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Document 62010CC0453

Conclusioni dell’avvocato generale V. Trstenjak, presentate il 29 novembre 2011.
Jana Pereničová e Vladislav Perenič contro SOS financ spol. s r. o.
Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Okresný súd Prešov.
Tutela dei consumatori — Contratto di credito al consumo — Erronea indicazione del tasso annuo effettivo globale — Incidenza delle pratiche commerciali sleali e delle clausole abusive sulla validità del contratto nel suo complesso.
Causa C‑453/10.

European Court Reports 2012 -00000

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2011:788

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

VERICA TRSTENJAK

presentate il 29 novembre 2011 ( 1 )

Causa C-453/10

Jana Pereničová,

Vladislav Perenič

contro

S.O.S. financ, spol. sro

(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Okresný súd Prešov, Repubblica slovacca)

«Tutela dei consumatori — Direttiva 93/13/CEE — Articolo 4, paragrafo 1, e articolo 6, paragrafo 1 — Clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori — Direttiva 2005/29/CE — Pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori — Contratto di credito al consumo che prevede un tasso di interesse usurario — Incidenza delle pratiche commerciali sleali e delle clausole abusive sul contratto nel suo insieme»

Indice

 

I — Introduzione

 

II — Contesto normativo

 

A — Diritto dell’Unione

 

La direttiva 93/13

 

La direttiva 87/102

 

La direttiva 2005/29

 

B — Diritto nazionale

 

III — Fatti, causa principale e questioni pregiudiziali

 

IV — Procedimento dinanzi alla Corte

 

V — Principali argomenti delle parti

 

A — Sulla prima questione pregiudiziale

 

B — Sulla seconda questione pregiudiziale

 

Errata indicazione del tasso annuo effettivo globale quale pratica commerciale sleale

 

Le conseguenze delle pratiche commerciali sleali per l’efficacia del contratto

 

VI — Analisi giuridica

 

A — Osservazioni introduttive

 

B — Sulla prima questione pregiudiziale

 

Il livello minimo di tutela stabilito dal diritto dell’Unione

 

a) Inefficacia, in linea di principio, solo della singola clausola contrattuale

 

b) Eccezionalmente, inefficacia dell’intero contratto

 

Potere discrezionale degli Stati membri di innalzare il livello di protezione

 

C — Sulla seconda questione pregiudiziale

 

1. Prima parte: errata indicazione del tasso annuo effettivo globale come pratica commerciale sleale

 

a) Sulla direttiva 2005/29

 

b) Ambito di applicazione della direttiva 2005/29

 

i) Sussistenza di una pratica commerciale

 

ii) Significato della delimitazione contenuta nell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva

 

iii) Conclusione intermedia

 

c) Sussistenza di una pratica sleale

 

i) Necessaria interpretazione coerente delle norme a tutela del consumatore

 

ii) Esame del carattere sleale della pratica commerciale

 

— Sussistenza di un’azione ingannevole ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5, paragrafo 4, lettera a), e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2005/29

 

— Accertamento, in via subordinata, di una violazione del dovere di diligenza professionale

 

d) Conclusione

 

2. Seconda parte della domanda: le conseguenze delle pratiche commerciali sleali sull’efficacia del contratto

 

a) Rilevanza della direttiva 87/102

 

b) Rilevanza della direttiva 2005/29

 

c) Rilevanza della direttiva 93/13

 

i) Ambito di applicazione della direttiva

 

ii) Portata del controllo sostanziale

 

iii) Carattere abusivo della clausola contrattuale

 

d) Conclusione

 

3. Conclusioni riassuntive

 

VII — Conclusione

I — Introduzione

1.

La presente causa riguarda la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Okresný súd Prešov slovacco (in prosieguo: il «giudice del rinvio») ai sensi dell’articolo 267 TFUE, con la quale sono state sottoposte alla Corte varie questioni riguardanti l’interpretazione della direttiva 93/13, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori ( 2 ) e della direttiva 2005/29, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno ( 3 ).

2.

La domanda di pronuncia pregiudiziale trae origine da un’azione intentata dai coniugi Perenič (in prosieguo: i «ricorrenti nella causa principale») diretta a far dichiarare la nullità del contratto di credito al consumo da loro stipulato con la società SOS, s.r.o. (in prosieguo: la «SOS»). Essi sostengono che il contratto contiene numerose clausole formulate a loro sfavore e lesive della loro qualità di consumatori. Per tale ragione, dette clausole andrebbero considerate come abusive ai sensi della direttiva 93/13 o come espressione di pratiche commerciali sleali ai sensi della direttiva 2005/29. A loro parere, il contratto controverso dovrebbe pertanto essere dichiarato nullo, ma non sarebbe sufficiente, nell’interesse della tutela dei consumatori, il mero accertamento della nullità parziale. Il contratto dovrebbe piuttosto essere dichiarato nullo nella sua interezza.

3.

La presente causa offre alla Corte l’opportunità di sviluppare ulteriormente la sua giurisprudenza sulla tutela dei consumatori e di chiarire in particolare come, in presenza di clausole abusive, si possa in concreto garantire, come imposto dal legislatore dell’Unione, che dette clausole non siano vincolanti, tenendo adeguatamente conto delle esigenze della certezza del diritto e della tutela dei consumatori. Al riguardo occorrerà analizzare se, a tal fine, sia determinante l’eventuale interesse del consumatore a non restare ulteriormente vincolato dal contratto o invece il fatto che, nell’interesse della stabilità dei rapporti giuridici e dell’autonomia contrattuale, non si possa richiedere al consumatore di attenersi a un contratto parzialmente nullo. Nel contempo si tratta di verificare in che modo operi la tutela accordata al consumatore da entrambe le direttive in un caso come quello oggetto della causa principale e se l’accertamento di una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva 2005/29 permetta eventualmente di trarre delle conclusioni ai fini della valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale sulla base delle disposizioni della direttiva 93/13.

II — Contesto normativo

A — Diritto dell’Unione

La direttiva 93/13

4.

Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, la direttiva è volta a ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti le clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore.

5.

L’articolo 3 della direttiva stabilisce quanto segue:

«1.   Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto.

(…)

3.   L’allegato contiene un elenco indicativo e non esauriente di clausole che possono essere dichiarate abusive».

6.

L’articolo 4 della direttiva così recita:

«1.   Fatto salvo l’articolo 7, il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende.

2.   La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».

7.

L’articolo 6, paragrafo 1, della stessa direttiva prevede quanto segue:

«Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».

8.

L’articolo 8 della direttiva 93/13 è formulato come segue:

«Gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore».

9.

Il punto 1, lettera g), dell’allegato alla direttiva 93/13 definisce come abusive quelle clausole che «hanno per oggetto o per effetto di autorizzare il professionista a porre fine senza un ragionevole preavviso ad un contratto di durata indeterminata, tranne in caso di gravi motivi».

La direttiva 87/102

10.

La direttiva 87/102 ( 4 ) è volta a ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo. Essa è stata abrogata con effetto dal 12 maggio 2010 dalla direttiva 2008/48 ( 5 ), entrata in vigore l’11 giugno 2008. Nella causa principale trova applicazione solo la direttiva 87/102 poiché il contratto di credito controverso è stato concluso dalle parti nella causa principale il 12 marzo 2008.

11.

L’articolo 1 della direttiva 87/102 stabilisce quanto segue:

«1.   La presente direttiva si applica ai contratti di credito.

2.   Ai sensi della presente direttiva si intende:

(...)

e)

per “tasso annuo effettivo globale”, il costo globale del credito al consumatore, espresso in percentuale annua dell’ammontare del credito concesso e calcolato secondo i metodi esistenti negli Stati membri».

12.

L’articolo 4 della direttiva così recita:

«1.   I contratti di credito devono essere conclusi per iscritto. Il consumatore deve ricevere un esemplare del contratto scritto.

2.   Il documento scritto deve contenere:

a)

un’indicazione del tasso annuo effettivo globale, espresso in percentuale;

b)

un’indicazione delle condizioni secondo cui il tasso annuo effettivo globale può essere modificato.

Qualora non sia possibile indicare il tasso annuo effettivo globale espresso in percentuale, saranno fornite al consumatore adeguate informazioni nel documento scritto. Tali informazioni devono almeno comprendere le informazioni previste all’articolo 6, paragrafo 1, secondo trattino».

13.

L’articolo 14 della direttiva così recita:

«1.   Gli Stati membri provvedono affinché i contratti di credito non deroghino, a detrimento del consumatore, alle disposizioni del diritto nazionale che danno esecuzione o che corrispondono alla presente direttiva.

2.   Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per impedire che le norme emanate in applicazione della presente direttiva siano eluse mediante una speciale formulazione dei contratti e in particolare attraverso la distribuzione dell’importo del credito in più contratti».

La direttiva 2005/29

14.

L’articolo 3 della direttiva 2005/29 ne stabilisce l’ambito di applicazione come segue:

«1.   La presente direttiva si applica alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, come stabilite all’articolo 5, poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

2.   La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto».

B — Diritto nazionale

15.

Il codice civile slovacco contiene le seguenti disposizioni volte a disciplinare i contratti con i consumatori:

«Art. 52

1)   Si intende per “contratto concluso con un consumatore” un contratto stipulato, a prescindere dalla forma giuridica, tra un fornitore e un consumatore.

2)   Le clausole di un contratto concluso con un consumatore, come anche ogni altra disposizione che disciplini un rapporto giuridico nel quale un consumatore è parte, si applicano sempre in senso favorevole al consumatore che lo ha stipulato. È nulla ogni altra convenzione o accordo di natura contrattuale distinto il cui contenuto o il cui scopo mirino a eludere tali disposizioni.

(…)

4)   Si intende per “consumatore” ogni persona fisica che, per la stipula e l’esecuzione di un contratto di consumo, non agisce nell’ambito della sua attività commerciale o di altra attività imprenditoriale».

(…)

Art. 53

1)   Un contratto concluso con un consumatore non deve contenere disposizioni atte a creare, a danno del consumatore, un significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti (clausola abusiva). Non è abusiva una clausola contrattuale che riguarda l’oggetto principale dell’esecuzione o la congruità del prezzo, se è formulata in modo preciso, chiaro e comprensibile, o se è stata oggetto di negoziato individuale.

(…)

4)   Sono considerate clausole abusive, in particolare, le disposizioni contenute in un contratto concluso con un consumatore, le quali:

k)

impongano, a titolo di penalità, al consumatore che non adempie ai propri obblighi, il pagamento di un indennizzo per un importo sproporzionatamente elevato,

(…)

5)   Le clausole abusive che compaiono in un contratto concluso con un consumatore sono nulle».

16.

La legge n. 258/2001 sui contratti di credito al consumo, come da ultimo modificata, stabilisce quanto segue:

«Art. 4

Contratti di credito al consumo

1)   Il contratto di credito al consumo deve essere concluso per iscritto, a pena di nullità, e il consumatore deve riceverne un esemplare.

2)   Il contratto di credito al consumo deve contenere, oltre alle disposizioni generali:

(…)

j)

un’indicazione del tasso annuo effettivo globale [in prosieguo: il “TAEG”] e di tutte le spese associate al credito a carico del consumatore, calcolati in base a dati attuali al momento della conclusione del contratto,

(…)

Qualora il contratto di credito al consumo non contenga gli elementi indicati al paragrafo 2, [lettera] j), il credito concesso si considera esente da interessi e spese».

17.

L’allegato 2 alla legge n. 258/2001 stabilisce le modalità di calcolo del tasso annuale effettivo globale.

III — Fatti, causa principale e questioni pregiudiziali

18.

La società SOS, in quanto istituto non bancario, concede crediti anche a consumatori in base a contratti d’adesione standard.

19.

Il 12 marzo 2008 la SOS accordava ai ricorrenti nella causa principale un credito per l’importo di SKK 150000 (EUR 4979), che questi ultimi avrebbero dovuto rimborsare in 32 rate mensili da SKK 6000 (EUR 199). L’ammontare della trentatreesima e ultima rata mensile doveva essere pari allo stesso credito accordato, vale a dire a SKK 150000 (EUR 4979). I coniugi Perenič dovevano restituire SKK 342000 (EUR 11352). La SOS aveva indicato un tasso annuale effettivo globale del 48,63%. Secondo i calcoli del giudice del rinvio, tuttavia, il tasso annuo effettivo globale sul credito ammonta invece al 58,76%. La SOS non ha incluso nel calcolo del costo globale del credito un importo supplementare per la concessione del credito pari a SKK 2500 (EUR 83).

20.

Il contratto contiene una serie di clausole che, dal punto di vista dei ricorrenti, sono ad essi sfavorevoli. Il loro esatto contenuto è riportato nell’ordinanza di rinvio. Ai fini del presente procedimento è sufficiente rimandare a tale documento.

21.

Dall’ordinanza di rinvio emerge che i ricorrenti nella causa principale erano in ritardo nel pagamento delle rate, con la conseguenza che la SOS aveva addebitato loro una penale di EUR 209. Il 23 dicembre 2009 essi adivano quindi il giudice del rinvio per far dichiarare la nullità del contratto di credito.

22.

Il giudice del rinvio si chiede se il contratto controverso contenga una clausola abusiva ai sensi della direttiva 93/13 e quali conseguenze tale circostanza abbia per la validità del contratto. Il giudice del rinvio vuole però accertare soprattutto fino a che punto occorra rispondere alle esigenze di tutela del consumatore — ad esempio mediante l’accertamento dell’invalidità dell’intero contratto — e se le disposizioni della direttiva 2005/29 ostino ad una simile pretesa. Il giudice del rinvio ritiene occorra interpretare il diritto dell’Unione. Per questo motivo ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

1)

Se l’ambito della tutela del consumatore ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva del Consiglio del 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, sia tale da consentire, nel caso in cui siano individuate clausole contrattuali abusive, di considerare che il contratto nel suo complesso non vincola il consumatore, qualora ciò sia più favorevole a quest’ultimo.

