CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
L.A. GEELHOED
presentate l'11 dicembre 2003(1)



Causa C-239/02



Douwe Egberts NV
contro
Westrom Pharma NV
contro
Christophe Souranis, che opera con la denominazione
«Etablissement FICS»
contro
FICS-World BVBA


(domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Rechtbank van Koophandel di Hasselt)

«Prodotti alimentari – Etichettatura e presentazione – Uso di riferimenti alla salute, ad effetti dimagranti, a raccomandazioni, certificati o pareri medici»






I – Introduzione

1.        La causa in esame verte sull’interpretazione delle norme comunitarie in materia di etichettatura e di pubblicità per i prodotti alimentari, segnatamente per il caffè. In primo luogo ci si domanda se la normativa comunitaria applicabile alla prescrizione obbligatoria di denominazioni di vendita per alcuni prodotti a base di caffè escluda che, oltre a siffatte denominazioni, possano essere utilizzate anche denominazioni di fantasia. È inoltre in esame la questione se una normativa nazionale che vieti riferimenti all’effetto dimagrante e riferimenti a raccomandazioni mediche nell’etichettatura e nella pubblicità di generi alimentari possa essere considerata compatibile con il diritto comunitario primario e derivato.

II – Ambito normativo

A – Diritto comunitario

2.        L’art. 28 CE vieta le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

3.        La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 febbraio 1999, 1999/4/CE, relativa agli estratti di caffè e agli estratti di cicoria  (2) (in prosieguo: la «direttiva 1999/4» o la «direttiva sul caffè») stabilisce norme in materia di etichettatura e di denominazione di vendita di questi prodotti.

4.        L’art. 2 della direttiva 1999/4 stabilisce quanto segue:

«La direttiva 79/112/CEE si applica ai prodotti definiti nell’allegato, alle seguenti condizioni:

a)
Le denominazioni previste nell’allegato sono riservate ai (traduzione letterale dal testo in olandese: possono essere utilizzate esclusivamente per i) prodotti in esso indicati e devono essere utilizzate nel commercio per designarli. Se del caso, le denominazioni di vendita sono completate dai termini:

“in pasta” o “in forma pastosa” o

“liquido” o “in forma liquida”.

(...)».

5.        Ai sensi dell’art. 3 di questa direttiva gli Stati membri, per i prodotti definiti nell’allegato, non adottano disposizioni nazionali da essa non previste.

6.        Nell’allegato alla direttiva 1999/4, l’estratto di caffè, l’estratto di caffè solubile, il caffè solubile o il caffè istantaneo sono descritti come :

«(...) il prodotto concentrato, ottenuto mediante estrazione dai grani di caffè torrefatti, utilizzando l’acqua come unico agente di estrazione, ad esclusione di qualsiasi procedimento di idrolisi con aggiunta di acido o di base. Oltre alle sostanze insolubili, tecnicamente ineliminabili e gli olii non solubili provenienti dal caffè, esso deve contenere esclusivamente i principi solubili e aromatici del caffè.

(...)

L’estratto di caffè solido o in pasta non deve contenere altre sostanze se non quelle ottenute dall’estrazione del caffè. (...)».

7.        La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 marzo 2000, 2000/13/CE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità  (3) (in prosieguo: la «direttiva 2000/13» o la «direttiva sull’etichettatura») è la versione codificata dell’omonima direttiva, ripetutamente modificata, 79/112/CEE, a cui fa riferimento l’art. 2 della direttiva 1999/4.

8.        L’art. 2, n. 1, della direttiva 2000/13 stabilisce le seguenti regole in materia di etichettatura di generi alimentari:

«1.
L’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono:

a)
essere tali da indurre in errore l’acquirente, specialmente:

i)
per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare la natura, l’identità, le qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza, il modo di fabbricazione o di ottenimento,

ii)
attribuendo al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede,

iii)
suggerendogli che il prodotto alimentare possiede caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche;

b)
fatte salve le disposizioni comunitarie applicabili alle acque minerali naturali e ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare, attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà».

9.        L’art. 3, n.1, primo paragrafo, della direttiva 2000/13, dispone inoltre quanto segue:

«1.     Alle condizioni e con le deroghe previste dagli articoli da 4 a 17, l’etichettatura dei prodotti alimentari comporta soltanto le seguenti indicazioni obbligatorie:

1)
la denominazione di vendita;

(...)».

10.      L’art. 5, n. 1, primo paragrafo, e n. 2, della direttiva 2000/13, così recitano:

«1.     La denominazione di vendita di un prodotto alimentare è la denominazione prevista per tale prodotto dalle disposizioni comunitarie ad esso applicabili.

(...)

2.       La denominazione di vendita non può essere sostituita da un marchio di fabbrica o di commercio o da una denominazione di fantasia.

(...)».

11.      L’art. 18 della direttiva 2000/13 stabilisce quanto segue con riguardo alle disposizioni nazionali non armonizzate dalla direttiva relative all’etichettatura e alla presentazione dei prodotti alimentari:

«1.     Gli stati membri non possono vietare il commercio dei prodotti alimentari conformi alle norme previste dalla presente direttiva, applicando disposizioni nazionali non armonizzate relative all’etichettatura e alla presentazione di determinati prodotti alimentari o dei prodotti alimentari in genere.

2.       Il paragrafo 1 non è applicabile alle disposizioni nazionali non armonizzate giustificate da motivi;

         di tutela della salute pubblica,

di repressione delle frodi, sempreché queste disposizioni non siano tali da ostacolare l’applicazione delle definizioni e delle norme previste dalla presente direttiva,

di tutela della proprietà industriale e commerciale, di indicazioni di provenienza, di denominazioni d’origine e di repressione della concorrenza sleale».

B – Diritto nazionale

12.      Le pertinenti disposizioni del diritto belga relative alla denominazione di vendita del caffè sono contenute nel Koninklijk Besluit (regio decreto) 5 marzo 1987 relativo al caffè e ai suoi estratti e surrogati (in prosieguo: il «decreto sul caffè»)

13.      All’art. 1 del decreto sul caffè il prodotto «caffè» viene definito come segue:

«(...) il seme del chicco di caffè adeguatamente pulito e tostato (tipi della specie Coffea)».

14.      L’art. 3, n. 1, del decreto sul caffè stabilisce quanto segue:

«Nell’immissione in commercio i prodotti alimentari di cui all’art. 1 possono e devono essere indicati soltanto con una delle denominazioni coincidenti con la definizione data dall’articolo stesso».

15.      L’art. 2 del Koninklijk Besluit 17 aprile 1980, relativo alla pubblicità per i prodotti alimentari, così recita:

«Nella pubblicità per i prodotti alimentari è vietato avvalersi di

(...)

3° riferimenti all’effetto dimagrante;

(...)

7° riferimenti a raccomandazioni mediche, certificati, citazioni, pareri o dichiarazioni di approvazione, esclusa la menzione che un prodotto alimentare non deve essere utilizzato contro parere medico; (...)».

III – Fatti e procedimento

16.      La Douwe Egberts NV (in prosieguo: la «Douwe Egberts») produce e commercia caffè sul mercato belga, con il nome «Douwe Egberts». Essa si oppone in giudizio alla commercializzazione di un prodotto immesso sul mercato con il nome «DynaSvelte Koffie», fabbricato dalla Westrom Pharma NV (in prosieguo: la «Westrom Pharma») e distribuito sino al 31 dicembre 2001 da Cristophe Souranis, operante con la denominazione commerciale «Établissements FICS». Nella distribuzione è successivamente subentrata la FICS-World BVBA (in prosieguo: la «FICS-World»).

17.      Il «DynaSvelte Koffie», composto da caffè solubile, fruttosio e cromo, viene esplicitamente presentato sul mercato come un prodotto che favorisce la perdita di peso. Sul boccale, sulla confezione e sulle avvertenze d’uso figurano tra l’altro le seguenti menzioni:

«l’assoluta svolta nel controllo del peso»

«dimagrimento, migliore controllo del peso, riduzione di accumulo di grasso», e

«la formula brevettata negli USA dalla dott. Ann de Wees Allen, collegata al Glycemie Research Institute».

