa 6 milioni di posti di lavoro sono stati creati nell'area dell'euro durante i primi tre anni della moneta unica, a fronte dei 3,5 milioni negli Stati Uniti. Parallelamente il tasso di disoccupazione è arretrato, passando dall'11,3% nel 1997 all'8,3% nel 2001. La crescita del PIL ha dunque determinato una progressione più rapida dell'occupazione.

Le ragioni di questa crescita con creazione di posti di lavoro risiedono nei cambiamenti strutturali subiti dai mercati del lavoro. Un lungo periodo di moderazione salariale ha invertito la tendenza alla sostituzione del capitale al lavoro che aveva danneggiato l'occupazione durante la prima metà degli anni '90. Per quanto riguarda l'offerta, il tasso di attività, in particolare delle donne, è sensibilmente aumentato, parallelamente all'aumento dei posti a tempo parziale e dei contratti temporanei nell'occupazione totale. In media, tuttavia, i tassi di attività rimangono inferiori a quelli degli Stati Uniti o dei paesi scandinavi.

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La crescita media della produttività nell'area dell'euro e negli Stati Uniti è stata quasi equivalente durante tutta la prima metà degli anni '90. Da allora, in compenso, si è mostrata molto più vigorosa negli Stati Uniti di quanto non lo sia di solito nella fase avanzata del ciclo, mentre nell'area dell'euro ha mantenuto un ritmo più tradizionale, che corrisponde maggiormente al ciclo. Un'altra differenza importante risiede nella crescita più forte dell'offerta di manodopera registrata in questo periodo negli Stati Uniti, dovuta in certa misura alla migrazione, e nella capacità dell'economia americana di assorbire una forza lavoro in espansione. Questi due fattori combinati spiegano perché la crescita del PIL negli Stati Uniti sia stata superiore a quella dell'area dell'euro.

Dopo un periodo di inflazione molto moderata all'inizio d ella terza fase dell'UEM, dall'inizio del 2000 l'aumento dei prezzi al consumo ha superato sistematicamente la soglia del 2% fissata dalla BCE. Il tasso di inflazione apparente, misurato dall'IPCA, è passato dall'1,1% nel 1999 al 2,3% nel 2000 e al 2,5% nel 2001. Questo aumento è imputabile soprattutto ad una serie di fattori eccezionali che hanno fatto lievitare i costi, mentre il differenziale tra produzione effettiva e potenziale è rimasto per lo più negativo dalla metà degli anni '90.

Due grandi fattori di lievitazione dei costi hanno svolto un ruolo predominante nell'evoluzione dei prezzi al consumo: l'aumento dei prezzi delle importazioni e quello dei prezzi degli alimentari di produzione interna. Il primo, dovuto soprattutto all'aumento dei prezzi mondiali del petrolio e all'indebolimento dell'euro, è la causa primaria dell'impennata dell'inflazione nel 1999 e durante la maggior parte del 2000. Alla fine del 2000 la crisi della mucca pazza, l'epidemia di afta epizootica e condizioni climatiche disastrose hanno fatto sì che la crescita dell'inflazione (misurata dall'IPCA) continuasse fino a metà primavera 2001. Infine, all'inizio del 2002 nuovi aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari freschi, dovuti al freddo insolito registrato in alcune parti d'Europa, così come l'andamento meno favorevole dei prezzi dell'energia hanno fatto ripartire l'inflazione apparente.

1.2 Tasso di cambio dell'euro e conti esterni

Area dell'euro

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L'euro ha perso più del 20% del suo valore rispetto al dollaro dal suo lancio nel 1999 ad oggi, ma ha riacquistato circa il 10% rispetto al minimo dell'ottobre 2000. In termini effettivi nominali è arretrato di oltre il 10% fino alla primavera del 2001, ma da allora è rimasto relativamente stabile. Questa evoluzione più recente è dovuta a fluttuazioni ampie e senza direzione ben definita del dollaro e della sterlina rispetto all'euro, mentre il deprezzamento dell'euro in relazione al franco svizzero è stato globalmente compensato dai guadagni rispetto allo yen. La relativa stabilità del tasso di cambio effettivo è sorprendente se si considerano le oscillazioni impressionanti dell'economia mondiale durante questo periodo e se si tiene conto della sensazione generale che l'euro sia fondamentalmente sottovalutato.

Il tasso di cambio e ffettivo reale dell'euro in termini di costo unitario del lavoro è ben al di sotto della sua media di lungo termine (1980-2000). I produttori dell'area dell'euro sono in posizione di forza rispetto ai fornitori dei paesi terzi. Il vantaggio concorrenziale di cui beneficiano spiega in parte perché le esportazioni nette hanno potuto contribuire in modo positivo al PIL nel 2001, sebbene il commercio mondiale abbia registrato un brusco declino. Allo stesso tempo l'incapacità dell'euro di risalire ad una quotazione che sia più in linea con i fondamentali economici non ha aiutato a contenere l'inflazione.

Il tasso di cambio effettivo reale è un determinante essenziale per i flussi di scambi transfrontalieri. Le fluttuazioni delle imposte dirette, gli accordi salariali e i fattori di costo propri ad ogni paese influiscono sulla posizione dei produttori nazionali sui mercati mondiali [2]. Un deprezzamento reale tende a rafforzare la loro posizione competitiva, ma comporta anche una perdita di potere di acquisto per i consumatori e tende a peggiorare le tensioni inflazionistiche. Il livello di "competitività" adeguato dipende dalla situazione economica del momento.

[2] La competitività dei prezzi è una nozione abbastanza ristretta; anche altri fattori come la qualità dei prodotti, i servizi e la puntualità influiscono sulla solidità del settore delle esportazioni di un paese. La "Global Competitiveness Report" del World Economic Forum classifica i paesi in base alla loro competitività attuale e potenziale. Anche la Commissione europea pubblica una relazione ogni anno sulla competitività delle imprese. Si veda inoltre "Competitiveness: A Dangerous Obsession", P. Krugman, Foreign Affairs, marzo-aprile 1994.

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La bilancia corrente dell'area dell'euro ha continuato a migliorare nel corso del 2001. Il saldo annuale aggregato ha registrato un lieve attivo che secondo le ultime previsioni dovrebbe essere mantenuto fino al 2003. A livello mondiale sono perdurati squilibri esterni molto marcati: il forte deficit delle partite correnti dell'economia statunitense è in parte compensato dall'ampia eccedenza del Giappone e di alcuni altri paesi asiatici, mentre l'area dell'euro nel suo insieme ha registrato una bilancia corrente prossima al pareggio. Resta da appurare quale sia il peso dei fattori ciclici negli squilibri mondiali, ma ci si attende che detti squilibri si riassorbano quando la crescita economica nelle zone corrispondenti ritornerà al suo valore tendenziale. Ceteris paribus, i fattori ciclici dovrebbero determinare disavanzi delle partite correnti nei periodi in cui la crescita del reddito è superiore alla media ed eccedenze nei periodi in cui la crescita del reddito è inferiore alla media.

Stati membri

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La bilancia corrente dell'area dell'euro non ha registrato squilibri significativi in questi primi tre anni, ma gli sviluppi sono stati diversi nei singoli Stati membri. Gli squilibri esterni osservati all'interno dell'area dell'euro pongono interrogativi sull'adeguatezza e la sostenibilità delle posizioni esterne nell'UEM. In generale, sebbene in passato vi siano sempre stati squilibri delle bilance correnti a livello di singoli Stati membri, l'euro ha modificato sensibilmente la situazione poiché il mercato finanziario unico facilita il finanziamento dei disavanzi. Di fatto un paese può permettersi di restare a lungo in squilibrio ed accumulare posizioni esterne nette consistenti. Tale politica non è necessariamente inadeguata. Un disavanzo corrente è giustificabile, ad esempio, in un contesto di recupero economico e riflette l'attività del settore privato. Tuttavia, lo squilibrio della bilancia corrente di uno Stato membro finirà per comportare la modifica della sua posizione esterna netta e, anche senza discutere delle basi teoriche della sostenibilità delle partite correnti, l'accumulo del debito esterno sarà sottoposto a massimali, a qualche livello. Giacché il rimedio non può più derivare da un adeguamento dei tassi di cambio nominali, altre opzioni, che influiscono sulla competitività, sono diventate più importanti. Per un paese che deve migliorare la competitività dei suoi prezzi, le sole possibilità sono la moderazione salariale o l'attuazione di riforme strutturali che permettano di innalzare la produttività. Questo tipo di riforme è diventato particolarmente urgente in quanto in termini relativi la moderazione salariale è più difficile in un contesto di bassa inflazione come quello dell'area dell'euro.

La situazione della competitività, sia il suo livello che la sua evoluzione recente, varia a seconda degli Stati membri. Dal lancio dell'UEM, la situazione nei singoli paesi si è evoluta nel modo seguente rispetto alla media dell'area dell'euro [3]: il Portogallo (-10%), i Paesi Bassi (-8%), l'Irlanda (-6%) e la Spagna (-3%) hanno perso terreno sul piano dei costi, mentre la Germania (+ 5%), la Grecia (+ 5%) e l'Austria (+ 2%) hanno migliorato al contrario la loro competitività in questo settore; quanto a Francia (+ 0,6%), Belgio/Lussemburgo (-0,4%), Italia (-1%) e Finlandia (-1%), la loro situazione è restata pressoché stabile.

[3] Misurata dal tasso di cambio effettivo reale, in termini di costo unitario del lavoro nella produzione manifatturiera.

Le tendenze osservate dal lancio della moneta unica non segnalano necessariamente una deriva rispetto al livello adeguato di competitività, per la ragione che le posizioni di partenza potevano non corrispondere ad una situazione di equilibrio. I sentieri divergenti dei tassi di cambio effettivi reali degli Stati membri possono essere spiegati da tassi di crescita della produttività diversi, tassi di inflazione diversi e fattori strutturali come l'apertura dell'economia e la composizione degli scambi commerciali. Di conseguenza, per analizzare a fondo i movimenti dei tassi di cambio reali, occorre esaminare in modo esauriente la situazione economica di ogni paese.

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Un mezzo per valutare le implicazioni potenziali consisterebbe nel calcolare i prezzi delle esportazioni diminuiti della variazione dei costi unitari del lavoro nella produzione manifatturiera per ottenere una misura approssimativa dell'evoluzione dei margini di profitto. Se gli aumenti dei costi non possono essere riflessi sui prezzi delle esportazioni perché i produttori hanno soltanto un potere limitato in materia di prezzi sui mercati delle esportazioni, i margini di profitto saranno sottoposti ad una pressione crescente. I tre paesi la cui competitività è regredita maggiormente rispetto alla media dell'area dell'euro possono servire da esempio: il Portogallo ed i Paesi Bassi hanno scambi commerciali con l'estero distribuiti in modo simile sul piano geografico, cioè circa 2/3 con i paesi dell'area dell'euro e 1/3 con il resto del mondo, mentre, per l'Irlanda, queste proporzioni sono pari al 55% con il resto del mondo e al 45% con gli altri Stati membri dell'area dell'euro. Questo implica che la perdita di competitività dell'Irlanda all'interno dell'area dell'euro è meno netta ed il profitto tratto della debolezza dell'euro più consistente che per gli altri due paesi.

Dal punto di vista della politica economica, occorre monitorare, oltre alla bilancia corrente globale dell'area dell'euro, anche le bilance correnti degli Stati membri appartenenti a tale area, poiché possono rivelare l'esistenza di problemi di questo o quel paese. La competitività sul piano dei prezzi può deteriorarsi sia quando il paese si avvicina che quando si allontana dall'equilibrio. La politica monetaria tiene conto della totalità dell'area dell'euro ed è impotente a regolare i problemi di offerta o di domanda eccessiva specifici di alcuni Stati membri. Una politica di bilancio ed in particolare riforme strutturali miranti a rafforzare l'offerta sono necessarie per impedire l'accumulo di squilibri esterni che potrebbero alla fine minacciare la stabilità finanziaria.

1.3 Politiche macroeconomiche nell'area dell'euro

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Risultati

Per quanto riguarda la politica di bilancio, il Patto di stabilità e crescita (PSC) ha instaurato una procedura di sorveglianza completa per il monitoraggio delle politiche di bilancio nel quadro dell'UEM. Il suo obiettivo è garantire la disciplina di bilancio in modo da aiutare la BCE a preservare la stabilità dei prezzi. La moneta unica implica che le politiche di bilancio nazionali debbano svolgere un ruolo più importante nel facilitare l'adattamento di un'economia ad evoluzioni propriamente nazionali. È per questo che il PSC stabilisce che gli Stati membri debbano rispettare l'obiettivo di un saldo di bilancio a medio termine prossimo al pareggio o in attivo, che permetterà loro di far fronte alle fluttuazioni congiunturali normali pur mantenendo il deficit pubblico nei limiti del valore di riferimento del 3% del PIL. Conformemente al PSC, gli Stati membri dell'area dell'euro devono aggiornare ogni anno le loro strategie di bilancio a medio termine nel quadro dei programmi di stabilità [4]. Questi programmi sono i principali strumenti della sorveglianza di bilancio nell'UEM e sono oggetto di una valutazione da parte della Commissione e del Consiglio.

[4] Gli Stati membri che non appartengono all'area dell'euro continuano a presentare programmi di convergenza.

Rispetto alla situazione iniziale molto squilibrata, negli ultimi sei anni si sono verificati progressi importanti in materia di disciplina di bilancio. I saldi di bilancio reali nell'area dell'euro sono migliorati fino al 1999, in parte grazie a notevoli sforzi di risanamento, e numerosi Stati membri presentano ormai un attivo. Da allora, l'evoluzione favorevole in alcuni paesi è derivata soprattutto dalla solidità della crescita, mentre il miglioramento delle posizioni di bilancio sottostanti è rimasto molto modesto. Nel 2001, i disavanzi di bilancio sono aumentati a causa delle riduzioni delle imposte che non sono state compensate completamente dai tagli alle spese e del funzionamento degli stabilizzatori automatici durante il rallentamento congiunturale.

Dall'inizio del 1999 le politiche di bilancio vengono attuate nel quadro del Patto di stabilità e crescita. Il valore di riferimento del 3% è diventato de facto un limite massimo imperativo, che nessuno Stato membro ha trasgredito. Gli sforzi di risanamento del bilancio sono continuati nella maggioranza dei paesi, anche se il loro ritmo si è moderato. Nel 2001 la maggior parte degli Stati membri ha raggiunto posizioni di bilancio vicine all'equilibrio o in attivo come richiesto dal PSC.

Il Patto ha ovviamente svolto un ruolo significativo in questi successi. Nonostante questi progressi, in Germania, Francia, Italia e Portogallo i disavanzi di bilancio sono ancora troppo elevati, il che ha un impatto sugli aggregati a livello dell'area dell'euro. Nuovi sforzi di risanamento si impongono per raggiungere posizioni vicine all'equilibrio entro il 2004 al più tardi ed impegni in questo senso sono stati assunti in occasione dell'esame dei programmi di stabilità aggiornati del 2001. Poiché la Germania ed il Portogallo hanno presentato nel 2001 dei disavanzi di gran lunga superiori agli obiettivi fissati nei loro programmi di stabilità, avvicinandosi al valore di riferimento del 3% del PIL, la Commissione ha presentato al Consiglio una raccomandazione invitandolo ad indirizzare a questi paesi un "avvertimento preventivo", come previsto dal Patto di stabilità e crescita. Dopo che in sede di Consiglio si è discusso di questi progetti di raccomandazione della Commissione riguardanti un avvertimento preventivo, i due paesi in questione hanno assunto impegni politici rigorosi tali da rispondere alle preoccupazioni della Commissione.