2)

Se i criteri che configurano una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio nonché il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, siano tali da consentire di considerare che, allorché l’operatore menziona nel contratto un tasso annuo effettivo globale (TAEG) inferiore a quello reale, si possa ritenere tale comportamento dell’operatore nei confronti del consumatore una pratica commerciale sleale. Se la direttiva 2005/29/CE ammetta, nel caso in cui sia accertata una pratica commerciale sleale, che ciò abbia influenza sulla validità del contratto di credito e sul conseguimento della finalità degli articoli 4, paragrafo 1, e 6, paragrafo 1, qualora la nullità del contratto sia più favorevole per il consumatore.

IV — Procedimento dinanzi alla Corte

23.

L’ordinanza di rinvio del 31 agosto 2010 è pervenuta nella Cancelleria della Corte il 16 settembre 2010.

24.

Hanno presentato osservazioni scritte entro il termine stabilito dall’articolo 23 dello Statuto della Corte i ricorrenti nella causa principale, i governi slovacco, tedesco, austriaco e spagnolo, nonché la Commissione europea.

25.

All’udienza del 15 settembre 2011 sono comparsi i rappresentanti dei ricorrenti nella causa principale e del governo slovacco, nonché della Commissione, per presentare osservazioni orali.

V — Principali argomenti delle parti

A — Sulla prima questione pregiudiziale

26.

I ricorrenti nella causa principale sostengono che l’articolo 6 della direttiva 93/13, in base al quale le clausole abusive non vincolano il consumatore, debba essere interpretato nel senso che l’intero contratto contenente dette clausole deve essere dichiarato inefficace, se ciò è più favorevole al consumatore e quest’ultimo eccepisce l’inefficacia del contratto.

27.

Il governo tedesco sostiene che l’articolo 6 della direttiva 93/13 sancisce il principio per cui un contratto contenente clausole abusive deve mantenere la propria efficacia. L’intero contratto potrebbe essere dichiarato inefficace solo in casi eccezionali, ossia quando detto contratto non può continuare a sussistere senza tali clausole. La direttiva 93/13 attuerebbe peraltro un’armonizzazione minima delle normative nazionali in materia di clausole abusive, cosicché gli Stati membri resterebbero liberi di prevedere la nullità totale dei contratti che contengono clausole abusive, laddove ciò sia più conveniente per il consumatore.

28.

Il governo spagnolo osserva che lo scopo perseguito dalla direttiva 93/13 consisterebbe principalmente nell’assicurare la tutela del consumatore nei confronti del professionista e non tanto nel garantire l’autonomia privata delle parti. Tenuto conto dell’obiettivo della tutela del consumatore, il contratto potrebbe essere privato di tutta la sua efficacia nei confronti di quest’ultimo qualora, anche dopo l’eliminazione delle clausole abusive, il contratto determini uno squilibrio a carico del consumatore.

29.

Il governo slovacco osserva, richiamando la giurisprudenza della Corte, che spetterebbe al giudice nazionale valutare se il contratto possa sussistere senza la clausola abusiva. Il giudice nazionale sarebbe tenuto a trarre tutte le conclusioni previste dal diritto nazionale per un caso simile, al fine di garantire che il consumatore non resti vincolato alla clausola abusiva.

30.

La Commissione ricorda che, ai sensi della giurisprudenza della Corte, spetta ai giudici nazionali applicare a una clausola specifica i criteri generali fissati dalla direttiva 93/13 per la valutazione del carattere abusivo. Se non è possibile prevedere quali clausole nello specifico possano essere qualificate come abusive, non è nemmeno possibile valutare in anticipo in che misura una tale valutazione possa portare ad una declaratoria di inefficacia del contratto di credito.

31.

Rientrano nei casi in cui il contratto non è vincolante per le parti ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, secondo la Commissione, quelli in cui risulta oggettivamente impossibile continuare a dare applicazione al contratto senza le clausole abusive. Il fatto che una delle parti affermi che non avrebbe accettato di concludere il contratto in mancanza di dette clausole, non costituirebbe di per sé un valido motivo per dichiarare inefficace il contratto in toto. Tuttavia, il diritto nazionale potrebbe prevedere che il contratto contenente clausole abusive non sia nella sua interezza vincolante per il consumatore, dato che la direttiva 93/13 attua unicamente un’armonizzazione minima degli ordinamenti degli Stati membri, consentendo così a questi ultimi la possibilità di accordare ai consumatori un grado di tutela più elevato.

B — Sulla seconda questione pregiudiziale

Errata indicazione del tasso annuo effettivo globale quale pratica commerciale sleale

32.

I governi tedesco e spagnolo ritengono che l’indicazione di un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale integri una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva 2005/29.

33.

Pur prevedendo l’obbligo di indicare il tasso annuo effettivo globale, la direttiva 87/102 ometterebbe di stabilire quali siano le conseguenze di una sua eventuale errata indicazione. Inoltre, il rimando all’articolo 3 della direttiva 87/102, contenuto nell’allegato II della direttiva 2005/29, permetterebbe di ritenere che tale indicazione costituisca un’informazione rilevante ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 2005/29. Ne conseguirebbe che l’omissione di tale indicazione costituisce una pratica ingannevole mediante omissione vietata dall’articolo 7 della direttiva 2005/29.

34.

La Commissione e il governo austriaco evidenziano che l’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale può essere qualificata come pratica commerciale sleale, sottolineando quest’ultimo, al riguardo, che si tratterebbe di una pratica vietata ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 2005/29. Questa valutazione competerebbe però al giudice nazionale, il quale, osserva la Commissione, è chiamato in particolare a verificare in che misura la pratica controversa sia idonea a influenzare il comportamento commerciale del consumatore medio.

35.

Il governo slovacco reputa irrilevante il rimando alla direttiva 2005/29 ai fini del presente procedimento. Quanto all’applicabilità di detta direttiva, dall’ordinanza di rinvio non sarebbe dato presumere che nella fattispecie si tratti di una strategia commerciale di un professionista finalizzata alla vendita di prodotti. In ogni caso, l’indicazione di un tasso annuo effettivo globale non potrebbe essere qualificata come pratica commerciale.

Le conseguenze delle pratiche commerciali sleali per l’efficacia del contratto

36.

I ricorrenti nella causa principale ritengono che la direttiva 2005/29, volta a tutelare il consumatore da pratiche commerciali sleali, non possa essere applicata isolatamente rispetto al meccanismo di tutela previsto dalla direttiva 93/13. Pertanto, essa dovrebbe essere interpretata nel senso che, qualora una pratica commerciale sleale arrechi uno svantaggio al consumatore, tale aspetto dovrebbe essere parimenti tenuto in considerazione nell’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, quale circostanza rilevante ai fini della valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale. Tale circostanza inciderebbe pertanto anche sulla validità del contratto.

37.

Il governo tedesco ritiene invece che, in mancanza di reciproci rimandi tra le direttive in esame, l’accertamento di una pratica commerciale sleale non influirebbe direttamente sulla valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale. Tale accertamento non rileverebbe neppure ai fini della questione della validità di un contratto contenente clausole abusive, dato che la direttiva 2005/29 non pregiudica le disposizioni in materia di efficacia di un contratto, come si evince dal suo articolo 3, paragrafo 2. Tuttavia, l’accertamento di una pratica commerciale sleale potrebbe essere preso in considerazione quale circostanza che accompagna la conclusione del contratto ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13.

38.

Il governo spagnolo è dell’opinione che la sussistenza di una pratica commerciale sleale, quale l’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale, abbia conseguenze sull’efficacia del contratto di credito al consumo nella sua interezza, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, e dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, nei limiti in cui ciò sia più favorevole per il consumatore.

39.

Secondo il governo austriaco la direttiva 2005/29 esclude che le pratiche commerciali sleali possano avere conseguenze per l’efficacia di un contratto di credito al consumo. Alla luce dell’articolo 13 di detta direttiva, la conseguenza giuridica della nullità del relativo contratto risulterebbe sproporzionata. Peraltro, dall’articolo 3, paragrafo 2, di detta direttiva, che stabilisce che essa non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto, non si potrebbe desumere che l’accertamento di una pratica sleale incida sull’efficacia del contratto.

40.

Il governo slovacco deduce dall’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 che la questione relativa all’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale andrebbe analizzata alla luce delle direttive 87/102 e 93/13. Richiamandosi all’ordinanza Pohotovost’ ( 6 ), esso osserva che l’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale potrebbe costituire una circostanza che il giudice nazionale deve prendere in considerazione nel valutare se una clausola contrattuale sia stata formulata in modo chiaro e comprensibile ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 93/13. Ne consegue che una simile valutazione potrebbe indurre a riconoscere il carattere abusivo di una clausola, anche se questa si riferisce all’oggetto principale del contratto.

41.

La Commissione osserva che la direttiva 2005/29, in conformità dell’articolo 3, paragrafo 2, non affronta la questione dell’efficacia di un contratto, operando invece allo stesso tempo una completa armonizzazione delle normative in materia di pratiche sleali. Ne consegue che una normativa nazionale che sanzioni l’eventuale violazione di detta direttiva con l’inefficacia dell’intero contratto di credito al consumo contrasterebbe con il diritto dell’Unione. Dato però che la direttiva 87/102 non prevede alcuna sanzione specifica per il caso dell’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale e, inoltre, opera soltanto un’armonizzazione minima delle disposizioni nazionali in materia di contratti di credito, gli Stati membri sarebbero liberi di emanare disposizioni adeguate. Nell’esercizio di questa competenza normativa gli Stati membri sarebbero tenuti a rispettare i principi di equivalenza ed effettività.

VI — Analisi giuridica

A — Osservazioni introduttive

42.

Le questioni pregiudiziali si riferiscono a diversi aspetti inerenti al sistema di tutela creato dal legislatore dell’Unione per difendere i consumatori dall’impiego di clausole abusive nell’ambito degli scambi commerciali con i professionisti. Al fine di collocarle nel giusto contesto oggettivo, prima di analizzarle sembra opportuno illustrare sommariamente gli aspetti fondamentali di questo sistema di tutela, così come è stato originariamente strutturato dal legislatore dell’Unione e successivamente plasmato dalla giurisprudenza della Corte.

43.

Secondo costante giurisprudenza della Corte, il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione, il che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse ( 7 ). In considerazione di una siffatta situazione di inferiorità, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 prevede che le clausole abusive non vincolino i consumatori. Come emerge dalla giurisprudenza, si tratta di una norma imperativa che mira a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio sostanziale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza delle parti stesse ( 8 ).

44.

La Corte ha ripetutamente evidenziato come, per garantire la tutela voluta dalla direttiva 93/13, la disuguaglianza tra il consumatore e il professionista possa essere riequilibrata solo grazie ad un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale ( 9 ). È sulla base di tali principi che la Corte ha così statuito che il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale ( 10 ). La facoltà per il giudice di esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola costituisce, secondo la Corte, «un mezzo idoneo al conseguimento tanto dell’obiettivo fissato dall’art. 6 della direttiva, che è quello di impedire che il consumatore sia vincolato da una clausola abusiva, quanto dell’obiettivo dell’art. 7, dato che tale esame può avere un effetto dissuasivo che, pertanto, contribuisce a far cessare l’inserimento di clausole abusive nei contratti conclusi tra un professionista e i consumatori» ( 11 ). La Corte ha inoltre valutato questa facoltà riconosciuta al giudice come necessaria «per garantire al consumatore una tutela effettiva, tenuto conto in particolare del rischio non trascurabile che questi ignori i suoi diritti o incontri difficoltà per esercitarli» ( 12 ).

45.

Le questioni sollevate dal giudice del rinvio con la sua domanda di pronuncia pregiudiziale, pur essendo collegate al sistema di tutela qui descritto nei suoi aspetti fondamentali, ineriscono tuttavia ad aspetti giuridici differenti. Con la prima questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede, innanzitutto, quanto sia esteso l’ambito di tutela accordato al consumatore dall’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13. In definitiva, egli desidera sapere se, qualora siano individuate clausole contrattuali abusive, tale disposizione della direttiva consente agli Stati membri di prevedere nei rispettivi ordinamenti l’inefficacia del contratto nel suo complesso, ove ciò sia più favorevole per il consumatore rispetto al mantenimento del contratto privo della clausola abusiva. La risoluzione di questa questione impone di esaminare la problematica dell’inefficacia parziale dei contratti con i consumatori e dei presupposti per la loro conservazione. La seconda questione pregiudiziale si riferisce invece ad una tematica in parte diversa, vale a dire l’interazione tra quegli strumenti giuridici con cui il legislatore dell’Unione intende tutelare il consumatore in presenza di determinate pratiche commerciali qualificate come sleali. Si tratta qui, anzitutto, delle direttive 93/13 e 2005/29 cui il giudice del rinvio fa espressamente riferimento. Dato che la questione pregiudiziale in esame è stata sollevata nel particolare contesto di un contratto di credito al consumo, in sede di esame occorrerà tener conto anche della direttiva 87/102.

46.

Alla luce delle differenti tematiche toccate nella formulazione delle questioni pregiudiziali, esse verranno esaminate singolarmente secondo l’ordine indicato.

B — Sulla prima questione pregiudiziale

47.

Per poter rispondere alla prima questione pregiudiziale, occorre innanzitutto chiarire quali regole, nel dettaglio, preveda la direttiva 93/13 con riguardo all’eventuale conservazione dei contratti in presenza di clausole abusive. Occorre a tal fine interpretare le sue disposizioni pertinenti tenendo conto dello scopo perseguito dal legislatore quale può evincersi dai considerando.

Il livello minimo di tutela stabilito dal diritto dell’Unione

48.