18.      La Douwe Egberts, in un procedimento d’urgenza avviato dinanzi al Rechtbank van Koophandel (Tribunale commerciale) di Hasselt, sostiene che siffatte menzioni violano diverse norme legislative nazionali in materia di etichettatura e di presentazione di questo tipo di prodotti. Di conseguenza, la Westrom Pharma e la FICS-World avrebbero agito in contrasto con le disposizioni nazionali in materia di lealtà nel commercio. La Douwe Egberts chiede tra l’altro la cessazione dell’uso delle indicazioni contestate e il ritiro dei prodotti su cui esse figurano.

19.      Ritenendo che la soluzione della controversia dipenda dalla soluzione di alcune questioni vertenti sull’interpretazione e sulla validità della direttiva 1999/4 e sull’interpretazione della direttiva 2000/13, nonché dell’art. 28 CE, il giudice nazionale ha deciso di sospendere la trattazione della causa e di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«A.1
Se l’art. 2 della direttiva 1999/4/CE concernente estratti di caffè ed estratti di cicoria debba essere interpretato nel senso che per i prodotti menzionati nell’allegato della direttiva possono essere utilizzate soltanto le denominazioni commerciali menzionate nell’allegato stesso, senza che oltre a tali denominazioni possano esserne utilizzate anche altre (come un’espressione di fantasia o commerciale), oppure se l’art. 2 debba essere interpretato nel senso che le denominazioni commerciali menzionate nello stesso allegato possono essere utilizzate soltanto per i prodotti menzionati nell’allegato della direttiva, ma che oltre a dette denominazioni per gli stessi prodotti possono esserne utilizzate anche altre (come un’espressione di fantasia o commerciale).

A.2
Qualora la Corte di giustizia delle Comunità europee consideri che l’art. 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 febbraio 1999, 1999/4/CE, concernente estratti di caffè ed estratti di cicoria, deve essere interpretato nel senso che per i prodotti menzionati nell’allegato di detta direttiva possono essere utilizzate soltanto le denominazioni commerciali menzionate nell’allegato stesso, senza che oltre a tali denominazioni possano esserne utilizzate anche altre (come un’espressione di fantasia o commerciale), se da ciò consegua che detta direttiva è in contrasto con l’art. 28 del Trattato CE, che stabilisce un divieto di restrizioni quantitative all’importazione e di misure di effetto equivalente fra gli Stati membri della Comunità europea, per il motivo che tale direttiva, in applicazione della suddetta interpretazione, per i prodotti che rispondono alla definizione degli estratti di caffè contenuta nel suo allegato:

esclude l’uso di denominazioni diverse da «estratto di caffè» o da «caffè istantaneo», come la denominazione «caffè»,

conseguentemente riserva l’uso della denominazione «caffè» ad un unica forma di «caffè», vale a dire al caffè in grani;

e pertanto protegge artificialmente il mercato del caffè dai prodotti concorrenti, composti da tipi di caffè diversi dal caffè in grani, come fra l’altro gli estratti di caffè e il caffè istantaneo.

B.1.
Se l’art. 18, nn. 1 e 2, della direttiva 2000/13/CE debba essere interpretato nel senso che disposizioni nazionali non armonizzate in materia di etichettatura e di presentazione di prodotti alimentari, nonché in materia di pubblicità effettuata al riguardo, vietanti determinate indicazioni come i «riferimenti al dimagrimento» e i «riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni, pareri medici o a dichiarazioni di approvazione» nell’etichettatura e/o nella presentazione di prodotti alimentari e/o nella relativa pubblicità, laddove tali indicazioni non sono vietate dalla direttiva, costituiscano violazioni della direttiva stessa, tenendo conto del fatto che nel suo ottavo ‘considerando’ si afferma che l’etichettatura più adeguata è quella che meno ostacola gli scambi commerciali, e che pertanto siffatte disposizioni debbano essere disapplicate.

B.2
Se l’art. 18, n. 2, della direttiva 2000/13/CE debba essere interpretato nel senso che devono considerarsi volte alla «tutela della salute delle persone» le disposizioni nazionali non armonizzate in materia di etichettatura e di presentazione di prodotti alimentari, nonché in materia di pubblicità effettuata al riguardo, che vietano determinate indicazioni, come i «riferimenti al dimagrimento», e i «riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni, pareri medici o a dichiarazioni di approvazione».

C.
Se l’art. 28 del Trattato CE debba essere interpretato nel senso che disposizioni nazionali in materia di etichettatura e di presentazione di prodotti alimentari, nonché in materia di pubblicità effettuata al riguardo, non armonizzate a livello comunitario e che si discostano dalla direttiva 2000/13/CE, nei limiti in cui vietano determinate indicazioni nell’etichettatura e/o nella presentazione dei prodotti alimentari e/o nella pubblicità quali i «riferimenti al dimagrimento» e i «riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni, pareri medici o a dichiarazioni di approvazione», debbano essere considerate come misure di effetto equivalente e/o come restrizioni quantitative all’importazione fra gli Stati membri della Comunità europea, in quanto dette disposizioni nazionali:

da un lato, stabiliscono un onere supplementare all’importazione di prodotti alimentari per rendere detti prodotti conformi alla normativa nazionale e conseguentemente ostacolano gli scambi commerciali fra gli Stati membri e

dall’altro, non si applicano a tutti gli operatori commerciali interessati che svolgono la loro attività sul territorio nazionale, nel senso che vi sono prodotti del tutto analoghi (come i prodotti cosmetici), cui non si applicano né tali disposizioni, né altre disposizioni analoghe, e se, di conseguenza, le stesse disposizioni debbano essere disattese dal giudice nazionale».

20.      Osservazioni scritte sono state depositate dalle parti del procedimento principale, dal governo del Belgio, dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea. Queste parti e gli intervenienti hanno illustrato le loro tesi nell’udienza del 6 novembre 2003.

IV – Prima questione (questione A.1)

21.      La prima questione proposta dal presidente del Rechtbank van Koophandel di Hasselt verte sull’interpretazione dell’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4, relativa alle denominazioni di vendita che devono essere obbligatoriamente utilizzate per gli estratti di caffè e gli estratti di cicoria.

22.      Come hanno osservato diversi intervenienti, questa questione si fonda sul presupposto che il prodotto in esame, il «DynaSvelte Koffie», rientri effettivamente nella sfera di applicazione ratione materiae della direttiva 1999/4. Su questo punto l’ordinanza di rinvio del giudice nazionale non contiene dichiarazioni esplicite. Non si può pertanto stabilire se il giudice nazionale abbia accertato nel merito che il «DynaSvelte Koffie» deve essere considerato come un estratto di caffè o di cicoria, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 1999/4.

23.      In particolare la Commissione, nelle sue osservazioni scritte, ha fatto presente che questo prodotto può essere considerato come un alimento destinato ad un’alimentazione particolare, indicando pertanto che non può escludersi che al caso di specie vadano applicate le disposizioni comunitarie in materia di alimentazione particolare  (4) , segnatamente quelle in materia di prodotti dimagranti  (5) .

24.      Anche il governo del Belgio, il Consiglio e, più implicitamente, il Parlamento europeo hanno sottolineato il fatto che, grazie alla sua composizione mista, il «DynaSvelte Koffie» (manifestamente) non risponde alla descrizione di «estratto di caffè» e pertanto esula (probabilmente) dall’ambito di applicazione della direttiva sul caffè. Questa constatazione implica che per questo prodotto non potrebbe usarsi nessuna delle denominazioni riservate di cui alla direttiva 1999/4.

25.      Con riguardo a questo punto occorre osservare che, nell’ambito della collaborazione tra il giudice nazionale e la Corte, spetta al primo qualificare i fatti posti a fondamento della causa che ha dato origine al procedimento ed indicare così le disposizioni giuridiche applicabili, come anche valutare la rilevanza delle questioni da esso sottoposte alla Corte. Come emerge da una giurisprudenza costante, la Corte in linea di principio deve sempre risolvere le questioni pregiudiziali proposte da un organo giurisdizionale nazionale. Essa può rifiutarsi di risolvere una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale solo qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario chiesta da tale giudice non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, qualora il problema sia di natura ipotetica o quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte  (6) .