In linea di massima, un elemento importante per il processo di risanamento delle finanze pubbliche è la composizione dell'aggiustamento di bilancio. Ridurre il carico fiscale, eliminare le distorsioni fiscali e controllare la spesa corrente è il modo migliore per garantire un risanamento di bilancio duraturo. Le evoluzioni recenti in materia di bilancio dimostrano che la maggior parte dei paesi si orienta nella direzione giusta. Lo sforzo di risanamento attuale riguarda principalmente il controllo della spesa, mentre la pressione fiscale globale è diminuita in percentuale del PIL. Le riforme tributarie in corso dovrebbero facilitare la riduzione del carico fiscale, che permane su livelli tradizionalmente elevati in numerosi paesi dell'Unione. La riduzione del prelievo fiscale sul capitale e sul lavoro, in particolare sul lavoro a bassa remunerazione, dovrebbe in particolare favorire l'accumulo di capitale fisico ed umano, aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e dare impulso alla domanda di manodopera.

Tuttavia, l'area dell'euro dovrà raccogliere due grandi sfide sul piano della politica di bilancio:

- eliminare gli squilibri che esistono e mantenere una posizione di bilancio neutra - perché l'area dell'euro possa continuare a beneficiare di un tasso di crescita favorevole e di un'inflazione bassa, è indispensabile eliminare a medio termine gli squilibri che ancora esistono e mantenere una posizione di bilancio neutra. Il mantenimento della disciplina di bilancio renderà così più facile il compito della BCE di mantenere la stabilità dei prezzi. Facendo in modo che le situazioni di bilancio rispettino l'obiettivo di medio termine definito dal PSC (posizioni vicine all'equilibrio o in attivo), gli Stati membri saranno anche più attrezzati per far fronte alle fluttuazioni congiunturali normali, reagire a situazioni nazionali particolari e disporre del margine di manovra di bilancio di cui hanno bisogno per le loro riforme strutturali.

- prepararsi all'invecchiamento della popolazione - la sostenibilità delle finanze pubbliche è ormai inclusa nella sorveglianza esercitata nel quadro del Patto di stabilità e crescita. Vi sono rischi a riguardo in diversi Stati membri. Potrebbe pertanto essere necessario prefissarsi obiettivi di bilancio a medio termine più ambiziosi per tenere sotto controllo l'evoluzione futura del debito.

Per quanto riguarda la politica monetaria, il trattato stabilisce che l'obiettivo principale della BCE è il mantenimento della stabilità dei prezzi. La politica monetaria deve inoltre contribuire al conseguimento degli obiettivi di politica economica dell'area dell'euro, sempre che la stabilità dei prezzi non sia compromessa. La BCE ha optato per una strategia di politica monetaria composta da tre elementi: una definizione quantitativa dell'obiettivo principale (la stabilità dei prezzi) e "due pilastri" utilizzati per valutare i rischi in materia. Essa ha definito la stabilità dei prezzi nell'area dell'euro come una progressione annuale dell'IPCA inferiore al 2%, da mantenersi nel medio termine. Questa definizione costituisce un riferimento che permette di stabilire in quale misura la BCE riesca a realizzare l'obiettivo centrale della sua politica monetaria. Inoltre la BCE ha dichiarato che la politica monetaria unica sarà concepita nella prospettiva dell'area dell'euro e che pertanto non reagirà a sviluppi regionali o nazionali specifici. Il primo pilastro di questa strategia è il ruolo di primo piano assegnato alla massa monetaria, come indicato dall'annuncio di un valore di riferimento per l'espansione dell'M3. Dal dicembre 1998, la BCE ha fissato questo valore al 4½%. Il secondo pilastro consiste nell'analisi di un'ampia gamma di altri indicatori economici, come gli indici di prezzi e di costi, il tasso di cambio, gli indicatori dell'economia reale e quelli del mercato finanziario, che permettono una valutazione generale delle prospettive di inflazione e dei rischi che pesano sulla stabilità dei prezzi in tutta l'area dell'euro.

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Nel corso della primavera del 1999, in un contesto di inflazione in calo e di prospettive di crescita globale incerte a seguito delle crisi finanziarie del Sud-Est asiatico, della Russia e del Brasile, la BCE ha deciso di ridurre i tassi di interesse. Nella seconda parte del 1999, quando il ritmo di crescita si è accelerato e le pressioni inflazionistiche sono cresciute, la BCE ha invertito la tendenza ed innalzato i suoi tassi. Nel 2000, l'aumento significativo dei prezzi del petrolio, combinato al deprezzamento dell'euro, ha considerevolmente accentuato i rischi che pesavano sulla stabilità dei prezzi. Nel frattempo, la crescita della massa monetaria restava superiore al valore di riferimento del 4½% mentre i crediti al settore privato continuavano a crescere fortemente. La BCE ha reagito alle tensioni inflazionistiche crescenti aumentando i suoi tassi varie volte. Nel 2001, il deterioramento delle prospettive dell'economia mondiale, in particolare degli Stati Uniti, ha dato il via ad una serie di riduzioni dei tassi di interesse in tutte le grandi economie: la BCE ha abbassato i suoi tassi a quattro riprese l'anno scorso, riportandoli al 3¼ %, pari ad una riduzione complessiva di 150 punti base, e ciò sebbene l'inflazione avesse superato il suo limite superiore (2 %). La ragione è che gli aumenti di prezzo erano in gran parte temporanei e che il rallentamento dell'economia contribuiva a moderarli. Alla luce della prospettiva che un aumento provvisorio dell'inflazione non avrebbe determinato un rialzo delle previsioni in materia di inflazione, la moderazione salariale ha potuto essere preservata.

La crescita della massa monetaria è stata superiore al valore di riferimento della BCE durante la maggior parte dei primi tre anni della moneta unica. Di recente ha superato ampiamente questo valore nel corso dell'ultimo trimestre 2001 e del primo trimestre di questo anno. Secondo la banca centrale, tuttavia, questa impennata recente non pone problemi per la stabilità dei prezzi poiché deriva soprattutto da modifiche degli attivi monetari nei portafogli, in un contesto di notevole incertezza. In queste condizioni, il superamento del valore di riferimento fissato per l'M3 non ha impedito alla BCE di continuare a ridurre i tassi di interesse di riferimento dopo gli attacchi terroristici dell'autunno 2001.

Per quanto sia indispensabile che la BCE adotti le decisioni relative ai tassi di interesse in funzione delle condizioni economiche esistenti in tutta l'area dell'euro, persistono differenze di inflazione tra gli Stati membri. Tuttavia si osserva lo stesso fenomeno negli USA, tra i singoli stati. Occorre adattare le politiche economiche per correggere questi squilibri interni tra i vari paesi dell'area dell'euro.

1.4 Coordinamento delle politiche economiche nell'UEM

Il dispositivo di politica economica previsto dal trattato è solido. Comprende in particolare l'impegno dell'Unione europea a promuovere un'economia di mercato aperta fondata sulla libera concorrenza, prezzi stabili ed una gestione sana delle finanze pubbliche, che rendono possibile una crescita sostenibile e un livello di occupazione elevata. Questo quadro attribuisce dei compiti ai diversi attori delle politiche economiche pur preservandone l'indipendenza (complementarietà e coordinamento). La responsabilità della politica monetaria unica è stata affidata ad una BCE indipendente, la cui missione principale è mantenere la stabilità dei prezzi, mentre gli Stati membri conservano quella della maggior parte delle altre politiche economiche, ovvero delle politiche di bilancio e strutturali nazionali.

Il Trattato prevede un sistema di coordinamento di queste politiche, che favorisce gli effetti di ricaduta positivi e tiene conto delle eventuali esternalità negative che potrebbero essere determinate dall'assenza di coordinamento dei processi decisionali. Gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e della Comunità costituiscono il perno di questo dispositivo. Gli orientamenti per le politiche dell'occupazione, annuali, sono lo strumento previsto dal Trattato per il coordinamento delle politiche dell'occupazione. La sorveglianza multilaterale delle politiche economiche, prevista dal Trattato, è un altro elemento importante.

Gli indirizzi di massima forniscono orientamenti ai responsabili delle politiche sia nel settore macroeconomico che in quello delle riforme strutturali. Inoltre, con il loro approccio globale, garantiscono la coerenza dell'azione politica nei vari settori e sul piano geografico. La sorveglianza multilaterale è attuata tramite un certo numero di procedure, che mirano a promuovere politiche di bilancio sane (Patto di stabilità e crescita) e a fare avanzare la riforma strutturale dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei capitali (processi di Lussemburgo e di Cardiff). Nel giugno 1999, il Consiglio europeo di Colonia ha lanciato inoltre il "dialogo macroeconomico", il cui obiettivo è riunire i responsabili della politica economica ed i rappresentanti delle parti sociali per uno scambio di opinioni sui trend economici e sulle esigenze politiche nel quadro dell'UEM. Nel marzo 2000, il Consiglio europeo di Lisbona ha raccolto gli obiettivi di riforma economica e sociale in un programma decennale che mira a fare dell'UE l'economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile ed accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell'occupazione e da una più grande coesione sociale.

Sia l'intensità che la forma del coordinamento delle politiche economiche può variare considerevolmente a seconda dei settori. Il successo, in ogni caso, dipende sempre da tre elementi chiave: (i) una valutazione comune della situazione economica del momento e delle prospettive, (ii) una migliore comprensione del funzionamento dell'UEM e delle economie dei suoi Stati membri e (iii) la volontà delle istanze decisionali di esprimere e ricevere pareri aperti e sinceri, di accettare il principio della pressione tra pari (peer pressure) e di aggiustare le politiche se necessario.

Le valutazioni del coordinamento delle politiche economiche nell'UEM, approvate dai Consigli europei di Helsinki e di Lisbona, hanno stabilito che non c'era motivo di introdurre nuove procedure. Inoltre il Consiglio europeo di Barcellona ha sottolineato che occorreva concentrarsi sull'attuazione. È stata data importanza all'introduzione progressiva di miglioramenti, sulla base delle esperienze accumulate. Nel corso dei primi tre anni, progressi considerevoli sono stati realizzati per quanto riguarda gli indirizzi di massima, il Patto di stabilità e crescita e l'Eurogruppo.

Gli indirizzi di massima per le politiche economiche

Gli indirizzi di massima per le politiche economiche continuano a contribuire alla convergenza nell'UEM. Inoltre, conformemente agli obiettivi di Lisbona, rendono prioritario il rafforzamento del potenziale di crescita dell'UE tramite la riforma economica. Gli indirizzi sono stati rafforzati a molti livelli. Sono stati resi più operativi dalla formulazione di raccomandazioni più specifiche, sia nella parte generale che in quella riguardante i singoli paesi. Inoltre, maggiore attenzione viene riservata alla loro attuazione, con la pubblicazione da parte della Commissione di una relazione dettagliata sul modo in cui gli Stati membri hanno seguito le raccomandazioni loro rivolte.

L'importanza degli indirizzi è aumentata ulteriormente a causa della decisione del Consiglio europeo di Lisbona di partecipare maggiormente a questo processo: d'ora in poi, la sua riunione di primavera dedicata alle questioni economiche e sociali sarà l'occasione per formulare orientamenti politici supplementari. Inoltre, gli indirizzi sono ora orientati e ispirati ai lavori realizzati in altre istanze specializzate del Consiglio, che sono incaricate dell'attuazione nel loro settore di competenza e apportano il loro contributo agli indirizzi seguenti.

Il Patto di stabilità e crescita

Il patto è inteso a garantire che gli Stati membri presentino posizioni di bilancio sane, che sono una delle condizioni per il funzionamento regolare dell'UEM. L'attuazione del patto è stata favorita dall'adozione, nel 2001, di un nuovo codice di condotta che disciplina la presentazione ed il contenuto dei programmi di stabilità presentati dagli Stati membri dell'area dell'euro. Questo nuovo codice facilita la comparazione dei programmi grazie all'utilizzo di ipotesi esterne comuni per le proiezioni e all'obbligo di presentare tutti i programmi nazionali in un breve lasso di tempo ogni autunno. Inoltre, la gamma delle informazioni da fornire è stata allargata per migliorare l'analisi delle questioni che riguardano la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche.

L'Eurogruppo

L'Eurogruppo riunisce i ministri degli Stati membri che hanno adottato l'euro. La Commissione e se necessario la BCE sono invitate a partecipare a queste riunioni. Il gruppo costituisce una tribuna informale che permette discussioni franche ed aperte sulle questioni legate all'UEM. Questa tribuna informale ha facilitato la formazione di punti di vista comuni tra i ministri sulle questioni di interesse reciproco. La gamma degli argomenti che sono di sua competenza è stata allargata e alle questioni riguardanti la situazione congiunturale, gli orientamenti di bilancio, il tasso di cambio e l'andamento dei mercati dei capitali sono state aggiunte le questioni di ordine strutturale aventi un impatto sul ritmo di crescita e sulle finanze pubbliche. D'altra parte, l'efficacia dell'Eurogruppo è stata rafforzata grazie ad un miglioramento delle sue procedure di lavoro e ad una maggiore visibilità.

Per quanto i progressi siano stati considerevoli durante i primi tre anni della moneta unica, occorre rafforzare maggiormente il coordinamento delle politiche economiche. A tal fine il Consiglio europeo di Barcellona ha approvato misure tendenti a migliorare la valutazione comune della situazione economica. Si debbono intensificare i lavori per quanto riguarda i requisiti statistici dell'UEM. D'altra parte, i servizi della Commissione hanno iniziato a pubblicare nel marzo 2002 una relazione trimestrale che presenta i lavori di analisi in corso ed intendono proporre tra breve una serie di norme comuni per la conduzione delle politiche economiche affinché nell'UEM ci sia sempre più accordo su ciò che si intende per buone politiche economiche.

2. Controllo dell'andamento dei salari nell'UEM

2.1 Introduzione

Ci si aspettava un impatto molto forte dell'UEM sugli operatori del mercato, in particolare in materia di formazione dei prezzi e dei salari. L'Unione economica e monetaria ha in gran parte modificato l'ambiente macroeconomico, che è caratterizzato ormai da una politica monetaria unica imperniata sulla stabilità dell'area dell'euro e su politiche di bilancio nazionali sane. Il dibattito che riguarda l'influenza probabile dell'UEM sulla formazione dei salari si è concentrato su tre aspetti diversi benché tra loro legati: (i) il grado necessario di flessibilità dei salari nominali per tenere conto degli effetti ormai più diretti dei salari sulla competitività dei prezzi, (ii) l'impatto diretto sulle aspettative in materia di salari reali (curva di formazione dei salari) e, perciò, sulla disoccupazione di equilibrio, e (iii) l'incidenza sulle istituzioni del mercato del lavoro, in particolare sui meccanismi di contrattazione salariale.