Alla luce del fatto che la direttiva 93/13, da un lato, stabilisce soltanto prescrizioni minime e, dall’altro, ammette singole disposizioni derogatorie a livello di Stati membri, per accertare la portata della tutela prescritta dal legislatore dell’Unione occorre innanzitutto chiarire quali misure gli Stati membri sono tenuti ad adottare a tutela dei consumatori in base alla succitata direttiva. In sede di interpretazione è necessario pertanto in primis esaminare le prescrizioni giuridiche vincolanti poste dalle direttive agli Stati membri e che, in ultima analisi, costituiscono il livello minimo di tutela stabilito dal diritto dell’Unione. Queste prescrizioni vanno distinte da quelle disposizioni che accordano agli Stati membri un certo margine di autonomia nel configurare i rispettivi ordinamenti.

a) Inefficacia, in linea di principio, solo della singola clausola contrattuale

49.

Punto di partenza dell’interpretazione è la norma centrale contenuta nell’articolo 6, paragrafo 1, prima frase, della direttiva 93/13, poiché essa stabilisce le conseguenze giuridiche che il legislatore dell’Unione ha inteso collegare all’utilizzo di clausole abusive. In base ad essa gli Stati membri devono obbligatoriamente prevedere nei loro ordinamenti che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista «non vincolano il consumatore». Già dal tenore letterale di questa norma si evince che la conseguenza giuridica dell’inefficacia stabilita dal legislatore dell’Unione opera soltanto a favore del consumatore, mentre la clausola contrattuale qualificata come abusiva mantiene la propria validità nei confronti del professionista.

50.

Questa disposizione viene integrata da un’altra regola sancita nell’articolo 6, paragrafo 1, seconda frase, che in un certo senso specifica la prima. In base a detta norma, gli Stati membri sono tenuti a provvedere affinché «il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». Secondo tale disposizione, la conseguenza normale della presenza di una clausola abusiva in un contratto è costituita dall’inefficacia di quella sola clausola e dalla conservazione per il resto del contratto, il quale, una volta eliminato lo squilibrio a danno del consumatore, continua a vincolare le parti. Tale considerazione corrisponde anche all’interpretazione sostenuta già dall’avvocato generale Tizzano nelle sue conclusioni nella causa Ynos ( 13 ). Come da questi esposto in termini convincenti, detta disciplina deve essere letta alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. Essa punta, infatti, a riequilibrare la posizione contrattuale del consumatore impedendo che egli sia vincolato da una clausola abusiva. Essa non è volta invece a tutelare il professionista, per il quale il venir meno di una o più clausole contrattuali potrebbe dimostrarsi meno vantaggioso e che pertanto potrebbe avere tutto l’interesse a liberarsi dagli obblighi del contratto ( 14 ). La funzione di tutela dell’articolo 6, paragrafo 1, verrebbe ad essere capovolta se l’inefficacia di una o più clausole avesse sempre come conseguenza, indipendentemente da ogni altro fattore, l’inefficacia del contratto nel suo complesso.

51.

La regola contenuta nell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 può pertanto essere interpretata nel senso che gli Stati membri, in presenza di una clausola abusiva, in linea di principio non sono obbligati a prevedere l’inefficacia del contratto nel suo insieme. La conseguenza dell’inefficacia nei confronti del consumatore può invece essere in linea di principio circoscritta alla specifica clausola, mentre il contratto in quanto tale continua a sussistere ( 15 ).

b) Eccezionalmente, inefficacia dell’intero contratto

52.

La conseguenza della conservazione del contratto non è però esente da eccezioni, come si evince chiaramente dall’articolo 6, paragrafo 1, seconda frase, della direttiva («sempre che»). In assenza della clausola abusiva, il contratto deve restare valido per entrambe le parti, sempre che ciò sia possibile. Questo, a contrario, significa che le parti non sono vincolate al contratto nei casi in cui esso non possa sussistere senza la clausola abusiva.

53.

Questa affermazione conduce all’ulteriore questione, vale a dire, in base a quali criteri occorra valutare, ai sensi di detta norma, se un contratto «possa sussistere» senza la clausola abusiva. Il chiarimento di questo aspetto risulta rilevante proprio in considerazione del fatto che il giudice del rinvio ha chiesto quale significato vada riconosciuto all’interesse effettivo o presunto del consumatore ad essere liberato dal contratto.

54.

Come correttamente osservato da numerose parti del procedimento, sono teoricamente possibili una valutazione in base a criteri soggettivi o una valutazione in base a criteri oggettivi. Nel caso di una valutazione in base a criteri soggettivi, basata quindi sull’interesse effettivo o presunto del consumatore quale parte del contratto, il giudice nazionale sarebbe chiamato a valutare nel singolo caso se per il consumatore sia più vantaggiosa l’inefficacia dell’intero contratto. La valutazione potrebbe però anche basarsi su criteri oggettivi, prevedendo quale criterio determinante, ad esempio, l’eseguibilità del contratto nonostante l’inefficacia di singole clausole abusive.

55.

In linea di massima, nella questione pregiudiziale il giudice del rinvio individua l’oggetto della valutazione giuridica da effettuare. A tale riguardo occorre osservare che oggetto della questione pregiudiziale è unicamente l’eventuale rilevanza di criteri soggettivi — vale a dire l’eventuale convenienza di un contratto per il consumatore — per la valutazione dell’eventuale conservazione del contratto. La valutazione che la Corte è chiamata ad effettuare potrebbe pertanto essere circoscritta, in linea di principio, a questo solo aspetto, senza che sia assolutamente necessario ampliare l’oggetto della verifica così da affrontare la possibile rilevanza di altri criteri. Per tale motivo esaminerò innanzitutto se la direttiva 93/13 imponga agli Stati membri di prevedere nelle loro disposizioni nazionali che, nel valutare l’eventuale conservazione di un contratto parzialmente inefficace, occorra tener conto dell’interesse effettivo o presunto del consumatore a restare vincolato proprio a detto contratto.

56.

Ritengo si debba dare alla questione una soluzione chiaramente negativa. Argomenti di rilievo depongono contro un’interpretazione nel senso che la possibilità di conservare un contratto senza la clausola abusiva ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, seconda frase, deve essere valutata in base a criteri soggettivi.

57.

Quale argomento contro una simile interpretazione si può addurre già il tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13.

58.

La direttiva non contiene, infatti, alcun riferimento letterale ad un’inefficacia dell’intero contratto per il caso in cui ciò fosse più conveniente per il consumatore. Piuttosto, la formulazione della disposizione lascia ritenere che il legislatore della direttiva intendeva circoscrivere l’inefficacia del contratto nel suo complesso ad un limitato novero di casi eccezionali. Tanto emerge dal fatto che detta conseguenza giuridica è accennata in una proposizione secondaria e viene limitata a casi ben determinati. Un confronto tra le varie versioni linguistiche di questa norma rafforza l’interpretazione qui proposta, secondo cui la conservazione del contratto deve essere la regola e non può dipendere da una situazione eventualmente più favorevole per il consumatore.

59.

Questa interpretazione trova conferma anche nel ventiduesimo considerando della direttiva 93/13 che, sul punto, presenta una formulazione ancora più chiara rispetto alla regola stessa. Da esso emerge che, a prescindere dall’inopponibilità di singole clausole abusive prevista nell’articolo 6, paragrafo 1, «il contratto resta vincolante per le parti secondo le stesse condizioni, qualora possa sussistere anche senza le clausole abusive». Questa formulazione fa riferimento alla possibilità oggettiva che il contratto controverso possa continuare a sussistere. La decisione circa la possibilità o meno di conservare in vigore un contratto non viene comunque rimessa esclusivamente ad una delle parti ma, manifestamente, soggiace ad una valutazione obiettiva da parte di un soggetto neutrale. Il legislatore della direttiva non ha stabilito in alcun punto che il fatto che per il consumatore sia più conveniente essere liberato dal contratto debba costituire un criterio decisivo. Se il legislatore avesse inteso attribuire valore a tale aspetto, egli avrebbe potuto prevedere all’interno della disciplina un criterio soggettivo, quale ad esempio il fatto di poter esigere dal consumatore di restare ulteriormente vincolato ad un contratto parzialmente inefficace. La rinuncia ad un simile criterio deve essere letta come indice di una scelta consapevole contro una regola in tal senso.

60.

Ne consegue che, in ogni caso, non è possibile desumere né dal tenore letterale, né dalla sistematica della direttiva 93/13, che la valutazione circa la possibilità che il contratto possa sussistere senza la clausola abusiva ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, dipenda dalla condizione del consumatore o dalla situazione di maggiore vantaggio in cui questi si verrebbe a trovare a seguito della risoluzione del contratto.

61.

Alla stessa conclusione si giunge tenendo presente, in sede di interpretazione, la ratio della direttiva 93/13.

62.

Come già ricordato nell’introduzione alle presenti conclusioni, il sistema di tutela creato dalla direttiva 93/13 muove dal presupposto che il consumatore sia la parte debole all’interno del contratto per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione, il che comporta che questi, in genere, aderirà alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse. Lo squilibrio dei diritti e degli obblighi contrattuali delle parti, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva, che ne può conseguire, deve, in base alla volontà del legislatore dell’Unione, essere contrastato prevedendo che le clausole valutate come abusive debbano essere dichiarate non vincolanti per il consumatore in conformità dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13. La Corte ha correttamente sottolineato che si tratta di una norma imperativa che in definitiva mira a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio sostanziale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza delle parti stesse.

63.

Come si evince dal sesto considerando, la direttiva 93/13 vuole a tal fine «eliminare le clausole abusive da tali contratti». Come già osservato, essa però non è volta a dichiarare inefficaci i contratti nel loro complesso sulla base di una clausola abusiva ivi contenuta. Lo scopo perseguito dal legislatore consiste unicamente nel ristabilire l’uguaglianza e non invece nell’eliminazione dell’intero contratto. La dichiarazione di inefficacia dell’intero contratto sulla base dell’interesse del consumatore non stabilirebbe una situazione di equilibrio tra le parti del contratto. L’intervento correttivo volto a realizzare una situazione di equilibrio all’interno del contratto stipulato dalle parti nell’esercizio della loro autonomia contrattuale deve appunto sanare il contratto e non certo annullarlo.

64.

Sarebbe altresì compromesso il fondamento per un’attività commerciale responsabile da parte degli operatori economici. A fare le spese di una normativa che imponga in modo categorico e senza eccezioni l’inefficacia di interi contratti, quando ciò risulti utile solo per una delle parti, sarebbe l’autonomia contrattuale. In tal modo, infatti, il consumatore favorito unilateralmente verrebbe liberato dalla responsabilità di soppesare accuratamente i vantaggi e gli svantaggi prima di assumere un’obbligazione contrattuale e, di conseguenza, di agire in modo ragionevole. L’approccio adottato dal legislatore della direttiva tiene adeguatamente conto di questo principio, che svolge un ruolo molto importante nell’ambito del diritto dell’Unione ( 16 ), limitandosi a quanto necessario per stabilire una situazione di parità tra le parti del contratto e prescrivendo invece, quanto al resto, che le parti restino vincolate agli accordi esistenti e liberamente assunti.

65.

Ben diversa sarebbe la situazione di diritto, se la questione della conservazione di un contratto contenente clausole abusive fosse invece esclusivamente decisa sulla base della situazione di volta in volta più conveniente per il consumatore. Così facendo, infatti, si rischierebbe di cadere nuovamente in una situazione di squilibrio nel rapporto tra consumatore e professionista, questa volta a favore del solo consumatore. Vero è che in tal modo sarebbe eliminato lo sbilanciamento dei diritti e dei doveri a favore del professionista, il che corrisponde agli obiettivi previsti dalla direttiva, ma non sarebbe garantito l’equilibrio perseguito dal legislatore della direttiva. Il legislatore della direttiva aveva in mente un contrappeso allo svantaggio a carico del consumatore. Tuttavia, non sussiste alcun motivo per supporre che egli intendesse riconoscere al consumatore una posizione giuridica migliore di quella solitamente riconosciuta a due controparti contrattuali che, nell’ambito degli scambi commerciali, occupano posizioni di parità. A ben vedere non è ravvisabile neppure un giustificato motivo oggettivo per esonerare il consumatore dagli obblighi derivanti da un contratto stipulato con una controparte in posizione di parità, sempreché egli li abbia assunti liberamente e con la consapevolezza della loro portata.

66.

Queste considerazioni corrispondono anche all’opinione espressa dall’avvocato generale Tizzano nelle sue conclusioni nella causa Ynos. In tale occasione egli ha osservato come alla regola contenuta nella direttiva 93/13, che prevede la conservazione del contratto nonostante la presenza di una clausola abusiva, si possa derogare solo quando il contratto medesimo non può oggettivamente sussistere senza la clausola abusiva e non quando, secondo una valutazione a posteriori, risulta che una delle parti non avrebbe concluso l’accordo in sua assenza ( 17 ).

67.

Infine, gli argomenti dedotti in relazione alla necessità di garantire il principio dell’autonomia contrattuale e l’equilibrio nei rapporti contrattuali tra professionista e consumatore devono essere valutati alla luce di un altro obiettivo della direttiva. Occorre, infatti, ricordare che la direttiva 93/13, come emerge dal suo primo considerando, è stata emanata in vista della progressiva instaurazione del mercato interno ( 18 ). Alla luce di quanto previsto dal suo secondo e terzo considerando, la direttiva mira ad eliminare le notevoli disparità riscontrabili nelle legislazioni degli Stati membri in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori. Oltre ad una maggiore tutela del consumatore, il legislatore della direttiva intendeva, sulla base del settimo considerando, incentivare le attività commerciali nell’ambito di applicazione della direttiva («in questo modo i venditori di beni e i prestatari di servizi saranno facilitati nelle loro attività commerciali sia nel proprio Stato che in tutto il mercato unico»). Tuttavia, l’attività economica può svilupparsi solo laddove agli operatori economici sia assicurata la certezza del diritto, ivi compresa la tutela dell’affidamento di questi ultimi sulla stabilità dei rapporti contrattuali. Una regola che subordini l’efficacia di un contratto nel suo complesso all’interesse esclusivo di una parte del contratto, non solo non tutela, ma alla lunga può perfino minare tale affidamento. Così come, per tale motivo, potrebbe diminuire la disponibilità dei professionisti a stipulare contratti con i consumatori, a determinate condizioni potrebbe anche essere vanificato l’obiettivo dell’instaurazione di un mercato interno. L’articolo 6 della direttiva 93/13 considera anche questo aspetto, limitandosi a garantire l’equilibrio nei rapporti contrattuali.

