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Document 61993CC0427
Joined opinion of Mr Advocate General Jacobs delivered on 14 December 1995. # Bristol-Myers Squibb v Paranova A/S (C-427/93) and C. H. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG and Boehringer Ingelheim A/S v Paranova A/S (C-429/93) and Bayer Aktiengesellschaft and Bayer Danmark A/S v Paranova A/S (C-436/93). # Reference for a preliminary ruling: Sø- og Handelsretten - Denmark. # Directive 89/104/EEC to approximate the laws of the Member States relating to trade marks - Article 36 of the EC Treaty - Repackaging of trade-marked products. # Joined cases C-427/93, C-429/93 and C-436/93. # Eurim-Pharm Arzneimittel GmbH v Beiersdorf AG (C-71/94), Boehringer Ingelheim KG (C-72/94) and Farmitalia Carlo Erba GmbH (C-73/94). # Reference for a preliminary ruling: Bundesgerichtshof - Germany. # Repackaging of trade-marked products - Article 36 of the EC Treaty. # Joined cases C-71/94, C-72/94 and C-73/94. # MPA Pharma GmbH v Rhône-Poulenc Pharma GmbH. # Reference for a preliminary ruling: Oberlandesgericht Köln - Germany. # Repackaging of trade-marked products - Article 36 of the EC Treaty. # Case C-232/94.
Conclusioni riunite dell'avvocato generale Jacobs del 14 dicembre 1995.
Bristol-Myers Squibb contro Paranova A/S (C-427/93) e C. H. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG e Boehringer Ingelheim A/S contro Paranova A/S (C-429/93) e Bayer Aktiengesellschaft e Bayer Danmark A/S contro Paranova A/S (C-436/93).
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Sø- og Handelsretten - Danimarca.
Direttiva 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa - Art. 36 del Trattato CE - Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio.
Cause riunite C-427/93, C-429/93 e C-436/93.
Eurim-Pharm Arzneimittel GmbH contro Beiersdorf AG (C-71/94), Boehringer Ingelheim KG (C-72/94) e Farmitalia Carlo Erba GmbH (C-73/94).
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Bundesgerichtshof - Germania.
Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio - Art. 36 del Trattato CE.
Cause riunite C-71/94, C-72/94 e C-73/94.
MPA Pharma GmbH contro Rhône-Poulenc Pharma GmbH.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Oberlandesgericht Köln - Germania.
Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio - Art. 36 del Trattato CE.
Causa C-232/94.
Conclusioni riunite dell'avvocato generale Jacobs del 14 dicembre 1995.
Bristol-Myers Squibb contro Paranova A/S (C-427/93) e C. H. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG e Boehringer Ingelheim A/S contro Paranova A/S (C-429/93) e Bayer Aktiengesellschaft e Bayer Danmark A/S contro Paranova A/S (C-436/93).
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Sø- og Handelsretten - Danimarca.
Direttiva 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa - Art. 36 del Trattato CE - Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio.
Cause riunite C-427/93, C-429/93 e C-436/93.
Eurim-Pharm Arzneimittel GmbH contro Beiersdorf AG (C-71/94), Boehringer Ingelheim KG (C-72/94) e Farmitalia Carlo Erba GmbH (C-73/94).
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Bundesgerichtshof - Germania.
Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio - Art. 36 del Trattato CE.
Cause riunite C-71/94, C-72/94 e C-73/94.
MPA Pharma GmbH contro Rhône-Poulenc Pharma GmbH.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Oberlandesgericht Köln - Germania.
Riconfezionamento di prodotti muniti di marchio - Art. 36 del Trattato CE.
Causa C-232/94.
European Court Reports 1996 I-03457
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1995:440
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
F.G. JACOBS
presentate il 14 dicembre 1995 ( *1 )
Indice
I — Fatti e questioni pregiudiziali |
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1) Procedimenti riuniti C-427/93, C-429/93 e C-436/93, Paranova |
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a) Procedimento C-427/93, Bristol-Myers Squibb/Paranova |
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b) Procedimento C-429/93, CH. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG e Boehringer Ingelheim A/S/Paranova A/S |
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c) Procedimento C-436/93, Bayer AG e Bayer Danmark A/S/Paranova |
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2) Procedimenti riuniti C-71/94, C-72/94 e C-73/94, Eurim-Pharm |
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a) Procedimento C-71/94, Eurim-Pharm/Beiersdorf AG |
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b) Procedimento C-72/94, Eurim-Pharm/Boehringer Ingelheim KG |
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c) Procedimento C-73/94, Eurim-Pharm/Farmitalia Carlo Erba GmbH |
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3) Procedimento C-232/94, MPA Pharma GmbH/Rhône-Poulenc Pharma GmbH |
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II — Contesto giurisprudenziale e normativo |
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1) La giurisprudenza sugli artt. 30 e 36 del Trattato |
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2) La direttiva del Consiglio 89/104 |
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3) Il rapporto intercorrente tra le disposizioni del Trattato e la direttiva |
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III — Esaurimento del diritto con riferimento alle merci riconfezionate |
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1) Il riconfezionamento e le norme del Trattato |
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a) Il fondamento dell'esaurimento del diritto: l'immissione sul mercato comunitario con il consenso del titolare del marchio |
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b) I due tipi di riconfezionamento sono davvero diversi? |
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c) Il vero fondamento per delimitare l'applicazione del principio dell'esaurimento del diritto con riferimento alla merce riconfezionata |
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d) La nozione di restrizione dissimulata |
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e) Gli ulteriori presupposti che l'importatore parallelo deve soddisfare |
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f) Una conclusione generale |
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2) Il riconfezionamento ai sensi della direttiva |
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3) L'onere della prova |
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IV — Applicazione dei principi sopra esposti alla diversa fattispecie di ciascun procedimento |
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1) Procedimento C-427/93 |
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2) Procedimento C-429/93 |
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3) Procedimento C-436/93 |
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4) Procedimento C-71/94 |
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5) Procedimento C-72/94 |
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6) Procedimento C-73/94 |
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7) Procedimento C-232/94 |
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V — Soluzione delle questioni pregiudiziali |
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Conclusione |
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Procedimenti riuniti C-427/93, C-429/93 e C-436/93 |
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Procedimenti riuniti C-71/94, C-72/94 e C-73/94 |
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Procedimento C-232/94 |
1. |
Le presenti conclusioni si riferiscono ad una serie di cause in cui giudici danesi e tedeschi hanno sollevato questioni pregiudiziali per accertare se ed entro quali limiti sia compatibile con il diritto comunitario il fatto che il titolare di un marchio si opponga all'importazione e alla vendita in uno Stato membro di prodotti farmaceutici recanti lo stesso marchio, immessi in commercio in un altro Stato membro con il consenso del titolare del marchio e successivamente riconfezionati da terzi senza il suo consenso. |
I — Fatti e questioni pregiudiziali
2. |
Le cause di cui ci occupiamo rivelano una sorprendente mancanza di uniformità nel mercato comune, perlomeno per quanto riguarda il commercio di prodotti farmaceutici. Vengono in considerazione due aspetti di tale mancanza di uniformità. Da un lato, vi sono considerevoli discrepanze nei prezzi dei prodotti farmaceutici. I prezzi sono molto più bassi in taluni paesi (Grecia, Spagna, Portogallo e Regno Unito, ad esempio) che in altri (Danimarca e Germania, ad esempio). Le ragioni di tali discrepanze sono discusse, ma sembra chiaro che esse sono almeno in parte dovute all'esistenza di controlli sui prezzi in taluni paesi, nonché a norme diverse sui massimali rimborsabili ai pazienti ai sensi dei regimi di assicurazione malattia di alcuni Stati membri ( 1 ). |
3. |
Qualunque sia la causa di tali differenze di prezzo, la loro esistenza genera il fenomeno noto come «importazioni parallele», nell'ambito del quale soggetti estranei al circuito ufficiale di distribuzione del produttore acquistano prodotti in commercio nei paesi caratterizzati da prezzi bassi, esportandoli verso paesi ove i prezzi sono elevati e in cui sono in grado di vendere le merci con un margine di profitto, pur offrendoli ad un prezzo inferiore al prezzo ufficiale di vendita del produttore. |
4. |
I detti importatori paralleli incontrano tuttavia gravi ostacoli, e ciò in conseguenza del secondo aspetto della mancanza di uniformità cui ho accennato. A causa delle differenze nelle norme e nelle prassi relative al confezionamento dei prodotti farmaceutici — ad esempio, norme sul numero di pillole per pacchetto — gli importatori paralleli sono spesso obbligati a riconfezionare la merce. In caso di merci munite di marchio, devono quindi riapporre il marchio sul prodotto riconfezionato oppure permettere allo stesso di rimanere visibile attraverso la nuova confezione, così da poter identificare il prodotto. Allorché i produttori delle merci di cui trattasi invocano il proprio diritto di marchio per opporsi a tali importazioni parallele di merci riconfezionate, le controversie che ne derivano sollevano una questione giunta più volte dinanzi alla Corte, sotto diverse forme: si tratta, in particolare, di accertare se ed in quali circostanze i diritti di proprietà industriale prevalgano sulla libera circolazione delle merci nel mercato comune. |
5. |
Descritto il contesto generale, riassumerò ora i fatti che caratterizzano ciascuno dei sette procedimenti pendenti dinanzi alla Corte. |