È stato detto e ripetuto che, in generale, l'UEM dovrebbe costituire un quadro più propizio all'adozione di comportamenti salariali compatibili con l'occupazione poiché rende più visibile e più rigoroso il legame tra l'evoluzione dei salari e quella dell'occupazione. Con il venir meno dell'opzione di una svalutazione del tasso di cambio nominale, qualsiasi errore di qualche importanza nella formazione dei salari finirà per determinare una perdita di competitività che comporta un deterioramento della situazione sul mercato del lavoro e impone in seguito un adeguamento doloroso.

Nell'UEM è pertanto ancora più importante che in passato che l'andamento dei salari sia in linea sia con il quadro macroeconomico fissato a livello comunitario sia con le esigenze proprie di ogni paese. In queste condizioni, le trattative salariali dovrebbero tenere conto delle considerazioni seguenti:

* un'evoluzione globale dei salari nominali incompatibile con l'obiettivo della stabilità dei prezzi ovvero un aumento eccessivo dei salari nominali determinerà un rischio di inflazione in tutta l'area dell'euro, che si rifletterà negativamente sulla crescita e sull'occupazione in tutta l'Unione monetaria;

* un'evoluzione dei salari reali che sia in linea con la crescita della produttività del lavoro e tenga conto, se necessario, della necessità di rafforzare la redditività degli investimenti atti ad aumentare la capacità e a creare posti di lavoro consente di evitare che si deteriorino la competitività e le condizioni del mercato del lavoro;

* la moneta unica aumenta la trasparenza e facilita i raffronti, il che può innescare un effetto "imitazione" in ambito salariale. Benché la convergenza dei tenori di vita sia un obiettivo dell'Unione, che probabilmente si realizzerà nel tempo, un recupero salariale prematuro rischia in realtà di rallentare o bloccare il processo di convergenza reale;

* gli accordi salariali che tengono conto delle divergenze di produttività esistenti tra le diverse qualifiche, competenze e aree geografiche contribuiscono non soltanto a prevenire la soppressione di posti di lavoro e a stimolarne la creazione in generale, ma migliorano anche le prospettive di occupazione per gruppi di popolazione come i giovani, le persone con scarse qualifiche o i disoccupati a lungo termine e contribuiscono ad una ridistribuzione efficace del lavoro tra le professioni, i settori e le regioni.

La messa in atto di procedure di formazione dei salari - ed il conseguimento di risultati - compatibili con un livello di occupazione elevato continua a dipendere soprattutto del settore privato. Come indicato in precedenza, eventuali sviluppi salariali inadeguati o, più in generale, l'esistenza di strutture inadeguate del mercato del lavoro in determinati paesi o regioni, soprattutto se abbastanza importanti da richiedere una reazione della politica monetaria comune, possono risultare dannosi anche per gli altri membri dell'UEM. Un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche potrebbe aiutare ad "internalizzare" questi effetti.

2.2 Evoluzione globale dei salari: alcuni fatti rilevanti

Il processo di disinflazione registrato in questi ultimi dieci anni è stato rimarchevole. I risultati economici mediocri di questo periodo hanno contribuito a moderare le pressioni inflazionistiche; tuttavia, il grado elevato di stabilità dei prezzi è derivato anche da cambiamenti sistemici legati al passaggio alla terza fase dell'UEM. Essendo la stabilità dei prezzi ed un grado elevato di convergenza sostenibile requisiti fondamentali per l'adozione dell'euro, i differenziali di inflazione tra paesi partecipanti si sono considerevolmente ristretti. All'interno dell'area dell'euro nel suo insieme, la progressione del salario nominale per lavoratore dipendente ha rallentato quasi parallelamente alla stabilizzazione dei prezzi, attestandosi attualmente a circa il 3% in media all'anno. In generale, quindi, sembra che gli attori del processo di formazione dei salari abbiano preso coscienza della necessità che l'andamento dei salari deve essere compatibile con la stabilità dei prezzi.

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Conseguenza indiretta della stabilizzazione nominale, la dispersione assoluta dei tassi di crescita dei salari nominali tra i paesi è diminuita nettamente nel corso degli ultimi dieci anni e di recente l'evoluzione è stata abbastanza simile. Tuttavia questa dispersione assoluta della crescita del salario nominale per lavoratore dipendente tra i "quattro grandi" paesi dell'area dell'euro continuava ad essere pari a 2,7 punti percentuali nel 2001 (i tassi registrati variavano dall'1,6% in Germania al 4,3% in Spagna). I salari nominali sono aumentati un po' più rapidamente in Finlandia e nei Paesi Bassi, per via del fatto che questi paesi occupano una posizione diversa nel ciclo, mentre i tassi di crescita più elevati in questo settore sono stati registrati in Irlanda, Portogallo e Grecia. Pertanto la dispersione dei tassi di crescita dei salari nominali nell'area dell'euro resta ancora significativa [5].

[5] Se si prende come riferimento il coefficiente di variazione dei tassi di crescita dei salari nominali, emerge che la dispersione relativa degli aumenti dei salari nominali è leggermente aumentata col tempo. Tuttavia le misure della dispersione relativa confermano la tesi di un andamento più sincrono dei salari nominali.

Benché la convergenza verso comportamenti salariali che tengano conto dell'impatto sull'inflazione globale sia garantita, le divergenze dei livelli di produttività e dei tassi di crescita tra i paesi limitano in pratica il grado di sincronizzazione appropriato dei salari. Il fatto di consentire ai salari di riflettere le differenze tra paesi, regioni o settori è un mezzo per permettere la convergenza a lungo termine dei livelli di salario reale con un livello di occupazione sostenuto o superiore. Di conseguenza, la progressione più rapida dei salari nominali in alcuni paesi che presentano una crescita più forte non deve necessariamente preoccupare.

La stabilizzazione dell'evoluzione del costo unitario del lavoro nominale è stata accompagnata da una minore dispersione degli aumenti di questi costi nei singoli Stati membri. Tuttavia nel 2001 si sono verificati alcuni scostamenti e la crescita del costo unitario del lavoro nominale è stata più forte del previsto in un certo numero di paesi di piccole dimensioni.

La flessione dell'attività economica nel 2001 è stata accompagnata da una ripresa della crescita dei costi unitari del lavoro nominali. Nell'area dell'euro nel suo insieme questi costi sono aumentati di circa il 2,5% lo scorso anno. Questo valore è dovuto in una certa misura ad un aumento della produttività del lavoro inferiore alle previsioni, ma è innegabile che molti paesi - situati soprattutto alla periferia dell'area dell'euro - hanno mostrato segni di surriscaldamento. Tuttavia le previsioni attuali per l'area nel suo insieme indicano una decelerazione della crescita del costo unitario del lavoro nominale che dovrebbe scendere al di sotto del 2% nel 2002.

In sintesi, nonostante l'aumento registrato nel 2001, l'inflazione del costo unitario del lavoro nominale in tutta l'area dell'euro si è ridotta. Inoltre, nonostante la diminuzione sensibile della disoccupazione in questi ultimi anni, a tutt'oggi ci sono stati pochi segni di una nuova riaccelerazione significativa della crescita del costo unitario del lavoro nominale. Certamente diversi paesi che hanno presentato una crescita sostenuta durante alcuni anni ed il cui mercato del lavoro ha registrato una relativa tensione (Irlanda, Paesi Bassi e Portogallo) sembrano un po' più esposti ad eventuali pressioni sui salari. Inoltre è possibile che l'impatto sul costo del lavoro della riduzione dell'orario di lavoro settimanale in Francia si avvertirà maggiormente quando l'effetto dell'aumento compensativo della produttività inizierà a diminuire. Globalmente, tuttavia, non c'è dubbio che nel corso dei primi anni dell'UEM, inclusi quelli di preparazione all'Unione monetaria, la moderazione dei salari nominali è stata rimarchevole e difficilmente può essere spiegata se si prescinde da modifiche intervenute nei comportamenti sottostanti [6].

[6] Più tecnicamente, le previsioni fuori campione basate su equazioni di salari realizzate fino all'inizio degli anni '90 tendono a sopravvalutare l'andamento salariale degli anni successivi (OCSE 2000).

Questa moderazione globale dei salari è del resto attestata dall'evoluzione dei salari di produzione reali ("real product wages") corretti in funzione della produttività. Nella forma più semplice, ciò equivale a ritornare ad analizzare l'evoluzione del costo unitario del lavoro reale, che riflette le variazioni della quota del lavoro nel reddito totale. In realtà quest'ultima è restata quasi costante nell'area dell'euro nel corso dei primi tre anni dell'UEM, dopo essersi abbassata continuamente durante i cinque anni precedenti.

Da un esame un po' più preciso dell'andamento del costo unitario reale del lavoro negli ultimi tre anni sono emerse gli sviluppi seguenti:

* la moderazione dei salari reali è prevalsa in quasi tutti i paesi dell'area dell'euro. Soltanto in Francia, Lussemburgo e Portogallo il costo unitario del lavoro reale nel 2001 era superiore a tre anni prima;

* nei paesi del vecchio blocco del marco più l'Italia, i costi unitari reali del lavoro sono restati praticamente identici durante gli ultimi tre anni. In Spagna il ribasso tendenziale della quota dei salari ha subito un'interruzione l'anno scorso;

* in Irlanda ed in Finlandia, che avevano entrambe registrato una flessione sensibile dei costi unitari del lavoro reali nel corso del periodo precedente l'UEM, la quota del reddito del lavoro ha cessato di regredire ed i costi unitari del lavoro hanno iniziato ad aumentare;

* la Grecia, ultimo arrivo nell'area dell'euro, ha registrato un netto calo del costo unitario del lavoro reale durante gli ultimi tre anni, che ha compensato la progressione registrata nel periodo precedente l'UEM.

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Evidentemente la moderazione dei salari reali ha dato i propri frutti contribuendo in questi ultimi anni al dinamismo della creazione di posti di lavoro. Benché il tasso di disoccupazione dell'area dell'euro sia sceso dal suo livello record dell'11,5% a meno dell'8,5 %, vi sono stati sviluppi modesti sul fronte dei salari. In queste condizioni, si ritiene che il NAIRU sia diminuito di circa 1 ½ punti percentuali e che prosegua attualmente su un sentiero di discesa, il che segnalerebbe che circa la metà della riduzione del livello attuale di disoccupazione può essere considerata strutturale. È grosso modo la conclusione alla quale sono giunte anche le altre istituzioni internazionali come l'OCSE e l'FMI. Naturalmente per poter dire se questo processo di moderazione salariale sia destinato o meno a continuare occorre studiare i meccanismi all'origine del processo.

2.3 Fattori all'origine della moderazione salariale osservata in questi ultimi anni

Per comprendere meglio la natura della moderazione salariale che si riflette nel ribasso del NAIRU, occorre ricordare le riforme relativamente ampie dei mercati dei prodotti e del lavoro che sono state realizzate nella maggior parte dei paesi dell'area dell'euro e che hanno rafforzato la concorrenza sui mercati dei prodotti e dei servizi e ridotto le divisioni nel mercato del lavoro tra insider e outsider nel corso della seconda metà degli anni '90. Le misure di riforma volte a stimolare l'occupazione [7] hanno riguardato in particolare i sistemi fiscali e previdenziali e hanno assunto ad esempio la forma di riduzioni dell'imposta sulla massa salariale per alcuni gruppi precisi o di un aiuto finanziario a favore delle persone che occupano un posto di lavoro a bassa remunerazione oppure ancora di un ammodernamento dell'organizzazione del lavoro, con un accesso più facile al lavoro a tempo parziale e contratti di lavoro più flessibili.

[7] Se le politiche più attive e di prevenzione adottate sul mercato del lavoro hanno probabilmente contribuito a migliorare la situazione dell'occupazione, il loro effetto sulla moderazione dei salari e il Nairu è ambiguo.

Inoltre, l'introduzione della moneta unica è destinata a ravvivare la concorrenza sui mercati dei prodotti e dei servizi aumentando la trasparenza dei prezzi all'interno dell'UEM [8]. L'Unione economica e monetaria imprime così nuovo slancio agli sforzi in corso nel contesto del programma di realizzazione del mercato unico per migliorare il funzionamento dei mercati dei prodotti e dei servizi. Di conseguenza il potenziale di suddivisione delle rendite tra imprese e lavoratori dipendenti sarà in gran parte ridotto.

[8] Si noti tuttavia che diversi osservatori più scettici ritengono che l'integrazione non comporterà necessariamente un rafforzamento della concorrenza, in quanto faciliterà anche le strategie delle imprese transnazionali permettendo loro di dominare i mercati dei prodotti di tutta l'Europa.

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Riquadro: centralizzazione, coordinamento e risultati macroeconomici.

Il dibattito sul modo in cui le strutture di contrattazione salariale influenzano l'andamento dei salari si è articolato in gran parte attorno all'ipotesi di Calmfors e Driffill, che prevede l'esistenza di una relazione a "U rovesciata" tra la disoccupazione ed il grado di centralizzazione delle contrattazioni salariali. In breve, le contrattazioni completamente decentrate o, al contrario, completamente centralizzate sono le situazioni più favorevoli all'occupazione poiché, nel primo caso, prendono in considerazione la competitività dell'impresa, mentre nel secondo tengono conto degli effetti macroeconomici sull'occupazione. Tra questi due estremi, le conseguenze degli aumenti dei salari sull'occupazione non vengono pienamente valutate, il che determina risultati meno buoni. In pratica, tuttavia, le prove empiriche di questa relazione a U rovesciata sono poco numerose. Un coordinamento riuscito, sia esso formale (ad esempio, fissazione in comune di norme di aumento dei salari, con la partecipazione del governo) o informale (accordi-quadro negoziati dalle più grandi imprese di un settore che fungono da riferimento per tutte le imprese del settore ("pattern bargaining")), può essere considerato come un mezzo per attenuare lo svantaggio potenziale delle contrattazioni a livello intermedio.

Benché sia difficile determinare con precisione il contributo di ogni misura di riforma, ci sono pochi dubbi sul fatto che tali misure abbiano svolto un ruolo nella riduzione del NAIRU facilitando il contenimento delle rivendicazioni salariali. Tuttavia occorre riconoscere che i progressi in materia di riforme sono stati disuguali da un paese all'altro e che tutte le grandi economie dell'area dell'euro risentono ancora di una disoccupazione strutturale relativamente elevata.

È quindi difficile spiegare la moderazione salariale generale osservata senza invocare il ruolo delle politiche dei redditi informali adottate in un certo numero di paesi [9]. In Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Spagna, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Portogallo sono stati conclusi in questi ultimi anni accordi bilaterali e trilaterali in materia di politica dei redditi, con i quali le parti della contrattazione collettiva si sono impegnate a rispettare una certa moderazione salariale compatibile con la stabilità dei prezzi e a migliorare la competitività. La partecipazione dei governi a questi "patti sociali" trilaterali può assumere molte forme, ad esempio una riduzione delle tasse e/o l'adozione di misure specifiche riguardanti il mercato del lavoro in cambio di moderazione salariale, come accaduto recentemente in Finlandia ed in Irlanda. La Finlandia ha anche tentato di aumentare la flessibilità dei salari nominali istituendo dei "fondi cuscinetto UEM" [10], ma il loro impatto resterà probabilmente abbastanza limitato.