68.

Dalle considerazioni svolte consegue che l’atteggiamento soggettivo del consumatore rispetto alla parte restante del contratto, non riconosciuta come abusiva, non può essere considerato il criterio dirimente per valutare il destino del contratto stesso. Decisivi sono, a mio parere, altri fattori, quali la possibilità di continuare a dare esecuzione al contratto, che andrà valutata in modo obiettivo ( 19 ). Tale possibilità potrebbe, a determinate condizioni, essere esclusa qualora, a seguito dell’inefficacia di una o più clausole, sia venuto meno, dal punto di vista di entrambe le parti, il presupposto per la conclusione del contratto ( 20 ). Un’inefficacia dell’intero contratto potrebbe ad esempio eccezionalmente essere presa in considerazione qualora si possa ritenere che, in base alla effettiva o ipotetica concorde volontà delle parti, il negozio giuridico non sarebbe stato concluso senza la sua parte inefficace, poiché l’obiettivo o la natura giuridica del contratto non sono più gli stessi. Spetta al giudice nazionale, chiamato ad applicare la direttiva 93/13 o le norme nazionali di attuazione, valutare se ricorrono dette condizioni nel caso specifico.

69.

Questi svolge un ruolo particolarmente importante nel valutare se un contratto possa essere mantenuto nonostante l’esistenza della clausola abusiva ( 21 ), non da ultimo in considerazione della sua conoscenza del diritto nazionale, ma anche delle effettive condizioni del caso specifico. A tale riguardo basta ricordare la sentenza Freiburger Kommunalbauten ( 22 ), nella quale la Corte ha osservato che il carattere abusivo di una determinata clausola ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 93/13 deve essere valutato «tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione» ( 23 ). In tale sentenza la Corte ha posto l’accento sulla necessità di esaminare la clausola contrattuale controversa nel contesto generale del diritto nazionale applicabile. Essa è giunta, infatti, alla conclusione che, nell’effettuare la valutazione prescritta, «devono altresì essere valutate le conseguenze che la detta clausola può avere nell’ambito del diritto applicabile al contratto, il che implica un esame del sistema giuridico nazionale» ( 24 ). Occorre pertanto concludere che il diritto nazionale assume talvolta rilevanza anche nel valutare se un contratto possa sussistere nonostante la sua inefficacia parziale ( 25 ).

70.

In sintesi, occorre constatare che, in base al diritto dell’Unione, gli Stati membri non sono tenuti a prevedere nelle proprie disposizioni nazionali che, nel caso in cui siano individuate clausole contrattuali abusive, il contratto debba essere considerato nel suo complesso come non vincolante per il consumatore, qualora ciò sia più favorevole a quest’ultimo. Ne consegue che il livello minimo di tutela stabilito dalla direttiva 93/13 è salvaguardato anche qualora il diritto degli Stati membri non riconosca, in sede di valutazione dell’efficacia del contratto, alcun significato alla volontà effettiva o presunta del consumatore di non essere ulteriormente vincolato dal contratto.

Potere discrezionale degli Stati membri di innalzare il livello di protezione

71.

Occorre tuttavia ricordare che la direttiva 93/13, come espressamente indicato nel suo dodicesimo considerando, ha effettuato solo un’armonizzazione parziale e minima delle legislazioni nazionali relativamente alle clausole abusive ( 26 ). Espressione normativa fondamentale del principio di una armonizzazione minima, posto alla base di questa direttiva, è l’autorizzazione contenuta nell’articolo 8, che accorda espressamente agli Stati membri la facoltà di adottare, nel settore disciplinato da detta direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore. Da tale disposizione si può al contempo dedurre, a contrario, che una deroga per difetto, ossia un livello di tutela dei consumatori al di sotto degli obiettivi della direttiva, non sarebbe compatibile con i principi della medesima. Come ho già avuto occasione di osservare nelle mie conclusioni nella causa Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid, questo principio di armonizzazione minima conferisce agli Stati membri un considerevole margine di discrezionalità ( 27 ), circoscritto soltanto dai limiti generali posti dal diritto dell’Unione, soprattutto dal diritto primario ( 28 ).

72.

Pertanto, gli Stati membri possono disciplinare anche le conseguenze dell’inefficacia prevista a tutela del consumatore in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito nell’articolo 6 della direttiva 93/13. L’emanazione di disposizioni di diritto nazionale più rigorose, basate sull’articolo 8, che prevedano l’inefficacia dell’intero contratto in presenza di una o più clausole contrattuali abusive, ove ciò risulti più favorevole per il consumatore ( 29 ), è espressione di un esercizio legittimo della facoltà accordata dal legislatore dell’Unione per conseguire un grado di tutela dei consumatori più elevato.

73.

Non vi è motivo per dubitare della compatibilità di una simile disciplina nazionale, finalizzata alla tutela dei consumatori, con il succitato obiettivo della realizzazione del mercato interno ( 30 ), a condizione che le libertà fondamentali non vengano lese in modo eccessivo ( 31 ). In definitiva, però, la valutazione di questo aspetto dipende dalla specifica disciplina nazionale.

74.

Da quanto premesso consegue che gli Stati membri sono liberi di prevedere nei propri ordinamenti nazionali la conseguenza giuridica dell’inefficacia dell’intero contratto nei casi in cui tale conseguenza risulti per il consumatore più vantaggiosa rispetto alla conservazione del contratto. Il diritto dell’Unione non impone di limitare la conseguenza giuridica dell’inefficacia alla sola clausola interessata.

C — Sulla seconda questione pregiudiziale

75.

La seconda questione si compone di due parti. Con la prima parte della questione il giudice del rinvio chiede se l’errata indicazione del tasso annuo effettivo globale in un contratto di credito al consumo integri una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva 2005/29. Con la seconda parte, il giudice del rinvio chiede quali siano le conseguenze di una simile qualificazione come pratica sleale ai fini dell’efficacia dello specifico contratto.

1. Prima parte: errata indicazione del tasso annuo effettivo globale come pratica commerciale sleale

a) Sulla direttiva 2005/29

76.

Per quanto attiene alla prima questione, occorre innanzitutto sottolineare come la direttiva 2005/29 proceda ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori. Ne consegue che gli Stati membri — diversamente dal caso di attuazione della direttiva 93/13 — non possono emanare disposizioni più rigorose rispetto alle misure stabilite nella direttiva, neppure se volte a garantire un più alto livello di tutela dei consumatori ( 32 ).

77.

Una delle disposizioni centrali della direttiva 2005/29 è l’articolo 5, che vieta le pratiche commerciali sleali e indica inoltre i criteri in base ai quali si può stabilire un siffatto carattere di slealtà. In particolare, in base all’articolo 5, paragrafo 2, una pratica commerciale è sleale se è contraria alle norme di diligenza professionale e falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio. Inoltre, l’articolo 5, paragrafo 4, della direttiva definisce due categorie precise di pratiche commerciali sleali, vale a dire le «pratiche ingannevoli» e le «pratiche aggressive» che corrispondono ai criteri specificati, rispettivamente, agli articoli 6 e 7, nonché 8 e 9 della direttiva. Infine, al suo allegato I, la direttiva contiene un elenco tassativo di 31 pratiche commerciali che, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 5, sono considerate sleali «in ogni caso». Di conseguenza, come precisa espressamente il diciassettesimo considerando di detta direttiva, solo tali pratiche commerciali possono essere considerate sleali senza costituire oggetto di una valutazione caso per caso ai sensi delle disposizioni degli articoli da 5 a 9 della direttiva.

78.

Ne consegue che, ai fini dell’applicazione delle norme da parte dei giudici nazionali e delle autorità amministrative, occorre aver riguardo in primo luogo all’elenco delle 31 pratiche commerciali sleali contenuto nell’allegato I. Se la pratica commerciale è riconducibile ad una delle fattispecie, essa deve essere vietata; tale esito non dipende da un ulteriore esame, ad esempio, degli effetti. Se il caso di specie non rientra in questo elenco di pratiche vietate, occorre verificare se ricorra una delle ipotesi esemplificative — pratiche commerciali ingannevoli o aggressive — previste dalla clausola generale. Solo in caso contrario viene in rilievo direttamente la clausola generale di cui all’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2005/29 ( 33 ).

b) Ambito di applicazione della direttiva 2005/29

i) Sussistenza di una pratica commerciale

79.

Prima di valutare il carattere di slealtà di una pratica commerciale sulla base dell’insieme delle circostanze del caso di specie, occorre però anzitutto verificare se il caso controverso rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2005/29. A tal fine, l’attività commerciale oggetto della causa principale, vale a dire la conclusione di un contratto di credito al consumo, dovrebbe soddisfare la definizione legale della nozione di «pratiche commerciali delle imprese nei confronti dei consumatori» contenuta nell’articolo 2, lettera d).

80.

Al riguardo occorre osservare che l’articolo 2, lettera d), della direttiva definisce, ricorrendo ad una formulazione particolarmente ampia, la nozione di «pratica commerciale» come «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori» ( 34 ). Questa definizione si estende pertanto anche a tutte le azioni poste in essere da un professionista per indurre il consumatore a stipulare un contratto ( 35 ). In base a questa ampia definizione, anche l’offerta professionale di contratti di credito ai consumatori oggetto del caso controverso, può essere considerata un’azione connessa alla vendita di un prodotto, vale a dire un servizio finanziario. Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto dal governo slovacco ( 36 ), nella causa principale ricorre un’ipotesi di «pratica commerciale» ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2005/29.

ii) Significato della delimitazione contenuta nell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva

81.

Dato che l’attività oggetto del caso in esame soddisfa la definizione di «pratiche commerciali» nel suo senso più ampio, essa rientra al contempo nell’ambito di applicazione come definito dall’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2005/29.

82.

A tale riguardo occorre tuttavia chiedersi se effettivamente la direttiva 2005/29 rilevi nell’affrontare la problematica sollevata dal caso controverso. In alcuni casi la sua applicabilità potrebbe eventualmente venir meno sul piano delle conseguenze giuridiche. A tal fine occorrerebbe individuare innanzitutto l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale. Quest’ultima, sulla base di una valutazione logica delle questioni e tenuto conto delle osservazioni contenute nell’ordinanza di rinvio, è finalizzata essenzialmente ad accertare se il diritto dell’Unione disapprovi la condotta di un professionista che, in sede di conclusione di un contratto con un consumatore, fornisce indicazioni false — nel caso controverso, indicando un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale — e la sanzioni prevedendo l’inefficacia della relativa clausola.

83.

La questione della rilevanza della direttiva 2005/29 s’impone proprio in quanto quest’ultima non contiene alcuna disposizione che preveda, quale conseguenza giuridica, l’inefficacia di una clausola simile. L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 stabilisce invece che «la presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto». In considerazione del suo tenore letterale («non pregiudica») e della sua collocazione sistematica nell’articolo 3, che disciplina l’ambito di applicazione della direttiva e il suo rapporto con gli altri atti di diritto dell’Unione, questa regola deve essere letta come una norma di delimitazione che, per espressa volontà del legislatore dell’Unione, permette di far ricorso a disposizioni specifiche di diritto dell’Unione e questo indipendentemente dall’eventuale applicazione della direttiva 2005/29. In questo modo continua ad essere possibile il ricorso a strumenti specifici a tutela del consumatore e disciplinati nei rispettivi atti giuridici. Sulla base dell’idea che fonda la regola stabilita nell’articolo 3, paragrafo 2, il fatto che la direttiva 2005/29 sia applicabile ad una determinata fattispecie, non limita in alcun modo le forme di tutela giuridica spettanti al consumatore in forza del diritto dei contratti, quali il recesso dal contratto o la riduzione della controprestazione dovuta.

84.

Tra le norme che disciplinano il diritto contrattuale e in particolare la validità del contratto, cui fa riferimento l’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29, rientrano indubbiamente le disposizioni della direttiva 93/13. Il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 e descritto all’inizio, di cui la regola contenuta nell’articolo 6 costituisce una parte essenziale, inerisce infatti ad aspetti del diritto dei contratti, specialmente all’efficacia giuridica di singole clausole contrattuali impiegate dai professionisti negli scambi commerciali con i consumatori. Vi si rinviene una disciplina dei rapporti giuridici contrattuali individuali tra due diverse categorie di privati, in base alla quale le clausole abusive non devono vincolare i consumatori e gli Stati membri devono attivarsi affinché anche i rispettivi ordinamenti di diritto civile prevedano tale conseguenza ( 37 ). Applicando coerentemente la norma di delimitazione di cui all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29, non si dovrebbe considerare escluso il ricorso alle disposizioni della direttiva 93/13.

85.