26.      Nel caso di specie non c’è motivo per dichiarare irricevibile la prima questione. Dal fatto che il giudice del rinvio abbia proposto una questione sulla direttiva 1999/4, nonostante i dubbi sollevati dagli intervenienti sul carattere del prodotto «DynaSvelte Koffie», deve desumersi che esso ritenga che il prodotto stesso rientri effettivamente nell’ambito di applicazione di questa direttiva. In questo caso occorre fondarsi su una presunzione di pertinenza della questione sottoposta in via pregiudiziale  (7) . La prima questione sollevata dal giudice del rinvio deve essere risolta, come ha indicato anche la Commissione, partendo dalla premessa che il «DynaSvelte Koffie» va considerato come un prodotto alimentare generico e non come un alimento particolare, con la conseguenza che rientra nel campo di applicazione ratione materiae della direttiva 1999/4.

27.      Con la prima questione pregiudiziale il giudice a quo in sostanza vuole sapere in che senso vada interpretato il termine «soltanto» all’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 (nella versione olandese della stessa). Significa questo termine che le denominazioni di vendita menzionate nell’allegato possono essere utilizzate solo per i prodotti ivi descritti, in altri termini che l’uso di quelle denominazioni di vendita è riservato ai prodotti con le caratteristiche indicate all’allegato della direttiva? Oppure significa che questi prodotti possono essere indicati solo mediante quelle denominazioni di vendita? Se è esatta la prima interpretazione, ciò implica che oltre alle denominazioni di vendita obbligatorie possono essere utilizzate anche altre indicazioni, come nomi commerciali e di fantasia. Se invece è corretta la seconda interpretazione, sarebbe escluso l’uso di siffatte indicazioni accessorie.

28.      La maggioranza delle parti  (8) che hanno presentato osservazioni scritte ritiene che questa questione vada risolta secondo la prima interpretazione. Esse sono concordi nell’opinione secondo cui l’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 implica che solo i prodotti con le caratteristiche elencate nell’allegato alla direttiva possono essere immessi in commercio con la denominazione di vendita riservata, mentre ciò non esclude che possano essere apposte anche altre denominazioni, come nomi di fantasia e commerciali. La Douwe Egberts ricollega a questa tesi la condizione che le altre denominazioni utilizzate non devono essere considerate dal pubblico rilevante come denominazioni di vendita e pertanto non devono essere ingannevoli. La Commissione modella la sua risposta secondo il contenuto dell’obbligo di trasposizione posto in capo agli Stati membri: l’art. 2 della direttiva 1999/4 non obbliga gli Stati membri a vietare che nella commercializzazione di un prodotto rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva siano utilizzate indicazioni ulteriori, oltre alla relativa denominazione di vendita obbligatoria.

29.      Siffatta interpretazione sembra corretta anche a me, per il motivo che spiegherò in prosieguo. Di fronte a tanta concordanza in merito a questa questione di interpretazione, soprattutto tra le parti della causa che ha dato origine al procedimento, mi preme tuttavia osservare che ciò che divide dette parti è la questione se la denominazione «DynaSvelte Koffie» vada considerata come una denominazione di vendita, con la conseguenza che in essa può essere usato il termine «koffie» (caffè). Come ho osservato in precedenza, la valutazione di questa questione di merito spetta al giudice nazionale.

30.      Che l’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 debba essere interpretato nel senso che non esclude che, oltre alla denominazione di vendita obbligatoriamente prescritta dalla direttiva, possano essere utilizzate anche altre indicazioni può dedursi dalla formulazione di questa disposizione, dalla sua collocazione nel sistema delle norme comunitarie in materia di etichettatura dei prodotti alimentari e dalla funzione di queste norme ai fini dell’etichettatura dei medesimi.

31.      Già nell’esame della posizione del termine «soltanto» [nel testo olandese] nel contesto dell’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 è evidente che questa disposizione riguarda l’uso esclusivo delle relative denominazioni di vendita per i prodotti descritti nell’allegato. Se si fosse voluto escludere per questi prodotti l’uso di denominazioni diverse dalle prescritte denominazioni di vendita, la frase sarebbe stata costruita diversamente, stabilendo un nesso più diretto tra i termini «soltanto» e «denominazioni di vendita». In tal caso la disposizione avrebbe ad esempio dovuto essere formulata come segue: «Soltanto le denominazioni di vendita previste nell’allegato possono essere utilizzate per i prodotti in esso indicati (...)». Questa differenza nella sintassi rende a mio avviso del tutto evidente che l’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 può essere interpretato solo nel modo sopra indicato.

32.      Ciò trova conferma anche nell’esame delle altre versioni linguistiche della disposizione, la maggior parte delle quali, seguendo una sintassi diversa da quella olandese, indica che le denominazioni di vendita in esame sono «riservate» ai prodotti descritti nell’allegato. In via illustrativa rinvio alle versioni francese (citata dalla FICS) e tedesca, che stabiliscono, rispettivamente, che «les dénominations prévues à l´annexe sont réservées aux produits qui y figurent» e che «(d)ie im Anhang vorgesehenen Verkehrsbezeichnungen (...) den dort aufgeführten Erzeugnissen vorbehalten (sind)». Ancora meno equivoca è la versione inglese: «the product names listed in the Annex shall apply only to the products referred to therein». Da queste versioni linguistiche risulta incontestabilmente che non si è inteso stabilire che i prodotti descritti nell’allegato possano essere immessi in commercio soltanto con le denominazioni di vendita parimenti figuranti nell’allegato.

33.      Lo stesso risultato si impone anche se si esamina l’art. 2, lett. a), della direttiva 1999/4 nella cornice normativa delle norme in materia di etichettatura dei prodotti alimentari. La direttiva 1999/4 è una direttiva speciale rispetto alla direttiva sull’etichettatura 2000/13, in quanto conferma che la direttiva sull’etichettatura si applica agli estratti di caffè e di cicoria e elabora quindi alcune disposizioni più in dettaglio per questo prodotti. Come lex specialis la direttiva sul caffè deve essere interpretata alla luce della direttiva sull’etichettatura.

34.      L’obbligo di menzionare la denominazione di vendita nell’etichettatura di un prodotto alimentare è imposto dall’art. 3, n. 1, della direttiva 2000/13, in forza del quale nell’etichettatura devono essere obbligatoriamente apposti taluni dati, tra cui la denominazione di vendita. Nonostante la formulazione non chiarissima di questa disposizione nella lingua olandese [«devono (...) essere indicati soltanto i dati seguenti»], da altre versioni linguistiche [«the following particulars alone shall be compulsory»; «comporte (...) les seules mentions obligatoires suivantes»; «enthält (...) nur folgende zwingende Angaben»] risulta che essa mira ad indicare quali indicazioni devono essere rese obbligatorie dagli Stati membri, senza tuttavia escludere l’apposizione di indicazioni ulteriori nell’architettura. Anche la Commissione ed il Parlamento europeo hanno osservato che l’art. 3 della direttiva 2000/13 deve essere inteso in questo senso. L’applicazione di siffatta interpretazione alla direttiva 1999/4 comporta che neppure l’art. 2, lett. a), di questa direttiva va interpretato nel senso che mira ad escludere per gli estratti di caffè e di cicoria l’apposizione di denominazioni ulteriori, in aggiunta alla denominazione di vendita prescritta.

35.      Un’ulteriore conferma di questa interpretazione delle disposizioni generali e speciali con riguardo alle denominazioni di vendita da utilizzare si può trovare nell’art. 5, n. 2, della direttiva 2000/13, in forza di cui un marchio di fabbrica o commerciale o una denominazione di fantasia non possono sostituire la denominazione di vendita. L’implicazione di questa disposizione è ovviamente che siffatte denominazioni sono ammesse in aggiunta alla denominazione di vendita.

36.      Infine dalla funzione delle denominazioni di vendita obbligatorie può dedursi che non è incompatibile con esse l’utilizzazione di denominazioni aggiuntive per la presentazione dei generi alimentari. Una denominazione di vendita obbligatoria mira ad offrire al consumatore la garanzia che un prodotto, immesso in commercio con una determinata denominazione, presenta determinate caratteristiche proprie di quel tipo di prodotto. Esso può così essere distinto da altri prodotti con altre caratteristiche generiche. Se dovesse presumersi che l’apposizione obbligatoria della denominazione di vendita in esame escludesse l’uso di denominazioni diverse, la disposizione andrebbe oltre l’obiettivo perseguito e priverebbe gli operatori commerciali della possibilità di distinguere commercialmente in altro modo i loro prodotti da prodotti dello stesso tipo.