[9] Per una relazione dettagliata su questo punto, vedere ad esempio l'Osservatorio europeo per le relazioni industriali (Eiro), EIROonline (2000).

[10] In un periodo di ripresa economica, i contributi previdenziali sono leggermente superiori al necessario. In caso di flessione dell'attività, le risorse così accumulate possono essere utilizzate per coprire i costi di sicurezza sociale supplementari.

Il Belgio è probabilmente l'esempio più calzante di paese che prende in considerazione esplicitamente la competitività. Nel 1996, il governo ha promulgato una legge sull'occupazione e la competitività che prevedeva una norma salariale per il biennio 1997-98, in base alla quale l'aumento delle retribuzioni non poteva superare l'aumento medio registrato nei paesi limitrofi, cioè la Francia, la Germania ed i Paesi Bassi. Successivamente, nel 1998 e nel 2000, le parti sociali hanno concluso nuovi accordi intersettoriali che includono anche in questo caso una norma salariale legata all'evoluzione osservata nei paesi limitrofi, che serve da riferimento chiave per gli aumenti dei salari medi in Belgio [11].

[11] L'accordo-quadro più recente, concluso nel dicembre 2000, fissa al 6,4% l'aumento massimo totale del salario nominale per lavoratore per il periodo 2001-2002.

Riquadro: patti sociali

Negli anni '80 e '90, i patti sociali trilaterali hanno (ri)fatto la loro comparsa in un certo numero di Stati membri: il più sovente questo approccio corporativo è stato scelto in un contesto di disoccupazione elevata e di rigidità del mercato del lavoro. Per il governo, le trattative trilaterali sulle riforme strutturali presentano il vantaggio di indicare tempestivamente ciò che è politicamente realizzabile ed in ultima analisi di beneficiare del sostegno attivo delle parti sociali per l'attuazione di un accordo. Offrono inoltre la possibilità di concludere accordi globali, che permettono ad ogni parte di sostenere di aver raggiunto una parte dei propri obiettivi. Spesso, i governi incoraggiano la conclusione di tali accordi con incentivi come la promessa di riduzioni di tasse in caso di successo. Quanto alle parti sociali, le trattative trilaterali offrono la possibilità di influenzare le scelte politiche in una fase molto precoce e di acquisire legittimità.

Con l'avvicinarsi della terza fase dell'UEM, il processo di coordinamento ha incluso altri aspetti: sul piano di bilancio la necessità di soddisfare i criteri di Maastricht e, nel settore monetario, il processo di disinflazione, che ha accentuato l'interesse per l'andamento dei salari. Tuttavia, la pressione che aveva favorito in origine i patti sociali si è probabilmente attenuata con il lancio della moneta unica e le condizioni favorevoli di crescita nel biennio 1999-2000.

Il coordinamento delle contrattazioni salariali a livello nazionale ha aiutato a preservare la moderazione salariale. Tuttavia, questi accordi risentono fondamentalmente di un problema di durata, il che rende difficile ottenere un impegno definitivo. In particolare, la mobilità dei capitali fa sì che i meccanismi che legano i datori di lavoro a politiche di investimenti forti siano poco efficaci. D'altro canto, i lavoratori non sono incentivati a moderare le loro pretese nella prospettiva di investimenti futuri. Inoltre, i governi potrebbero trovare sempre più difficile mettere a punto politiche di sostegno che siano giudicate accettabili dai principali attori delle trattative salariali.

D'altra parte, dato che le economie dell'area dell'euro convergono verso tassi di inflazione relativamente bassi, il contenimento generale dei salari è diventato meno importante per il funzionamento regolare dell'UEM, mentre la flessibilità delle retribuzioni nominali ha acquisito maggior peso. L'esperienza dimostra che il coordinamento delle trattative salariali a livello nazionale determina spesso accordi che sono imperniati su indicatori generali relativi all'insieme dell'economia più che sulle necessità specifiche della regione, dell'impresa o della professione interessata. Tuttavia, questa trattativa coordinata può portare ad accordi relativamente differenziati a condizione che non proibisca gli adeguamenti a livello di negoziati inferiori. A tale riguardo, si è assistito in questi ultimi anni in molti paesi ad un processo di "decentramento centralizzato" delle trattative salariali, sotto forma ad esempio dell'aggiunta di "clausole di apertura" che permettono una certa differenziazione a livello delle imprese. Tuttavia la trattativa centralizzata non è riuscita a volte a rettificare rapidamente il tiro quando l'andamento dei salari si discostava da quello della produttività. La perdita di competitività che ne deriva in questo caso può durare a lungo prima che intervenga l'adeguamento, inevitabile e penoso.

Essendo le politiche del mercato del lavoro imperniate sulla mobilitazione della forza lavoro potenziale attraverso vaste riforme strutturali che mirano ad aumentare i tassi di partecipazione, è possibile, effettivamente, che a livello globale le pressioni sui salari restino abbastanza deboli. Le misure di accompagnamento facilitano anche la transizione verso una più grande differenziazione "strutturale" dei salari.

A tutt'oggi vi sono stati progressi nella riforma delle istituzioni del mercato del lavoro all'interno dell'area dell'euro e non c'è dubbio che le istituzioni e le pratiche esistenti in materia di formazione dei salari hanno reagito in generale molto positivamente al nuovo ambiente economico, sia durante il periodo che precede la terza fase dell'UEM che nei suoi primi tre anni. A medio termine, le forze combinate della trasparenza dei prezzi, dell'aumento della mobilità dei capitali, dell'integrazione commerciale e della concorrenza dovrebbero aumentare l'elasticità della domanda di lavoro rispetto ai salari reali. Questo aspetto dovrebbe incoraggiare l'adozione di comportamenti salariali compatibili con l'occupazione, considerato che il legame tra salari ed occupazione diventa infine molto più stretto ed evidente.

3. Gli investimenti ed il potenziale di crescita dell'area dell'euro

3.1. Tendenze degli investimenti nell'area dell'euro nel corso degli anni '90

A medio e lungo termine, gli investimenti pubblici e privati sono determinanti per lo sviluppo del potenziale di crescita dell'area dell'euro poiché determinano la struttura e la dimensione dello stock di capitale ed agiscono come un vettore di penetrazione delle nuove tecnologie. Benché un esame empirico non permetta ancora di trarre conclusioni definitive [12], è tuttavia ovvio che l'UEM rafforza nettamente il potenziale di investimento nell'area dell'euro per tre ragioni:

[12] Tenuto conto del breve periodo trascorso dall'inizio del processo dell'UEM, è ovviamente troppo presto per tentare una valutazione empirica globale del suo impatto sugli investimenti nell'area dell'euro.

- agendo come complemento al programma del mercato unico, l'euro stimola la concorrenza e riduce i rischi di cambio;

- grazie all'accelerazione della dinamica di integrazione dei mercati finanziari, le condizioni di finanziamento delle imprese dovrebbero globalmente migliorarsi e gli investimenti transfrontalieri saranno più facili;

- a livello delle politiche economiche, si prevede che l'UEM agirà come catalizzatore delle riforme strutturali, in particolare per i mercati del lavoro. Per quanto riguarda gli aspetti di bilancio, il ribasso dei disavanzi e dei rapporti debito/PIL dovrebbe avere un impatto positivo sui tassi di interesse e favorire l'attività del settore privato.

Se è chiaro che l'ambiente creato dall'UEM è potenzialmente favorevole agli investimenti, occorre tuttavia sottolineare che questo potenziale potrà essere realizzato soltanto a prezzo di sforzi significativi a livello delle politiche macro e microeconomiche degli anni futuri. La portata della sfida da raccogliere è rivelata da un'analisi delle tendenze storiche: la prestazione mediocre degli investimenti nell'area dell'euro nel corso degli anni '90 è generalmente considerata come uno dei fattori che sono all'origine dei tassi di crescita reali e potenziali relativamente deboli dell'area dell'euro. Il presente capitolo tenta di isolare i principali fattori che determinano i trend degli investimenti, con un'attenzione particolare per quelli sui quali l'UEM potrebbe avere un impatto diretto o indiretto.

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Durante gran parte degli anni '90, gli investimenti nell'area dell'euro sono stati mediocri. La loro ripresa alla fine degli anni '90 è inoltre più lenta rispetto al ciclo precedente di investimenti, che era cominciato nel 1986, era durato cinque anni e aveva raggiunto al suo vertice ritmi di crescita degli investimenti totali pari al 7 %. La ripresa della fine degli anni '90 è stata in compenso più breve e meno pronunciata, con tassi di crescita annuali che non hanno superato il 5%. L'esame delle quote degli investimenti nel PIL fornisce il quadro di una ripresa meno vigorosa negli anni '90, che registra una progressione regolare tra il 1997 ed il 2000, ma resta al di sotto del picco della fine degli anni '80. La crescita degli investimenti era stata eccezionalmente dinamica nella seconda metà degli anni '80 [13].

[13] Questo dinamismo anticipava, almeno in parte, il completamento del mercato unico.

Il trend degli investimenti globali può essere disaggregato, sia distinguendo tra investimenti nella costruzione e investimenti nelle attrezzature, sia distinguendo tra investimenti pubblici ed investimenti privati. Il settore della costruzione, che rappresenta più della metà degli investimenti totali, ha svolto un ruolo preponderante nel deterioramento della performance degli investimenti dopo la recessione del 1992-1993 nell'area dell'euro. In compenso, le fasi di espansione dei cicli degli investimenti in attrezzature dei decenni '80 e '90 sono restate piuttosto simili, in termini sia di durata che di tassi di crescita. La crescita media è stata leggermente più lenta nel corso dell'espansione degli anni '90, ma la quota PIL degli investimenti reali in attrezzature ha raggiunto nel 2000 un livello che era chiaramente superiore a quello osservato in occasione del picco del ciclo precedente di investimenti. Circa tre quarti delle spese totali per investimenti delle imprese sono destinati all'acquisto di attrezzature, come testimoniato dal carattere globalmente sostenuto della crescita nel corso della seconda metà degli anni '90. Inoltre la percentuale delle spese per TIC nel PIL totale è aumentata in questi ultimi anni [14]. Contrariamente agli investimenti delle imprese, gli investimenti pubblici hanno registrato un calo continuo, in termini di percentuale del PIL, nel periodo 1991-1998 (parzialmente per via delle politiche di privatizzazione) prima di stabilizzarsi. Di conseguenza, se si escludono le costruzioni e gli investimenti pubblici, l'andamento globale degli investimenti in attrezzature nel corso degli anni '90 è piuttosto incoraggiante, considerato che gli investimenti delle imprese in questo settore sono accelerati dalla metà del decennio scorso, soprattutto in termini reali, ed i prezzi del settore delle TIC sono scesi. Gli investimenti delle imprese (in percentuale del PIL) hanno raggiunto livelli simili al picco della fine degli anni '80.

[14] In uno studio recente (BCE, Wp 122, New technologies and Productivity Growth in the euro Area , Vijselaar ed Albers), la BCE ritiene che il contributo degli investimenti in TIC alla crescita della produzione nell'area dell'euro sia aumentato, passando da 0,37 punti percentuali nel periodo 1991-1995 a 0,74 punti percentuali negli anni 1996-1999.

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Nel corso degli anni '90 si è assistito ad una riduzione considerevole dei differenziali tra i tassi di investimento dei diversi paesi, mentre la dispersione dei tassi di investimento negli altri paesi dell'OCSE [15] è rimasta piuttosto stabile. Ciò sembra suggerire la convergenza delle condizioni economiche ed una più forte sincronizzazione delle politiche con l'approssimarsi della terza fase dell'UEM. Fatto sorprendente, questa tendenza alla convergenza reale è stata più marcata nelle economie più avanzate che nei paesi del Fondo di coesione. Tuttavia dal 1999 la dispersione dei tassi di investimento delle imprese ha cessato di ridursi e si è osservato anche un lieve aumento in anni più recenti, imputabile in certa misura al maggiore dinamismo degli investimenti nei paesi in fase di recupero.

[15] Compresa la Danimarca, la Svezia ed il Regno Unito.

Riquadro: Investimenti diretti esteri

Nel corso degli anni '90, l'integrazione europea ha gradualmente rimosso le barriere agli investimenti diretti esteri (IDE) e all'acquisizione di partecipazioni dirette da parte di società straniere. L'introduzione dell'euro ha ridotto ulteriormente gli ostacoli ai flussi di investimenti legati ai rischi di variabilità dei tassi di cambio e dovrebbe ridurre la preferenza per le imprese nazionali nei portafogli di investimenti del settore privato. Anche le barriere agli scambi sono diminuite nello stesso periodo e pertanto - nella misura in cui gli IDE sono un sostituto ai flussi commerciali - l'impatto globale dell'integrazione è ambivalente.

Nella seconda metà degli anni '90, i flussi di IDE sia in entrata che in uscita dell'area dell'euro sono aumentati in proporzioni significative. Un certo numero di precisazioni riguardanti la consistenza dei flussi netti di IDE in uscita in questi ultimi anni risultano necessarie. I flussi netti di IDE in uscita dall'area dell'euro si sono accelerati nel corso della seconda metà degli anni '90, superando in media l'1% del PIL tra il 1996 ed il 1999. Le statistiche sugli IDE indicano che gli investimenti delle società basate nell'area dell'euro sono di fatto ripresi molto più vigorosamente durante la seconda metà degli anni '90, come risulta dai dati della contabilità nazionale sugli investimenti delle imprese. L'analisi dei dati geografici e settoriali conferma che questa accelerazione recente dei flussi netti di IDE è imputabile soprattutto alle decisioni strategiche delle società multinazionali in un piccolo numero di settori e di aree geografiche, decisioni probabilmente più legate ad una politica di espansione mondiale che motivate da differenze nei tassi di redditività attesi. Per il 2000, le statistiche indicano pertanto afflussi consistenti in Germania e flussi in uscita altrettanto consistenti dal Regno Unito, legati a fusioni/acquisizioni nel settore delle telecomunicazioni. Nessuna prova empirica permette per il momento di affermare che i flussi di IDE siano stati fortemente correlati alle differenze di competitività nell'area dell'euro.

3.2 I fattori determinanti gli investimenti nell'area dell'euro

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Secondo la teoria economica, sono tre i fattori macroeconomici principali che determinano gli investimenti: la domanda aggregata, il costo del capitale e la redditività. A causa della loro importanza particolare in termini di produttività e di crescita potenziale, una stima semplice e diretta del peso relativo delle principali variabili macroeconomiche è stata praticata prendendo come variabili esplicative degli investimenti in attrezzature la redditività, i prezzi relativi degli investimenti ed i tassi di interesse reali. Come previsto, lo studio dimostra che l'aumento dei profitti, i prezzi relativi degli investimenti, la riduzione dei tassi di interesse reali ed il ribasso delle tasse hanno un impatto positivo. Un aumento sostenuto della redditività di 1 punto percentuale determina un aumento della quota PIL degli investimenti in attrezzature compreso tra 0,1 e 0,15 punti percentuali. Un ribasso della stessa ampiezza dei prezzi relativi degli investimenti o dei tassi di interesse reali provocherebbe un aumento della percentuale delle attrezzature di circa 0,05 punti percentuali.