Dato che non è la direttiva 2005/29, bensì la direttiva 93/13 a prevedere a determinate condizioni la conseguenza giuridica dell’inefficacia di singole clausole contrattuali, la prima deve considerarsi, in ultima analisi, irrilevante ai fini dell’esame della problematica emersa nella causa principale. Nessuna delle sue disposizioni può essere addotta quale fondamento giuridico dell’inefficacia della clausola contrattuale controversa ( 38 ). Lo stesso giudice del rinvio sembra peraltro muovere implicitamente da detto presupposto, dato che nella seconda parte della questione, non ancora esaminata, chiede chiarimenti in merito alle eventuali conseguenze giuridiche di una qualificazione quale pratica sleale ai sensi della direttiva 2005/29 per l’applicazione dell’articolo 6 della direttiva 93/13. Vengono richieste pertanto delucidazioni in ordine alle interazioni tra gli articoli 5 e segg. della direttiva 2005/29 e l’articolo 6 della direttiva 93/13, il che impone di interpretare anche la disposizione della direttiva da ultimo citata.

iii) Conclusione intermedia

86.

Riassumendo, occorre quindi rilevare che, in ogni caso, la direttiva 2005/29 non trova applicazione ad una fattispecie come quella oggetto della causa principale, per quanto attiene alle conseguenze giuridiche.

c) Sussistenza di una pratica sleale

i) Necessaria interpretazione coerente delle norme a tutela del consumatore

87.

Ne consegue che, in via di principio, diviene superfluo valutare ulteriormente se l’attività controversa soddisfi i criteri della nozione di «pratiche sleali» ai sensi degli articoli 5 e segg. di detta direttiva.

88.

Tuttavia, la decisione del legislatore di escludere che la direttiva 2005/29 operi a livello di conseguenze giuridiche nei singoli casi stabiliti, non significa necessariamente che le valutazioni da esso ivi effettuate, poste alla base delle disposizioni di detta direttiva, non incidano sull’interpretazione di altri atti giuridici volti a disciplinare il rapporto tra professionisti e consumatori. Una valutazione sistematica complessiva degli atti giuridici emanati a tutela del consumatore rivela come tra di essi sussista una molteplicità di collegamenti da valutare anche in sede di interpretazione ( 39 ). Gli atti giuridici dell’Unione in materia di tutela del consumatore devono pertanto essere considerati come parte di un insieme complessivo e unitario di regole che si completano tra loro. La frammentazione che sussiste ancora oggi nell’ambito della legislazione dell’Unione in tema di tutela dei consumatori ( 40 ) è la conseguenza di uno sviluppo storico, nel corso del quale il legislatore, al fine di realizzare un vero mercato interno per gli scambi tra imprese e consumatori, ha gradualmente regolato singoli settori, in linea con l’acquis. La direttiva 2005/29 rinuncia a disciplinare il diritto dei contratti anche perché detti aspetti sono stati già disciplinati dal legislatore dell’Unione, in particolare con la direttiva 93/13. Le due direttive disciplinano ciascuna un proprio settore ben definito: la direttiva 2005/29 vieta il ricorso a pratiche commerciali sleali che possono falsare in maniera rilevante il comportamento economico dei consumatori, mentre la direttiva 93/13, da parte sua, vieta il ricorso a clausole abusive negli scambi commerciali con i consumatori.

89.

Pur in presenza di atti normativi autonomi, non è sempre facile stabilire una chiara delimitazione del rispettivo ambito di applicazione delle direttive. Da un lato, questo dipende dal fatto che le azioni disciplinate in concreto dalle direttive spesso si sovrappongono l’una all’altra. Dall’altro, è una conseguenza del fatto che la nozione di «pratiche commerciali» è definita in modo molto ampio così da ricomprendere, in definitiva, una molteplicità di condotte di carattere commerciale. Questa circostanza fa sì che la direttiva 2005/29 sia in un certo qual modo un quadro normativo generale rispetto alle normative specifiche, quali ad esempio la direttiva 93/13 ( 41 ). La ratio della norma di delimitazione contenuta nell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 è di garantire che tra le due direttive non si verifichino sovrapposizioni indesiderate sul piano delle conseguenze giuridiche.

90.

Questa delimitazione, tuttavia, non è un obiettivo fine a se stesso, ma risponde ad un preciso approccio normativo elaborato dal legislatore. In particolare, essa non può condurre a che una singola fattispecie, alla quale in linea di principio sono applicabili entrambe le direttive, venga valutata in modi differenti sotto il profilo giuridico. È necessaria invece un’interpretazione coerente delle disposizioni di legge di volta in volta applicabili per evitare valutazioni contraddittorie. Ciò risulta ancor più necessario in quanto le due direttive perseguono una stessa finalità di tutela, mirando entrambe a tutelare la capacità di valutazione e la libertà di scelta nel commercio ( 42 ).

91.

Lo stretto legame tra le due direttive può essere illustrato alla luce di alcuni esempi. Con riguardo alla fattispecie della causa principale è ipotizzabile, ad esempio, che la slealtà di una pratica commerciale consista proprio nell’impiego di clausole abusive ai sensi della direttiva 93/13 nei contratti con i consumatori ( 43 ). Il ricorso da parte del professionista a tali clausole potrebbe essere letto come un’azione ingannevole, dato che in tal modo viene trasmessa un’informazione falsa e il consumatore resta in una situazione di incertezza quanto all’effettiva entità dei suoi diritti e dei suoi obblighi contrattuali, specialmente per quanto concerne i diritti e gli obblighi derivanti dalle clausole abusive e, in quanto tali, non opponibili al consumatore. Similmente potrebbe essere valutato il caso in cui il professionista formuli in modo poco chiaro ed equivoco clausole centrali del contratto, per sottacere al consumatore informazioni essenziali. Al contrario è anche ipotizzabile che indicazioni false e, quindi, ingannevoli contenute in una clausola contrattuale ai sensi della direttiva 2005/29 ne determinino appunto il carattere abusivo. Evidentemente il giudice del rinvio sospetta che quest’ultimo sia proprio il caso verificatosi nella causa principale, da esaminare in prosieguo in modo più dettagliato.

92.

Ai fini di una coerente interpretazione della legislazione dell’Unione in tema di tutela dei consumatori è quindi necessario esaminare se l’indicazione di un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale possa essere qualificata come una «pratica commerciale sleale» ai sensi degli articoli 5 e segg. della direttiva 2005/29. Le conseguenze di una simile valutazione per l’interpretazione della direttiva 93/13 saranno oggetto di esame con riferimento alla seconda parte della domanda.

ii) Esame del carattere sleale della pratica commerciale

93.

La sussistenza di una «pratica commerciale sleale» va esaminata in base allo schema di analisi descritto al paragrafo 79 delle presenti conclusioni.

— Sussistenza di un’azione ingannevole ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5, paragrafo 4, lettera a), e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2005/29

94.

In primo luogo occorre osservare che l’errata indicazione di un importo, quale il tasso annuo effettivo globale in un contratto di credito al consumo, non corrisponde a nessuna delle pratiche commerciali sleali indicate nell’allegato I della direttiva. Poiché tali indicazioni non rientrano tra le pratiche commerciali elencate nell’allegato I, che sono considerate in ogni caso sleali, in via di principio esse possono essere vietate solo se costituiscono pratiche commerciali sleali perché, ad esempio, ingannevoli o aggressive ai sensi della direttiva.

Azione positiva del professionista

95.

Dato che nel caso controverso, vista la mancanza di elementi che possano indicare l’eventuale ricorso a mezzi quali molestie, coercizione, forza o ad un altro indebito condizionamento, è possibile escludere a priori l’ipotesi della pratica commerciale aggressiva, in prosieguo resta da esaminare se sussistono i presupposti di una pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2005/29. A tal riguardo occorre osservare che la direttiva distingue tra azioni ingannevoli (articolo 6) e omissioni ingannevoli (articolo 7), disciplinando le due categorie separatamente. Ai fini di una corretta valutazione giuridica del caso controverso, è necessario quindi individuare la tipologia di condotta pertinente.

96.

A mio parere, una pratica commerciale come quella esercitata nel caso controverso, che consiste nell’indicare un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale in un contratto di credito, rientra piuttosto nell’ambito della prima delle categorie citate, dato che l’influenza sul consumatore chiamato a prendere una decisione in merito al negozio giuridico viene esercitata in modo determinante mediante un fare positivo del professionista e cioè mediante informazioni false in relazione ad un aspetto essenziale del contratto ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva. Un comportamento siffatto non può essere letto unicamente come un’omissione derivante da una mancata messa a disposizione di informazioni. Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dal governo tedesco ( 44 ), è esclusa l’applicabilità dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva, che disciplina il caso specifico dell’omissione di informazioni essenziali.

Influenza sulla decisione di natura commerciale del consumatore

97.

Gli elementi del contratto considerati essenziali dal legislatore dell’Unione sono elencati nell’articolo 6, paragrafo 1. Muovendo da un’interpretazione ampia e, quindi, favorevole ai consumatori, delle disposizioni della direttiva, il tasso annuo effettivo globale di un contratto di credito al consumo può essere ricondotto in linea di principio alla nozione di «prezzo» ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), tanto più che, in base alla definizione normativa contenuta nell’articolo 1, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 87/102, il tasso annuo effettivo globale deve essere considerato come parte del costo totale che il consumatore deve sostenere per la concessione del credito. Gli interessi rappresentano, dal punto di vista giuridico, il corrispettivo per la concessione di un prestito per un determinato periodo di tempo. Ne consegue che anche un calcolo errato del tasso annuo effettivo globale, come quello riscontrato nel caso controverso in base alle indicazioni del giudice del rinvio, deve essere qualificato come «calcolo del prezzo» ai sensi di detta disposizione.

98.

A tale riguardo occorre evidenziare che la valutazione del calcolo del prezzo come errato effettuata dal giudice del rinvio è vincolante per la Corte, da un lato, in quanto il calcolo del tasso annuo effettivo globale deve essere effettuato, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 87/102, secondo i metodi esistenti negli Stati membri, e spetta allo stesso giudice del rinvio verificare che essi siano stati correttamente applicati; dall’altro, poiché è il giudice del rinvio ad essere competente ad accertare i fatti alla base del procedimento pregiudiziale.

99.

Per quanto attiene alle altre condizioni fissate dall’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2005/29, occorre osservare che errate informazioni in merito al tasso annuo effettivo globale — specialmente qualora venga indicato un tasso sensibilmente inferiore rispetto a quello reale — sono anche idonee a ingannare il consumatore medio e a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Alla luce dell’id quod plerumque accidit si può, infatti, muovere dal presupposto che, di norma, un consumatore medio raccolga le offerte di più potenziali mutuanti e adotti una decisione sulla stipula del mutuo sulla base di un confronto tra queste offerte, ivi compresi i prevedibili costi che egli dovrà sostenere. In altri termini, condizioni di credito comparativamente più vantaggiose influenzano generalmente in maniera decisiva la formazione della volontà del consumatore.

100.

Il diritto dell’Unione tiene conto dell’esigenza di informazione del consumatore, prevedendo espressamente nella direttiva 87/102 — adottata al duplice scopo, da una parte, di assicurare, la realizzazione di un mercato interno del credito al consumo (terzo, quarto e quinto considerando) e, dall’altra, di proteggere i consumatori che sottoscrivono tali crediti (sesto, settimo e nono considerando) — che il consumatore deve ricevere adeguate informazioni sulle condizioni e sul costo del credito nonché sugli obblighi contratti. Questo si evince, da un lato, dall’ottavo considerando e, dall’altro, dall’obbligo indicato nell’articolo 4, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 87/102, di specificare in ogni documento scritto il tasso annuo effettivo globale. Come ripetutamente chiarito dalla Corte nella sua giurisprudenza, l’obbligo di mettere a disposizione del mutuatario, al momento della conclusione del contratto, tutte le informazioni che possono incidere sulla portata della sua obbligazione, è volto a proteggere il consumatore contro condizioni di credito inique, e deve consentirgli di avere una conoscenza completa delle condizioni di esecuzione del contratto ( 45 ).

101.

Le disposizioni sopracitate della direttiva 87/102 comprovano che il tasso annuo effettivo globale rappresenta un’informazione essenziale nell’ambito della conclusione dei contratti di credito ( 46 ), senza la quale di regola il consumatore non può adottare una decisione consapevole. Il consumatore è pertanto fortemente condizionato dalla correttezza di dette informazioni. L’induzione in errore con riferimento proprio a questa indicazione, sia essa intenzionale o dovuta a negligenza, si ripercuote necessariamente a suo sfavore. Non da ultimo, proprio in considerazione dell’importanza di questa indicazione, per consentire al consumatore di prendere una decisione e in considerazione delle gravi conseguenze di una decisione errata, l’articolo 3 della direttiva 87/102 impone di renderla nota già prima della conclusione del contratto, vale a dire in fase di pubblicità.

102.

L’opinione qui sostenuta, secondo cui false indicazioni fornite in sede di conclusione del contratto di credito sono essenzialmente idonee a influenzare la decisione di natura commerciale del consumatore ai sensi della direttiva 2005/29, si basa anche sul decimo considerando di detta direttiva, che, come correttamente osservato dal governo slovacco ( 47 ), determina in un certo qual modo un collegamento con la direttiva 87/102 qui pertinente. Da esso si evince che la direttiva 2005/29 «offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore e vieta ai professionisti di creare una falsa impressione sulla natura dei prodotti». Il legislatore della direttiva osserva, inoltre, che «ciò è particolarmente importante per prodotti complessi che comportano rischi elevati per i consumatori, come alcuni prodotti finanziari» ( 48 ). Queste affermazioni comprovano come il legislatore dell’Unione fosse senz’altro consapevole dei rischi cui è esposto il consumatore in questo specifico settore economico. Nel caso controverso questo rischio si è concretizzato proprio in sede di conclusione di un contratto di credito.

103.

Pertanto, in base ad una valutazione oggettiva, sussiste un’azione ingannevole ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5, paragrafo 4, lettera a), e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2005/29. In definitiva, la falsa indicazione del tasso annuo effettivo globale all’interno di un contratto di credito al consumo integra quindi una «pratica commerciale sleale» ai sensi della suddetta direttiva.