1) Procedimenti riuniti C-427/93, C-429/93 e C-436/93, Paranova
6. |
Questi tre procedimenti sono stati deferiti alla Corte da giudici danesi. Nei primi due procedimenti il giudice a quo è il Sø- og Handelsretten (tribunale marittimo e commerciale) di Copenaghen, mentre il terzo procedimento è stato deferito dallo Højesteret (Corte suprema). Nei tre casi, convenuta (o appellata nel procedimento C-436/93) è la società danese Paranova A/S (in prosieguo: la «Paranova»), distributrice di prodotti farmaceutici. I ricorrenti (appellanti nel procedimento C-436/93) sono fabbricanti di prodotti farmaceutici. |
a) Procedimento C-427/93, Bristol-Myers Squibb/Paranova
7. |
L'attrice, Bristol-Myers Squibb, è titolare dei marchi, registrati in Danimarca, «Capoten», «Mycostatin», «Vepesid», «Vumon» e «Diclocil». Si tratta di preparati farmaceutici prodotti ed immessi in commercio dalla Bristol-Myers Squibb o da una società ad essa collegata in diversi Stati membri. |
8. |
La Paranova ha acquistato alcuni lotti dei cinque prodotti, che erano stati immessi in commercio dalla Bristol-Myers Squibb o da una società ad essa collegata in uno Stato membro diverso dalla Danimarca. Ha poi riconfezionato la merce, smerciandola in Danimarca, dopo aver registrato i cinque prodotti come specialità farmaceutiche con gli stessi nomi utilizzati dalla Bristol-Myers Squibb nel registro danese delle specialità farmaceutiche. Nel caso del Capoten, utilizzato come ipotensivo, la Paranova ha acquistato le pillole in Grecia in confezioni «blister» (cartoncini ad alveoli), riconfezionando poi i blister in scatole prodotte dalla Para-nova. La confezione recava strisce gialle e verdi, corrispondenti ai colori del materiale pubblicitario utilizzato dalla Bristol-Myers Squibb. La Paranova ha stampato la denominazione «Capoten» sulla confezione senza il simbolo «R», con l'indicazione che le merci erano prodotte dalla Bristol-Myers Squibb ed erano state importate e riconfezionate dalla Paranova. |
9. |
La Paranova ha effettuato operazioni simili per quanto riguarda il Diclocil, un antibiotico per il trattamento delle infezioni. Anche il Diclocil, poi riconfezionato dalla Paranova, era stato acquistato in Grecia. |
10. |
Il Vepesid e il Vumon sono anticancerogeni venduti in fiale. La Paranova ha acquistato lotti del primo nel Regno Unito e del secondo in Spagna. Ha poi tolto le fiale dal loro involucro, collocando un'etichetta su ciascuna fiala, in modo da coprire l'etichetta Bristol-Myers Squibb. Il marchio Bristol-Myers Squibb è stato stampato sull'etichetta senza il simbolo «R». Veniva poi indicato sulle etichette che la merce era «prodotta dalla Bristol-Myers Squibb» ed «importata e riconfezionata dalla Paranova». Le fiale erano poi reinserite nell'involucro originale ed infilate in una confezione esterna non fornita dalla Bristol-Myers Squibb. La confezione esterna recava i marchi e la citata indicazione relativa al produttore e al responsabile del confezionamento. Per la confezione esterna la Paranova ha scelto colori corrispondenti a quelli impiegati nella confezione esterna dalla Bristol-Myers Squibb. Ha tolto il foglietto illustrativo accluso dalla Bristol-Myers Squibb alla merce (redatto in inglese o spagnolo), inserendo una versione danese dello stesso, recante il marchio. |
11. |
Il Mycostatin è impiegato per il trattamento delle micosi orali. È presentato in diverse forme. La Paranova ne ha acquistato lotti in Portogallo, sotto forma di preparato contenuto in flaconi. Ha rimosso la confezione esterna originale, apponendo la propria etichetta, con il marchio, sui flaconi ed inserendo i flaconi in una nuova confezione esterna recante il marchio «Mycostatin», dello stesso colore della confezione originale. La Paranova ha inserito inoltre un atomizzatore non prodotto dalla Bristol-Myers Squibb. |
12. |
La Paranova compie le operazioni di riconfezionamento descritte per poter offrire tali prodotti in confezioni aventi le dimensioni abitualmente usate in Danimarca dalla Bristol-Myers Squibb. I farmacisti danesi sono in via di principio tenuti a fornire i prodotti farmaceutici nella quantità fissata dalla prescrizione. |
13. |
La Bristol-Myers Squibb ha citato la Paranova dinanzi al Sø- og Handelsretten, chiedendo tra l'altro che le fosse inibito di valersi dei marchi della Bristol-Myers Squibb, apponendoli, senza il consenso della Bristol-Myers Squibb, su merci dalla stessa riconfezionate. La Paranova si è difesa argomentando che le proprie operazioni non integravano una lesione del diritto di marchio ai sensi dell'art. 7 della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE (prima direttiva del Consiglio sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa; in prosieguo: la «direttiva») ( 2 ). L'art. 7 della direttiva dispone quanto segue: «1. Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare l'uso del marchio di impresa per prodotti immessi in commercio nella Comunità con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso. 2. Il paragrafo 1 non si applica quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga all'ulteriore commercializzazione ( 3 ) dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio». |
14. |
L'art. 7 della direttiva è stato trasposto in Danimarca con l'art. 6 della legge n. 341, che riproduce pressoché testualmente i termini dell'art. 7. |
15. |
Il Sø- og Handelsretten ha sospeso il procedimento, sottoponendo alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:
|
b) Procedimento C-429/93, CH. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG e Boehringer Ingelheim A/S/Paranova A/S
16. |
La CH. Boehringer Sohn e la Boehringer Ingelheim KG sono società tedesche associate che producono farmaceutici. La Boehringer Ingelheim A/S è la filiale danese della Boehringer Ingelheim KG e si occupa della distribuzione dei prodotti Boehringer in Danimarca. Farò riferimento all'insieme delle tre società come «Boehringer». |
17. |
La Boehringer ha registrato in Danimarca i marchi «Boehringer Ingelheim», «Atrovent», «Berodual», «Berotec» e «Catapresan». Il primo marchio è utilizzato in generale sui prodotti farmaceutici della Boehringer. Gli altri quattro sono impiegati per designare specifici prodotti farmaceutici. L'Atrovent, il Berodual e il Berotec sono utilizzati nel trattamento dell'asma bronchiale e sono venduti sotto forma di inalatori aerosol. La Boehringer li produce in Germania e li distribuisce nella Comunità, impiegando tuttavia quantitativi diversi del principio attivo. Il Catapresan è impiegato nella cura dell'ipertensione arteriosa. È prodotto in Germania sotto il controllo della Boehringer in compresse confezionate in blister. La Para-nova ha acquistato lotti dei quattro prodotti in uno Stato membro diverso dalla Danimarca. Ha poi riconfezionato la merce e, nel caso del Berodual e del Berotec, ha inserito un nuovo foglietto illustrativo in una lingua definita nell'ordinanza di rinvio come «scandinava». Sulle nuove confezioni il produttore è indicato come «Boehringer Ingelheim». La Boehringer non ha autorizzato la Paranova a produrre o a imballare i prodotti per conto della Boehringer o ad applicare i suoi marchi. La Paranova ha fatto registrare i quattro prodotti in Danimarca come specialità nuove con gli stessi nomi di quelli della Boehringer. |
18. |
La Boehringer ha adito il Sø- og Handelsretten, chiedendo tra l'altro di ingiungere alla Paranova di porre fine alla violazione dei diritti di marchio di cui la Boehringer è titolare consistente nel riapporre il marchio stesso sui prodotti riconfezionati. Tale giudice ha adito la Corte di giustizia, sottoponendole due questioni dal tenore identico alle questioni sub 1) e sub 2) di cui al procedimento C-427/93. |
c) Procedimento C-436/93, Bayer AG e Bayer Danmark A/S/Paranova
19. |
Appellanti in questa causa sono la Bayer AG e la Bayer Danmark A/S. La Bayer AG è una società farmaceutica tedesca. La Bayer Danmark A/S (in prosieguo: la «Bayer Danmark») è una società danese interamente controllata dalla Bayer AG, che ne distribuisce i prodotti in Danimarca. La Bayer AG ha registrato il marchio «Bayer» in Germania, in Danimarca e in altri Stati membri. Ha registrato altresì il nome «Adalat» in tutti gli Stati membri. L'Adalat è un prodotto farmaceutico destinato al trattamento dei disturbi cardiocircolatori. La Bayer Danmark distribuiva l'Adalat in Danimarca in confezioni contenenti 30 o 100 compresse. Le confezioni contenevano una serie di blister, ciascuno contenente 10 compresse. Dal 1990 in Danimarca vengono vendute soltanto confezioni contenenti 100 compresse. La Bayer AG distribuisce l'Adalat in altri Stati membri, ma il numero di compresse per confezione varia da paese a paese. In Grecia il prodotto è venduto in pacchetti da 30 (tre blister da 10 compresse ciascuno). In Grecia il prezzo dell'Adalat è molto più basso che in Danimarca. |
20. |
Il 19 novembre 1989 la Paranova ha informato i grossisti di prodotti farmaceutici in Danimarca che dal 3 dicembre 1990 sarebbe stata in grado di fornire l'Adalat in confezioni da 100 compresse. Con lettera 3 dicembre 1990 ha informato inoltre la Bayer Danmark che da quel giorno avrebbe iniziato a distribuire l'Adalat. Le compresse di Adalat immesse in commercio dalla Paranova in Danimarca sono importate dalla Grecia (dove sono distribuite dalla filiale greca della Bayer AG) in scatole da 30 compresse, che la Paranova riconfeziona in scatole da 100 compresse. La Paranova appone il nome «Adalat» sulla nuova confezione, oltre ad una dichiarazione che le merci sono state prodotte dalla Bayer e importate e riconfezionate dalla Paranova. Un'avvertenza su un lato della confezione la quale indica che il prodotto deve essere conservato al riparo della luce, secondo le appellanti è stata aggiunta soltanto dopo che le stesse avevano segnalato alla Paranova la fotosensibilità del prodotto. In udienza, comunque, il legale della Paranova ha dichiarato che il prodotto originale, immesso in commercio dalle appellanti, non recava tale avvertenza. |
21. |
Il 25 settembre 1991 le appellanti hanno citato in giudizio la Paranova dinanzi allo Sø- og Handelsretten, che ha respinto la domanda. Hanno allora proposto appello dinanzi allo Højesteret, che ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
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In tal caso, si chiede alla Corte di definire quale sia l'influenza di tale circostanza sui rimedi legali esperibili.
3) |
In caso di soluzione affermativa della questione sub 2), se sia rilevante per i diritti spettanti al titolare del marchio il fatto che egli abbia inteso creare o sfruttare un siffatto isolamento artificioso del mercato. |
In tal caso, si chiede alla Corte di indicare quale sia la rilevanza di questo fatto per i diritti di cui trattasi.