Dall'inizio degli anni '90 si osserva nell'area dell'euro un aumento percettibile e regolare della redditività al netto delle imposte [16]. Parallelamente, la crescita è diventata più "labour-intensive", il che implica un netto rallentamento della sostituzione del capitale al lavoro. Questa evoluzione riflette, da un lato, il movimento secolare verso un'economia predominata dal settore dei servizi e, dall'altro, un lungo periodo ininterrotto di moderazione salariale. Purtroppo questo aumento relativamente ampio della redditività non sembra per il momento tradursi in un dinamismo equivalente degli investimenti totali. Un elemento incoraggiante è che l'UEM ha avuto effetti positivi sugli investimenti grazie alla riduzione delle incertezze: la volatilità dei tassi di cambio tra gli stati appartenenti all'area dell'euro è ormai un ricordo ed i tassi di interesse a breve e lungo termine sono stati abbassati grazie alle politiche di bilancio sane adottate nel quadro dell'UEM.

[16] Misurata dal PIL ai prezzi di mercato meno il reddito da lavoro (escluso il lavoro autonomo), moltiplicato per 1 meno l'aliquota dell'imposta effettiva sulle società, il tutto in percentuale del capitale.

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Come previsto, i determinanti macroeconomici fondamentali degli investimenti hanno mostrato un grado considerevole di convergenza in anni recenti. La dispersione della redditività al netto delle imposte, misurata dalla deviazione standard, si è praticamente dimezzata dalla fine degli anni '80 e la riduzione è stata particolarmente rapida all'inizio degli anni '90. Analogamente i tassi di interesse reali hanno presentato segni di convergenza. La convergenza dei tassi di redditività è una conseguenza del rafforzamento della concorrenza sui mercati dei prodotti e del lavoro, ma anche della più forte mobilità dei capitali indotta dalla liberalizzazione finanziaria. Questi sviluppi, ai quali occorre aggiungere la sincronizzazione crescente delle condizioni di bilancio e monetarie nell'area dell'euro, permettono di spiegare la convergenza dei tassi di interesse reali. I fattori specificamente nazionali continuano tuttavia a svolgere un ruolo. Il dinamismo eccezionale degli investimenti irlandesi è stato accompagnato da un forte aumento della redditività al netto delle imposte. Quanto al Portogallo, è il solo paese dove la redditività è diminuita negli ultimi tre anni, anche se il tasso di investimento è variato in misura modesta a causa di un ribasso concomitante dei tassi di interessi reali.

Anche se le variabili esplicative macroeconomiche di tipo tradizionale sembrano spiegare buona parte del comportamento degli investimenti nell'area dell'euro, anche i fattori macroeconomici svolgono un ruolo importante. È chiaro che le rigidità strutturali sui mercati finanziari, del lavoro e dei prodotti devono essere combattute se si vuole trarre pienamente vantaggio dal potenziale dell'UEM in termini di miglioramento dell'ambiente economico per gli investimenti. I raffronti tra i paesi dimostrano che le variabili dei mercati borsistici sono correlate positivamente con la crescita degli investimenti. Correlazioni simili esistono a livello degli indicatori riguardanti le dimensioni, la liquidità ed i prezzi dei mercati borsistici. Questi risultati non sono sorprendenti se si considera che le imprese investono per aumentare i loro profitti e che gli azionisti valutano il valore delle imprese sulla base degli utili futuri attesi. I dati attualmente disponibili tendono a suggerire che i mercati borsistici siano una fonte di finanziamento particolarmente importante per le imprese del settore delle TIC, che sono state uno dei principali motori della crescita degli investimenti negli Stati Uniti. La regolamentazione dei mercati dei prodotti sembra essere un altro fattore strutturale il cui impatto sull'andamento degli investimenti è particolarmente pronunciato. Gli indicatori elaborati dall'OCSE per valutare le differenze tra i quadri regolamentari nazionali dimostrano chiaramente che più le regolamentazioni sono restrittive, più i tassi di crescita degli investimenti sono mediocri. In particolare gli indicatori che misurano l'importanza della proprietà pubblica (dimensioni, campo di attività delle imprese pubbliche e controllo di queste imprese), il grado di intervento dello Stato nell'attività delle imprese (controllo dei prezzi, norme dirigiste e di controllo) e gli ostacoli alla libertà di intraprendere (opacità regolamentare, obblighi amministrativi gravanti sulle giovani imprese ed ostacoli alla concorrenza) presentano una correlazione negativa con l'attività di investimento. Infine è possibile che le rigidità sul mercato del lavoro abbiano frenato gli investimenti nell'area dell'euro. Ad esempio l'indicatore dell'OCSE per la legislazione di protezione dell'occupazione è correlato negativamente alla crescita reale degli investimenti. Altre variabili strutturali quantitative del mercato del lavoro sono orientate nello stesso senso, ad esempio il "tasso di imposizione dei lavoratori dipendenti a bassa remunerazione" e la "durata dei sussidi di disoccupazione".

Sulla base dei risultati presentati, sembra nel contempo indispensabile e realizzabile migliorare il quadro degli investimenti nell'area dell'euro sfruttando le potenzialità offerte dall'UEM. Un aumento sostenuto del ritmo di formazione del capitale fisso metterebbe l'area dell'euro su una via duratura di miglioramento del tenore di vita. Un aumento della percentuale degli investimenti nel PIL accresce il potenziale di crescita dell'area, sia a brevissimo termine che a lunga scadenza, sempre che il progresso tecnologico determini la modernizzazione dello stock di capitale. L'analisi dei fattori che determinano gli investimenti sottolinea la necessità di porre rimedio ad una serie di rigidità strutturali nell'area dell'euro nell'intento di migliorare il clima degli investimenti. A tale riguardo, è attualmente allo studio un'ampia gamma di riforme strutturali riguardanti il mercato del lavoro, il sistema tributario (ribassi delle imposte sulle società) e i mercati dei prodotti e finanziari, miranti a rafforzare la concorrenza e a ridurre le rendite di monopolio.

Per concludere, l'UEM offre il potenziale necessario per migliorare significativamente gli investimenti nell'area dell'euro e compensare l'impatto negativo sulla crescita di fattori quali il calo demografico. L'UEM dovrebbe svolgere questo ruolo positivo a) rafforzando la concorrenza e riducendo il rischio di cambio; b) agendo come catalizzatore dello sviluppo del mercato finanziario e c)incoraggiando una serie di riforme macro e microeconomiche di incentivazione degli investimenti.

4 Il sistema finanziario dell'area dell'euro

4.1 Evoluzione generale del sistema finanziario dell'UE

In questi ultimi anni si è assistito ad una netta accelerazione del processo di sviluppo e di integrazione dei mercati finanziari dell'UE. Questa accelerazione è il prodotto di tre fattori, tra loro collegati: (i) la mondializzazione, incentivata dalla liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali, dalla deregolamentazione finanziaria e dai progressi della tecnologia; (ii) la messa in atto progressiva di un quadro normativo comune in tutta l'UE (in seguito agli sforzi per completare il mercato interno dei servizi finanziari), accompagnata dalle riforme finanziarie intraprese dagli Stati membri; e (iii) il passaggio all'euro.

Prima del gennaio 1999, la pluralità delle valute nazionali costituiva un ostacolo sostanziale all'integrazione finanziaria dell'Unione. L'esistenza di un rischio di cambio limitava l'attrattiva degli investimenti transfrontalieri, riduceva gli incentivi ad intraprendere un'armonizzazione della regolamentazione a livello UE e frenava le pressioni concorrenziali sui mercati nazionali degli Stati membri. Il passaggio all'euro come moneta unica di dodici Stati membri ha modificato questa situazione. Con l'arrivo dell'euro, il rischio di cambio ha cessato di essere una fonte di frammentazione del sistema finanziario dell'area dell'euro e sono emersi i costi di opportunità legati alle altre fonti di frammentazione del sistema. L'approfondimento dell'integrazione causato dall'euro ha determinato mercati più omogenei, un'ondata di fusioni tra intermediari e tra borse e la comparsa di prodotti e tecniche nuovi ed innovativi. Gli operatori dei mercati hanno adottato strategie paneuropee ed i responsabili politici hanno reagito assegnando una priorità politica elevata al completamento del mercato interno dei servizi finanziari. Inoltre, sono chiaramente aumentati gli incentivi ad accelerare le riforme interne al fine di preservare la competitività dei sistemi finanziari nazionali in precedenza protetti.

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La distinzione tradizionale tra un sistema americano dove è preponderante il finanziamento tramite il ricorso al mercato ed un sistema europeo in cui prevale il finanziamento bancario [17] resta sempre valida. In particolare, nell'area dell'euro le banche svolgono un ruolo molto più importante nel finanziamento delle imprese che non negli Stati Uniti, dove l'emissione diretta di obbligazioni private è il mezzo di finanziamento principale delle imprese, come risulta dal volume rilevante di titoli di debito e dalla capitalizzazione del mercato borsistico. Nonostante queste differenze, è interessante notare che in entrambe le aree economiche l'intera gamma degli strumenti e degli intermediari svolge un ruolo importante.

[17] Prima di qualsiasi raffronto del mercato finanziario dell'area dell'euro con gli Stati Uniti, occorre sottolineare che l'area dell'euro differisce fondamentalmente dagli Stati Uniti nella misura in cui si tratta di un'Unione di nazioni e non di un solo paese. Nonostante i numerosi progressi dell'integrazione finanziaria, il settore finanziario dell'area dell'euro continua a essere caratterizzato da numerose differenze a livello dei sistemi giuridici nazionali, delle legislazioni, delle convenzioni di mercato, ecc..

Nell'area dell'euro, i progressi nel trattamento delle informazioni, la liberalizzazione e l'integrazione dei mercati (grazie in particolare alla soppressione delle dodici valute nazionali diverse) dovrebbero favorire lo sviluppo dei mercati dei capitali a scapito del finanziamento bancario. Non esiste tuttavia alcuna prova teorica o empirica che dimostrerebbe che un sistema finanziario con una maggiore componente di titoli sarebbe superiore all'attuale sistema a prevalenza bancaria. Occorre dunque prendere in considerazione altre caratteristiche più pertinenti per valutare l'efficacia globale di un sistema finanziario, in particolare il suo carattere completo e la sua adattabilità [18].

[18] Una struttura finanziaria completa permette alle imprese di finanziarsi tramite i mercati e gli intermediari secondo le modalità che corrispondono meglio alle loro necessità nelle varie fasi della loro vita. Una struttura adattabile dispone dell'elasticità necessaria per fare evolvere gli intermediari finanziari o le forme di contratto in caso di trasformazione dell'ambiente economico.

Il settore finanziario dell'area dell'euro sta attraversando una fase di trasformazione strutturale rapida, dove l'integrazione crescente dei mercati nazionali è accompagnata da un'espansione generale del settore finanziario e da un'intensificazione della concorrenza tra i vari strumenti e intermediari esistenti. A causa delle caratteristiche proprie dei diversi componenti del settore finanziario, i ritmi di sviluppo dei diversi mercati non sono stati uniformi, in particolare per quanto riguarda l'integrazione.

4.2 Mercati monetari e derivati

Dal 1° gennaio 1999 le operazioni di politica monetaria della BCE si effettuano in euro, sulla base della domanda di liquidità dell'insieme dell'area, senza alcuna discriminazione tra le esigenze di liquidità dei sistemi bancari nazionali. Un certo numero di problemi collegati con le procedure di attribuzione di liquidità della BCE hanno potuto essere risolti con l'adozione di aste a tasso variabile nel giugno 2000. Mentre il mercato monetario denominato in euro ha funzionato bene da tale data, il grado di integrazione non è identico per tutti i suoi segmenti.

Sul mercato dei depositi interbancari non garantiti, l'integrazione è quasi completa e si osserva una convergenza quasi piena dei tassi di interesse a brevissimo termine in tutta l'area dell'euro. Questa convergenza dei tassi di interesse è illustrata anche dall'accettazione, da parte di tutti gli operatori del mercato, dell'EONIA (Euro Overnight Index Average) e dell'EURIBOR (Euro-Inter-Bank Offered Rate) come riferimenti di prezzo comuni. La convergenza è stata facilitata inoltre dall'efficacia della distribuzione della liquidità in tutta l'area: le transazioni transfrontaliere costituiscono oggi gran parte (circa il 60%) dell'attività interbancaria dei principali partecipanti al mercato. Vi sono segni che il mercato interbancario ha sviluppato una struttura a due livelli per la distribuzione della liquidità, dove le banche relativamente importanti dominano nel segmento delle operazioni transfrontaliere, mentre i piccoli istituti si finanziano principalmente con transazioni nazionali con queste grandi banche. Sul mercato monetario, la convergenza dei tassi sembra evidente anche per le scadenze più lunghe. Uno studio della BRI [19] ha indicato che il bid ask spread (divario tra migliore quotazione di vendita e migliore quotazione di acquisto) dei tassi di interesse sui depositi euro a tre mesi si è ridotto del 40% tra il 1996 ed il 2000, un segno supplementare dell'integrazione del settore del mercato monetario relativo ai depositi in euro non garantiti.

[19] Banca dei regolamenti internazionali (2000), 70° relazione annuale.

Parallelamente a queste trasformazioni sul mercato delle operazioni monetarie non garantite, il mercato degli strumenti derivati dell'area dell'euro si è anch'esso fortemente integrato. Il mercato transfrontaliero delle operazioni di swap sui tassi di interesse in euro ha registrato una crescita esponenziale dall'introduzione della moneta unica e la forte integrazione di questo mercato è rispecchiata dal livello molto modesto dei bid ask spread e dalle esposizioni relativamente consistenti. Anche l'attività sugli altri mercati derivati si è intensificata ed i contratti future basati sull'indice EURIBOR sono subentrati ai contratti future denominati nelle valute esistenti prima dell'euro.

In compenso, i comparti garantiti del mercato monetario (contratti pronti contro termine privati, buoni del tesoro, commercial paper e certificati di deposito, che comportano la concessione di liquidità in cambio di una garanzia) sono rimasti nettamente meno integrati. Il loro frazionamento persistente è dovuto alla difficoltà di utilizzare le garanzie a livello transfrontaliero, soprattutto per via delle disparità nazionali esistenti per quanto riguarda le pratiche e le norme di mercato nonché il trattamento fiscale o giuridico dei valori utilizzati come garanzie. Queste differenze nazionali, che si traducono in una segmentazione nazionale delle infrastrutture di mercato, possono porre notevoli problemi pratici per le operazioni di compensazione e di regolamento transfrontaliere, come sottolineato da una recente relazione del gruppo Giovannini [20]. La direttiva sulle garanzie finanziarie, che deve essere attuata pienamente entro il 2003, porrà rimedio alle difficoltà incontrate attualmente in caso di utilizzo transfrontaliero delle garanzie finanziarie e rafforzerà l'integrazione dei mercati finanziari europei, in particolare determinando quale sia la legislazione che disciplina i contratti di garanzia transfrontalieri.