— Accertamento, in via subordinata, di una violazione del dovere di diligenza professionale

104.

Infine, occorre brevemente verificare l’eventuale ricorrere dei presupposti della violazione di un dovere di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2005/29, richiamato sia dal giudice del rinvio nella sua ordinanza di rinvio ( 49 ), sia da numerose parti nelle proprie osservazioni scritte.

105.

Come si può desumere dal tenore letterale dell’articolo 5, paragrafo 4 («in particolare»), della direttiva 2005/29, le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive rappresentano unicamente forme particolari di pratiche commerciali sleali. Detta norma non contiene neppure un rinvio alla nozione di diligenza professionale, dato che un approccio ingannevole o aggressivo nei confronti del consumatore viene considerato dal legislatore della direttiva come di per sé contrastante con i requisiti della diligenza professionale. Pertanto, nell’ambito dell’applicazione di questa direttiva, non occorre neanche verificare se la pratica commerciale ingannevole o aggressiva rispetti il dovere di diligenza professionale del professionista. Una disamina giuridica in tal senso si rende necessaria solo laddove venga in considerazione l’applicazione della clausola generale di cui all’articolo 5, paragrafo 1 ( 50 ). Lo stesso vale peraltro con riguardo al requisito indicato nell’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), ovvero l’idoneità a «falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio», che corrisponde sostanzialmente al presupposto di cui all’articolo 6, paragrafo 1, ovvero che la pratica commerciale sia idonea ad influenzare la decisione di natura economica del consumatore.

106.

In considerazione del fatto che la condotta ingannevole ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, lettera a), della direttiva può essere affermata già alla luce della valutazione giuridica dei fatti qui compiuta, risulta, a mio parere, superfluo procedere con un esame specifico di tali aspetti. A titolo meramente precauzionale, evidenzio come alcune false informazioni in merito al tasso annuo effettivo globale, riconducibili ad un suo calcolo errato, difficilmente potrebbero integrare i requisiti della diligenza professionale. Da un professionista ci si può, infatti, attendere che eserciti la sua attività professionale in linea con le disposizioni di legge pertinenti e operi con particolare diligenza nel rapporto con un consumatore, tanto più che quest’ultimo dipende dalle capacità professionali del professionista. Come osservato all’inizio nell’esame degli obiettivi perseguiti con l’articolo 6 della direttiva 93/13 ( 51 ), la particolare vulnerabilità del consumatore deriva dal fatto che di norma questi si trova in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione. Questa situazione fa sì che il consumatore sia facilmente portato ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse. Di fatto, tale situazione può essere riequilibrata solo esigendo dal professionista il rigoroso rispetto di determinati doveri di informazione.

107.

Anche un’analisi in via subordinata condotta sulla base dei criteri indicati nella clausola generale contenuta nell’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 porta quindi a concludere che, nel caso in esame, sussiste una «pratica commerciale sleale».

d) Conclusione

108.

Alla luce di tutte le considerazioni suesposte, occorre rispondere alla prima parte della questione dichiarando che la direttiva 2005/29 va interpretata nel senso che il comportamento di un professionista, il quale indichi in un contratto un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale, soddisfa i criteri per una qualificazione quale pratica commerciale sleale.

2. Seconda parte della domanda: le conseguenze delle pratiche commerciali sleali sull’efficacia del contratto

109.

La seconda parte riguarda le eventuali conseguenze di una qualificazione della pratica commerciale in esame quale pratica sleale ai sensi della direttiva 2005/29 sull’efficacia del contratto di cui trattasi nel contesto della direttiva 93/13. A tal fine, occorre esaminare tanto la rilevanza dei singoli atti giuridici potenzialmente applicabili al caso controverso quanto il modo in cui essi interagiscono tra di loro.

a) Rilevanza della direttiva 87/102

110.

A tale riguardo occorre constatare che una violazione del dovere di informazione sancito dall’articolo 4, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 87/102 non permette in alcun modo di trarre direttamente una conclusione in merito all’eventuale inefficacia parziale o totale del contratto di credito, tanto più che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva si limita a stabilire che gli Stati membri provvedono affinché i contratti di credito non deroghino, a detrimento del consumatore, alle disposizioni del diritto nazionale che danno esecuzione o che corrispondono a tale direttiva. Alla luce dell’erronea indicazione del tasso annuo effettivo globale, nel caso di specie ricorre certamente un’oggettiva violazione dell’obbligo di informazione. Non sono però previste disposizioni più precise che obblighino, ad esempio, i giudici nazionali a dichiarare l’inefficacia del contratto di credito. Muovendo dal presupposto che la direttiva 87/102 non prevede corrispondenti conseguenze giuridiche in caso di violazione dell’obbligo di informazione, essa non risulta pertinente al fine di fornire una risposta alla seconda parte della questione.

b) Rilevanza della direttiva 2005/29

111.

Inequivocabili sono invece le disposizioni della direttiva 2005/29 nella parte in cui, come già osservato ( 52 ), ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, non pregiudicano l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto. L’articolo 13 stabilisce certamente a carico degli Stati membri l’obbligo di determinare le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in applicazione di tale direttiva. Tuttavia un’interpretazione nel senso di ammettere quale sanzione anche l’inefficacia della clausola contrattuale si porrebbe in chiaro contrasto con la prima disposizione citata. Una simile interpretazione non sarebbe sostenibile in considerazione dell’espressa decisione assunta dal legislatore della direttiva di non disciplinare, con la direttiva 2005/29, il diritto dei contratti. Pertanto, neppure questa direttiva rileva direttamente ai fini della risoluzione della seconda parte della questione.

c) Rilevanza della direttiva 93/13

112.

L’irrilevanza della direttiva 2005/29, invece, non preclude in alcun modo l’applicazione degli altri atti di diritto dell’Unione e dei rimedi ivi previsti a tutela del consumatore ( 53 ). Viene quindi in considerazione un’applicazione della direttiva 93/13, tanto più che l’oggetto di disciplina, come già detto, è costituito dal diritto dei contratti e, in particolare, dalla loro efficacia.

i) Ambito di applicazione della direttiva

113.

A tal fine è necessario innanzitutto verificare che la clausola controversa rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13, stabilito nell’articolo 1. Vi è una restrizione dell’ambito di applicazione ratione personae, nella misura in cui, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, la direttiva concerne solo le clausole nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore. Da ciò risulta che sia i contratti stipulati tra consumatori, sia quelli stipulati tra professionisti sono esclusi dal suo ambito di applicazione. L’ambito di applicazione ratione materiae viene a sua volta definito dall’articolo 1, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera a), e con l’articolo 3, paragrafo 1, ai sensi del quale oggetto del controllo previsto dalla direttiva sono solo «le clausole contenute nei contratti stipulati con i consumatori non oggetto di negoziato individuale».

114.

Nel caso controverso non viene messo in discussione che il contratto di credito, stipulato dal convenuto nella causa principale con il suo cliente, costituisca un contratto tra un professionista e un consumatore. A quanto risulta dall’ordinanza di rinvio, ossia dal fatto che i crediti vengono concessi sulla base di contratti d’adesione standard, si può concludere che il contratto di credito controverso non è stato negoziato individualmente con il consumatore. Ne consegue che tale contratto rientra sia nell’ambito di applicazione ratione personae, sia in quello ratione materiae della direttiva.

ii) Portata del controllo sostanziale

115.

La clausola contenente la falsa indicazione del tasso annuo effettivo globale dovrebbe, inoltre, poter essere oggetto di controllo sostanziale ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.

116.

Si rimanda al riguardo alla sentenza Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid, nella quale la Corte ha chiarito che questa norma non è tanto volta a disciplinare l’ambito di applicazione della direttiva 93/13, quanto piuttosto a «stabilire le modalità e la portata del controllo sostanziale delle clausole contrattuali, che non siano state oggetto di trattativa individuale, le quali descrivono le prestazioni essenziali dei contratti stipulati tra un professionista ed un consumatore» ( 54 ). In base ad essa la valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte «né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».

117.

Con riferimento ad un inquadramento tra gli elementi indicati all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, occorre evidenziare che il legislatore dell’Unione riconosce importanza all’indicazione del tasso annuo effettivo globale perché, in ultima analisi, essa riguarda l’oggetto principale del contratto di credito e, di fatto, informa sui costi che il mutuatario è tenuto a rimborsare al mutuante per la concessione del finanziamento. Il tasso annuo effettivo globale rappresenta così una delle prestazioni principali dovute al mutuante nella struttura complessiva dei diritti e dei doveri delle parti in base al contratto di credito. Ne consegue che anche una clausola contenente informazioni false sui costi perché, ad esempio, il tasso annuo effettivo globale è stato calcolato in modo errato, può essere oggetto di controllo sostanziale ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, se non è formulata in modo chiaro e comprensibile.

118.

Elementi a favore di una conclusione in questo senso si possono desumere dalla decisione della Corte nella causa Pohotovosť, che presenta certi parallelismi con la causa in esame. Nell’ambito di tale causa, la Corte era chiamata a valutare, tra l’altro, se la mancata indicazione del tasso annuo effettivo globale in un contratto di credito possa costituire un elemento decisivo nell’ambito dell’accertamento, da parte del giudice nazionale, della circostanza se una clausola di un contratto di credito relativa al costo di quest’ultimo, nella quale non compaia una siffatta indicazione, sia formulata in modo chiaro e comprensibile ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 93/13. La Corte ha risposto affermativamente a detta questione ( 55 ), attribuendo al giudice nazionale il compito di valutare, nell’ambito di un esame del singolo caso, se la clausola controversa rispondesse ai succitati requisiti di chiarezza e comprensibilità.

119.

Il fatto che, nel contempo, nelle proprie considerazioni all’interno di tale sentenza, la Corte abbia implicitamente riconosciuto la possibilità di sottoporre una simile clausola a controllo, riveste importanza ancora maggiore ai fini della risoluzione della questione controversa ( 56 ). La circostanza che nella causa Pohotovosť si discutesse di un’informazione mancante e non di un’informazione errata, come nella causa principale, risulta in linea di principio irrilevante per quanto concerne la questione dell’eventuale trasponibilità di tale giurisprudenza alla fattispecie in esame, tanto più che in entrambi i casi si tratta di informazioni essenziali che, in violazione di un’espressa disposizione del diritto dell’Unione, non sono state inserite nel contratto di credito. Entrambi i casi vertono sul medesimo oggetto del contratto cosicché, in linea di principio, è da considerarsi possibile un controllo sostanziale. Ciò dipende però in definitiva dal fatto che siano rispettate le condizioni di chiarezza e comprensibilità, aspetto questo che, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza, compete al giudice nazionale stesso verificare ( 57 ).

iii) Carattere abusivo della clausola contrattuale

120.

Tra le competenze del giudice nazionale rientra, inoltre, quella relativa alla valutazione nel singolo caso del carattere abusivo della clausola controversa. Questa valutazione deve essere effettuata sulla base dei criteri generali stabiliti dal legislatore dell’Unione nell’articolo 3, paragrafo 1, e nell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13 ( 58 ). Come dichiarato dalla Corte nella sentenza Pannon GSM ( 59 ), l’articolo 3 della direttiva definisce in modo astratto gli elementi che conferiscono il carattere abusivo ad una clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale, mentre l’allegato cui rinvia l’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva contiene un elenco indicativo e non esauriente di clausole che possono essere dichiarate abusive.

121.

In definitiva, se la classificazione di una pratica commerciale come «sleale» ai sensi della direttiva 2005/29 possa influire sulla qualificazione di una clausola come «abusiva», ai sensi della direttiva 93/13, come suppone il giudice del rinvio nell’ambito della seconda parte della questione pregiudiziale, a mio parere può essere chiarito solo in sede di interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13. Come chiarito da ultimo nella sentenza Pénzügyi Lízing ( 60 ), i sopracitati criteri generali della direttiva sono infatti sottoposti anche alla competenza interpretativa della Corte.

122.

Detta norma prevede nel dettaglio che il carattere abusivo di una clausola contrattuale sia valutato «tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende». L’ampia formulazione di questa disposizione impone al giudice nazionale di valutare non solo il contenuto vero e proprio del contratto, ma anche una molteplicità di altri fattori rilevanti ( 61 ).

123.

A maggior ragione, occorre però tener conto anche di quei fattori cui sono collegate determinate valutazioni giuridiche del legislatore. A favore di un’interpretazione in questo senso depone il fatto che, in base a quanto espressamente previsto in tale norma, devono essere tenute in considerazione «tutte le circostanze che accompagnano la conclusione del contratto». Sia il tenore letterale, sia la ratio dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, come anche il rapporto che intercorre tra le due direttive nell’ambito delle normativa dell’Unione in materia di tutela del consumatore, sono tali da far pensare che tra queste circostanze vadano contemplati anche quei comportamenti che, conformemente alla definizione di «pratiche commerciali» di cui all’ articolo 2, lettera d), della direttiva 2005/29, mirano ad attirare la clientela al fine di concludere contratti con i consumatori. Un chiaro elemento a favore di questa interpretazione si rinviene nel quindicesimo considerando della direttiva 93/13 in base al quale, nel valutare il carattere abusivo delle clausole, «occorre rivolgere particolare attenzione (…) al quesito se il consumatore sia stato in qualche modo incoraggiato» ( 62 ).

124.