4) |
Se gravi sull'importatore parallelo l'onere di provare o, perlomeno, di rendere credibile che vi è stato l'intento di cui alla questione sub 3), oppure se incomba al titolare del marchio provare o, perlomeno, rendere credibile il contrario. |
5) |
Se la riapposizione del marchio, come descritta nella questione sub 1), sia di per sé un “motivo legittimo” sufficiente, ai sensi dell'art. 7 della direttiva, oppure se il titolare del marchio debba inoltre provare ulteriori circostanze, ad esempio che lo stato dei prodotti risulta modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio ad opera dell'importatore parallelo». |
2) Procedimenti riuniti C-71/94, C-72/94 e C-73/94, Eurim-Pharm
22. |
Questi tre procedimenti sono stati deferiti alla Corte dal Bundesgerichtshof. In tutti e tre, ricorrente (convenuta in primo grado) è la Eurim-Pharm Arzneimittel GmbH (in prosieguo: la «Eurim-Pharm»), La Eurim-Pharm è una società tedesca che distribuisce prodotti farmaceutici. Resistente nelle tre cause è la società tedesca che produce e distribuisce tali prodotti. |
a) Procedimento C-71/94, Etirim-Pharm/Beiersdorf AG
23. |
La Beiersdorf AG (in prosieguo: la «Beiersdorf») produce pillole dette beta-bloccanti per il trattamento dell'ipertensione arteriosa, smerciandole in Germania con il nome di «Kerlone». Ciò avviene in forza di una licenza concessale dai Laboratoires Synthelabo France (in prosieguo: la «Synthelabo»), titolare del marchio «Kerlone» in Germania e in altri paesi. La Beiersdorf distribuisce il Kerlone in confezioni da 50 o 100 pillole, corrispondenti alle dimensioni standard raccomandate da diverse associazioni commerciali e professionali nonché dagli enti di assicurazione malattia in Germania. In Francia, la Synthelabo distribuisce il Kerlone in confezioni da 28 pillole per conformarsi ad una normativa secondo la quale i medicinali debbono essere forniti in quantitativi sufficienti a coprire il periodo massimo di un mese. Ogni confezione contiene due blister da 14 pillole. Sul retro di ciascun blister sono stampigliati i giorni della settimana in francese, in modo che a ciascuna pillola corrisponda un giorno. |
24. |
Dalla fine del 1988 la Eurim-Pharm distribuisce in Germania pillole di Kerlone che importa dalla Francia, dove sono state immesse in commercio dalla Synthelabo. Per conformarsi agli standard dimensionali raccomandati in Germania, la Eurim-Pharm deve riconfezionare il prodotto. Poiché il 14 non è divisore di 50 o di 100, il risultato voluto può essere ottenuto soltanto tagliando alcuni dei blister. La Eurim-Pharm inserisce i blister (alcuni interi e contenuti nelle confezioni originali, altri separati ed estratti dalle loro confezioni originali) dentro una scatola, di sua ideazione, entro la quale è stata ritagliata una finestrella; attraverso tale finestrella è visibile il marchio «Kerlone» stampato su una delle confezioni originali della Synthelabo. La confezione esterna contiene informazioni sui principi attivi e l'indicazione che il prodotto è stato importato, confezionato e distribuito dalla Eurim-Pharm. Va altresì rilevato che, laddove il blister è stato tagliato, la serie dei giorni della settimana cui corrispondono le pillole non è più completa. |
25. |
La Beiersdorf, autorizzata dalla Synthelabo ad agire a suo nome per la tutela del marchio «Kerlone», ha citato in giudizio la Eurim-Pharm in Germania, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni e l'inibitoria dell'uso del marchio «Kerlone» nel modo sopra descritto. La controversia è giunta infine dinanzi al Bundesgerichtshof, che ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
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b) Procedimento C-72/94, Eurim- Pharm/Boehringer Ingelheim KG
26. |
La Boehringer Ingelheim KG (in prosieguo: la «Boehringer Ingelheim») è titolare del marchio registrato «Mexitil» in Germania e Francia. Il Mexitil è usato nel trattamento delle aritmie cardiache. La Boehringer Ingelheim commercializza il prodotto in Germania in scatole da 20, 50 o 100 pillole per conformarsi agli standard dimensionali raccomandati in Germania. In Francia, la stessa preparazione è prodotta su licenza dalla Boehringer Ingelheim France SARL (in prosieguo: la «Boehringer France»), società del gruppo Boehringer Ingelheim. In Francia il Mexitil è venduto in scatole da 30 capsule. Ogni scatola contiene tre blister da 10 capsule ciascuno. Ogni blister è destinato a coprire le necessità del paziente per 10 giorni, in conformità della normativa francese ai sensi della quale detti medicinali possono coprire il fabbisogno di 10 giorni o di un mese. |
27. |
La Eurim-Pharm importa e distribuisce in Germania il Mexitil smerciato in Francia dalla Boehringer France. La Eurim-Pharm riconfeziona il prodotto in modo da poter commercializzare il Mexitil in scatole da 50 e da 100, così da conformarsi alle raccomandazioni in materia di standard dimensionali. Per ottenere una scatola da 50, la Eurim-Pharm inserisce in una confezione di sua ideazione una scatola originale francese da 30 capsule, più due blister francesi originali da 10 capsule, insieme ad un foglietto illustrativo in tedesco e ad altre istruzioni. La scatola ha un'apertura rettangolare abbastanza larga da lasciar intrawedere il marchio «Mexitil» stampato sulla scatola originale francese da 30 capsule. Per ottenere una scatola da 100 capsule, la Eurim-Pharm procede allo stesso modo, inserendo però nel contenitore esterno tre scatole francesi originali da 30 capsule e un blister da 10. In entrambi i casi la Eurim-Pharm applica adesivi sulle scatole originali da 30 capsule. Tali adesivi indicano la Eurim-Pharm come importatore e distributore e dichiarano quale principio attivo l'idrocloruro di messiletina. Da quanto detto emerge che la Eurim-Pharm è in grado di ottenere le dimensioni standard da 50 e da 100 senza tagliare i blister originali. |
28. |
La Boehringer Ingelheim ritiene che il fatto che la Eurim-Pharm immetta in commercio merci riconfezionate integri una violazione del suo diritto di marchio e chiede pertanto il risarcimento dei danni e un provvedimento inibitorio. Il Bundesgerichtshof, con ordinanza 27 gennaio 1994, ha sottoposto alla Corte due questioni pregiudiziali. La seconda questione è identica alla questione sub 2) nel procedimento C-71/94. La prima questione è redatta nei seguenti termini:
|
29. |
La questione è pressoché identica alla questione sub 1) di cui al procedimento C-71/94, e l'unica differenza è che la frase finale, che fa riferimento alla possibile rilevanza del ritaglio dei blister, è ovviamente omessa, così come sono omesse le parole «più idonee agli effetti terapeutici»(über therapiegerechte Packungsgrößen). Quest'ultima omissione può essere dovuta ad un errore di battitura. Curiosamente, la questione sub 1) nella causa C-72/94 fa ancora riferimento all'aggiunta di blister tagliati, benché nel caso di specie i blister non vengano affatto tagliati. Anche questo può essere dovuto ad un errore di trascrizione. |
e) Procedimento C-73/94, Eurim-Pharm/Farmitalia Carlo Erba GmbH
30. |
La Farmitalia Carlo Erba GmbH (in prosieguo: la «Farmitalia») è la controllata tedesca di una società italiana, la Farmitalia Carlo Erba Srl. Quest'ultima è titolare del marchio registrato «Sermion» in Germania, Spagna e Portogallo. La Farmitalia smercia in Germania, su licenza della propria capogruppo, i medicinali «Sermion» (principio attivo: nicergolina 5 mg) e «Sermion forte» (principio attivo: nicergolina 10 mg), impiegati nel trattamento delle disfunzioni nelle facoltà cerebrali. In Germania questi prodotti sono venduti in scatole da 50 o da 100 capsule, in conformità delle raccomandazioni vigenti sugli standard dimensionali. |
31. |
In Portogallo, una società dello stesso gruppo della Farmitalia distribuisce la versione da 10 mg del prodotto con il nome «Sermion» (cioè senza l'aggiunta della parola «forte»). Il prodotto è venduto in scatole da 60, costituite da sei blister contenenti 10 capsule ciascuno. La dimensione della scatola è calcolata in base ad un periodo di trattamento di 20 giorni, con l'assunzione di tre capsule al giorno. Secondo l'ordinanza di rinvio, il prodotto raggiunge in questo modo il limite massimo rimborsabile ai sensi del sistema sanitario portoghese. In Spagna, una società dello stesso gruppo della Farmitalia smercia la versione da 5 mg del prodotto con il nome «Sermion» in scatole da 45 capsule. Le 45 capsule sono contenute in un unico blister. La Eurim-Pharm acquista quantitativi di Sermion e di Sermion forte immessi in commercio in Spagna e in Portogallo dalle consociate della Farmitalia. La Eurim-Pharm importa i prodotti in Germania e li distribuisce in tale paese, dopo averli riconfezionati in scatole da 50 o da 100 capsule. Per quanto riguarda le merci acquistate in Portogallo, essa applica un adesivo sul retro di ciascun blister recante il termine «forte». Ricopre il lato frontale e una finestrella laterale della scatola originale da 60 capsule con adesivi. Colloca la scatola originale, senza ulteriori modifiche, insieme ad altri quattro blister singoli da 10 capsule ciascuno, in un contenitore esterno di sua ideazione. Tale scatola esterna ha un'apertura rettangolare sufficientemente larga da potervi intrawedere il nome «Sermion» sulla scatola portoghese originale. La parola «forte» è stampata subito sotto la finestrella. La confezione esterna contiene anche una dichiarazione che il prodotto è stato importato, confezionato e distribuito dalla Eurim-Pharm. |
32. |
Nel caso di merci acquistate in Spagna, la Eurim-Pharm aggiunge alla scatola originale da 45 capsule un segmento da 5 capsule ritagliato da un blister originale spagnolo, aggiungendo un foglietto illustrativo in tedesco. La Eurim-Pharm appone un adesivo con il suo nome ed indirizzo, oltre ad ulteriori informazioni (numero di registrazione, data di scadenza, numero di lotto ecc.) sulla scatola spagnola originale da 45 capsule. Sul retro della scatola appone un adesivo recante l'indicazione «importazione e distribuzione: Eurim-Pharm Arzneimittel GmbH, 8235 Piding». |
33. |
La Farmitalia, autorizzata dalla propria capogruppo ad agire a tutela del marchio, ritiene che le operazioni sopra descritte integrino una lesione dei marchi «Sermion» e «Sermion forte». Chiede pertanto il risarcimento dei danni e un provvedimento inibitorio. Il Bundesgerichtshof, con ordinanza 27 gennaio 1994, ha sottoposto alla Corte due questioni pregiudiziali. La seconda è identica alla questione sub 2) di cui ai procedimenti C-71/94 e 72/94. La prima questione è redatta come segue:
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3) Procedimento C-232/94, MPA Pharma GmbH/Rhône-Poulenc Pharma GmbH
34. |
La Rhône-Poulenc Pharma GmbH (in prosieguo: la «Rhône-Poulenc») è la controllata tedesca della società francese Rhône-Poulenc Rover SA, titolare del marchio «Orudis» per prodotti farmaceutici in Germania e in altri paesi. Su licenza della propria capogruppo francese, la Rhône-Poulenc distribuisce in Germania il medicinale «Orudis retard», disponibile solo su prescrizione medica, come antireumatico e analgesico in scatole da 20, 50 e 100 compresse, in conformità degli standard dimensionali raccomandanti in Germania. L'Orudis retard è distribuito anche in Spagna, dove è venduto soltanto in scatole da 20 compresse (due blister da 10 compresse ciascuno) da un'altra società controllata dalla Rhône-Poulenc Rover SA. |
35. |
La MPA Pharma GmbH (in prosieguo: la «MPA») acquista l'Orudis retard distribuito sul mercato spagnolo dalla controllata spagnola del gruppo Rhône-Poulenc e distribuisce poi il prodotto in Germania in scatole da 50 compresse. A tal fine, la MPA estrae i blister dalla loro confezione originale e ne inserisce cinque in una nuova confezione di sua creazione. Su ogni faccia visibile della scatola vi è un'etichetta che indica in tedesco: «MPA Import Pharmaceutical Products 50 compresse ad azione ritardata di Orudis retard Per via orale» Su una delle facce vi è un'etichetta con la dicitura: «Produttore: Rhône-Poulenc SAE Spagna» e «Impresa farmaceutica importatrice e responsabile: MPA Pharma GmbH, D-22946 Trittau». Su uno dei lati della confezione è stampata la seguente indicazione: «Il contenuto di questa confezione di Orudis retard è stato prodotto dalla Rhône-Poulenc Farma SAE, Alcorcón (Madrid), Spagna, e importato e confezionato nella Repubblica federale di Germania dalla MPA Pharma GmbH, D-22946 Trittau, in conformità della normativa tedesca in materia di prodotti farmaceutici». La MPA inserisce nella scatola un foglietto illustrativo da essa stessa redatto. |