[20] Il gruppo Giovannini, che è composto dai partecipanti al mercato e presieduto da Alberto Giovannini, è stato creato per consigliare la Commissione nel settore dei mercati finanziari. Nel novembre 2001, il gruppo ha presentato una relazione intitolata "Cross border Clearing and Settlement Arrangements in the European Union". Questa relazione, pubblicata dalla Commissione europea nella serie Economic Papers (n° 163), è disponibile all'indirizzo seguente:

4.3 Mercati obbligazionari

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L'introduzione dell'euro ha determinato l'integrazione dei mercati obbligazionari nazionali degli Stati membri partecipanti, dando vita ad un mercato di obbligazioni denominate in euro nettamente più omogeneo. Gli effetti dell'integrazione sull'attività del mercato sono evidenti a numerosi livelli.

In primo luogo, il volume delle emissioni è aumentato grazie alla maggiore liquidità e profondità del mercato in euro. Dal gennaio 1999 il totale delle emissioni nazionali in euro è superiore al totale complessivo delle emissioni nelle valute delle vecchie monete nazionali realizzate negli anni immediatamente precedenti l'UEM. Le emissioni in euro sono state particolarmente sostenute nel 1999, con un aumento del 20% rispetto al 1998. Questo aumento del volume delle emissioni si spiega con la domanda, fino allora contenuta, di emittenti e di investitori che avevano differito la loro entrata sul mercato a causa delle turbolenze del sistema finanziario internazionale e delle incertezze che circondavano il passaggio all'euro. Le imprese emittenti sono state particolarmente attive nei primi mesi del 1999, molte di loro cercando di consolidare la loro posizione su un mercato nuovo e potenzialmente più liquido. Nel 2000 le emissioni in euro si sono abbassate del 6% (comprese le emissioni da parte di non residenti dell'area dell'euro, per i quali i dati sono disponibili soltanto dal 1999) a causa del ritorno ad un ritmo più normale dell'attività di emissione, di una riduzione delle necessità di finanziamento degli stati e di un deterioramento progressivo del clima di mercato di fronte all'aumento costante dei tassi di interesse e dei prezzi del petrolio. Le emissioni in euro hanno registrato un'impennata all'inizio del 2001. Nonostante un rallentamento alla fine dell'anno, il volume totale delle emissioni nel 2001 è stato superiore del 16% a quello dell'anno precedente. Il dinamismo delle emissioni in euro nel 2001 è dovuto soprattutto ad imprese e istituti finanziari che hanno reagito al miglioramento delle condizioni dei mercati obbligazionari ed al deterioramento dei mercati azionari mondiali.

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In secondo luogo, rispetto alla situazione precedente l'UEM, si osserva una rapida progressione delle emissioni del settore privato a scapito delle emissioni sovrane. Questa evoluzione nella composizione delle emissioni obbligazionarie è dovuta sia alle necessità di finanziamento inferiori degli stati dell'area dell'euro (a causa delle politiche di austerità di bilancio seguite negli anni '90) sia all'aumento delle emissioni effettuate dalle imprese finanziarie e non finanziarie. Si constata in particolare che il mercato relativamente poco sviluppato delle obbligazioni di imprese non finanziarie ha registrato tassi di crescita eccezionalmente rapidi ed il volume totale delle emissioni è passato da 27 miliardi di dollari nel 1998 a 97 miliardi nel 2001. La dimensione crescente delle singole emissioni - le tranche superiori ad un milione di euro sono oggi comuni - è un'altra prova della liquidità sempre più grande dei segmenti di mercato delle imprese e delle istituzioni finanziarie [21]. Nel segmento delle imprese non finanziarie, anche l'aumento delle emissioni da parte di società con rating più basso è un'indicazione della liquidità relativa del mercato, anche se la percentuale delle emissioni ad alto rendimento resta relativamente modesta. Questo aumento delle emissioni di titoli riflette ovviamente un più forte interesse degli investitori per il mercato più liquido delle obbligazioni denominate in euro, anche se anche altri fattori non direttamente legati all'euro, come la necessità di finanziare attività di fusione/acquisizione in forte crescita e gli acquisti di licenze UMTS, hanno stimolato l'offerta di obbligazioni da parte di imprese private e di istituzioni finanziarie.

[21] Freddie Mac, agenzia di prestito ipotecario semi-pubblica degli Stati Uniti, ha lanciato un importante programma di emissioni denominate in euro nel settembre 2000. Quest'ultimo prevede un volume trimestrale di emissioni di 5 miliardi di euro con varie scadenze.

Sebbene la loro percentuale nel volume totale delle emissioni sia diminuita, le emissioni obbligazionarie sovrane restano una fonte dominante dell'offerta di titoli sul mercato delle obbligazioni denominate in euro. Nel 2001 hanno rappresentato ancora oltre il 40% del volume totale delle emissioni in euro. L'omogeneità del mercato delle obbligazioni di Stato dell'area dell'euro è

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illustrata dalla forte convergenza dei rendimenti degli Stati membri, un fenomeno che contrasta fortemente con la situazione che prevaleva ancora recentemente, a metà degli anni '90. Questa convergenza dei rendimenti può essere attribuita all'eliminazione del rischio di cambio ed al miglioramento relativo delle situazioni di bilancio in diversi Stati membri. La liquidità su questo segmento di mercato resta tuttavia frammentata, giacché le obbligazioni di Stato sono emesse da dodici organismi distinti le cui necessità di finanziamento, emissioni, strategie, procedure e strumenti sono diversi. I premi di liquidità sembrano essere diventati uno dei fattori principali che determinano le divergenze di rendimento delle obbligazioni di Stato dell'area dell'euro, a detrimento in particolare

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degli Stati membri che emettono deboli volumi di obbligazioni, molti dei quali dovrebbero normalmente beneficiare di un rischio di credito relativamente basso a causa della loro situazione di bilancio favorevole. Il grafico mostra che, nella maggior parte dei paesi, gli spread su dieci anni rispetto alla Germania sono aumentati tra il 1998 ed il 2001. Il successo del Bund tedesco decennale si spiega anche con il fatto che questo titolo è trattabile nel mercato future Eurex che si è ritagliato un posto predominante nell'area dell'euro. Un mercato derivato particolarmente dinamico rafforza in ultima analisi la liquidità del titolo sottostante.

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In terzo luogo, a causa della crescita del volume delle emissioni, l'euro è diventato la seconda valuta più importante per le emissioni obbligazionarie internazionali. Il dollaro americano e l'euro predominano oggi nelle emissioni internazionali e rappresentano più del 90% del totale [22]. Dopo avere praticamente eguagliato il dollaro nel 1999, la percentuale delle emissioni internazionali in euro è fortemente diminuita nel 2000. Nel 2001 tale percentuale era pari al 44% a fronte del 48% per il dollaro americano.

[22] La base di dati della BRI sui titoli di credito internazionali copre tre tipi di strumenti: i titoli denominati in una valuta diversa da quella del mercato nazionale sul quale sono emessi ("euro-obbligazioni"), i titoli denominati nella valuta del mercato sul quale sono emessi, ma per i quali l'emissione è effettuata da non residenti (obbligazioni estere come le "Yankee" sul mercato americano) e i titoli denominati nella valuta del mercato sul quale sono emessi, la cui emissione è effettuata da residenti ma riservata a non residenti (BRI, Quarterly Review, marzo 2002).

4.4 Mercati azionari

Eliminando il rischio di cambio, il passaggio all'euro ha stimolato la domanda di investimenti transfrontalieri in azioni. Altri fattori hanno contribuito allo sviluppo degli scambi transfrontalieri in questo settore, ad esempio la crescente internazionalizzazione delle emissioni di azioni, la moltiplicazione delle fusioni e delle acquisizioni transfrontaliere ed i raggruppamenti di borse ufficiali.

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Oltre a queste trasformazioni strutturali, si constata che l'integrazione dei mercati azionari dell'UE si è espressa soprattutto con una correlazione settoriale più forte delle quotazioni azionarie nei diversi mercati degli Stati membri. Ciò tenderebbe ad indicare una modifica del comportamento degli investitori che, dopo avere privilegiato gli investimenti su base nazionale, si orienterebbero verso gli investimenti su base settoriale; le divergenze nell'andamento degli indici sono dovute soprattutto alle differenze nella loro composizione. Si è inoltre assistito in questi ultimi anni ad uno sviluppo considerevole degli strumenti derivati su azioni, il che ha rafforzato la liquidità dei mercati primari di azioni.

Favorendo gli investimenti transfrontalieri in azioni, il passaggio all'euro ha contribuito a stimolare l'attività sui mercati borsistici dell'UE specializzati nella nuova economia, che sono stati caratterizzati in questi ultimi anni da un comportamento piuttosto irregolare, in linea con i mercati statunitensi, a causa degli alti e bassi della domanda di titoli TMT (tecnologia, mass media e telecomunicazioni).

Esposte ad una concorrenza crescente, in particolare da parte delle molte reti elettroniche di contrattazione di recente creazione, le borse ufficiali hanno reagito con strategie di fusione/raggruppamento. Benché si tratti di un fenomeno mondiale piuttosto che specificamente europeo, l'Europa è stata teatro di molte operazioni importanti di raggruppamento. La principale è stata la creazione di Euronext, alla quale hanno aderito a metà 2000 le borse di Amsterdam, Bruxelles e Parigi e nel 2002 la borsa di Lisbona. Tuttavia non tutti questi sforzi di consolidamento si sono conclusi con dei successi, come dimostrato dal fallimento della fusione tra Deutsche Börse e LSE (Borsa di Londra).

Via via che le borse si consolidano, anche le infrastrutture post-negoziazione dell'UE registrano una lenta trasformazione. Storicamente, le infrastrutture europee di negoziazione titoli si sono sviluppate su base nazionale ed esistono dunque strutture nazionali efficaci per le operazioni in titoli che dispongono generalmente di un'integrazione verticale delle funzioni di negoziazione, compensazione, regolamento e conservazione [23]. Queste strutture nazionali - che offrono soltanto uno spazio molto limitato per le contrattazioni transfrontaliere - sono sostanzialmente sopravvissute fino ad oggi. I vari sistemi nazionali hanno pratiche di mercato che sono loro proprie e i valori mobiliari sono soggetti a disposizioni regolamentari, giuridiche e fiscali diverse. Questa situazione è all'origine di costi supplementari che gravano sulla contrattazione transfrontaliera di titoli nell'Unione europea: sia costi diretti - prezzi più elevati per i servizi forniti - sia costi indiretti derivanti da inefficienze nel funzionamento del sistema finanziario, ad esempio costi aggiuntivi a livello di back-office derivanti dalla necessità di raggiungere molti mercati. Il consolidamento limitato che si è verificato fino ad oggi ha riguardato soprattutto le stanze di compensazione, mentre l'organizzazione generale dei sistemi di regolamento titoli è rimasta praticamente invariata rispetto alla situazione precedente l'euro [24].

[23] Cfr. la relazione del gruppo Giovannini intitolata "Cross Border Clearing and Settlement Arrangements in the European Union", op. cit. .

[24] Ad esempio le funzioni di compensazione di tre delle borse Euronext (Amsterdam, Bruxelles e Parigi) sono confluite legalmente all'inizio del 2001 in Clearnet SBF, che è diventato la controparte centrale per tutte le transazioni realizzate in Euronext. Per facilitare il trasferimento transfrontaliero dei titoli, sono stati istituiti dei link tra i sistemi di regolamento titoli. Si constata tuttavia che questi link sono stati utilizzati meno di quanto previsto (cfr. BCE (2001) Payment and securities settlement systems in the European Union (Blue Book)).

4.5 Capitale di rischio

La percentuale del capitale di rischio nel finanziamento globale delle imprese è tradizionalmente modesta. La sua importanza reale è tuttavia in gran parte superiore a quanto farebbe pensare questa percentuale contenuta poiché il capitale di rischio occupa un ruolo essenziale nelle prime fasi del ciclo di vita di un'impresa.

Nell'area dell'euro, in parte grazie ad iniziative comunitarie come il Piano d'azione per il capitale di rischio (PACR) dell'aprile 1998, il settore del capitale di rischio ha registrato uno sviluppo rapido nel corso degli anni '90. In questi ultimi anni ha tuttavia registrato una battuta d'arresto a causa del rallentamento economico e del crollo delle quotazioni azionarie delle società a forte potenziale di crescita sui mercati borsistici nel corso del 2000. Per il mercato del capitale di rischio questa correzione può tuttavia essere interpretata come un consolidamento necessario ed il settore rimane strutturalmente sano. Uno degli sviluppi degni di nota è stata la crescente partecipazione degli investitori istituzionali, in particolare dei fondi di pensione.

Nonostante lo sviluppo del settore, la Commissione ha potuto constatare, in occasione dell'esame intermedio del PACR dell'ottobre 2001, che i mercati europei del capitale di rischio rimangono frammentati - la parte essenziale degli investimenti in azioni del settore privato continua ad essere effettuata in un quadro nazionale - e che il divario rispetto agli Stati Uniti si è allargato nel periodo 1998 - 2000. Nel 2001, gli investimenti in capitale di rischio dell'area dell'euro sono scesi a 8,8 miliardi di euro (0,13% del PIL) rispetto a 12,5 miliardi di euro nel 2000. Con lo scoppio della bolla speculativa attorno alle imprese di alta tecnologia, il calo è stato ancora più pronunciato negli Stati Uniti: gli investimenti in capitale di rischio sono ammontati soltanto a 39,9 miliardi di euro nel 2001 (0,35% del PIL) rispetto ai 95,1 miliardi di euro di un anno prima.

Il fatto che gli investimenti in capitale di rischio nell'area dell'euro hanno luogo soprattutto a livello nazionale è dovuto in parte al fatto che i fornitori di capitali preferiscono essere vicini alle società nelle quali investono, per conservare un certo controllo sui loro investimenti. Tuttavia, è anche possibile che il modello attuale di internazionalizzazione delle attività di gestione/investimento di capitali privati si spieghi in parte con le differenze che esistono a livello delle strutture regolamentari, fiscali e giuridiche dei paesi dell'UE. Ad esempio, le legislazioni nazionali che autorizzano o meno i fondi pensione e le imprese di assicurazione ad investire sotto forma di assunzioni di partecipazione nelle imprese private sono ancora diverse ed anche le disparità tra i regimi tributari nazionali hanno un impatto sugli investimenti in capitale di rischio.

4.6 Intermediari finanziari

L'impatto dell'integrazione finanziaria non si è limitato ai vari settori del mercato finanziario: è anche evidente a livello delle attività degli intermediari finanziari. Le banche europee sono sempre più presenti nell'offerta di servizi finanziari a imprese e privati stranieri. Il mercato europeo dei servizi finanziari per le imprese è sempre più aperto alla concorrenza internazionale. In alcuni settori, come le emissioni di obbligazioni e di azioni ed i prestiti di consorzi, gli intermediari interni hanno perso terreno di fronte ai loro concorrenti americani. L'introduzione dell'euro ha rafforzato ulteriormente la concorrenza tra intermediari finanziari, poiché ha aumentato la trasparenza dei prezzi, ha ridotto i proventi delle operazioni di cambio, ha eliminato il vantaggio concorrenziale di cui usufruivano gli operatori nazionali a causa dell'esistenza delle valute nazionali e ha stimolato lo sviluppo di mercati di titoli molto più ampi e liquidi che favoriscono la cartolarizzazione e la disintermediazione.