È a questo punto, ritengo, che l’eventuale valutazione di una pratica commerciale come «sleale» alla luce dei criteri indicati nella direttiva 2005/29 dovrebbe incidere sulla valutazione del carattere abusivo di una clausola. La qualificazione come «sleale» ai sensi della direttiva 2005/29 altro non indica, infatti, se non l’esercizio di un’influenza sulla capacità di valutazione e sulla libertà di decisione del consumatore condannata dal legislatore. Occorre inoltre osservare come il carattere sleale di una pratica commerciale, che si manifesta nell’esercizio di una siffatta influenza, possa offrire alcuni chiarimenti anche in relazione ad un aspetto essenziale da prendere in considerazione in sede di valutazione del carattere abusivo di una clausola, ovvero se il professionista abbia eventualmente agito in violazione del requisito della buona fede sancito dall’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13. Ciò emerge con chiarezza dal quindicesimo considerando della direttiva 93/13. Alla luce di tali considerazioni, l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13 può essere considerato in un certo qual modo una porta d’accesso per le valutazioni effettuate sulla base del diritto in materia di lealtà commerciale.

125.

La convergenza delle finalità di tutela perseguite dalle due direttive, cui ho già fatto riferimento ( 63 ), si ravvisa nel fatto che un’inammissibile influenza esercitata dal professionista sulla formazione della volontà del consumatore, tramite ricorso ad una pratica commerciale sleale, sfocerà non di rado in una situazione di squilibrio nei rapporti contrattuali a detrimento del consumatore ( 64 ). Tuttavia, questo non significa assolutamente che il carattere di slealtà di una pratica commerciale implichi automaticamente che una clausola contrattuale è abusiva. Il carattere abusivo di una clausola contrattuale, invece, deve essere valutato in primo luogo sulla base delle disposizioni contenute nella direttiva 93/13 quale diritto immediatamente applicabile. Il fatto che la pratica commerciale che ha condotto alla conclusione del contratto di credito sia da qualificare come «sleale» può tutt’al più rilevare come indice accanto ad altri, cui il giudice nazionale farà ricorso per fondare la propria valutazione ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 93/13 ( 65 ). Occorre pertanto concordare con il governo tedesco ( 66 ) laddove si sostiene che l’accertamento di una pratica commerciale sleale può produrre esclusivamente effetti indiretti sull’accertamento del carattere abusivo di una clausola contrattuale.

d) Conclusione

126.

È pertanto necessario rispondere alla seconda parte della questione affermando che la direttiva 2005/29 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento del carattere sleale di una pratica commerciale non incide direttamente sulla questione dell’efficacia di un contratto di credito concluso nell’ambito di detta pratica commerciale.

3. Conclusioni riassuntive

127.

L’esame che precede ha mostrato come la condotta di un professionista che, nel contratto, indichi un tasso annuo effettivo globale inferiore rispetto a quello reale, soddisfa i criteri per una qualificazione come pratica commerciale sleale stabiliti nella direttiva 2005/29 ( 67 ). Quantunque detta direttiva non incida, in linea di principio, sulla validità di singoli contratti ( 68 ), occorre riconoscere che essa contiene determinate valutazioni effettuate dal legislatore dell’Unione di cui il giudice nazionale dovrebbe tener conto in sede di valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale. Egli è chiamato a farlo in conformità dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, tanto più che detta valutazione deve essere compiuta anche «tenendo conto di tutte le circostanze che accompagnano la conclusione del contratto». Tra queste valutazioni figura anche la disapprovazione di una determinata pratica commerciale, ad esempio, sotto forma di inammissibile influenza da parte del professionista sulla facoltà di giudizio e sulla libertà di decisione del consumatore. La sussistenza di una pratica commerciale sleale può essere considerata come un indice del carattere abusivo di una clausola contrattuale, ma non esonera il giudice nazionale dal suo dovere di compiere detta valutazione sulla base di tutte le circostanze del caso specifico ( 69 ).

VII — Conclusione

128.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sottoposte dall’Okresný súd Prešov come segue:

1)

L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che, ai fini della conservazione di un contratto stipulato con un consumatore e contenente clausole abusive, non rileva se una tale conservazione sia più conveniente per il consumatore. Questa norma, però, non impedisce agli Stati membri di prevedere nei propri ordinamenti nazionali, in un caso simile, la conseguenza giuridica dell’inefficacia dell’intero contratto.

2)

La direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio nonché il regolamento n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (CE) (direttiva sulle pratiche commerciali sleali) deve essere interpretata nel senso che il comportamento di un professionista che, nel contratto, indichi un tasso annuo effettivo globale inferiore a quello reale, soddisfa i criteri per una qualificazione come pratica commerciale sleale.

L’accertamento di detta pratica commerciale sleale, pur non avendo effetti diretti sulla valutazione del carattere abusivo, nonché dell’efficacia di una clausola o dell’intero contratto di credito ai sensi della direttiva 93/13, può essere tuttavia considerato come una circostanza che accompagna la conclusione del contratto, di cui il competente giudice nazionale avrà il dovere di tener conto nella sua valutazione in conformità dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13.


( 1 ) Lingua originale: il tedesco.

( 2 ) Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU L 95, pag. 29).

( 3 ) Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (direttiva sulle pratiche commerciali sleali) (GU L 149, pag. 22).

( 4 ) Direttiva 87/102/CEE del Consiglio, del 22 dicembre 1986, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo (GU L 42, pag. 48).

( 5 ) Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE (GU L 133, pag. 66).

( 6 ) Ordinanza del 16 novembre 2010 (C-76/10, Racc. pag. I-11557).

( 7 ) V. sentenze del 27 giugno 2000, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores (da C-240/98 a C-244/98, Racc. pag. I-4941, punto 25), e del 26 ottobre 2006, Mostaza Claro (C-168/05, Racc. pag. I-10421, punto 25).

( 8 ) V. sentenze Mostaza Claro (cit. supra alla nota 7, punto 36) e del 4 giugno 2009, Pannon GSM (C-243/08, Racc. pag. I-4713, punto 25).

( 9 ) V. sentenze Océano Grupo Editorial e Salvat Editores (cit. supra alla nota 7, punto 27); Mostaza Claro (cit. supra alla nota 7, punto 26) e del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones (C-40/08, Racc. pag. I-9579, punto 31).

( 10 ) Sentenza Asturcom Telecomunicaciones (cit. supra alla nota 9, punto 32).

( 11 ) Sentenze del 21 novembre 2002, Cofidis (C-473/00, Racc. pag. I-10875, punto 32) e Mostaza Claro (cit. supra alla nota 7, punto 27).

( 12 ) Sentenze Cofidis (cit. supra alla nota 11, punto 33) e Mostaza Claro (cit. supra alla nota 7, punto 28).

( 13 ) Conclusioni dell’avvocato generale Tizzano del 22 settembre 2005, Ynos (sentenza del 10 gennaio 2006, C-302/04, Racc. pag. I-371).

( 14 ) Idem (par. 80).

( 15 ) In questo senso, T. Pfeiffer, Das Recht der Europäischen Union (a cura di E. Grabitz/M. Hilf), Vol. IV, A5, articolo 6, punto 10, pag. 3, il quale deduce dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, seconda frase, della direttiva che le conseguenze giuridiche dell’abusività di una clausola (a seconda del diritto nazionale, l’inesistenza, l’inefficacia assoluta o relativa, oppure l’inopponibilità della clausola) in linea di principio dovrebbero essere circoscritte alle clausole abusive, il che significa allo stesso tempo che, quanto al resto, il contratto dovrebbe continuare a sussistere.

( 16 ) Nelle proprie pronunce, la Corte si è richiamata spesso al principio dell’autonomia privata nelle sue varie espressioni. V. sentenze del 9 marzo 2006, Werhof (C-499/04, Racc. pag. I-2397, punto 23); del 5 ottobre 1999, Spagna/Commissione (C-240/97, Racc. pag. I-6571, punto 99); del 30 aprile 1998, Bellone/Yokohama (C-215/97, Racc. pag. I-2191, punto 14) e del 10 luglio 1991, Neu e a. (C-90/90 e C-91/90, Racc. pag. I-3617, punto 13).

( 17 ) Conclusioni Ynos (cit. supra alla nota 13, paragrafo 79).

( 18 ) A tale riguardo occorre considerare che il legislatore dell’Unione si è ispirato, oltre che all’obiettivo del mercato interno, anche al principio dell’autonomia privata, che si esplica nella già citata libertà contrattuale. L’autonomia privata, l’economia di mercato e la concorrenza sono interdipendenti (v. K. Riesenhuber, Privatrechtsgesellschaft: Entwicklung, Stand und Verfassung des Privatrechts, Tubinga 2007, pagg. 13 e seg.). L’autonomia privata presuppone l’esistenza di un mercato e determina la concorrenza; la tutela di una concorrenza non falsata assicura la sussistenza del mercato e, in tal modo, la libertà di scelta degli interessati. Il principio in base al quale il contenuto dei rapporti giuridici viene determinato autonomamente da parte dei singoli in base alla propria volontà costituisce il nocciolo comune delle libertà fondamentali, che ampliano per i privati la possibilità di agire in modo autonomo al di là dei confini degli Stati membri.

( 19 ) E. Kapnopoulou, Das Recht der missbräuchlichen Klausel in der Europäischen Union, Tubinga 1997, pag. 152, ritiene però che non sia possibile continuare a dare esecuzione al contratto se, dopo aver accertato il carattere abusivo di singole clausole, le lacune lasciate all’interno di tale contratto risultano troppo ampie.

( 20 ) Presupposto per la conservazione del contratto è che esso — nella versione tedesca — possa sussistere «auf derselben Grundlage» («secondo i medesimi termini»). Con questa formulazione, non del tutto chiara, s’intende far riferimento alla conservazione dello stesso, per il resto, alle stesse condizioni. Ciò emerge da un confronto tra le altre versioni linguistiche del testo che concordemente rimandano alle condizioni contrattuali (francese: «selon les mêmes termes»; inglese: «upon these terms»; italiano: «secondo i medesimi termini»; spagnolo: «en los mismos términos»). Tale condizione è rispettata, quando il contratto, in base al suo scopo e alla sua natura giuridica, può continuare a sussistere anche senza le clausole abusive [v. T. Pfeiffer, loc. cit. supra, (nota 15), punto 11, pag. 3].

( 21 ) V. ordinanza Pohotovosť (cit. supra alla nota 6, punto 61).

( 22 ) Sentenza del 1o aprile 2004, Freiburger Kommunalbauten (C-237/02, Racc. pag. I-3403).

( 23 ) Ibidem, punto 21.

( 24 ) Ibidem. Le conseguenze dell’accertamento del carattere abusivo di una clausola contrattuale possono essere diverse da un ordinamento all’altro. Non da ultimo per questo motivo l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 ha stabilito in modo neutro che le clausole abusive «non vincolano» il consumatore. Questa norma si limita a prescrivere un determinato risultato che gli Stati membri sono tenuti a raggiungere in sede di attuazione della direttiva, senza però stabilire nel dettaglio se la clausola in questione debba essere dichiarata invalida o inefficace. Tale aspetto viene invece rimesso al diritto nazionale, che disciplina le specifiche conseguenze giuridiche. L’impiego di espressioni neutre da parte del legislatore dell’Unione si fonda in definitiva sul riconoscimento della varietà degli ordinamenti e delle tradizioni di diritto civile all’interno dell’Unione (v., sull’origine del diritto civile europeo, M. Rainer, Introduction to Comparative Law, Vienna 2010, pagg. 27 e seg.).

( 25 ) V. E. Kapnopoulou, loc. cit. supra (nota 19), pag. 151, che evidenzia come la direttiva 93/13 non contenga una disciplina esaustiva delle conseguenze giuridiche. Essa fissa soltanto delle linee guida, rimandando poi ai diritti nazionali degli Stati membri per le precise disposizioni circa le singole conseguenze giuridiche. Spetterebbe agli ordinamenti nazionali stabilire cosa accada ai contratti che presentano delle lacune. A seconda delle caratteristiche del caso specifico, si potrebbe ricorrere al diritto dispositivo, all’interpretazione estensiva del contratto, alla riqualificazione del contratto o all’inefficacia del contratto nel suo complesso.

( 26 ) V. sentenza del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (C-484/08, Racc. pag. I-4785, punti 28 e 29).

( 27 ) Ibidem (punti 28 e 29).

( 28 ) Nell’esercizio della facoltà prevista all’articolo 8 della direttiva, gli Stati membri devono rispettare i limiti generali del diritto dell’Unione. Con ciò s’intende il diritto primario, comprese le libertà fondamentali, e le altre norme di diritto secondario [v. E. Kapnopoulou, loc. cit. supra (nota 19), pag. 163].

( 29 ) Come correttamente osservato da E. Kapnopoulou, loc. cit. supra (nota 19), pag. 162, gli Stati membri possono prevedere soltanto regole che, rispetto al livello di tutela accordato dalla direttiva 93/13, rappresentino un «plus», non un «aliud» e tanto meno un «minus».

( 30 ) V. paragrafo 67 delle presenti conclusioni.

( 31 ) Con riguardo alla specifica attività di concessione di crediti a titolo professionale occorre tener conto principalmente della libera prestazione dei servizi e, in misura minore, anche della libera circolazione dei capitali (v. sentenza del 3 ottobre 2006, Fidium Finanz, C-452/04, Racc. pag. I-9521, punto 43; v., in merito alla libera prestazione dei servizi, F. Weiss/F. Wooldridge, Free Movement of Persons within the European Community, 2a ed., Alphen aan den Rijn 2007, pagg. 123 e seg.). Con riguardo ai contratti di vendita di beni mobili, rileverebbe invece la libera circolazione delle merci.

( 32 ) V. sentenze del 9 novembre 2010, Mediaprint Zeitungs- und Zeitschriftenverlag (C-540/08, Racc. pag. I-10909, punti 27 e 30); del 14 gennaio 2010, Plus Warenhandelsgesellschaft (C-304/08, Racc. pag. I-217, punto 41) e del 23 aprile 2009, VTB-VAB e Galatea (C-261/07 e C-299/07, Racc. pag. I-2949, punto 52).

( 33 ) V. le mie conclusioni del 3 settembre 2009 nella causa Plus Warenhandelsgesellschaft (sentenza cit. supra alla nota 32, paragrafo 74).