37.      La risposta alla prima questione pregiudiziale è pertanto che l’art. 2 della direttiva 1999/4, concernente estratti di caffè ed estratti di cicoria, deve essere interpretato nel senso che le denominazioni commerciali menzionate nell’allegato della direttiva possono essere utilizzate solo per i prodotti menzionati nell’allegato stesso, ma che oltre a tali denominazioni per quei prodotti possono essere usate anche denominazioni diverse (come un’espressione di fantasia o un nome commerciale), a condizione che queste non possano essere confuse con la denominazione di vendita obbligatoria.

V – Seconda questione (questione A.2)

38.      La seconda questione proposta dal giudice del rinvio è stata formulata per l’eventualità che la prima questione venga risolta nel senso che i prodotti rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/4 possono essere immessi in commercio solo con le denominazioni di vendita prescritte dalla direttiva. Posto che la soluzione alla prima questione è diversa, non occorre risolvere la seconda questione.

VI – Osservazione preliminare relativa alle altre questioni pregiudiziali

39.      Dall’ordinanza di rinvio del giudice nazionale emerge che nell’applicazione della normativa nazionale in materia di pubblicità per i generi alimentari anche le indicazioni apposte sulla confezione (etichettatura) vengono considerate come espressioni di pubblicità. Ne consegue che nelle questioni proposte non si fa alcuna distinzione tra le disposizioni nazionali applicabili all’etichettatura dei prodotti alimentari, da un lato, e quelle applicabili alla pubblicità per questi prodotti, dall’altro. In merito desidero osservare che la direttiva 2000/13 si basa invece su una distinzione tra etichettatura e pubblicità  (9) e che le norme giuridiche applicabili ai due settori non sono del tutto identiche  (10) .

40.      Per quanto riguarda l’etichettatura dei prodotti alimentari, la direttiva 2000/13 prevede un’armonizzazione totale, implicante che le disposizioni nazionali in materia vengono valutate esclusivamente nel contesto della direttiva, o come provvedimenti armonizzati, nel qual caso occorre valutare se recepiscano correttamente le relative disposizioni della direttiva, o come provvedimenti non armonizzati, nel qual caso occorre esaminare se possono essere giustificate in forza di uno dei motivi indicati all’art. 18, n. 2, della direttiva sull’etichettatura. Come dichiarato dalla Corte nella sentenza SARPP, i limiti della facoltà degli Stati membri di adottare disposizioni nazionali in materia di etichettatura dei prodotti alimentari sono fissati dalla direttiva stessa. Ne consegue che gli artt. 28 e 30 CE non svolgono più alcun ruolo nell’ambito di applicazione della direttiva  (11) .

41.      Per la pubblicità, invece, la direttiva 2000/13 prevede solo un livello limitato di armonizzazione, come si desume già dalla definizione dell’ambito di applicazione della direttiva nell’art. 1, n. 1, che statuisce che la direttiva riguarda l’etichettatura dei prodotti alimentari, nonché «determinati aspetti» concernenti la loro presentazione e la relativa pubblicità. Di quali aspetti si tratti, risulta dall’art. 2, n. 3, di questa direttiva che dichiara applicabile anche alla presentazione e alla pubblicità dei prodotti alimentari il divieto di indicazioni ingannevoli, di cui ai paragrafi 1 e 2 dello stesso articolo. Per il resto, la direttiva non contiene norme specifiche riguardo all’armonizzazione delle disposizioni nazionali in materia di presentazione e pubblicità di prodotti alimentari. Più in particolare la Corte, nella sentenza SARPP  (12) , ha esplicitamente indicato che l’art. 15, n. 2, della direttiva 79/112 (attualmente divenuto art. 18, n. 2, della direttiva 2000/13) non si applica alla pubblicità. Ciò comporta che la direttiva sull’etichettatura si applica solo parzialmente alle disposizioni nazionali in materia di pubblicità per i prodotti alimentari e che siffatte disposizioni, sempre che non recepiscano l’art. 2 della direttiva, vanno esaminate alla luce del diritto comunitario primario, sancito agli artt. 28 CE e 30 CE.

42.      Nessuna delle parti che hanno presentato osservazioni scritte ha fatto presente questa distinzione. Per contro, durante la trattazione orale la Commissione ha sostenuto che, posto che la direttiva 2000/13 prevede un’armonizzazione esaustiva, sia l’aspetto dell’etichettatura, sia quello della pubblicità vanno valutati alla luce della direttiva e che pertanto non occorre risolvere l’ultima questione pregiudiziale, vertente sull’art. 28 CE. A sostegno della sua tesi la Commissione rinviava alla sentenza della Corte nella causa Sterbenz e Haug  (13) . Io sottolineo però che questa causa aveva ad oggetto esclusivamente un regime nazionale in materia di etichettatura e che le considerazioni pertinenti  (14) riguardavano l’art. 15 (2) della direttiva 79/112 che, come osservato, non si applica alla pubblicità.

43.      Considerata la differenza dei regimi a cui, secondo la giurisprudenza citata, sono soggette, rispettivamente, l’etichettatura e la pubblicità dei prodotti alimentari, le questioni che restano devono essere risolte separatamente per queste due materie, fermo restando che la quinta questione vertente sull’interpretazione degli artt. 28 CE e 30 CE non è rilevante per la prima materia.

VII – Terza, quarta e quinta questione (questioni B.1, B.2 e C)

L’etichettatura

44.      La terza e la quarta questione sono in stretta correlazione reciproca e devono essere pertanto discusse insieme quanto all’etichettatura. Il giudice del rinvio vuole sapere se disposizioni nazionali, contenenti un divieto di includere nell’etichettatura di un prodotto riferimenti all’effetto dimagrante e a raccomandazioni mediche, in quanto disposizioni non armonizzate siano compatibili o meno con art. 18 della direttiva 2000/13.

45.      Il giudice del rinvio presume che le disposizioni nazionali in esame debbano effettivamente essere considerate come provvedimenti non armonizzati ai sensi dell’art. 18, deducendo pertanto che un divieto di riferimenti all’effetto dimagrante e un divieto di riferimenti a raccomandazioni e certificati medici non rientrino nell’ambito degli artt. 3-14 della direttiva 2000/13.

46.      Questa constatazione mi sembra corretta e viene anche confermata dalle sentenze nelle cause Commissione/Austria e Sterbenz e Haug, in cui la Corte ha dichiarato che, mentre la direttiva sull’etichettatura vieta qualunque indicazione attinente alla malattia, indipendentemente dal fatto che essa sia veritiera o inganni il consumatore, le indicazioni che non comportano alcun riferimento alla malattia, ma si richiamano alla salute sono vietate solo se si rivelano ingannevoli. Ne deriva che i prodotti alimentari la cui etichettatura contiene indicazioni non ingannevoli relative alla salute devono essere considerati conformi alle norme della direttiva 2000/13 e gli Stati membri non possono vietarne la commercializzazione fondandosi su motivi vertenti sull’eventuale irregolarità di tale etichettatura  (15) .

47.      Disposizioni non armonizzate in materia di etichettatura che impediscano la commercializzazione di prodotti conformi alle norme della direttiva 2000/13 possono essere applicate esclusivamente, come si è indicato al precedente paragrafo 40, ove siano giustificate da uno dei motivi elencati in maniera tassativa  (16) all’art. 18, n. 2, della direttiva. Considerato che l’art. 18, n. 2, può essere considerato come una specificazione delle eccezioni alla libera circolazione delle merci in materia di etichettatura di prodotti alimentari, riconosciute nell’art. 30 CE e nella giurisprudenza, esso va interpretato alla luce di queste disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione delle merci e della relativa giurisprudenza  (17) . Ciò significa che le disposizioni nazionali non armonizzate in esame non solo devono essere giustificate in forza di uno o più dei motivi elencati all’art. 18, n. 2, ma devono anche essere idonee a tutelare gli interessi in causa e non possono ostacolare il commercio dei prodotti interessati più di quanto sia necessario a questo scopo  (18) .