36. |
La Rhône-Poulenc ha adito il Landgericht chiedendo di inibire alla MPA la distribuzione di Orudis retard riconfezionato, allegando che il comportamento della MPA integra una lesione del suo diritto di marchio. Il ricorso è stato accolto dal Landgericht, cosicché la MPA si è appellata all'Ober-landesgericht di Colonia, che, con ordinanza 11 agosto 1994, ha sottoposto alla Corte due questioni pregiudiziali. La prima questione è identica alla questione sub 2) di cui al procedimento C-71/94 (con l'unica — ed irrilevante — differenza che, anziché far riferimento al titolare di un marchio registrato internazionale, fa semplicemente riferimento al titolare di un marchio). La seconda questione sollevata dall'Oberlandesgericht ha il seguente tenore: «Se sussista “una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri” ai sensi dell'art. 36, seconda frase, del Trattato CE, qualora il titolare di un diritto di marchio tutelato negli Stati membri A e B eserciti il proprio diritto di marchio nazionale per impedire che un importatore acquisti nello Stato membro B medicinali muniti del marchio, acquistabili nello Stato membro A solo su ricetta medica e che sono smerciati con tale marchio nello Stato membro B da un'impresa appartenente al gruppo del titolare del marchio, li riconfezioni e li metta in commercio nello Stato membro A in una nuova confezione di sua creazione, sulla quale appone il marchio senza l'autorizzazione del titolare, qualora l'esercizio di detto diritto di marchio si risolva in un isolamento dei mercati degli Stati membri [v. questione sub 1)], sia dimostrato che il riconfezionamento non incide affatto sullo stato originario del prodotto, il titolare del marchio sia stato informato in precedenza dell'immissione in commercio del prodotto riconfenzionato e, inoltre, sulla nuova confezione siano indicati non solo produttore ed importatore, ma anche il nome della ditta che ha riconfezionato il medicinale, e qualora
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II — Contesto giurisprudenziale e normativo
37. |
La questione fondamentale che questi procedimenti sollevano è se e in che misura il titolare di un brevetto, dopo aver consentito che le merci recanti il marchio siano immesse in commercio in uno Stato membro, possa valersi del marchio stesso per impedire l'importazione e la vendita di tali prodotti in un altro Stato membro dopo il loro riconfezionamento da parte di terzi senza il suo consenso. |
38. |
Prima di affrontare il merito della questione, è necessario individuare le disposizioni di diritto comunitario pertinenti. In alcuni dei procedimenti a quibus risulta dal tenore letterale delle questioni sollevate che il giudice nazionale ritiene che la materia ricada nell'ambito delle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci (artt. 30 e 36). In altri procedimenti, le questioni sollevate postulano l'applicabilità della direttiva. |
39. |
Riassumerò qui di seguito la giurisprudenza sugli artt. 30 e 36, esaminando poi le disposizioni pertinenti della direttiva. |
1) La giurisprudenza sugli artt. 30 e 36 del Trattato
40. |
L'art. 30 del Trattato vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente. Ai sensi della prima frase dell'art. 36 del Trattato, l'art. 30 lascia impregiudicati i divieti o le restrizioni giustificati da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale. La seconda frase dell'art. 36 aggiunge che tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria né una restrizione dissimulata al commercio fra gli Stati membri. |
41. |
È chiaro che, se il titolare di un marchio potesse avvalersene per impedire l'importazione e la vendita di merci lecitamente immesse in commercio in un altro Stato membro, ciò si tradurrebbe in una restrizione quantitativa o in una misura di effetto equivalente ai sensi dell'art. 30. È pertanto necessario — ammettendo che siano applicabili alla fattispecie le disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci — valutare se tale comportamento sia giustificato da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale. |
42. |
V'è naturalmente un'ampia giurisprudenza sull'applicazione dell'art. 36 in relazione ai diritti di proprietà industriale e commerciale. La Corte ha costantemente dichiarato che il titolare di un tale diritto (dunque anche di un marchio) non può invocarlo per impedire l'importazione e la vendita di merci immesse in commercio con il suo consenso in un altro Stato membro. Questo principio, noto come esaurimento del diritto, è stato sancito per la prima volta nella sentenza Deutsche Grammophon/Metro ( 4 ), ed è stato da allora più volte ribadito, da ultimo nella sentenza IHT Internationale Heiztechnik/Ideal Standard ( 5 ). |
43. |
In due occasioni la Corte si è pronunciata sull'applicazione di tale principio a prodotti farmaceutici che erano stati riconfezionati senza il consenso del titolare del marchio. Nella causa Hoffmann-La Roche/Centrafarm ( 6 ), i fatti erano i seguenti. La Hoffmann-La Roche smerciava un medicinale recante il marchio «Valium» in Germania in confezioni da 20 o da 50 compresse, per i privati, e in confezioni da cinque scatole contenenti 100 o 250 compresse per gli ospedali. La sua consociata britannica distribuiva lo stesso prodotto nel Regno Unito in confezioni da 100 o 500 compresse a prezzo notevolmente inferiore. La Centrafarm smerciava in Germania il Valium acquistato nel Regno Unito nelle confezioni originali e riconfezionato in nuovi imballaggi da 1000 compresse, sui quali apponeva il marchio Hoffmann-La Roche, con l'indicazione che il prodotto era distribuito dalla Centrafarm. La Centrafarm aveva inoltre manifestato l'intenzione di riconfezionare le compresse in involucri più piccoli, destinati ai privati. |
44. |
La Hoffmann-La Roche intendeva impedire tali «importazioni parallele» facendo valere il proprio diritto di marchio. Il Landgericht di Friburgo riteneva che, ai sensi della normativa tedesca, il comportamento della Centrafarm integrasse una violazione del diritto di marchio della Hoffmann-La Roche. Il Landgericht chiedeva, in via pregiudiziale, se il titolare di un marchio potesse, in forza dell'art. 36 del Trattato, avvalersi del marchio per impedire importazioni parallele in circostanze del genere. Nella sua sentenza, la Corte ha osservato che, se pure il Trattato non influisce sull'esistenza dei diritti attribuiti dalle leggi di uno Stato membro in fatto di proprietà industriale e commerciale, è comunque possibile, in determinate circostanze, che i divieti sanciti dal Trattato influiscano sull'esercizio di tali diritti. In quanto norma eccezionale rispetto ad uno dei principi fondamentali del mercato comune, l'art. 36 ammette deroghe alla libera circolazione delle merci solo nella misura in cui tali deroghe appaiano indispensabili per la tutela dei diritti che costituiscono oggetto specifico di tale proprietà (punto 6 della sentenza). La Corte ha poi dichiarato:
Di conseguenza, la Corte ha emesso la seguente pronuncia pregiudiziale:
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45. |
La seconda causa nella quale la Corte si è occupata della legittimità dell'uso di un marchio per impedire importazioni parallele di prodotti farmaceutici riconfezionati è stata la Pfizer/Eurim-Pharm ( 7 ). I fatti di causa erano i seguenti. La Pfizer smerciava un antibiotico recante il marchio «Vibramycin» per mezzo delle proprie consociate in Germania e nel Regno Unito. La confezione utilizzata dalla Pfizer nei due paesi era diversa ed i prezzi nel Regno Unito erano notevolmente inferiori. La Eurim-Pharm importava e vendeva in Germania il Vibramycin venduto nel Regno Unito dalla Pfizer in scatole contenenti una serie di blister. Ogni blister conteneva cinque capsule e recava a tergo la dicitura «Vibramycin Pfizer». La Eurim-Pharm estraeva i blister dalla confezione esterna originale del produttore e li inseriva in una nuova scatola di sua ideazione, senza alterare i blister né il loro contenuto. Sulla faccia anteriore della scatola vi era un'apertura ricoperta di materiale trasparente attraverso la quale era visibile la dicitura «Vibramycin Pfizer» apposta sul blister originale. Sul retro della scatola era indicato che il contenuto era stato prodotto dalla consociata britannica della Pfizer, importato e riconfezionato dalla Eurim-Pharm. Nella scatola era inserito un foglietto illustrativo recante le informazioni sul prodotto richieste dalla normativa tedesca. La Pfizer aveva chiesto al giudice tedesco di inibire alla Eurim-Pharm lo smercio del Vibramycin così riconfezionato, in quanto tale pratica costituiva una violazione del suo diritto di marchio. Il Landgericht di Amburgo si era pertanto rivolto in via pregiudiziale alla Corte di giustizia. |
46. |
Nella sua sentenza, la Corte di giustizia ha ribadito le osservazioni già svolte nella sentenza Hoffmann-La Roche, in merito all'oggetto specifico e alla funzione essenziale del marchio e al suo ruolo di garanzia di provenienza. Ha poi aggiunto:
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47. |
Un'altra causa indirettamente attinente è la Centrafarm/American Home Products Corporation ( 8 ), in cui la Corte ha assunto una posizione analoga a quella della sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm. La American Home Products Corporation vendeva lo stesso prodotto farmaceutico sotto la denominazione «Serenid» nel Regno Unito e sotto la denominazione di «Seresta» nei Paesi Bassi. La Centrafarm acquistava i medicinali venduti nel Regno Unito dalla American Home Products Corporation con il nome «Serenid» e vi apponeva il marchio «Seresta» prima di immetterli in commercio nei Paesi Bassi. Ai sensi della normativa olandese ciò integrava una violazione del diritto di marchio. Veniva adito un giudice olandese, che si rivolgeva alla Corte in via pregiudiziale chiedendo se fosse compatibile con le norme del Trattato sulla libera circolazione delle merci l'esercizio di un diritto di marchio in circostanze del genere. La Corte ha dichiarato quanto segue:
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48. |
Concludo questa panoramica della giurisprudenza rilevando che la Corte ha sottolineato l'importanza dei marchi in un'economia sviluppata nella sentenza HAG GF («HAG II») ( 9 ), dichiarando che: «Trattandosi del diritto di marchio, occorre constatare che detto diritto costituisce un elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato che il Trattato desidera stabilire e conservare. In detto sistema, le imprese debbono essere in grado di attirare la clientela con la qualità delle loro merci o dei loro servizi, il che è possibile solo grazie all'esistenza di contrassegni distintivi che consentano di riconoscere tali prodotti e servizi. Affinché il marchio possa svolgere questa funzione, esso deve garantire che tutti i prodotti che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un'unica impresa cui possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità». |
2) La direttiva del Consiglio 89/104
49. |
La direttiva è stata adottata sul fondamento dell'art. 100 A del Trattato. Il suo scopo è di eliminare le disparità tra le legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa «che possono ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi, nonché falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune» (v. il primo ‘considerando’ della direttiva). L'uso dell'aggettivo «prima» nel titolo della direttiva implica che il ravvicinamento delle legislazioni effettuato dalla direttiva si presume non ancora completo. Ne è conferma il terzo ‘considerando’, secondo il quale «non appare attualmente necessario procedere ad un ravvicinamento completo delle legislazioni degli Stati membri in tema di marchi d'impresa e (...) è sufficiente limitare il ravvicinamento alle disposizioni nazionali che hanno un'incidenza più diretta sul funzionamento del mercato interno». |
50. |
L'art. 5 della direttiva elenca i diritti conferiti dal marchio di impresa. Vi si dispone, per quanto qui ci occupa, che: «1. Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:
2. (...) 3. Si può in particolare vietare, se le condizioni menzionate al paragrafo 1 e 2 sono soddisfatte:
(...)». L'art. 6, n. 1, dispone quanto segue: «1. Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l'uso nel commercio:
purché l'uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale». |
51. |
Dell'esaurimento del diritto tratta l'art. 7, già citato al paragrafo 13 delle presenti conclusioni. |
52. |