( 34 ) V. sentenza Mediaprint Zeitungs- und Zeitschriftenverlag (cit. supra alla nota 32, punto 17).

( 35 ) V. S. Orlando, The Use of Unfair Contractual Terms as an Unfair Commercial Practice, European Review of Contract Law, Vol. VII, 2007, n. 1, pag. 40, secondo il quale le pratiche commerciali comprendono tutte le azioni di un professionista che possono influenzare la decisione del consumatore in merito alla conclusione del contratto.

( 36 ) V. punto 13 della memoria del governo slovacco.

( 37 ) In questo senso, S. Orlando, loc. cit. supra (nota 35), pag. 35, il quale osserva come l’articolo 6 della direttiva 93/13 disciplina il trattamento giuridico delle clausole contrattuali abusive, vale a dire un aspetto dei rapporti giuridici contrattuali individuali tra professionista e consumatore. Analogamente anche I. Tilmann, Die Klauselrichtlinie 93/13/EWG auf der Schnittstelle zwischen Privatrecht und öffentlichem Recht, pag. 10, secondo il quale andrebbe riconosciuto alla direttiva 93/13 un peso particolare, sotto il profilo dell’armonizzazione del diritto privato nell’UE, rispetto alle altre direttive in materia di tutela dei consumatori, poiché essa riguarda il diritto dei contratti e quindi un aspetto centrale del diritto privato. Il diritto nazionale dei contratti negli Stati membri avrebbe subito profonde modifiche con l’attuazione della direttiva, che porterebbe ad un graduale allineamento dei diversi ordinamenti giuridici in materia contrattuale. Questo aprirebbe la strada alla formazione di un diritto privato europeo. In termini analoghi si è espresso anche J. Basedow, Grundlagen des europäischen Privatrechts, Juristische Schulung, 2004, pag. 94, che ritiene che l’attuazione della direttiva 93/13 rappresenti una parte dell’armonizzazione del diritto privato e osserva come detta direttiva sia stata attuata in modi diversi, vale a dire talvolta all’interno dei codici civili nazionali (Germania, Italia, Paesi Bassi), in una legge separata sui consumatori (Austria, Francia, Grecia e, in parte, anche Finlandia e Spagna), all’interno di leggi speciali sulle pratiche commerciali (Belgio), attraverso i contratti con i consumatori (Svezia) e le condizioni generali di contratto (Spagna, Portogallo) o, da ultimo, ricorrendo ad uno strumento giuridico che riprende quasi letteralmente la direttiva (Regno Unito, Irlanda). Secondo H.-W. Micklitz, AGB-Gesetz und die EG-Richtlinie über missbräuchliche Vertragsklauseln in Verbraucherverträgen, Zeitschrift für Europäisches Privatrecht, 1993, pag. 533, con la direttiva 93/13 l’Unione è intervenuta per la prima volta su un aspetto centrale del diritto civile.

( 38 ) Come ha correttamente osservato G. Abbamonte, «The Unfair Commercial Practices Directive and its General Prohibition», The regulation of unfair commercial practices under EC Directive 2005/29 — New rules and new techniques, Norfolk 2007, pag. 16, il fatto che un consumatore abbia concluso un contratto in quanto vittima di una pratica commerciale sleale deve essere considerato irrilevante dal punto di vista della direttiva 2005/29, dato che detta direttiva non prevede alcuno strumento giuridico per far accertare l’inefficacia del contratto. Allo stesso tempo, però, la direttiva 2005/29 non pregiudica le possibilità di tutela giuridica che spettano al consumatore in forza del diritto dei contratti. Pertanto, ai fini della sua tutela, il consumatore dovrà agire di fronte ad un tribunale civile, dove il fatto che il contratto sia stato concluso con l’esercizio di pratiche commerciali sleali costituirà un elemento importante di cui il giudice dovrà tener conto.

( 39 ) V. S. Orlando, loc. cit. supra (nota 35), pag. 38, concernente la necessità di un «coordinamento normativo» tra le direttive 2005/29 e 93/13, per allontanare il pericolo di potenziali conflitti. L’autore osserva correttamente che la difficoltà di coordinamento delle direttive in sede di interpretazione va ricondotta alla complessità strutturale del diritto dell’Unione. L’interazione tra le singole direttive non sarebbe sempre immediatamente evidente. Ne consegue che un’interpretazione coerente, estesa a tutti gli atti giuridici, non è sempre facile.

( 40 ) Carenze di armonizzazione minima e dei modus operandi in settori specifici hanno reso necessaria una maggiore convergenza e analisi delle incoerenze emerse nella normativa dell’Unione in materia di consumatori (v. G. Alpa, G. Conte, G. Carleo, La costruzione del diritto dei consumatori, I diritti dei consumatori, a cura di Guido Alpa, vol. I, pag. 5). La discussione in merito allo sviluppo del diritto europeo dei consumatori risale al 1999, anno in cui il Consiglio europeo nella dichiarazione finale di Tampere ha riconosciuto l’eventuale necessità di una maggiore coordinazione delle disposizioni giuscivilistiche degli Stati membri (v. sul punto E. Čikara, Gegenwart und Zukunft der Verbraucherkreditverträge in der EU und in Kroatien, Vienna 2010, pag. 47; quanto ai singoli approcci all’armonizzazione delle legislazioni sulla lealtà commerciale, v. T. Wunderle, Verbraucherschutz im Europäischen Lauterkeitsrecht, Tubinga 2010, pagg. 97 e seg.). A partire da quel momento la Commissione ha intensificato gli sforzi volti a consolidare il diritto contrattuale. La comunicazione «Maggiore coerenza nel diritto contrattuale europeo — Un piano d’azione», presentata dalla Commissione nel 2003, proponeva l’elaborazione di un «Quadro di riferimento» come strumento opt-in, che avrebbe dovuto contenere regole e terminologia comuni per il diritto contrattuale europeo. Successivamente, lo Study Group on a European Civil Code, quale rete di esperti internazionali, ha elaborato a livello accademico una bozza di quadro di riferimento. Sulla base di tali lavori preliminari, nell’aprile 2010 la Commissione europea ha istituito un gruppo di esperti chiamato ad elaborare un quadro di riferimento comune del diritto contrattuale europeo, il quale il 3 maggio 2011 ha presentato uno studio di fattibilità. Questo studio illustra un sistema coerente di regole di diritto dei contratti che, in futuro, potrebbe essere impiegato quale strumento facoltativo di diritto europeo dei contratti (a questo riguardo, v. anche il Libro verde della Commissione sulle opzioni possibili in vista di un diritto europeo dei contratti per i consumatori e le imprese, COM[2010] 348 def., in particolare l’opzione 4). A tale proposito non si può tralasciare la prevista direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sui diritti dei consumatori, il cui scopo consiste nel superare la frammentazione del quadro normativo in materia di diritto dei consumatori. La posizione del Parlamento europeo, definita in prima lettura il 23 giugno 2011 in vista dell’adozione di detta direttiva, prevede una modifica della direttiva 93/13 e della direttiva 1999/44/CE sulla vendita e sulle garanzie dei beni di consumo, nonché l’abrogazione della direttiva 85/577/CEE sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali e della direttiva 97/7/CE sui contratti a distanza, che verrebbero sostituite da una sola direttiva.

( 41 ) V. anche S. Orlando, loc. cit. supra (nota 35), pagg. 38 e 40, che rimanda all’ampia definizione della nozione di «pratiche commerciali». L’autore ritiene che, con la direttiva 2005/29, il legislatore dell’Unione abbia introdotto una «disciplina generale» nell’ordinamento dell’Unione, emanando un insieme di regole che contengono principi, concetti e criteri generali.

( 42 ) V. sesto, settimo e ottavo considerando della direttiva 2005/29 nonché ottavo e quindicesimo considerando della direttiva 93/13.

( 43 ) In questo senso S. Orlando, loc. cit. supra (nota 35), pag. 25, il quale analizza se l’impiego di clausole abusive ai sensi della direttiva 93/13 costituisca allo stesso tempo anche una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva 2005/29. A questa domanda viene data risposta sostanzialmente affermativa: un simile impiego andrebbe qualificato come una pratica commerciale ingannevole, in quanto di norma è stata trasmessa un’informazione falsa o il consumatore viene a trovarsi in una situazione di incertezza quanto ai suoi diritti e doveri nell’esecuzione del contratto, in particolare con riguardo ai diritti e ai doveri derivanti dalle clausole abusive (e, in quanto tali, inefficaci). Secondo l’autore la formulazione oscura ed equivoca di clausole contrattuali importanti potrebbe integrare un’omessa comunicazione di informazioni rilevanti ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 2005/29.

( 44 ) V. punto 43 della memoria del governo tedesco.

( 45 ) V. ordinanza Pohotovosť (cit. supra alla nota 6, punto 68), e sentenza del 23 marzo 2000, Berliner Kindl Brauerei (C-208/98, Racc. pag. I-1741, punto 21).

( 46 ) V. ordinanza Pohotovosť (cit. supra alla nota 6, punto 70), e sentenza del 4 marzo 2004, Cofinoga (C-264/02, Racc. pag. I-2157, punti 26 e 27).

( 47 ) V. punto 14 della memoria del governo slovacco.

( 48 ) Decimo considerando, il corsivo è mio.

( 49 ) V. pag. 11 dell’ordinanza di rinvio.

( 50 ) V. G. Abbamonte, loc. cit. supra (nota 38), pag. 28, il quale ritiene superfluo verificare se sia stato violato il dovere di diligenza professionale quando, nel caso concreto, sussista una pratica commerciale ingannevole o aggressiva. Una siffatta pratica commerciale contrasterebbe, infatti, automaticamente con ogni dovere di diligenza professionale. V., in senso analogo, anche F. Henning-Bodewig, «Die Richtlinie 2005/29/EG über unlautere Geschäftspraktiken», Gewerblicher Rechtsschutz und Urheberrecht — Internationaler Teil, 2005, nn. 8/9, pag. 631, che evidenzia come la clausola generale contenuta nell’articolo 5, paragrafo 1 (precisata, a sua volta, nell’articolo 5, paragrafo 2), trovi applicazione solo qualora la fattispecie concreta non rientri nella «lista nera» di pratiche commerciali sleali di cui all’allegato I della direttiva e non ricorra una delle ipotesi esemplificative (pratiche commerciali ingannevoli o aggressive) previste nella clausola generale.

( 51 ) V. paragrafi 43 e segg. delle presenti conclusioni.

( 52 ) V. paragrafi 82 e seg. delle presenti conclusioni.

( 53 ) V. G. Abbamonte, loc. cit. supra (nota 38), pag. 16.

( 54 ) V. sentenza Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (cit. supra alla nota 26, punto 34).

( 55 ) V. ordinanza Pohotovosť (cit. alla nota 6, punto 77).

( 56 ) Ibidem (punto 73).

( 57 ) V. sentenza Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (cit. supra alla nota 26, punto 32).

( 58 ) V. sentenze del 9 novembre 2010, Pénzügyi Lízing (C-137/08, Racc. pag. I-10847, punto 40); Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (cit. supra alla nota 26, punto 34); Freiburger Kommunalbauten (cit. supra alla nota 22, punti 18, 19 e 21) e del 7 maggio 2002, Commissione/Svezia (C-478/99, Racc. pag. I-4147, punti 11 e 17).

( 59 ) Sentenza Pannon GSM (cit. supra alla nota 8, punti 37-39).

( 60 ) Sentenza Pénzügyi Lízing (cit. supra alla nota 58, punto 40).

( 61 ) V. H. E. Brandner, «Maßstab und Schranken der Inhaltskontrolle bei Verbraucherverträgen», Monatsschrift für Deutsches Recht, 4/1997, pag. 313.

( 62 ) Il corsivo è mio. Secondo T. Pfeiffer, loc. cit. supra (nota 15), punto 13, pag. 5, possono costituire fattori che incidono sulla libertà di decisione posizioni di monopolio, di fatto o di diritto, di una delle parti; il fatto che una delle parti abbia essenziale o urgente necessità di una prestazione; preconoscenze ed esperienza professionale; verifiche preliminari evidentemente approfondite da parte del consumatore; il fatto che si tratti di un negozio della vita quotidiana concluso in modo sbrigativo; il ricorso a contratti standard; tecniche di persuasione criticabili (ad esempio, fare appello, in modo contrario alla morale, alla disponibilità a prestare il proprio aiuto in ambito familiare), l’atto del minimizzare (ad esempio, richiedere una firma «solo per gli atti»), o la sussistenza di una situazione che coglie di sorpresa.

( 63 ) V. paragrafo 91 delle presenti conclusioni.

( 64 ) V. E. Kapnopoulou, loc. cit. supra (nota 19), pag. 152, secondo cui il fatto che il consumatore sia stato incoraggiato ad accettare una clausola contrattuale e non abbia opposto resistenza a questo «incoraggiamento» rappresenta un indizio dello squilibrio esistente all’interno dello specifico contratto con il consumatore.

( 65 ) G. Abbamonte, loc. cit. supra (nota 38), pag. 16, non affronta esplicitamente la questione se le valutazioni in base alla direttiva 2005/29 debbano essere considerate in sede di interpretazione della direttiva 93/13. Tuttavia, sostiene che il giudice nazionale, nel garantire tutela giuridica nell’ambito di un’azione di diritto civile del consumatore (volta ad ottenere la risoluzione del contratto o una riduzione del prezzo), dovrebbe tener conto di importanti circostanze quali il ricorso a pratiche commerciali sleali.

( 66 ) V. punto 51 della memoria del governo tedesco.

( 67 ) V. paragrafo 109 delle presenti conclusioni.

( 68 ) V. paragrafi 87 e 112 delle presenti conclusioni.

( 69 ) V. paragrafo 121 delle presenti conclusioni.

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