48.      Le disposizioni nazionali contestate prevedono, per quanto qui rilevante, un divieto assoluto di includere riferimenti all’effetto dimagrante e a raccomandazioni, certificati, citazioni o pareri medici nella pubblicità per i prodotti alimentari (comprese le indicazioni sulla confezione). Esse si discostano in due elementi dalle norme nazionali che erano in esame nelle più volte citate sentenze Commissione/Austria e Sterbenz e Haug: mentre l’oggetto di quelle cause era un divieto generico di apporre sui prodotti alimentari indicazioni attinenti alla salute, salvo previa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità nazionali, le disposizioni qui in esame sono da un lato di carattere più limitato e specifico, dall’altro più restrittive in quanto non è prevista la possibilità di un’esenzione dal divieto o di una deroga al medesimo.

49.      Come risulta dalla quarta questione, il giudice nazionale ha ritenuto che solo l’interesse della tutela della salute delle persone può essere preso in considerazione come motivo di giustificazione per le disposizioni nazionali contestate.

50.      Nella valutazione del divieto delle indicazioni in esame nell’etichettatura o sulla confezione dei prodotti alimentari occorre in primo luogo ricordare il principio posto a fondamento della direttiva sull’etichettatura, ossia che il consumatore, in senso positivo, deve essere accuratamente informato sulle varie caratteristiche di un prodotto alimentare e, in senso negativo, non deve essere tratto in inganno su siffatte caratteristiche in conseguenza delle indicazioni utilizzate. In tal modo sono tutelati sia i suoi interessi economici che l’interesse alla salute.

51.      Partendo da questo presupposto, occorre chiedersi pertanto se un divieto di riferimenti all’effetto dimagrante e a raccomandazioni e certificati medici sia necessario, posto che siffatti riferimenti, a giudizio del legislatore nazionale, per la loro stessa natura devono sempre essere considerati ingannevoli e il consumo di articoli accompagnati da detti riferimenti potrebbe costituire un pericolo per la salute delle persone.

52.      Mi sembra evidente che una presa di posizione tanto rigorosa non possa essere accolta. Infatti se un prodotto può realmente contribuire al dimagrimento, in modo scientificamente provato, sarà difficile sostenere che l’indicazione di questa sua proprietà nell’etichettatura o sulla confezione è ingannevole. Al contrario, questa è un’informazione per definizione rilevante per il consumatore, che può indurlo ad acquistare e a consumare un prodotto o meno. Se mancasse questa informazione potrebbero addirittura insorgere rischi per la salute, come ha fatto rilevare anche la FICS, ove un consumatore usasse senza saperlo una quantità eccessiva di un prodotto dimagrante.

53.      Una considerazione del genere vale con riguardo a raccomandazioni e certificati medici. Non deve escludersi che siffatte indicazioni siano fondate dal punto di vista scientifico e, come detto, purché non ingannevoli, possano costituire informazioni rilevanti per il consumatore al fine di acquistare o meno il prodotto in questione. Siffatte indicazioni sembrano comunque possedere solo un carattere sussidiario e di sostegno rispetto alle affermazioni attinenti alle proprietà distintive del prodotto. In quanto indicazioni a sé stanti, è difficile scorgere come queste possano costituire un rischio per la salute delle persone.

54.      A questo proposito occorre ricordare che la Corte, per la valutazione dell’eventuale carattere ingannevole delle informazioni sui prodotti, usa come parametro di riferimento l’aspettativa di un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto  (19) . Occorre infatti presumere che un consumatore prima del (primo) acquisto di un certo prodotto prenderà atto delle informazioni riportate sull’etichetta e sia inoltre in grado di valutarne il valore. A mio avviso un consumatore è sufficientemente tutelato se è messo al riparo da indicazioni ingannevoli con riguardo ai prodotti, mentre non deve necessariamente essere protetto da informazioni di cui potrà lui stesso giudicare l’utilità ai fini dell’acquisto e dell’uso di un prodotto.

55.      Un divieto assoluto delle indicazioni in esame va manifestamente oltre l’obiettivo perseguito, in quanto colpisce anche quelle indicazioni di cui è accertato che non sono ingannevoli. In questi limiti un siffatto provvedimento non è necessario per realizzare l’obiettivo perseguito di prevenire rischi per la salute delle persone  (20) .

56.      Inoltre un siffatto divieto è sproporzionato alla realizzazione di tale scopo, in quanto sono concepibili provvedimenti meno restrittivi per il commercio. Si pensi, in particolare, ad un divieto di indicazioni ingannevoli riguardo alla capacità dei prodotti di contribuire al dimagrimento e di riferimenti ingannevoli a raccomandazioni e certificati medici  (21) . Provvedimenti di questo tipo consentono alle autorità nazionali di intervenire contro le violazioni nei casi concreti, quando le indicazioni usate possono effettivamente comportare rischi per la salute, senza ostacolare il commercio di prodotti che non comportano siffatti pericoli. Questo approccio non esclude che possano essere immessi (temporaneamente) in commercio prodotti accompagnati da informazioni ingannevoli sugli effetti dimagranti. Sembra tuttavia improbabile che il consumo di siffatti prodotti, che non producono l’effetto dimagrante che vantano, possa costituire un pericolo per la salute.

57.      La Douwe Egberts ha eccepito anche che il divieto di riferimenti all’effetto dimagrante sarebbe idoneo a contrastare la smania di dimagrire. Il divieto di riferimenti a raccomandazioni mediche sarebbe stato dettato dall’idea che da queste potrebbe dedursi che il prodotto in questione abbia proprietà mediche, anche se ciò non risponde a verità. Queste presupposizioni sembrano fondarsi su una nozione di consumatore come di un essere senza opinioni e acritico, e si pongono in aperto contrasto con la nozione del consumatore citata al precedente paragrafo 54, che la Corte adotta come riferimento. Se si avverte l’esigenza di contrastare l’eccessiva spinta al dimagramento, sembra più opportuno combattere questo fenomeno in sé. Rifiutare prodotti che vengono legittimamente presentati come dimagranti non costituisce uno strumento idoneo a realizzare questo obiettivo e ostacola la commercializzazione di questi prodotti più di quanto necessario. Inoltre, se portata all’estremo, la logica posta a fondamento del ragionamento della Douwe Egberts potrebbe risolversi in un divieto generico di pubblicità per i prodotti alimentari in generale, fondato sull’obiettivo di contrastare l’obesità.

58.      Alla luce delle considerazioni che precedono, la terza e la quarta questione vanno risolte nel senso che una disposizione nazionale non armonizzata in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, ai sensi dell’art. 18, n. 1, della direttiva 2000/13, che vieta talune indicazioni come «riferimenti all’effetto dimagrante» e «riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni o pareri medici o a dichiarazioni di approvazione» non può essere giustificata in forza dell’art. 18, n. 2, della direttiva 2000/13.

La pubblicità

59.      Per risolvere la terza, quarta e quinta questione con riguardo alla compatibilità di disposizioni nazionali, contemplanti un divieto di riferimenti all’effetto dimagrante e a raccomandazioni e certificati medici nella pubblicità, occorre esaminare in primo luogo le norme della direttiva sull’etichettatura ad esse applicabili.

60.      Al paragrafo 41 ho già fatto presente la portata limitata dell’armonizzazione realizzata con la direttiva 2000/13 per quanto riguarda la pubblicità. Le disposizioni pertinenti, come risulta dal preambolo della direttiva stessa  (22) , hanno un carattere complementare, in quanto il loro scopo è consentire un’applicazione efficiente del divieto di indicazioni ingannevoli nell’etichettatura.

61.      I provvedimenti nazionali contestati vanno tuttavia oltre le disposizioni di divieto contemplate dalla direttiva sull’etichettatura con riguardo alla pubblicità, in quanto vietano determinate espressioni pubblicitarie, indipendentemente dal fatto che siano veritiere o ingannino il consumatore. Ciò comporta che essi, secondo il sistema della direttiva, devono essere esaminati alla luce degli artt. 28 e 30 CE.

62.      Prima di operare questo esame, occorre approfondire la tesi della Douwe Egberts, secondo la quale, posto che tutti i fatti rilevanti della causa che ha dato origine al procedimento sono localizzati in Belgio, mancherebbe l’elemento di estraneità richiesto per l’applicabilità degli artt. 28 CE e 30 CE. Occorre chiedersi, in altri termini, se la fattispecie in oggetto riguardi una situazione puramente interna, a cui queste disposizioni non possono essere applicate.