Ai sensi dell'art. 16: «1. Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi il 28 dicembre 1991. Essi ne informano immediatamente la Commissione. 2. Il Consiglio deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione può prorogare la data di cui al paragrafo 1 fino al 31 dicembre 1992 al massimo. (...)». |
53. |
Con decisione 19 dicembre 1991, 92/10/CEE ( 10 ), il Consiglio, avvalendosi della facoltà conferitagli dall'art. 16, n. 2, ha prorogato il termine per la trasposizione della direttiva al 31 dicembre 1992. |
3) // rapporto intercorrente tra le disposizioni del Trattato e la direttiva
54. |
Il rapporto intercorrente tra gli artt. 30 e 36 del Trattato e le disposizioni della direttiva è stato ampiamente discusso in alcune delle osservazioni presentate alla Corte, in cui ci si chiede sostanzialmente se le disposizioni della direttiva abbiano sostituito, o semplicemente integrato, quelle del Trattato. A mio parere, una volta che il legislatore comunitario abbia adottato norme specifiche volte a disciplinare gli effetti del diritto conferito dal marchio di impresa ed in particolare il problema dell'esaurimento del diritto, è logico che la soluzione sia rinvenuta nell'apposita normativa. Ciò non significa tuttavia che gli artt. 30 e 36 del Trattato debbano essere completamente accantonati. Al contrario, la direttiva deve essere interpretata alla luce delle norme del Trattato. Ove sorgesse un conflitto tra queste ultime e la direttiva, esso dovrebbe essere risolto attribuendo la preminenza alle disposizioni del Trattato, che sono fonti di diritto primario. È chiaro che una direttiva adottata sul fondamento dell'art. 100 A del Trattato al fine di ravvicinare le legislazioni degli Stati membri non potrebbe derogare alle norme fondamentali del Trattato sulla libera circolazione delle merci. Una direttiva non potrebbe ovviamente legittimare ostacoli al commercio intracomunitario che sarebbero altrimenti in contrasto con gli artt. 30 e 36 del Trattato. Fortunatamente, come cercherò di dimostrare, non v'è a mio parere alcun conflitto tra le disposizioni del Trattato e quelle della direttiva. |
55. |
Occorre a questo punto accennare ad altre due questioni, quella dell'effetto diretto della direttiva e quella della sua efficacia nel tempo. |
56. |
Sotto il primo profilo, è ormai principio consolidato che una direttiva non può avere il cosiddetto effetto diretto orizzontale; in altre parole, essa può essere fatta valere soltanto nei confronti dello Stato o di un ente pubblico ( 11 ). I giudici nazionali sono tuttavia tenuti ad interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della direttiva in modo da conseguire, ove possibile, il risultato perseguito dalla stessa ( 12 ). Questo dovere ricomprende non soltanto la normativa nazionale espressamente emanata per trasporre una direttiva, ma anche le altre disposizioni di diritto nazionale, ivi incluse quelle adottate prima della direttiva stessa. |
57. |
Per quanto riguarda l'efficacia della direttiva nel tempo, è pacifico che la direttiva si applica alle cause pendenti dinanzi ai giudici di rinvio danesi. La Danimarca ha adottato la normativa di attuazione della direttiva prima della scadenza — il 31 dicembre 1992 — del termine prescritto per la trasposizione. La detta normativa deve ovviamente essere interpretata alla luce della direttiva, anche per il periodo intercorrente tra la sua adozione e la scadenza del termine per la trasposizione della direttiva ( 13 ). |
58. |
In Germania la direttiva non è stata trasposta entro il termine prescritto, né, secondo le osservazioni scritte presentate dalla Boehringer, era stata trasposta quando tali osservazioni sono state presentate, nel giugno del 1994. La Commissione afferma che la direttiva non è applicabile alle cause tedesche, in quanto le importazioni controverse sono state effettuate prima del 31 dicembre 1992. Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento danni per le violazioni del marchio che si asserisce siano state compiute prima di tale data, l'affermazione della Commissione è senza dubbio corretta, fondandosi sulla premessa — che accetto — che prima della scadenza del termine di trasposizione di una direttiva il dovere per il giudice nazionale di interpretare il proprio diritto alla luce della direttiva riguardi soltanto la normativa specificamente adottata al fine di trasporre la direttiva stessa. Occorre tuttavia considerare che, nelle presenti fattispecie, i titolari del marchio chiedono, oltre ai danni, anche un provvedimento inibitorio. Mentre il risarcimento dei danni è il rimedio per gli illeciti commessi nel passato, il provvedimento inibitorio è un rimedio volto ad evitare che un illecito accada ovvero riaccada in futuro. Qualunque provvedimento inibitorio emesso dal giudice nazionale dopo la sentenza pregiudiziale della Corte nei procedimenti che qui ci occupano farà riferimento, necessariamente, ad un periodo successivo al 31 dicembre 1992. Dopo tale data, il dovere dei giudici nazionali di interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della direttiva attiene non soltanto alla specifica normativa di attuazione, bensì a tutte le disposizioni di diritto nazionale. Pertanto, nel decidere se emanare un provvedimento inibitorio, accogliendo la domanda dei titolari del marchio, il giudice tedesco dovrà interpretare le pertinenti disposizioni di diritto tedesco in modo da garantire che sia raggiunto il risultato perseguito dalla direttiva. |
III — Esaurimento del diritto con riferimento alle merci riconfezionate
59. |
Comincerò con l'esaminare la disciplina che scaturisce dagli artt. 30 e 36 del Trattato, per poi valutare se la direttiva vi abbia apportato modifiche. |
1) Il riconfezionamento e le norme del Trattato
a) Il fondamento dell'esaurimento del diritto: l'immissione sul mercato comunitario con il consenso del titolare del marchio
60. |
Alla base del principio dell'esaurimento del diritto v'è l'idea che il commercio sarebbe ingiustificatamente ostacolato se i titolari di diritti di proprietà intellettuale potessero controllare l'ulteriore circolazione delle merci dopo averne volontariamente trasferito la proprietà a terzi. L'esclusiva connessa a un marchio, brevetto, modello, diritto d'autore ecc. si applica solo alla prima vendita; il titolare del diritto deve trarre il proprio profitto da quella prima vendita, rinunciando alla facoltà di impedire ai successivi proprietari del bene di rivenderlo o comunque di disporne a proprio piacimento. |
61. |
Il principio dell'esaurimento del diritto, o qualcosa di analogo, esiste nella maggior parte dei sistemi giuridici e trova normale applicazione soltanto con riferimento alle merci immesse in commercio sul territorio nazionale. Conformandosi alla filosofia del mercato unico che ispira il Trattato, la Corte ha costantemente assegnato alla dottrina dell'esaurimento del diritto una portata comunitaria: qualunque vendita all'interno del territorio della Comunità, effettuata con il consenso del titolare di un diritto di proprietà intellettuale, esaurisce il diritto. La giustificazione del principio sta nel fatto che, se il titolare del diritto potesse impedire l'importazione e la vendita di prodotti immessi in commercio in un altro Stato membro da lui stesso o con il suo consenso, sarebbe in grado di isolare i mercati nazionali, restringendo così il commercio intracomunitário, anche qualora una restrizione del genere non fosse necessaria a tutelare l'essenza del suo diritto ( 14 ). Ciò che importa ai fini dell'applicazione del principio dell'esaurimento del diritto, secondo la giurisprudenza della Corte, non è che il titolare del diritto ottenga un equo compenso dalla vendita, ma che egli presti il proprio consenso alla stessa ( 15 ). |
62. |
In tutti i procedimenti principali, il titolare del marchio che si oppone alle importazioni parallele, appartiene allo stesso gruppo di cui fa parte l'impresa che ha prodotto le merci importate, immettendole sul mercato in un altro Stato membro. Si deve dunque supporre che il titolare del marchio abbia acconsentito all'immissione sul mercato della merce di cui trattasi: tale merce rientra nella nozione di «prodotti distribuiti dalla stessa impresa o su licenza della stessa ovvero da una società capogruppo o da una sua controllata ovvero ancora da un concessionario esclusivo», impiegata dalla Corte nella sentenza IHT Internationale Heiztechnik/Ideal Standard ( 16 ) per definire le situazioni in cui trova applicazione il principio dell'esaurimento del diritto. Occorre dunque accertare se vi siano motivi per non applicare il detto principio nelle presenti fattispecie. |
b) I due tipi di riconfezionamento sono davvero diversi?
63. |
La giurisprudenza citata faceva riferimento a due situazioni che, per praticità, chiamerò «situazioni A e B». Nella situazione A, l'importatore parallelo estrae le merci dalla confezione esterna originale e, senza alterare la confezione interna, inserisce le merci in una nuova confezione esterna, contrassegnandola con il marchio. Nella situazione B, l'importatore parallelo ancora una volta sostituisce la confezione esterna ma, anziché apporre il marchio sulla nuova confezione esterna, progetta tale confezione in modo che rimanga visibile il marchio apposto sulla confezione interna dal titolare del marchio. |
64. |
La situazione A è stata oggetto della sentenza della Corte Hoffmann-La Roche/Centrafarm ( 17 ). La situazione Β ha costituito la fattispecie della sentenza Pfizer/Eurim-Pharm ( 18 ). Nella prima causa, la Corte ha riconosciuto il principio fondamentale secondo il quale, in base all'art. 36, prima frase, del Trattato, il titolare del marchio ha il diritto di opporsi a che l'importatore di un prodotto di marca, dopo aver riconfezionato la merce, apponga il marchio, senza autorizzazione del titolare, sul nuovo imballaggio (punto 8). Tale principio si fonda sulla considerazione della funzione essenziale del marchio, che consiste nel garantire al consumatore la certezza che il prodotto contrassegnato non abbia subito alcun intervento da parte di un terzo, senza autorizzazione del titolare del marchio, che ne abbia alterato lo stato originario (punto 7). Tuttavia, ha continuato la Corte, tale principio fondamentale viene meno allorché ricorra una restrizione dissimulata ai sensi dell'art. 36, seconda frase; siffatta restrizione potrebbe risultare dal comportamento del titolare del marchio il quale mettesse in commercio in più Stati membri lo stesso prodotto in confezioni diverse e facesse valere i diritti inerenti al marchio per impedire il riconfezionamento, anche se tale operazione venisse effettuata in condizioni tali da non incidere sulla provenienza e sullo stato originario del prodotto contrassegnato dal marchio (punto 9). |
65. |
Nella sentenza Pfizer, la Corte ha ritenuto che il riconfezionamento effettuato in una situazione B non pregiudicasse la funzione del marchio come garanzia d'origine, in quanto non incideva sullo stato della merce né poteva trarre in inganno il consumatore sulla sua provenienza; non v'era perciò ragione di permettere al titolare del marchio di opporsi ad importazioni parallele. La Corte sembra essere pervenuta a tale conclusione sulla scorta della prima frase dell'art. 36, senza prendere in considerazione l'eventuale esistenza di una restrizione dissimulata ai sensi della seconda frase dello stesso articolo. |
66. |
A mio parere, non è corretto tracciare una rigida distinzione tra la situazione A e la situazione B, né mi pare che una distinzione rigida sia ravvisabile necessariamente nella giurisprudenza. V'è anzi un'esigua differenza sostanziale tra le due situazioni. Il punto può essere forse chiarito ricorrendo ad un esempio più comune, lontano dal mercato — in un certo qual modo speciale — dei prodotti farmaceutici. Supponiamo, ad esempio, che la società X acquisti un grande quantitativo di una nota bevanda gassata che la Coca Cola Company abbia immesso sul mercato in scatoloni, ciascuno contenente 100 lattine recanti il marchio «Coca Cola», e distribuito nello Stato membro A; la società X rimuove la confezione esterna, inserisce 12 lattine della bevanda in uno scatolone e scrive sul lato esterno dello scatolone «12 lattine di Coca Cola prodotte dalla Coca Cola Company, Atlanta, USA, e riconfezionate dalla società X». Qualora la società X importi poi il prodotto nello Stato membro B, vi sarebbe qualche giustificazione per consentire al titolare del marchio Coca Cola di bloccare tali importazioni parallele? Vi sarebbe una giustificazione ancora maggiore se la società X inserisse 12 lattine di Coca Cola in uno scatolone con finestre di cellofan attraverso le quali sia visibile il marchio sulle lattine? |