La risposta più visibile degli intermediari finanziari a queste pressioni è consistita nei raggruppamenti tramite fusioni e acquisizioni o scambi di partecipazioni incrociate. Questi raggruppamenti sono stati accompagnati da un processo di ristrutturazione e di riorientamento delle attività dai prestiti bancari "tradizionali" ad attività del tipo "investment banking". Questo riorientamento delle attività bancarie ha rafforzato l'attività di intermediazione sul mercato finanziario, determinando la creazione e la vendita di nuovi prodotti finanziari o la consulenza alla clientela sul costo e l'organizzazione di operazioni di fusione o di acquisizione. Ne è seguita una ricomposizione dei redditi del settore bancario, con un aumento dei redditi da commissioni a scapito dei redditi da interessi ed una dipendenza inferiore dai depositi a causa della progressione dell'emissione di titoli. Tuttavia il declino delle attività di investment banking nel 2001 ha sottolineato la necessità che il settore bancario dell'UE aumenti la redditività e l'efficacia delle attività bancarie tradizionali.

A tutt'oggi i raggruppamenti tra intermediari finanziari hanno avuto luogo soprattutto all'interno delle frontiere nazionali, il che ha comportato un netto aumento della concentrazione del settore a livello nazionale, in particolare negli Stati membri di piccole dimensioni. Questa tendenza alla formazione di conglomerati nazionali (raggruppamenti che oltrepassano le frontiere dei settori finanziari) è sempre più evidente in molte parti dell'UE. Tuttavia le fusioni ed acquisizioni transfrontaliere non sono state rare e sembrano in aumento. A causa delle differenze considerevoli tra i sistemi giuridici e regolamentari nazionali (ad esempio a livello delle legislazioni di tutela dei consumatori e delle norme di concorrenza), che attualmente non permettono di offrire una gamma di prodotti veramente paneuropea, le economie di scala e di gamma suscettibili di derivare dalle fusioni transfrontaliere sembrano essere inferiori al potenziale offerto dalle fusioni nazionali. Alcuni fattori culturali e le differenze nelle strutture di governo societario tendono inoltre a scoraggiare i raggruppamenti transfrontalieri. In queste condizioni è possibile che gli intermediari finanziari preferiscano impegnarsi in fusioni difensive a livello nazionale per prepararsi meglio alla concorrenza paneuropea che si rafforzerà quando l'integrazione del sistema finanziario dell'UE sarà più avanzata.

4.7 Le sfide future per i politici

Riducendo fortemente il rischio di cambio nell'UE e fungendo da catalizzatore delle riforme, l'introduzione dell'euro è stata il principale fattore di accelerazione dell'integrazione. Anche con l'euro, la realizzazione del mercato unico dei servizi finanziari - un obiettivo che risale all'inizio degli anni '70 - non è ancora stata completata e deve dunque continuare. Se l'integrazione dei mercati finanziari si realizza in gran parte su iniziativa dei mercati stessi - in quanto sono proprio gli istituti finanziari ad avvantaggiarsi delle opportunità offerte dall'integrazione dei mercati finanziari - in un certo numero di settori rimangono indispensabili misure adottate su iniziativa dei poteri pubblici.

Il sostegno politico a favore dell'adozione di misure è andato crescendo man mano che i responsabili politici prendevano coscienza dei vantaggi economici dell'integrazione finanziaria. In un mercato integrato, i risparmiatori e gli investitori beneficiano di una gamma di scelta più ampia e di costi di transazione più bassi, il che si traduce, a livello macroeconomico, in un più grande dinamismo del risparmio, degli investimenti, della produttività ed alla fine della crescita economica. Questi effetti sono stati recentemente analizzati in una relazione del CEF sull'integrazione finanziaria che è stata presentata al Consiglio ECOFIN informale di Oviedo (13-14 aprile 2002). I Consigli europei successivi (più recentemente il Consiglio europeo di Barcellona nel marzo 2002) hanno posto l'integrazione dei mercati finanziari dell'UE tra le priorità di riforma economica dell'UE.

Questa priorità si è tradotta nella definizione di una strategia politica coerente a livello dell'UE e nel grado di urgenza attribuito alla sua attuazione. In primo luogo - si tratta dell'aspetto più importante - l'UE si è impegnata ad attuare completamente entro il 2005 il Piano d'azione per i servizi finanziari (PASF) - un pacchetto di 42 iniziative miranti a migliorare il funzionamento del sistema finanziario dell'UE. Un termine ancora più breve - il 2003 - è stato fissato per le misure riguardanti i mercati mobiliari e per il Piano d'azione per il capitale di rischio (PACR). Quest'ultimo costituisce il progetto di un mercato integrato ed efficace per il finanziamento del capitale delle imprese giovani ed innovative. In secondo luogo, l'attuazione del PASF deve effettuarsi in modo coerente in tutti gli Stati membri in modo da garantire un'integrazione effettiva - e non semplicemente nominale - dei mercati finanziari nazionali. Il nuovo processo decisionale per l'adozione delle misure legislative riguardanti i valori mobiliari, adottato sulla base delle proposte del comitato Lamfalussy [25], dovrebbe contribuire al conseguimento di questo obiettivo e garantire un adattamento più rapido della legislazione agli sviluppi dei mercati finanziari. In terzo luogo, la politica di concorrenza dovrà accompagnare l'integrazione finanziaria in modo proattivo, per garantire che i suoi vantaggi economici potenziali siano pienamente sfruttati. In quarto luogo, sarà necessario garantire una tutela adeguata dei consumatori e degli investitori affinché abbiano la fiducia per realizzare transazioni in un mercato unico comprendente tutta l'Unione sfruttandone tutti i vantaggi.

[25] Comitato dei saggi sulla regolamentazione dei mercati dei valori mobiliari europei. Questo comitato ha presentato la sua relazione nel febbraio 2001. Per facilitare ed accelerare la messa in atto di un quadro regolamentare che disciplini i mercati mobiliari dell'UE, il comitato ha proposto un nuovo approccio legislativo a quattro livelli: Livello 1 - adozione di principi quadro, proposti dalla Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo (codecisione); Livello 2 - adozione delle disposizioni di esecuzione preparate dalla Commissione con l'assistenza di due nuovi comitati, il Comitato europeo dei valori mobiliari ed il Comitato delle autorità europee di regolamentazione dei valori mobiliari; il Comitato europeo dei valori mobiliari ha la funzione di trattare le questioni legislative di natura tecnica secondo una procedura accelerata per garantire la rapida adozione delle disposizioni; Livello 3 - recepimento coerente delle legislazioni di livello 1 e di livello 2 nelle legislazioni nazionali sulla base di una cooperazione rafforzata tra autorità nazionali di regolamentazione dei mercati mobiliari; Livello 4 - rigore maggiore nel far rispettare le norme da parte della Commissione in collaborazione con i governi degli Stati membri, le autorità di regolamentazione nazionali e il settore privato. Il Parlamento europeo ha approvato questo approccio il 5 febbraio 2002.

5. L'euro come valuta internazionale

5.1 Introduzione

Una valuta internazionale svolge le funzioni classiche di una valuta su scala internazionale. Deve fungere da unità di conto, strumento di scambio e riserva di valore. Come risulta dalla tabella seguente, il modo in cui una valuta svolge queste funzioni differisce a seconda che si tratti del settore privato o del settore pubblico; tuttavia, a causa della sua importanza, il settore privato svolge un ruolo determinante nell'internazionalizzazione di una valuta.

>SPAZIO PER TABELLA>

Il dollaro resta ancora la valuta internazionale dominante, ma l'euro è diventato la seconda valuta del mondo dopo il suo lancio. Vi sono un certo numero di fattori che contribuiranno a promuovere il suo utilizzo a livello internazionale. Il primo è costituito dalle notevoli dimensioni dell'economia dell'area dell'euro. Essa rappresenta approssimativamente il 16% del PIL mondiale ed è pertanto leggermente inferiore a quella degli Stati Uniti (21%), ma superiore a quella del Giappone (8%). I dati riguardanti la quota di ciascuna di queste tre aree nel commercio mondiale di beni e di servizi sono simili. Il secondo fattore che contribuisce all'attrattiva dell'euro come valuta internazionale è la sua stabilità, che riflette i fondamentali economici sani dell'area dell'euro, supportati dal quadro di politica economica dell'UEM orientato verso la stabilità. Il terzo fattore è il processo di integrazione dei mercati finanziari nazionali in Europa in vasti mercati finanziari paneuropei, dotati di profondità e liquidità, che rafforzeranno il ruolo dell'euro a livello delle attività internazionali di mutuo e di prestito.

Nella storia del sistema monetario internazionale vi sono già stati periodi in cui vi erano due valute internazionali in concorrenza l'una con l'altra (si pensi, ad esempio, alla sterlina e al dollaro statunitense durante il periodo tra le due guerre). È tuttavia probabile che a causa di effetti di rete e di scala, il dollaro statunitense resterà la valuta dominante. In ogni caso l'internazionalizzazione dell'euro è un processo trainato dal settore privato.

5.2 L'utilizzo internazionale dell'euro da parte del settore privato

L'utilizzo internazionale, da parte di operatori privati, di una valuta come unità di conto si manifesta nella fatturazione delle operazioni commerciali e finanziarie e nelle quotazioni delle merci. Benché vi siano pochi dati sulla fatturazione, il dollaro resta indubbiamente la valuta dominante in questo settore. Nel 2000, prima dell'introduzione delle monete e delle banconote in euro, la percentuale dell'euro nella fatturazione delle transazioni internazionali era stimata al 15-17% del totale. Ora che sono state introdotte le monete e le banconote, il ruolo dell'euro come valuta di fatturazione dovrebbe gradualmente aumentare, soprattutto a livello regionale. Il ricorso crescente all'euro a fini di fatturazione sarà consolidato dalla tradizione in base alla quale le transazioni internazionali vengono fatturate nella valuta dell'esportatore e dall'importanza dell'area dell'euro nel commercio mondiale. Il dollaro resta la valuta dominante anche per le quotazioni di merci. In Europa vi sono contratti future su merci il cui prezzo è espresso in euro, ma il loro numero resta per il momento limitato.

L'utilizzo internazionale di una valuta come strumento di pagamento si traduce nel ricorso a questa valuta come valuta di pagamento e valuta veicolare sui mercati dei cambi. Per quanto riguarda il ruolo dell'euro come valuta di pagamento, l'indagine trimestrale svolta dalla Commissione presso le banche dell'area dell'euro segnala che la percentuale dei pagamenti internazionali effettuati in euro da residenti dell'area dell'euro è considerevolmente aumentata prima del lancio della moneta unica, passando dal 24% in termini di volume (36% in termini di valore) nel terzo trimestre del 2000 a quasi il 40% (48% in termini di valore) nel terzo trimestre del 2001. Con l'introduzione delle monete e delle banconote in euro e la conversione di tutti i conti restanti dell'area dell'euro, non vi è alcun dubbio che la percentuale dell'euro nei pagamenti internazionali continuerà a crescere.

L'utilizzo di una valuta come valuta veicolare (cioè come mezzo per scambiare altre due valute) sui mercati dei cambi è una funzione essenziale, che determina in gran parte l'attrattiva della valuta e la sua capacità di svolgere le altre funzioni di una valuta internazionale (ad esempio, quella di riserva). Tuttavia, si tratta anche di una funzione per la quale l'inerzia è molto forte, poiché l'impiego di una sola valuta veicolare genera economie di scala. A livello mondiale il dollaro statunitense resta la valuta veicolare dominante, poiché beneficia di mercati interbancari diretti con tutte le altre valute. In base alle informazioni disponibili, l'euro non svolge un ruolo molto importante come valuta veicolare sulla scena mondiale, sebbene abbia ereditato dal marco tedesco la funzione di valuta veicolare a livello regionale. Tuttavia l'introduzione dell'euro ha avuto un impatto sulla composizione monetaria dell'attività dei mercati dei cambi, poiché ha eliminato le transazioni all'interno dell'area dell'euro (cfr. riquadro seguente). Secondo l'indagine triennale sull'attività di cambio pubblicata dalla BRI nell'ottobre 2001, l'euro interveniva nel 38% delle operazioni di cambio nell'aprile 2001, ovvero in misura maggiore al marco tedesco nel 1998 (30%), ma in misura nettamente inferiore all'insieme delle vecchie valute, la cui quota combinata tale anno era pari al 53%.

L'utilizzo di una valuta come valuta di finanziamento o valuta di investimento da parte del settore privato riflette la funzione di questa valuta come riserva di valore internazionale. Un'analisi pubblicata dalla BCE nel settembre 2001 sull'impiego internazionale dell'euro indica che la moneta unica è ormai la seconda valuta di finanziamento più usata, poiché è impiegata in una percentuale compresa tra il 22% e il 34% delle transazioni a seconda dello strumento finanziario e del metodo di misura utilizzato. Se si applica la cosiddetta misura "ristretta", ovvero le emissioni da parte dei non residenti, le valute che hanno preceduto l'euro erano utilizzate in media nel 19% delle emissioni obbligazionarie e di effetti nel corso del periodo 1994-1998. Nel 1999, la percentuale dell'euro è salita in media al 34%, forse a causa della volontà degli emittenti principali di garantire la loro presenza nella nuova valuta. Tuttavia questo risultato si spiega anche con la riduzione storica dei tassi di interesse in euro, che ha reso i prestiti in euro più attraenti per le società straniere. Benché le emissioni di titoli denominati in euro da parte di non residenti siano rimaste dinamiche, la percentuale dell'euro è stata piuttosto volatile dopo il picco raggiunto nel 1999, mantenendosi tuttavia ad un livello elevato. Se si applica la misura "ampia", che include le emissioni effettuate dai residenti dell'area dell'euro destinate al mercato finanziario internazionale, l'euro occupa un posto più importante nelle emissioni internazionali di obbligazioni e di effetti (38% in media nel 2000) a causa della percentuale nettamente più bassa di emissioni internazionali di titoli di debito denominate in Yen. Le emissioni in euro sono anche considerevolmente aumentate sul mercato monetario internazionale, il che può essere spiegato dall'aumento effettivo e previsto di liquidità derivante dalla creazione di un mercato monetario integrato in euro.

L'euro è infine la seconda valuta di investimento più utilizzata su scala internazionale, anche se è meno facile ottenere informazioni sulle attività che non sulle passività. L'analisi della BCE rivela che l'euro è impiegato in una percentuale compresa tra il 22% e il 32% degli investimenti internazionali, a seconda delle attività considerate. Questa percentuale è più elevata per gli investimenti obbligazionari e più debole per le attività bancarie internazionali.

Riquadro: l'impatto dell'euro sui mercati dei cambi

Secondo le cifre della BRI, il fatturato quotidiano medio sui mercati dei cambi tradizionali (cioè, i mercati per le operazioni a pronti, le operazioni a termine e i riporti in cambi (swap)) è diminuito del 19% tra il 1998 ed il 2001. Questo ribasso è imputabile soprattutto all'introduzione dell'euro, che ha eliminato le transazioni tra le vecchie valute (gli altri fattori sono il consolidamento del settore bancario e del settore delle imprese e l'importanza crescente del brokering elettronico). Le transazioni tra le vecchie valute avevano già iniziato a diminuire ben prima dell'avvio della terza fase dell'UEM. Tra il 1995 ed il 1998, le operazioni tra le valute dello SME erano diminuite del 5% in termini di fatturato globale. L'introduzione dell'euro il 1° gennaio 1999 ha comportato una riduzione supplementare del 6% del fatturato totale.