63.      Di per sé è esatto che la causa principale dal punto di vista del merito mostra esclusivamente punti di contatto con il Belgio. Ciò non toglie tuttavia che una disciplina come quella in esame possa essere esaminata alla luce delle disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione delle merci. Con riguardo a situazioni del genere la Corte ha ripetutamente dichiarato che l’art. 28 CE non può essere disatteso per il solo fatto che, nella fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice nazionale, tutti gli elementi si collocano all’interno di un solo Stato membro. Questo principio è stato enunciato dalla Corte non solo in controversie «meramente interne», in cui era in discussione un provvedimento manifestamente discriminatorio  (23) , bensì anche in casi in cui il provvedimento contestato era applicabile indistintamente a prodotti nazionali e importati  (24) .

64.      La normativa nazionale oggetto della causa principale contempla un divieto assoluto dell’uso di riferimenti all’effetto dimagrante e a raccomandazioni e certificati medici nella pubblicità per i prodotti alimentari. Un siffatto divieto ha per sua natura sensibili ripercussioni sul commercio di prodotti immessi sul mercato come prodotti dimagranti, in quanto da esso deriva che i consumatori, e segnatamente quelli che hanno l’esigenza di utilizzare prodotti del genere, vengono privati di informazioni essenziali sull’offerta dei prodotti in oggetto. In altri termini, le possibilità per i fabbricanti di questi prodotti, di per sé legali, di raggiungere i loro potenziali clienti vengono sensibilmente ristrette. Ciò vale in misura ancora maggiore per prodotti nuovi, che non godono ancora di notorietà tra i consumatori. Posto che può trattarsi di prodotti legittimamente fabbricati e commercializzati in altri Stati membri, un divieto generale di fare riferimento alle proprietà particolari che li contraddistinguono ostacola gravemente l’accesso dei medesimi al mercato belga. In siffatte circostanze sono del parere che la disciplina nazionale in esame comporti un ostacolo diretto e concreto per il commercio tra gli Stati membri e non possa sottrarsi ad un esame alla luce delle disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione delle merci per il solo fatto (del resto casuale) che la questione relativa alla compatibilità della medesima con quelle disposizioni sia sorta nell’ambito di una controversia che va considerata come meramente interna.

65.      La compatibilità di normative nazionali in materia di pubblicità con le disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione delle merci è stata oggetto di diverse sentenze della Corte, che già nel 1980 ha dichiarato che una limitazione della possibilità di fare pubblicità per determinati prodotti, pur non assoggettando direttamente a condizioni l’importazione, pregiudica le possibilità di smercio dei prodotti importati, incidendo negativamente sul volume delle importazioni  (25) . Questa causa riguardava una disciplina nazionale che contemplava un divieto di pubblicità per determinate bevande alcoliche. In questo caso la Corte è giunta alla conclusione che la normativa era in contrasto con l’art. 30 del Trattato CEE, in quanto aveva ripercussioni soprattutto per le bevande importate e non poteva giustificarsi in forza dell’art. 36 del Trattato stesso. Altre discipline nazionali in materia di pubblicità, che nella giurisprudenza meno recente sono state raffrontate all’art. 30 del Trattato CEE, riguardavano un divieto di distribuzione di opuscoli pubblicitari contenenti determinate informazioni  (26) e un divieto di fare pubblicità per (ancora una volta) talune bevande alcoliche in determinati luoghi  (27) . Anche in questi due casi la Corte ha constatato che le normative contestate potevano incidere negativamente sugli scambi commerciali, seppure potevano essere giustificate a determinate condizioni.

66.      La giurisprudenza relativa alla compatibilità di disposizioni nazionali sulla pubblicità con l’art. 28 CE è stata ulteriormente elaborata dopo la sentenza Keck e Mithouard  (28) . Questa ha costituito una reazione al fatto che gli operatori del mercato invocavano sempre più spesso l’art. 28 CE per opporsi ad ogni tipo di normativa mirante a disciplinare il loro comportamento nell’ambito della vendita. Per arginare questa evoluzione, la Corte ha corretto la linea sino ad allora seguita, per cui ogni normativa commerciale degli Stati membri suscettibile di ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari andava considerata come una misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione, ai sensi dell’art. 28 CE  (29) . Dalla portata di questa nozione è stato escluso l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempreché tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e sempreché incidano in egual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri  (30) . Disposizioni nazionali conformi a questa descrizione esulano per la loro stessa natura dalla sfera di applicazione dell’art. 28 CE, in quanto sono considerate neutre nei confronti degli scambi commerciali tra gli Stati membri. Come dichiarato dalla Corte: ove tali requisiti siano soddisfatti, l’applicazione di siffatte normative alla vendita di prodotti provenienti da un altro Stato membro e rispondenti alle norme stabilite da tale Stato non costituisce elemento atto ad impedire l’accesso di tali prodotti al mercato o ad ostacolarlo in misura maggiore rispetto all’ostacolo rappresentato per i prodotti nazionali  (31) .

67.      Anche disposizioni nazionali in materia di pubblicità sono state considerate di per sé come modalità di vendita ai sensi della sentenza Keck e Mithouard. Possono fungere da esempio la causa Hünermund  (32) , relativa ad un divieto per i farmacisti di fare pubblicità per prodotti parafarmaceutici al di fuori dei locali di vendita, e la causa Leclerc-Siplec  (33) , avente ad oggetto un divieto di pubblicità televisiva per il settore della distribuzione. Per queste normative non era necessario un esame alla luce dell’art. 28 CE. Per contro la Corte, in altri due casi, De Agostini e TV-Shop  (34) e Gourmet  (35) non ha senz’altro considerato come modalità di vendita normative nazionali implicanti un divieto assoluto di pubblicità televisiva rivolta a bambini di età inferiore ai 12 anni e, rispettivamente, un divieto di fare pubblicità per bevande alcoliche in riviste, ma ha esaminato se fosse soddisfatto il secondo requisito formulato nella sentenza Keck e Mithouard. In questo contesto la Corte, nelle relative sentenze, ha dichiarato che un divieto totale, in uno Stato membro, di una determinata forma di promozione di un prodotto, che ivi è legittimamente venduto, può incidere in misura maggiore sui prodotti provenienti da altri Stati membri  (36) .

68.      Nelle cause Hünermund e Leclerc-Siple i divieti di pubblicità contestati avevano una portata limitata. Nel primo caso l’efficacia del divieto era limitata alla pubblicità per prodotti parafarmaceutici al di fuori delle farmacie. Nel secondo caso il divieto riguardava l’uso del mezzo di comunicazione televisivo per promuovere una determinata fase commerciale, quella della distribuzione. Nel suo giudizio sulle normative in oggetto la Corte ha attribuito rilevanza al fatto che esse lasciavano impregiudicata la possibilità per altri operatori economici di pubblicizzare questi prodotti in altro modo. In altri termini, la funzione propria della pubblicità in relazione alla promozione dell’accesso al mercato per i prodotti in questione rimaneva intatta.

69.      Diversa era la situazione nelle cause De Agostini e Gourmet. Nella prima la Corte ha sottolineato che la pubblicità televisiva era la sola forma di promozione efficace che permettesse al fabbricante di penetrare nel mercato svedese, visto che esso non disponeva di altri mezzi pubblicitari per raggiungere i bambini e i loro genitori  (37) . Questo fattore è stato evidentemente molto rilevante, anche se è stato lasciato al giudice nazionale il compito di accertare se ciò rispondesse al vero. La causa Gourmet riguardava una situazione analoga, e la Corte ha stabilito che un divieto di ogni annuncio pubblicitario per le bevande alcoliche incide sulla commercializzazione dei prodotti provenienti da altri Stati membri più che su quella dei prodotti nazionali, con cui il consumatore ha ovviamente una maggiore familiarità.