67. |
A mio parere, è difficile ammettere che vi siano ragioni per opporsi alle importazioni parallele nell'un caso e non nell'altro. In nessuno dei due casi la società X si appropria indebitamente dell'avviamento spettante alla Coca Cola Company né spaccia per propria la merce altrui. In nessuno dei due casi il riconfezionamento pregiudica la funzione del marchio come garanzia di provenienza. In entrambi i casi è ugualmente chiaro che il riconfezionamento non può incidere sulla qualità della merce. |
68. |
Il caso sarebbe ovviamente diverso se la società X acquistasse Coca Cola in barili da 100 litri, trasferendo poi la bevanda dentro lattine recanti il marchio. In un'ipotesi del genere, non si potrebbe garantire che il riconfezionamento non abbia pregiudicato la qualità del prodotto. La bevanda potrebbe risultare contaminata o adulterata, risultandone chiaramente compromessa la funzione del marchio come garanzia di provenienza. Ne deriva che il criterio cruciale nel determinare se il titolare di un marchio possa legittimamente opporsi ad importazioni parallele di merci riconfezionate non è se l'importatore parallelo apponga il marchio sulla merce oppure semplicemente faccia in modo che il marchio originale rimanga visibile, ma se egli interferisca con la merce in modo tale che non sia più garantito che lo stato originario della merce non sia stato modificato. |
69. |
Quanto detto trova riscontro in un più attento esame dell'iter logico seguito dalla Corte nella sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm. Nella parte della sentenza che stabilisce il principio di base secondo il quale il titolare del marchio può opporsi alla vendita di merce riconfezionata sulla quale sia stato apposto il marchio senza il suo consenso, la Corte stava affrontando la questione del riconfezionamento in termini altamente generici. Non vi è riferimento, nei punti 7 e 8 della sentenza, agli specifici fatti in causa e il principio ivi stabilito è chiaramente destinato a disciplinare la situazione in cui il riconfezionamento viene effettuato in modo da poter compromettere lo stato originario del prodotto (ad esempio, la situazione descritta nel precedente paragrafo). |
70. |
Soltanto nel prosieguo della sentenza (punti 9 e 10) la Corte si è occupata degli specifici fatti della causa Hoffmann-La Roche/Centrafarm: una situazione, cioè, in cui il titolare del marchio utilizza confezioni diverse in Stati membri diversi, le merci sono confezionate in due strati e solo strato esterno viene cambiato. Questa parte della sentenza, così come la sentenza Pfizer/Eurim-Pharm, stabilisce che il marchio non può essere utilizzato per impedire la vendita di merce riconfezionata allorché l'uso di confezioni diverse in Stati diversi conduca ad un isolamento del mercato e allorché risulti che il riconfezionamento non può incidere sullo stato originario della merce. Si tratta, a mio parere, di una corretta interpretazione dell'art. 36, per le ragioni che spiegherò qui di seguito. |
e) Il vero fondamento per delimitare l'applicazione del principio dell'esaurimento del diritto con riferimento alla merce riconfezionata
71. |
Che cosa intende esattamente l'art. 36 allorché autorizza le restrizioni al commercio giustificate «da motivi (...) di tutela della proprietà industriale e commerciale», purché non costituiscano un «mezzo di discriminazione arbitraria» o una «restrizione dissimulata» al commercio tra gli Stati membri? Per rispondere a questa domanda, con riferimento alle restrizioni fondate sui diritti di marchio, occorre affrontare la questione fondamentale del perché esista una tutela del marchio. |
72. |
Tutti i sistemi giuridici avanzati riconoscono agli operatori commerciali il diritto di utilizzare taluni segni e simboli distintivi per caratterizzare la propria merce. Tale tutela è preordinata: a) a consentire agli operatori commerciali di tutelare la reputazione della propria merce e di evitare lo sfruttamento abusivo del proprio avviamento da parte di concorrenti senza scrupoli, che potrebbero altrimenti cadere nella tentazione di spacciare la propria merce per merce di un altro operatore commerciale che goda di una solida reputazione e b) a consentire ai consumatori di effettuare scelte di acquisto oculate, forti della supposizione che merci vendute con lo stesso nome provengano dalla stessa fonte e posseggano, in circostanze normali, qualità uniforme. Pertanto, la normativa in materia di marchio mira alla tutela degli interessi non solo del titolare del marchio bensì anche del consumatore. Sotto il profilo della tutela degli interessi del titolare del marchio, autorizzandolo a impedire ai concorrenti di trarre iniquo vantaggio dalla propria reputazione commerciale, i diritti di esclusiva conferiti al titolare costituiscono, nel linguaggio della giurisprudenza della Corte, l'oggetto specifico del diritto conferito dal marchio. Sotto il profilo della tutela degli interessi dei consumatori, in quanto garanzia del fatto che tutte le merci contrassegnate da un certo marchio hanno la stessa origine commerciale, siamo nell'ambito, secondo la terminologia della Corte, della funzione essenziale del marchio. Questi due aspetti della tutela del marchio sono ovviamente le due facce della stessa medaglia. |
73. |
Scopo del marchio non è evidentemente quello di far sì che gli operatori commerciali dividano il mercato comune, mantengano differenze di prezzo fra gli Stati membri e creino o rafforzino barriere artificiose al commercio intracomunitário. Ove le differenze di prezzo siano determinate da fattori estranei al controllo del produttore, ad esempio da prezzi imposti o da norme sul rimborso delle spese mediche, è comprensibile che il produttore si senta leso nei propri diritti qualora la merce, che egli ha immesso in commercio in uno Stato membro a un prezzo controllato, trovi accesso al mercato di un altro Stato membro in cui, teoricamente, vige il libero mercato, ma in cui la libertà del produttore risulta compressa dalla necessità di far fronte alla concorrenza di importazioni parallele del suo stesso prodotto. |
74. |
In un certo senso, l'effetto finale della libera circolazione delle merci in un contesto del genere è quello di esportare la normativa in materia di prezzi di un determinato paese nel resto del mercato comune. Benché possa parere iniquo ai produttori, ciò non può giustificare l'uso del marchio per escludere le importazioni parallele di merci che il titolare del marchio abbia immesso in commercio nell'ambito di un regime di prezzi imposti. La funzione del marchio non è certo quella di correggere le distorsioni dovute alle diverse legislazioni in materia di prezzi. |
75. |
È pacifico che il principio dell'esaurimento del diritto non cessa di applicarsi semplicemente perché le merci di cui trattasi sono state immesse in commercio in uno Stato membro in cui esiste un regime di prezzi imposti. Nella sentenza Centrafarm/Winthrop ( 19 ) la Corte ha dichiarato che il titolare di un marchio non può esercitare il proprio diritto per opporsi ad importazioni parallele di merci che egli ha immesso in commercio, con il detto marchio, in un altro Stato membro in cui siano vigenti provvedimenti di controllo dei prezzi. Nella sentenza Centrafarm/Sterling Drug ( 20 ) la Corte ha dichiarato che il titolare di brevetti paralleli nei Paesi Bassi e nel Regno Unito non può avvalersi del brevetto olandese per impedire importazioni nei Paesi Bassi di prodotti farmaceutici che egli ha posto in commercio nel Regno Unito, dove vige un regime di controllo dei prezzi. |
76. |
Per quanto riguarda i brevetti, ľapplica-zione del principio dell'esaurimento del diritto in una situazione del genere offre il destro ad una serie di critiche, fondate sulla considerazione che il vero scopo di un brevetto (il suo oggetto specifico) è di far sì che il titolare ottenga un equo compenso per il suo contributo al progresso scientifico e che costui non può ottenere tale equo compenso ove non sia libero di determinare i prezzi di vendita. Ma la stessa critica non può essere estesa al caso dei marchi, il cui scopo è completamente diverso. Nessuno degli interessi tutelati dal diritto di marchio (vale a dire l'oggetto specifico e la funzione essenziale del marchio, come definiti supra, paragrafo 72) è pregiudicato da norme che limitino la libertà del titolare del marchio di fissare i propri prezzi di vendita. La funzione assolta dal marchio come garanzia di origine non è compromessa dal semplice fatto che il principio dell'esaurimento del diritto si applichi a merci poste in commercio ad un prezzo regolamentato. |
77. |
Per determinare quali restrizioni al commercio siano consentite ai sensi dell'art. 36 per motivi di tutela del marchio è necessario avere ben presenti gli interessi definiti al paragrafo 72. Occorre contemperare tali interessi con l'obiettivo fondamentale dell'art. 30, quello di garantire che le merci possano circolare liberamente all'interno della Comunità e che il commercio fra gli Stati membri non sia ostacolato più del necessario. Proprio questo intende la Corte allorché sottolinea, come ha fatto in numerose occasioni, che l'art. 36, in quanto eccezione ad un principio fondamentale, deve essere interpretato in senso restrittivo e può essere fatto valere solo nel caso di restrizioni che siano necessarie a tutelare l'oggetto specifico di un diritto di proprietà industriale. |
78. |
Pertanto, per accertare se il titolare di un marchio possa opporsi ad importazioni parallele di merci riconfezionate, occorre porsi una serie di domande, in particolare se lo stato della merce abbia subito modifiche tali che la merce non possa più essere veramente considerata proveniente dal titolare del marchio, cosicché l'importatore parallelo trarrebbe iniquo vantaggio dalla reputazione del marchio; se lo stato della merce abbia subito modifiche tali che la sua successiva immissione sul mercato con il marchio potrebbe ingiustamente danneggiare la reputazione del marchio stesso; se i consumatori possano essere fuorviati, se possano cioè presumere che la merce sia stata prodotta sotto il controllo del titolare del marchio e possegga pertanto la qualità abitualmente connessa al marchio stesso, laddove, di fatto, in conseguenza del riconfezionamento, vi siano state interferenze tali sulla merce che la sua qualità originaria potrebbe risultare compromessa; in altre parole, se si possa ritenere pregiudicata la funzione del marchio come garanzia di provenienza. |
79. |
Se qualcuna delle citate domande meritasse risposta affermativa, il proprietario del marchio potrebbe legittimamente opporsi ad importazioni parallele di merce riconfezionata. Se invece tutte le domande dovessero essere risolte in senso negativo, diverrebbe difficile giustificare che la libera circolazione delle merci sia ostacolata in nome della tutela del marchio. Alcuni degli argomenti integrativi dedotti dai titolari del marchio nelle presenti cause sono sicuramente irrilevanti. Il fatto che essi abbiano speso grandi somme di denaro per promuovere i propri prodotti in Danimarca e in Germania non li legittima a escludere la concorrenza sui prodotti che essi stessi hanno posto in commercio in altri Stati membri. Parimenti irrilevante, per le ragioni già dette, è il fatto che essi siano stati costretti a vendere i propri prodotti a prezzi inferiori in altri Stati membri a causa dei regimi di controllo dei prezzi o di rimborso delle spese mediche ivi vigenti. |
d) La nozione di restrizione dissimulata
80. |
I titolari del marchio nelle presenti cause, richiamando le sentenze della Corte Hoffmann-La Roche/Centrafarm e Centrafarm/American Home Products Corporation ( 21 ), sostengono che, perché essi perdano il diritto di opporsi alle importazioni parallele di merci riconfezionate sulle quali è stato apposto il marchio senza la loro autorizzazione, deve ricorrere un'ulteriore condizione. A loro parere, deve essere dimostrato che, utilizzando confezioni diverse nei vari Stati membri, essi hanno deliberatamente perseguito la realizzazione di un artificioso isolamento del mercato, creando così una restrizione dissimulata al commercio fra gli Stati membri. |
81. |
Non concordo con questa posizione. Ove il riconfezionamento venga effettuato in modo da non compromettere la funzione del marchio come garanzia di provenienza e da non ledere la reputazione del marchio, non sembra esservi valida ragione per affermare che l'importatore parallelo può vendere la merce riconfezionata solo qualora possa dimostrare che il titolare del marchio ha deliberatamente utilizzato le diverse confezioni allo scopo di isolare artificiosamente il mercato. |