Il ribasso del fatturato non è stato compensato da un aumento del numero di operazioni in euro rispetto alle vecchie valute (cfr. testo). La BRI segnala tuttavia che la coppia dollaro/euro era di gran lunga la più scambiata nel 2001, con una quota pari a circa il 30% del fatturato globale. L'introduzione dell'euro ha causato inizialmente un crollo dei volumi di mercato, sia sul mercato a pronti che sul mercato a termine. Sul mercato a termine, i volumi delle transazioni in euro sono diminuiti del 40% rispetto ai volumi delle transazioni riguardanti le vecchie valute. Da allora si constata tuttavia una certa ripresa. Di conseguenza, la riduzione globale dei volumi rispetto al periodo precedente il lancio dell'euro ammonta attualmente a circa il 25%.

5.3 L'utilizzo internazionale dell'euro da parte del settore pubblico

L'impiego internazionale di una valuta nel settore pubblico è forse più evidente nella funzione di unità di conto. L'euro è in gran parte utilizzato come valuta di ancoraggio o di riferimento nei regimi di cambio dei paesi terzi. Più di 50 paesi dispongono di un regime di cambio con un riferimento all'euro, talvolta in associazione con altre valute. I regimi adottati dai paesi terzi, situati principalmente in Europa ed in Africa, variano dai currency board ai regimi di cambi fluttuanti. I principali fattori che motivano la scelta dell'euro come valuta di ancoraggio o di riferimento da parte di paesi terzi sono gli ampi legami commerciali, finanziari e di assistenza che collegano questi paesi all'economia dell'area dell'euro e, per alcuni di loro, il processo di adesione all'UE (cfr. infra).

Una valuta internazionale può servire da strumento di pagamento per il settore pubblico, ad esempio, a fini di intervento ufficiale sui mercati dei cambi. L'utilizzo del dollaro come valuta di intervento a livello mondiale è prevalente, ma non esclusivo. La capacità del dollaro di servire da valuta di intervento riflette la sua liquidità sui mercati dei cambi. Tuttavia l'euro è utilizzato come valuta di intervento da diversi paesi terzi a livello regionale; questo impiego è strettamente collegato al suo ruolo di valuta di ancoraggio. La maggior parte degli interventi denominati in euro si effettua ovviamente nel quadro del nuovo meccanismo di cambio (ERM II), dove gli Stati membri dell'UE che sono oggetto di una deroga (attualmente soltanto la Danimarca, fino alla fine 2000 anche la Grecia) collegano le loro valute all'euro.

Infine l'utilizzo di una valuta internazionale come riserva di valore da parte del settore pubblico si manifesta nella composizione delle riserve valutarie. I dati dell'ultima relazione annuale dell'FMI dimostrano che il dollaro statunitense, che a fine 2000 rappresentava il 68% delle riserve valutarie, resta la valuta di riserva dominante. L'euro occupa il secondo posto con il 13%. La percentuale dell'euro è rimasta praticamente invariata dal 1999. Se si correggono i dati in modo da tenere conto soltanto delle vecchie valute detenute al di fuori dell'area dell'euro, la relazione annuale dell'FMI segnala che la percentuale accumulata di queste valute nelle riserve internazionali totali nel 1998 era praticamente identica alla percentuale dell'euro nel 1999 e nel 2000.

5.4 I paesi candidati all'adesione e l'adozione dell'euro

Il trattato CE definisce una via istituzionale chiara ed unica per l'adozione dell'euro da parte dei paesi candidati. Al momento dell'adesione, i nuovi Stati membri parteciperanno all'UEM con lo status di Stati membri aventi una deroga per quanto riguarda l'adozione della moneta unica. Questo status sarà sancito nei trattati di adesione. I nuovi Stati membri dovranno considerare le loro politiche di cambio come una questione di interesse comune e dovranno aderire all'ERM II dopo l'adesione. In seguito, per l'adozione dell'euro, il trattato prescrive che i nuovi Stati membri raggiungano un grado elevato di convergenza sostenibile. Il principio della parità di trattamento sarà pienamente applicato ai paesi candidati. Questa via esclude la possibilità di adottare l'euro sia immediatamente dopo l'adesione, sia prima dell'adesione ("eurizzazione").

Quali sono le implicazioni per le politiche economiche dei paesi candidati? Il messaggio fondamentale è il seguente: anche nei paesi più avanzati sulla via della transizione, il programma di riforme legato all'adesione deve avere la priorità sulle misure politiche motivate dalla partecipazione futura all'UEM. Il rispetto dei criteri di Copenaghen ha precedenza rispetto all'osservanza dei criteri di convergenza nominale e pertanto alla partecipazione all'UEM, almeno per due ragioni: la prima è che i paesi candidati devono progredire in termini di convergenza reale e strutturale prima di operare per aderire ai criteri di convergenza nominale, anche se i due processi possono essere complementari. La seconda ragione è che solo i paesi che possiedono un'economia di mercato funzionante, in grado di fare fronte alle pressioni concorrenziali, possono essere oggetto di valutazione alla luce dei criteri di convergenza nominale. In altri termini, i criteri di convergenza devono essere applicati ad "economie comparabili".

Dopo l'adesione l'ERM II, che è abbastanza flessibile, potrà integrare vari regimi, a condizione che gli impegni e gli obiettivi dei paesi siano plausibili e conformi a quelli del meccanismo di cambio. Le sole incompatibilità chiare riguardo all'ERM II che possono essere identificate in questa fase sono i tassi di cambio completamente fluttuanti, le parità slittanti e l'adozione di valute di ancoraggio diverse dall'euro. Per i paesi che desiderano un maggior grado di stabilità rispetto all'euro, nell'ambito dell'ERM II sarà possibile mantenere, previa una valutazione caso per caso, un regime di currency board fondato sull'euro fino all'adozione della moneta unica. Tuttavia le domande di adesione all'ERM II dei paesi che possiedono un regime di currency board dovranno essere esaminate alla luce della procedura comune definita nella risoluzione relativa all'ERM II e la parità centrale/il tasso di conversione dovrà essere convenuto a livello multilaterale. Ciò implica che alcuni paesi che potrebbero gestire in modo soddisfacente un regime di currency board con l'euro non debbano necessariamente passare attraverso un "doppio cambiamento di regime" (adottare una maggiore flessibilità prima di ritornare ad una parità più rigorosa e quindi fissare irrevocabilmente il tasso di cambio).

Generalmente i paesi candidati dovranno trovare un compromesso tra le loro ambizioni per quanto riguarda la stabilità del tasso di cambio e la riduzione dell'inflazione nella prospettiva dell'adesione e la partecipazione all'ERM II.

5.5 Il contributo dell'area dell'euro al coordinamento mondiale delle politiche

La politica monetaria e di cambio unica, accompagnata da un maggior coordinamento delle politiche sul piano di bilancio e strutturale, ha conseguenze significative sulle relazioni economiche tra l'area dell'euro ed il resto del mondo. Le politiche monetarie e valutarie sono ormai di competenza esclusiva della Comunità, i mercati finanziari in Europa sono sempre più integrati e l'orientamento globale delle politiche economiche dell'area dell'euro è ciò che conta per il resto del mondo quando ci si occupa dei problemi economici e di bilancio internazionali.

Le istituzioni internazionali incaricate della sorveglianza multilaterale, come l'FMI e l'OCSE, hanno iniziato a riconoscere le conseguenze dei cambiamenti in corso valutando in modo regolare l'orientamento macroeconomico generale dell'area dell'euro. Questa evoluzione si riflette anche nelle dichiarazioni dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G7 che non parlano più dell'evoluzione e delle prospettive macroeconomiche di Stati membri specifici dell'area dell'euro, bensì della situazione globale di quest'area.

Coordinamento interno sulle posizioni esterne

Il trattato CE definisce procedure - seppure in forma molto condensata - che permettono alla Comunità di trattare gli aspetti internazionali (istituzionali) dell'UEM. La maggior parte di esse sono contenute nell'articolo 111 (ex articolo 109). Benché questo articolo sia un articolo di procedura e costituisca chiaramente un compromesso tra vari punti di vista, esso indica chiaramente che la politica dei tassi di cambio (cioè gli accordi formali su un sistema di tassi di cambio e gli orientamenti generali di politica del cambio) è materia del Consiglio (solo i paesi "in" sono autorizzati a votare). L'articolo precisa anche la procedura da seguire da parte della Comunità per decidere la sua posizione nelle discussioni internazionali riguardanti le "questioni di particolare importanza per l'Unione economica e monetaria". A norma dello stesso articolo, è il Consiglio che decide, all'unanimità e su proposta della Commissione, in merito alla rappresentanza della Comunità sul piano internazionale, in conformità della ripartizione dei poteri prevista dagli articoli 99 e 105. Ci si aspettava pertanto che con il lancio della terza fase dell'UEM l'Europa svolgesse un ruolo commisurato al suo peso economico nel sistema finanziario e monetario internazionale.

Dal 1999 sono state elaborate disposizioni pratiche per il coordinamento interno delle posizioni esterne. In particolare, l'Eurogruppo/l'Ecofin si è preoccupato di definire posizioni ed accordi comuni. Le posizioni comuni riguardano un'ampia gamma di temi, fra cui l'architettura finanziaria internazionale, il finanziamento dello sviluppo e la situazione economica nel mondo o in vari paesi chiave. Esse costituiscono la base degli interventi dei direttori esecutivi europei in seno al consiglio di amministrazione dell'FMI e guidano la Presidenza, come pure altri rappresentanti europei, in occasione di riunioni internazionali come le riunioni del Comitato monetario e finanziario internazionale (CMFI), le riunioni del G7 o le consultazioni tra l'OCSE/EDRC e l'area dell'euro.

In conclusione, sono stati compiuti dei progressi sostanziali, ma vi sono ancora diverse sfide da raccogliere, ad esempio assicurarsi che l'accordo concluso tra europei sui principi sia attuato in pratica. Ciò significherebbe, ad esempio, che le posizioni comuni europee sulla necessità di una partecipazione del settore privato siano applicate a casi specifici di risoluzione di crisi. Inoltre, le posizioni comuni devono evolversi ed essere adattate sulla base degli insegnamenti tratti da nuove esperienze e/o del dialogo con i nostri partner internazionali. È anche possibile aumentare il numero di questioni potenzialmente oggetto di una posizione comune per permettere all'Europa di svolgere un ruolo più attivo e più coerente nel sistema monetario e finanziario internazionale. Infine, le posizioni comuni europee adottate devono essere comunicate in modo costruttivo agli interlocutori interessati.

Rappresentanza esterna dell'area dell'euro

Queste sfide sono strettamente collegate alla questione della rappresentanza esterna. Diversi Consigli europei (in particolare quelli di Lussemburgo e di Vienna) si sono dedicati alla questione della cooperazione economica internazionale e della rappresentanza esterna, ma il Consiglio non ha ancora preso nessuna decisione per fornire una base giuridica al quadro che ne è risultato. Inoltre, le conclusioni del Consiglio europeo trattano soltanto della rappresentanza della Comunità in alcuni consessi internazionali. Per quanto riguarda l'FMI, le conclusioni del Consiglio di Vienna stabiliscono che: "alla BCE, quale organo della Comunità responsabile della politica monetaria, dovrebbe essere accordato lo status di osservatore nel consiglio di amministrazione dell'FMI. Il punto di vista della Comunità europea/UEM su altri temi di particolare importanza per l'UEM saranno illustrati al consiglio di amministrazione dell'FMI dal corrispondente membro del Direttore esecutivo dello Stato membro che esercita la presidenza dell'Euro 11, assistito da un rappresentante della Commissione ".

Per quanto riguarda il G7, le conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Vienna precisano che: "il Consiglio europeo appoggia la relazione del Consiglio sulla rappresentanza esterna della Comunità, la quale prevede che il presidente del Consiglio ECOFIN, ovvero il presidente dell'Euro 11 qualora il Presidente appartenga ad uno Stato membro non aderente all'area dell'euro, assistito dalla Commissione, partecipi alle riunioni del G7 (Finanze)." All'allegato II si afferma che "il presidente della BCE assiste alle riunioni [del G7] per le discussioni connesse con l'UEM, come la sorveglianza multilaterale o i punti inerenti ai tassi di cambio, e per l'approvazione delle parti pertinenti della dichiarazione pubblica".

De facto, le conclusioni del Consiglio europeo sono state attuate soltanto parzialmente. Attualmente, il presidente dell'Eurogruppo ed il presidente della BCE possono soltanto assistere alle riunioni dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G7 riguardanti la sorveglianza multilaterale e i tassi di cambio. Neppure la partecipazione della Commissione è pienamente conforme alle disposizioni richiamate.

I cambiamenti istituzionali nell'ambito dell'FMI sono stati limitati. La BCE ha ottenuto lo status di osservatore al consiglio di amministrazione dell'FMI e può partecipare alle riunioni riguardanti le questioni che presentano un interesse particolare per l'area dell'euro.

Molti fattori ostacolano gli sforzi che mirano a garantire una rappresentanza europea adeguata e la possibilità per l'Europa di parlare con una sola voce. Tra di essi spiccano in particolare la presenza, nell'ambito dei gruppi dell'FMI, di Stati membri UE a fianco di paesi non aderenti all'UE e l'integrazione di alcuni Stati membri dell'UE in gruppi diretti da un paese terzo all'UE. Inoltre, l'appartenenza all'FMI si basa sul concetto di "paese".

In conclusione, il progetto di UEM è ancora in gestazione per quanto riguarda la sua dimensione esterna. Su alcune questioni internazionali importanti, l'UEM ha dato impulso ad un processo decisionale europeo comune. La Comunità può così iniziare a svolgere un ruolo internazionale commisurato al suo peso economico e finanziario. Questa evoluzione deve essere completata da nuovi progressi sul piano della rappresentanza. Le disposizioni ad hoc che sono state adottate all'inizio della terza fase dell'UEM sono risultate utili, ma rispondono soltanto parzialmente alle attese di una presenza europea unificata e forte sulla scena internazionale. A causa della natura informale di queste disposizioni, della loro mancanza di continuità nonché dei limiti inerenti al coordinamento informale, la Comunità non è in grado di influire pienamente sulle discussioni internazionali.

Una rappresentanza adeguata dell'area dell'euro nell'ambito delle organizzazioni internazionali permetterebbe di migliorare sensibilmente la cooperazione multilaterale in un mondo finanziario che sembra evolvere verso un sistema a tre valute. La difficoltà di garantire una rappresentanza ed una partecipazione adeguate dell'area dell'euro nel processo decisionale internazionale costituisce pertanto una questione importante anche per i non europei, come risulta dalle pressioni esercitate da altre economie di mercato industrializzate ed emergenti affinché la rappresentanza dell'UE venga razionalizzata. Affrontare questa questione è una sfida fondamentale per i responsabili politici dell'UE, i quali debbono garantire che l'UE persegua in modo efficace i propri interessi sulla scena internazionale.