70.      Con l’approccio adottato per queste ultime due cause la Corte riconosce la funzione assunta dalla pubblicità negli scambi economici e, più in generale, per l’integrazione del mercato. Dal punto di vista del mercato interno questa funzione non è limitata solo a fornire informazioni al consumatore e a farne pertanto un cliente, ma costituisce anche uno strumento con cui i fabbricanti negli Stati membri possono affermarsi su altri mercato, possono porre i consumatori a confronto con prodotti che probabilmente ancora non conoscono o, nell’altro caso, possono offrire loro un’alternativa ai prodotti con cui hanno già familiarità. La pubblicità è lo strumento che può contribuire ad aumentare la trasparenza del mercato, a stimolarne il meccanismo e a contrastarne la cristallizzazione. I divieti generali di pubblicità, i divieti per determinati prodotti o i divieti di pubblicità relativi alle proprietà caratterizzanti un prodotto per la loro stessa natura si ripercuotono necessariamente tutti sul commercio dei prodotti che ne sono oggetto. Non si può pertanto affermare che siffatte norme sono a fortiori neutre per il commercio tra gli Stati  (38) .

71.      Il contrasto tra i due gruppi di sentenze è illustrativo per il modo in cui l’ulteriore delimitazione della nozione di «misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione», introdotta dalla sentenza Keck e Mithouard, deve essere interpretata mediante la nozione di «modalità di vendita». Se una determinata forma di pubblicità di fatto costituisce l’unico strumento efficace per fare breccia in un determinato mercato, o se esistono dei modelli di consumo cristallizzati sul mercato nazionale, un divieto di pubblicità frapporrà enormi ostacoli all’accesso sul mercato per i prodotti provenienti da altri Stati membri. Ciò vale a mio avviso anche per un divieto di pubblicità per prodotti nuovi, legittimamente fabbricati e immessi in commercio in altri Stati membri. Per siffatti prodotti ottenere notorietà è essenziale per conquistarsi una posizione sul mercato. Il fatto che un siffatto divieto si ripercuota altrettanto negativamente su prodotti nuovi equiparabili, fabbricati e commercializzati nello Stato membro in questione, non cambia questa situazione. L’elemento determinante è che viene ostacolato l’accesso al mercato per il prodotto di un altro Stato membro. In questa situazione è ovvio operare una verifica globale alla luce degli artt. 28 CE e 30 CE.

72.      Aggiungo a questo che dal fatto che una normativa nazionale sia qualificata come modalità di vendita consegue che questa viene sottratta alla sfera di applicazione dell’art. 28 CE e pertanto anche al controllo giurisdizionale garantito dal diritto comunitario. Per questo motivo la qualificazione di modalità di vendita deve essere riservata a norme relative alle circostanze generali in cui vengono venduti i prodotti e che comportano una limitazione della libertà commerciale degli operatori economici  (39) . Essa non si applica invece a normative aventi ad oggetto le caratteristiche dei prodotti o che impongono limitazioni alla commercializzazione di prodotti con determinate proprietà.

73.      In sintesi, in materia di pubblicità occorre distinguere tra le normative che implicano divieti assoluti, come indicato al paragrafo 70, e quelle che disciplinano le modalità, in senso stretto, dei messaggi pubblicitari. Regole di questo secondo tipo sono, ad esempio, un divieto di pubblicità che deturpa il paesaggio, un divieto di pubblicità in edifici pubblici o un divieto di pubblicità per determinati prodotti in occasione di avvenimenti particolari. Sarà chiaro che siffatte normative, che ai fini del commercio dei prodotti non vietano la pubblicità in senso assoluto e generale, bensì si limitano a condizionarla per motivi specifici, non ostacolano l’accesso al mercato e l’immissione in commercio attraverso altri canali. Esse non mirano a limitare l’accesso al mercato e hanno un nesso meno diretto con la commercializzazione di per sé.

74.      Queste considerazioni mi portano a concludere che un divieto assoluto a riferimenti ad effetti dimagranti o a raccomandazioni e certificati medici nella pubblicità non può essere qualificato come una modalità di vendita ai sensi della sentenza Keck e Mithouard e deve essere oggetto di un esame globale alla luce degli artt. 28 CE e 30 CE.

75.      Dato che ho già constatato al paragrafo 64 che un siffatto divieto può avere un effetto reale sull’importazione di prodotti che possono contribuire al dimagrimento, occorre esaminare se esso possa essere giustificato in forza di un interesse generale riconosciuto dall’art. 30 CE o dalla giurisprudenza. Occorre poi dimostrare, in linea con l’orientamento costante della Corte, che siffatto provvedimento è necessario per la realizzazione dell’obiettivo perseguito, che è idoneo a raggiungerlo e che non ostacola gli scambi commerciali più del necessario.

76.      La normativa nazionale contestata si applica ai messaggi pubblicitari in esame, a prescindere dalla provenienza dei relativi prodotti. Ciò comporta che, oltre all’interesse della tutela della salute delle persone, invocato dal giudice del rinvio, può costituire motivo di giustificazione anche quello della tutela del consumatore.

77.      Considerati i malintesi che possono sorgere intorno a prodotti che vengono presentati come dimagranti e anche i rischi per la salute derivanti dall’uso sconsiderato degli stessi, è certamente giustificato che uno Stato membro possa stabilire norme con riguardo alle modalità di immissione in commercio di questi prodotti, compresa la relativa pubblicità.

78.      Disposizioni del genere devono tuttavia soddisfare i requisiti della necessità, dell’idoneità e della proporzionalità. Come in precedenza constatato con riguardo alle normative nazionali in quanto applicabili all’etichettatura, è interesse del consumatore, sia dal punto di vista economico, sia da quello della sua salute, essere informato correttamente sulle proprietà dei prodotti che intende acquistare. Diciture sull’etichetta e in messaggi pubblicitari hanno una funzione analoga per quanto riguarda l’informazione del consumatore, ma si distinguono nel senso che la pubblicità può attirare l’attenzione su prodotti con cui questi altrimenti non sarebbe entrato in contatto. Mentre di norma i messaggi pubblicitari sono separati dal prodotto in questione, nel caso dell’etichettatura l’informazione è apposta per definizione sul prodotto o vicino ad esso.

79.      Questa differenza non determina tuttavia un giudizio diverso sulle disposizioni nazionali in quanto applicabili all’etichettatura e alla pubblicità. In entrambi i casi l’interesse del consumatore è quello di non essere tratto in inganno. Purché l’informazione fornita sia corretta, deve presumersi che il consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto  (40) sarà in grado di formarsi un giudizio sui prodotti pubblicizzati, senza che ciò debba necessariamente ledere i suoi interessi economici o di salute. Un divieto assoluto di fornire le informazioni in questione va oltre quanto necessario alla protezione di questi interessi. Anzi, la mancata informazione sulle proprietà di un prodotto di contribuire al dimagrimento potrebbe invece proprio danneggiare questi interessi.

80.      Devo pertanto concludere che un divieto a riferimenti, nell’ambito della pubblicità, all’effetto dimagrante o a raccomandazioni, certificati, citazioni o pareri medici o a dichiarazioni di approvazione, previsto da una normativa nazionale, è in contrasto con gli artt. 28 CE e 30 CE.

81.      Occorre infine esaminare le conseguenze di questa constatazione per la normativa in esame. Come ripetutamente dichiarato dalla Corte, una normativa incompatibile con gli artt. 28 CE e 30 CE deve essere disattesa per quanto applicabile ai prodotti importati  (41) . Segnatamente con riguardo alla pubblicità la Corte, nella sentenza SARPP, ha dichiarato che quando una normativa nazionale in materia di pubblicità è in contrasto con gli artt. 30 e 36 del Trattato, la sua applicazione è vietata solo per quanto riguarda i prodotti importati, ma non per i prodotti di origine nazionale  (42) . Ho già fatto presente la stretta correlazione esistente tra l’etichettatura e la pubblicità e il fatto che la direttiva 2000/13 ha dichiarato alcune sue norme applicabili alla pubblicità per evitare che le disposizioni relative all’etichettatura possano essere eluse mediante messaggi pubblicitari. Dato che sono giunto alla conclusione che un divieto delle indicazioni in esame nell’etichettatura dei prodotti alimentari non è compatibile con la direttiva sull’etichettatura, spetta al giudice nazionale stabilire in che misura la normativa contestata possa restare applicabile a messaggi pubblicitari in cui sono usate indicazioni identiche con riguardo a prodotti nazionali.