82. |
Ciò non significa che la questione di una restrizione dissimulata sia irrilevante, né si può fingere che la seconda frase dell'art. 36 non esista. Le due frasi dell'art. 36 dovrebbero secondo me essere lette globalmente. È un errore interpretare la seconda frase come un'eccezione ad un principio generale sancito nella prima (o, come sostengono la Boehringer Ingelheim e la Farmitalia, come un'eccezione all'eccezione, presupponendo che l'art. 30 sancisca il principio generale e la prima frase dell'art. 36 contenga l'eccezione a tale principio). Delle due, l'una: o un provvedimento è giustificato per uno dei motivi elencati nell'art. 36 o non è affatto giustificato. Una delle circostanze da prendere in considerazione per accertare l'esistenza di una giustificazione è se il provvedimento costituisca una restrizione dissimulata, in altre parole se il provvedimento, sebbene apparentemente volto a tutelare la proprietà industriale, sia in realtà diretto a conseguire qualche altro scopo, estraneo alla tutela del marchio. Qualora il titolare di un marchio utilizzi il marchio stesso per escludere le importazioni parallele dei suoi prodotti, allorché la vendita di tali prodotti non mette in pericolo gli interessi tutelati dall'oggetto specifico del marchio né compromette la funzione essenziale del marchio impedendogli di funzionare come garanzia di provenienza, sorge inevitabilmente la presunzione che il marchio sia utilizzato per qualche altro scopo, ad esempio per determinare o rafforzare un isolamento del mercato comune e per consentire al titolare del marchio di mantenere differenze di prezzo fra i diversi Stati membri. Il fatto che tale isolamento si configuri come il risultato di norme relative alla dimensione dei prodotti farmaceutici non è, a mio parere, rilevante. Quando il titolare di un marchio trae vantaggio da una situazione creatasi per circostanze esterne al suo controllo e si avvale del suo diritto di marchio per escludere le importazioni parallele, sebbene l'esclusione di tali importazioni non sia necessaria per motivi di tutela del marchio, il suo comportamento integra gli estremi di un abuso del diritto di marchio, nonché di una restrizione dissimulata agli scambi. |
83. |
Sebbene nella sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm la Corte abbia parlato di un isolamento artificioso del mercato, essa non ha detto però che vi sia restrizione dissimulata al commercio soltanto allorché il titolare del marchio si adopera deliberatamente per conseguire l'isolamento del mercato utilizzando diversi tipi di confezionamento. Secondo la Corte, vi è restrizione dissimulata qualora sia provato che 1'«esercizio del diritto al marchio da parte del titolare contribuisce, tenuto conto del sistema di distribuzione adottato dal titolare del marchio, ad isolare artificiosamente i mercati nazionali nell'ambito della Comunità» ( 22 ). Benché il testo non sia privo di ambiguità, esso sembra far riferimento ad una verifica di carattere essenzialmente oggettivo. Quanto al profilo soggettivo, è sufficiente il semplice fatto di avvalersi di un diritto di marchio per impedire importazioni parallele che non pregiudicano l'oggetto specifico o la funzione essenziale del marchio. I titolari di marchi si sbagliano se pensano di poter liberamente sfruttare a proprio piacimento un isolamento dei mercati determinato da fattori estranei al loro controllo. Sarebbe in ogni caso illogico ed impraticabile richiedere la prova della deliberata intenzione di isolare i mercati utilizzando tipi di confezionamento diversi. Un'intenzione del genere sarebbe difficile, se non addirittura impossibile, da provare. L'importatore parallelo che intenda riconfezionare la merce deve poter determinare con un ragionevole grado di certezza se ciò sia lecito o meno. La legittimità del suo comportamento non può dipendere dalle intenzioni soggettive altrui. |
84. |
Occorre osservare infine che vi è un rilevante contrasto tra la sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm e la sentenza Centrafarm/American Home Products Corporation, pronunciata alcuni mesi più tardi, per quanto riguarda la rilevanza dell'intenzione di isolare i mercati. In quest'ultima sentenza, la Corte ha infatti chiarito che, ove il titolare di un marchio utilizzi marchi diversi nei diversi Stati membri per lo stesso prodotto, l'importatore parallelo non può sostituire un marchio all'altro, a meno che l'uso di marchi diversi sia deliberatamente volto ad isolare i mercati ( 23 ). Mi pare comunque che sorgano problemi ben più difficili allorché l'importatore parallelo cambia il marchio, rispetto al caso in cui semplicemente cambi la confezione: possono pertanto rendersi necessarie soluzioni diverse. |
e) Gli ulteriori presupposti che l'importatore parallelo deve soddisfare
85. |
Nella sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm, la Corte ha dichiarato che l'importatore parallelo che apponga il marchio su prodotti riconfezionati deve previamente informare della messa in vendita del prodotto riconfezionato il titolare del marchio e, sulla nuova confezione, deve indicare da chi è stato effettuato il riconfezionamento. È stato suggerito nel procedimento C-232/94 che il prodotto riconfezionato dovrebbe recare altresì l'indicazione che il riconfezionamento ha avuto luogo senza il consenso del titolare del marchio. Le questioni sollevate nei procedimenti riuniti C-71/94, C-72/94 e C-73/94 implicano che l'omessa menzione del nome del produttore sulla nuova confezione può configurare un motivo per consentire al titolare del marchio di opporsi alle importazioni parallele. |
86. |
La precisa ragione per la quale si richiede che il titolare del marchio sia previamente avvertito del riconfezionamento non emerge chiaramente dalla sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm e vi possono essere circostanze in cui tale preavviso sarebbe superfluo. In generale, comunque, non pare un requisito irragionevole, perlomeno per quanto riguarda i medicinali. Esso può attribuirsi alla necessità di rendere più semplice per il titolare del marchio la verifica dell'autenticità delle merci riconfezionate, così da poter combattere le attività dei contraffattori. Se le merci contrassegnate dal marchio dovessero apparire nei diversi paesi della Comunità in confezioni poco familiari, potrebbe essere difficile per il titolare del marchio accertare se i prodotti siano genuini. Tale compito è in parte facilitato ove il nuovo confezionamento e l'identità dell'impresa responsabile dello stesso siano stati previamente comunicati al titolare del marchio. Il pericolo di contraffazioni, dal punto di vista del pubblico, è particolarmente serio per quanto riguarda i medicinali. |
87. |
Si potrebbe addirittura andare un po' oltre, rispetto alla sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm, imponendo all'impresa che riconfeziona prodotti farmaceutici contrassegnati da marchio non soltanto di avvertirne preventivamente il titolare del diritto, ma anche di fargli avere un campione del prodotto riconfezionato, così da consentirgli di rilevare eventuali difetti e di chiederne la correzione. La confezione originale può contenere informazioni importanti (ad esempio, che il prodotto è sensibile alla luce, che dev'essere conservato ad una determinata temperatura e tenuto fuori dalla portata dei bambini ecc.). Il titolare del marchio dovrebbe avere il diritto di opporsi all'immissione in commercio di merci riconfezionate ove informazioni del genere non siano riprodotte sulla nuova confezione. Talune di queste indicazioni devono comunque essere menzionate sulla confezione esterna dei prodotti medicinali in forza dell'art. 2 della direttiva del Consiglio 31 marzo 1992, 92/27/CEE, concernente l'etichettatura ed il foglietto illustrativo dei medicinali per uso umano ( 24 ). |
88. |
Il requisito secondo il quale il prodotto riconfezionato deve recare l'indicazione dell'impresa responsabile del riconfezionamento è ovviamente giustificato. Senza tale indicazione, si creerebbe l'impressione che il titolare del marchio sia responsabile della nuova confezione e dei suoi eventuali difetti. L'importatore parallelo che si dedichi al riconfezionamento deve indicare quale ruolo egli ha rivestito nell'alterare l'apparenza del prodotto. D'altra parte, non credo sia necessario indicare che il riconfezionamento è stato effettuato senza il consenso del titolare del marchio. Un'indicazione del genere, che inevitabilmente indurrebbe a far ritenere che il prodotto riconfezionato non è completamente legittimo, non è necessaria al fine di garantire la funzione del marchio come garanzia di provenienza. Ne ritengo essenziale menzionare il nome del produttore sulla nuova confezione. Anche se l'importatore parallelo di regola vorrà includere tale informazione, non si vede come la sua omissione possa incidere sulla funzione del marchio o essere lesiva degli interessi del titolare del marchio, perlomeno allorché egli sia indicato come produttore della merce sulla confezione interna originale. |
f) Una conclusione generale
89. |
Sulla scorta delle considerazioni sin qui svolte, posso trarre la seguente conclusione generale: Qualora merci contrassegnate da un marchio siano immesse in commercio in uno Stato membro con il consenso del titolare del marchio e un terzo le acquisti, le collochi in una nuova confezione esterna, sulla quale appone il marchio o attraverso la quale rimane visibile il marchio apposto sulla confezione interna, e distribuisca la merce così riconfezionata in un altro Stato membro, il titolare del marchio non può esercitare il diritto dallo stesso attribuitogli per impedire tale distribuzione, a meno che il riconfezionamento sia effettuato in modo da poter incidere sullo stato originario della merce o da ledere altrimenti la reputazione del marchio. Chi procede al riconfezionamento deve in via di principio informarne il titolare del marchio, fornendogli un campione del prodotto riconfezionato. Deve inoltre indicare, sul prodotto riconfezionato, che egli è responsabile del riconfezionamento, ma non occorre che indichi il produttore della merce, né che il titolare del marchio non ha autorizzato il riconfezionamento. |
2) Il riconfezionamento ai sensi della direttiva
90. |
Esattamente lo stesso risultato si raggiungerebbe, a mio parere, sulla scorta dell'art. 7 della direttiva. |
91. |
L'art. 7 è manifestamente modellato sulla giurisprudenza della Corte che ha sancito il principio dell'esaurimento del diritto. Ciò si evince tanto dal suo tenore letterale quanto dal suo titolo «Esaurimento del diritto conferito dal marchio d'impresa». Scopo dell'art. 7 era garantire che il principio dell'esaurimento del diritto a livello comunitario fosse accolto nei diritti nazionali degli Stati membri, alcuni dei quali prevedevano invece l'esaurimento dei diritti di proprietà intellettuale soltanto con l'immissione in commercio entro il proprio territorio nazionale. |
92. |
Pertanto, l'art. 7, n. 1, stabilisce che il titolare del marchio non può vietarne ľuso per prodotti immessi in commercio nella Comunità con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso. La lettera di questa norma richiama decisamente il linguaggio usato nelle sentenze della Corte che hanno stabilito il principio dell'esaurimento. |
93. |
L'art. 7, n. 2, della direttiva, così come la giurisprudenza della Corte, riconosce che il principio dell'esaurimento non è assoluto: non si applica quando sussistono «motivi legittimi perché il titolare si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio». Ancora una volta, il linguaggio della direttiva rievoca la giurisprudenza della Corte, in particolare le sentenze Hoffmann-La Roche/Centrafarm e Pfizer/Eurim-Pharm. Non si può dire pertanto che la precedente giurisprudenza sia divenuta superflua. Al contrario, l'art. 7, n. 2, è tanto vago da richiedere di essere integrato dalla giurisprudenza. L'impreciso riferimento al concetto di «stato dei prodotti modificato o alterato» è di per sé di scarso aiuto nell'identificare quali possano essere i «motivi legittimi» per non applicare il principio dell'esaurimento. La rilevanza della questione diviene chiara solo dall'analisi della giurisprudenza. |
94. |