VIII – Conclusione

82.      Alla luce delle considerazioni che precedono suggerisco alla Corte di risolvere le questioni sollevate dal Presidente del Rechtbank van Koophandel di Hasselt come segue:

«1.
L’art. 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Cosiglio 22 febbraio 1999, 1999/4, concernente estratti di caffè ed estratti di cicoria, deve essere interpretato nel senso che le denominazioni commerciali menzionate nell’allegato alla direttiva possono essere utilizzate solo per i prodotti menzionati nell’allegato stesso, di modo che oltre alle dette denominazioni commerciali per tali prodotti possono essere usate anche altre denominazioni (come un’espressione di fantasia o un nome commerciale), a condizione che queste non possano essere confuse con la denominazione di vendita prescritta.

2.
L’art. 18 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 marzo 2000, 2000/13/CE, deve essere interpretato nel senso che osta all’applicazione di normative nazionali non armonizzate in materia di etichettatura di prodotti alimentari, che vietano talune indicazioni come “riferimenti all’effetto dimagrante” e “riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni o pareri medici o a dichiarazioni di approvazione” nell’etichettatura e/o nella presentazione di prodotti alimentari e/o nella relativa pubblicità.

3.
Gli artt. 28 CE e 30 CE ostano all’applicazione di normative nazionali non armonizzate in materia di pubblicità per prodotti alimentari che vietano talune indicazioni come “riferimenti all’effetto dimagrante” e “riferimenti a raccomandazioni, certificati, citazioni o pareri medici o a dichiarazioni di approvazione” nell’etichettatura e/o nella presentazione di prodotti alimentari e/o nella relativa pubblicità di prodotti alimentari importati da altri Stati membri. Spetta al giudice nazionale valutare, tenendo presente la correlazione esistente tra le norme in materia di etichettatura e quelle in materia di pubblicità, in che limiti le norme in materia di pubblicità possono essere applicate alle relative indicazioni con riguardo ai prodotti nazionali».


1
Lingua originale: l'olandese.


2
GU L 66, pag. 26.


3
GU L 109, pag. 29.


4
Direttiva del Consiglio 3 maggio 1989, 89/398/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti i prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare (GU L 186, pag. 27).


5
Direttiva della Commissione 26 febbraio 1996, 96/8/CE, sugli alimenti destinati a diete ipocaloriche volte alla riduzione del peso (GU L 55, pag. 22).


6
V., segnatamente, sentenze 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman (Racc. pag. I‑4921, punti 59‑61); 13 luglio 2000, causa C-36/99, Idéal Tourisme(Racc. pag. I-6049, punto 20); 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra (Racc. pag. I-2099, punti 38 e 39), e 9 settembre 2003, causa C‑137/00, Milk Marque (Racc. pag. I‑0000, punto 37).


7
Sentenze 7 settembre 1999, causa C-355/97, Beck e Bergdorf (Racc. pag. I‑4977, punti 22‑24), e 15 maggio 2003, causa C-300/01, Salzmann (Racc. pag. I‑0000, punto 31).


8
Il governo del Belgio e il Consiglio lasciano irrisolta questa questione, essendo del parere che il prodotto in questione non rientri nell’ambito di applicazione della direttiva.


9
L’art. 1, n. 3, lett. a), della direttiva 2000/13 descrive la nozione di «etichettatura» nel seguente modo: le menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica o di commercio, immagini o simboli riferentisi ad un prodotto alimentare e figuranti su qualsiasi imballaggio, documento, cartello, etichetta, anello o fascetta che accompagni tale prodotto alimentare o che ad esso si riferisca. La nozione di «pubblicità» non è definita in questa direttiva.


10
V., su questo punto, sentenza 12 dicembre 1990, causa C-241/89, SARPP (Racc. pag. I‑4695, punti 15 e 16).


11
V., su questo punto, le mie conclusioni riunite presentate per le cause C‑221/00, Commissione/Austria, decisa con sentenza 23 gennaio 2003, e per le cause riunite C‑421/00, C‑426/00 e C‑16/01, Sterbenz e Haug, (Racc. pag. I‑1007, paragrafo 39).


12
Cit. alla nota 10, punto 15.


13
Cit. alla nota 11.


14
Punti 24 e 31 della sentenza, cit. alla nota 11.


15
Sentenze Commissione/Austria, punti 35 e 37, e Sterbenz e Haug, punti 28 e 30 (cit. alla nota 11). Per un’ulteriore esposizione della distinzione tra le indicazioni relative alla malattia da un lato e quelle relative alla salute dall’altro, v. le mie conclusioni riunite presentate per queste cause (Racc. pag. I-1007, paragrafi 53 e 54).


16
Sentenza SARPP, cit. alla nota 10, punto 14 e sentenza Commissione/Austria, cit. alla nota 11, punto 38.


17
V., tra l’altro, sentenza 2 febbraio 1994, causa C-315/92, Verband Sozialer Wettbewerb (Racc. pag. 315, punto 12) vertente sull’interpretazione della direttiva 76/768 relativa ai prodotti cosmetici (GU L 262, pag. 169).


18
V. sentenza Commissione/Austria, già cit. alla nota 11, punto 47. V., anche, sentenza 13 marzo 2003, causa C‑229/01, Müller (Racc. pag. I‑2587, punti 31‑34).


19
V. sentenze 16 luglio 1998, causa C-210/96, Gut Springenheide e Tusky (Racc. pag. I‑4657, punto 31), e 13 gennaio 2000, causa C-220/98, Estée Lauder (Racc. pag. I-117, punto 27).


20
V. sentenza 28 gennaio 1999, causa C-77/97, Unilever (Racc. pag. I-431, punto 33).


21
Unilever, cit. alla nota 20, punto 35.


22
V. quattordicesimo ‘considerando’.


23
Sentenza 7 maggio 1997, cause riunite da C-321/94 a C-324/94, Pistre e a. (Racc. pag. I‑2343, punti 44 e 45).


24
Sentenze 22 ottobre 1998, causa C-184/96, Commissione/Francia (Racc. pag. I‑6197, punto 17), e 5 dicembre 2000, causa C-448/98, Guimont (Racc. pag. I-10663, punti 19‑22).


25
Sentenza 10 luglio 1980, causa 152/78, Commissione/Francia (Racc. pag. 2299, punto 11). Questa considerazione è stata ribadita nelle sentenze 15 dicembre 1982, causa 286/81, Oosthoek (Racc. pag. 4575, punto 15); 7 marzo 1990, causa C-362/88, GB-INNO-BM (Racc. pag. I‑667, punto 7), e 25 luglio 1991, cause riunite C-1/90 e C-176/90, Aragonesa de Publicidad Exterior (Racc. pag. I‑4151, punto 10).


26
GB-INNO-BM, cit. alla nota 25.


27
Aragonesa de Publicidad Exterior, cit. alla nota 25.


28
Sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e 268/91, Keck e Mithouard (Racc. pag. I‑6097).


29
Sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, Dassonville (Racc. pag. 837, punto 5).


30
Punto 16 della sentenza Keck e Mihouard, cit. alla nota 28.


31
Punto 17 della sentenza.


32
Sentenza 15 dicembre 1993, causa C‑292/92, Hünermund (Racc. pag. I‑6787, punto 19).


33
Sentenza 9 febbraio 1995, causa C-412/93, Leclerc-Siplec (Racc. pag. I-179, punto 22).


34
Sentenza 9 luglio 1997, cause riunite C-34/95, C‑35/95 e C-36/95, De Agostini e TV-Shop (Racc. pag. I‑3843).


35
Sentenza 8 marzo 2001, causa C-405/98, Gourmet (Racc. pag. I‑1795).


36
De Agostini e TV-Shop, cit. alla nota 34, punto 42, e Gourmet, cit. alla nota 35, punto 19.


37
V. punto 43 della sentenza, cit. alla nota 34.


38
V. in merito l’osservazione dell’avvocato generale Leger nelle conclusioni presentate per la causa C‑412/93, Leclerc-Siplec, decisa con sentenza 9 febbraio 1995 (cit. alla nota 33, punti 20 e 21 delle conclusioni).


39
Sentenza 29 giugno 1995, C-391/92, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-1621, punto 15).


40
V. la giurisprudenza citata alla nota 19.


41
SARPP, cit. alla nota 10, punto 16, e Guimont, cit. alla nota 24, punto 35.


42
SARPP, cit. alla nota 10, punto 16.