Non si può dire, comunque, che la direttiva abbia la pretesa di «codificare» la giurisprudenza. L'art. 7, n. 2, pur nella sua stringatezza, basta a dimostrare che non persegue tale scopo. E ciò per buone ragioni. È legittimo chiedersi in quale misura il Consiglio sia competente, ai sensi dell'art. 100 A del Trattato, a codificare la giurisprudenza relativa all'art. 36 del Trattato. Inoltre, il Consiglio ha senz'altro compreso che i principi stabiliti in una manciata di sentenze non erano ancora pronti ad essere cristallizzati in qualcosa di simile ad un codice normativo, ma che occorreva invece consentire loro di evolvere alla luce delle situazioni di fatto che emergono nel corso di eventuali cause. L'uso del termine «in particolare» nell'art. 7, n. 2, conferma la natura non tassativa della disposizione e dimostra che il Consiglio non intendeva ostacolare il potere della Corte di definire, e di ridefinire, le circostanze che giustificano l'opposizione del titolare del marchio a che terzi smercino i prodotti contrassegnati da marchio dopo la loro prima immissione in commercio. |
95. |
Come l'art. 36 del Trattato, anche l'art. 7 della direttiva mira a raggiungere un contemperamento tra la libera circolazione delle merci all'interno del mercato comune e la tutela dei diritti di marchio. Il giusto equilibrio si ottiene ammettendo solo le restrizioni alla libera circolazione che siano necessarie a salvaguardare l'oggetto specifico e la funzione essenziale del marchio. Pertanto, quanto già detto innanzi, ai paragrafi 71-89, vale anche per l'interpretazione della direttiva. L'effetto principale dell'art. 7 della direttiva è semplicemente che, una volta che la direttiva sia correttamente trasposta, la soluzione è rinvenibile nei provvedimenti nazionali di trasposizione. Laddove prima poteva esistere un conflitto tra la normativa nazionale e il Trattato (un conflitto che avrebbe dovuto essere risolto disapplicando la disposizione nazionale confliggente), ora la normativa nazionale dovrebbe essere compatibile con il Trattato: il principio dell'esaurimento a livello comunitario dei diritti di marchio, con l'eccezione dei «motivi legittimi», dovrebbe, dopo la corretta trasposizione della direttiva, essere ormai incluso nel diritto nazionale degli Stati membri. È questo, secondo me, quanto l'art. 7 della direttiva mirava ad ottenere. |
96. |
Il governo tedesco e i titolari del marchio nei procedimenti riuniti C-427/93, C-429/93 e C-436/93 sostengono in realtà che l'art. 7 avrebbe ampliato l'ambito della tutela dei diritti del titolare di marchio, limitando i casi in cui il principio dell'esaurimento si applica alle merci riconfezionate. Secondo questo argomento, l'art. 7, n. 1, si applicherebbe solo ai prodotti immessi in commercio nel loro stato originario, vale a dire nella confezione originale. Pertanto, il titolare del marchio potrebbe opporsi all'immissione in commercio di merci riconfezionate sulle quali il marchio sia stato apposto senza il suo consenso, anche qualora lo stato della merce non possa essere influenzato dal riconfezionamento. |
97. |
Non condivido tale argomento. In primo luogo, esso è diffìcilmente compatibile con il testo dell'art. 7, n. 2, ai sensi del quale l'art. 7, n. 1, non trova applicazione solo allorché vi siano motivi legittimi perché il titolare del diritto si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti. Vi sono chiaramente situazioni (come quelle descritte innanzi, al paragrafo 66) in cui non è affatto ovvio che il titolare del marchio abbia motivi legittimi per opporsi all'uso del marchio sui prodotti riconfezionati. Sostenere che la persona che semplicemente sostituisca la confezione esterna dei prodotti non ha mai il diritto di identificare il prodotto apponendo il marchio sulla nuova confezione sarebbe eccessivo. |
98. |
In secondo luogo, l'argomento di cui sopra trascura il fatto che l'art. 7 è stato modellato sulla giurisprudenza della Corte. Si evince chiaramente dalla sentenza Hoffmann-La Roche/Centrafarm che la Corte non ha ritenuto che il principio dell'esaurimento non sia applicabile alle merci riconfezionate sulle quali il marchio sia stato apposto da terzi. Ove il legislatore avesse inteso operare un radicale mutamento del diritto vigente, lo avrebbe fatto sicuramente in termini chiari, e non evocando il linguaggio della Corte. |
99. |
In terzo luogo, accogliere l'argomento di cui sopra significherebbe che la direttiva si è di fatto risolta in un passo indietro per quanto riguarda l'integrazione del mercato e la rimozione delle barriere agli scambi intracomunitari. Significherebbe che gli ostacoli alle importazioni parallele sono maggiori adesso di quanto non lo fossero prima dell'adozione della direttiva. Ma la premessa certa dalla quale occorre muovere è che scopo dell'armonizzazione delle legislazioni tra gli Stati membri ai sensi degli artt. 100 e 100 A del Trattato è quello di rimuovere le barriere agli scambi intracomunitari, non certo quello di rafforzarle. |
3) L'onere della prova
100. |
Il Regno Unito afferma che l'art. 7 della direttiva ha un effetto ulteriore, quello cioè di invertire l'onere della prova: laddove l'impresa che apponeva il marchio sui prodotti riconfezionati aveva prima l'onere di dimostrare che il riconfezionamento non poteva incidere sullo stato originale della merce, incomberebbe ora al titolare del marchio l'onere di dimostrare l'esistenza di motivi legittimi per opporsi all'ulteriore commercializzazione della merce riconfezionata. |
101. |
Questo argomento non mi persuade. Nell'art. 7 non vedo alcun riferimento, né esplicito né implicito, all'onere della prova: esso tace sulla questione. Né la Corte si è pronunciata in ordine all'onere della prova nelle sentenze Hoffmann-La Roche/Centrafarm e Pfizer/Eurim-Pharm. Ammetto che alcuni dei termini usati nella Hoffmann-La Roche/Centrafarm possono dare l'impressione di far riferimento a tale questione. La sentenza sembra suggerire che il titolare può in via di principio opporsi all'uso del marchio sui prodotti riconfezionati e che egli perde tale diritto solo in circostanze eccezionali, cioè qualora sia provato che l'esercizio del diritto al marchio contribuisce ad isolare artificiosamente i mercati e sia dimostrato che il riconfezionamento non può alterare lo stato originario del prodotto [v. punto b) del dispositivo della sentenza]. |
102. |
Non ritengo tuttavia che questo linguaggio fosse inteso ad interferire con le norme tecniche inerenti all'onere della prova o a stabilire una presunzione secondo la quale l'esercizio, da parte del titolare, del diritto di marchio per opporsi alla vendita di prodotti riconfezionati sia legittimo fino a prova contraria. La questione della prova attiene alla materia processuale ed è pertanto disciplinata, secondo il principio dell'autonomia processuale, dal diritto nazionale ( 25 ). La Corte ha costantemente dichiarato che, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le condizioni relative all'attuazione delle norme comunitarie aventi effetto diretto negli Stati membri, purché ricorrano due presupposti: che le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non siano meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale e che non siano predisposte in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario ( 26 ). Solo in casi eccezionali il diritto comunitario interferisce con il potere del giudice nazionale di applicare le norme del proprio diritto nazionale in materie come i mezzi di prova o l'onere della prova ( 27 ). A volte, il diritto comunitario dispone espressamente a chi incomba l'onere della prova, oppure specifica quale tipo di prova sia richiesto, ad esempio in materia doganale ( 28 ). Altre volte, la Corte ha espressamente statuito che, in taluni casi, l'onere di provare taluni fatti incombe ad una parte determinata. Ciò si è verificato principalmente nelle cause vertenti sulla parità di trattamento economico tra uomini e donne ( 29 ), in cui l'interferenza con l'autonomia processuale degli Stati membri era giustificata in quanto l'effettivo esercizio del diritto alla parità di retribuzione sarebbe stato virtualmente impossibile se, in talune situazioni, l'onere della prova fosse stato attribuito al lavoratore ( 30 ). |
103. |
È logico quindi chiedersi se, nella fattispecie, l'applicazione di norme in ordine all'onere della prova possa avere l'effetto di rendere virtualmente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti riconosciuti dall'ordinamento comunitario. Sono due i diritti di cui trattasi, in particolare il diritto del titolare del marchio di opporsi all'uso ingiustificato del proprio marchio da parte di terzi e il diritto degli importatori paralleli di immettere in commercio prodotti contrassegnati da marchio, purché non si arrechi danno ai legittimi interessi del titolare del marchio. Entrambi i diritti sono di grande importanza e ogni eventuale conflitto tra loro dev'essere risolto contemperando i rispettivi interessi. Nessuna delle parti dovrebbe essere sottoposta ad una probado diabolica, vale a dire costretta a provare qualcosa che non può essere provato o che può essere provato soltanto con estrema difficoltà. Così sarebbe, presumibilmente, nel caso in cui si richiedesse all'importatore parallelo di provare che il riconfezionamento non può incidere sullo stato originario del prodotto. È fin troppo ovvio ricordare che la prova di un fatto negativo è estremamente difficile. Naturalmente i giudici nazionali devono evitare di applicare norme irragionevoli sull'onere e sui criteri di prova. Non sarebbe invece irragionevole imporre agli importatori paralleli di dimostrare di aver adottato le opportune misure di sicurezza nel riconfezionare la merce, ad esempio di disporre di impianti adeguati e di personale competente. |
104. |
È pertanto necessario procedere con equilibrio, come prescritto dalla Corte nella sentenza Sandoz ( 31 ). Oggetto della causa era una disposizione olandese ai sensi della quale gli alimenti e le bevande arricchiti da vitamine potevano essere venduti solo dietro autorizzazione del ministero competente. La Corte ha dichiarato che «il diritto comunitario [e cioè gli artt. 30 e 36 del Trattato] osta ad una normativa nazionale che subordini l'autorizzazione di vendere alla prova da parte dell'importatore che la merce non è nociva per la salute, salva restando la facoltà delle autorità nazionali di chiedere all'importatore l'esibizione di tutti i dati in suo possesso, utili per la valutazione dei fatti» ( 32 ). |
105. |
La Sandoz è una delle molte sentenze in cui la Corte ha dichiarato che, allorché si invoca l'art. 36, occorre dimostrare che la restrizione alle importazioni è necessaria al fine di tutelare uno degli interessi cui tale norma fa riferimento ( 33 ). Con tali sentenze la Corte intende dire che l'autorità nazionale — o il titolare di un diritto di proprietà intellettuale — che voglia avvalersi delle disposizioni dell'art. 36 non può limitarsi ad un generico riferimento ad uno degli interessi ivi elencati; occorre un'argomentazione coerente, che dimostri con precisione in che modo gli interessi di cui trattasi sarebbero pregiudicati. Non credo che la Corte intenda dettare norme tecniche sull'attribuzione dell'onere della prova o sul tipo di prova da fornire. |
106. |
Ne concludo che, in via di principio, il giudice nazionale deve applicare le proprie norme di diritto interno in materia di onere della prova, di tipo della prova nonché di ammissibilità dei mezzi di prova, purché tali norme non siano discriminatorie e non rendano eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti riconosciuti dal diritto comunitario. Allorché il titolare di un marchio si oppone all'importazione di prodotti che egli ha immesso in commercio in un altro Stato membro in quanto riconfezionati da terzi, non è irragionevole imporre a tali terzi di dimostrare di aver adottato le opportune cautele per garantire che il riconfezionamento non abbia influito sullo stato originario del prodotto. |
IV — Applicazione dei principi sopra esposti alla diversa fattispecie di ciascun procedimento
107. |
Spetta naturalmente al giudice nazionale determinare come i principi sopra illustrati debbano essere applicati alla diversa fattispecie di ciascun procedimento. La Corte può nondimeno offrire il proprio contributo nel far luce su tali fattispecie. È quanto cercherò di fare nel prosieguo. |
1) Procedimento C-427/93
108. |
Il riconfezionamento effettuato dalla Paranova sui prodotti della Bristol-Myers Squibb consiste essenzialmente nel sostituire la confezione esterna del prodotto. Nel caso dei cinque prodotti farmaceutici di cui trattasi, la confezione interna non sembra aver subito alcuna alterazione, salvo che, in alcuni casi (Vepesid, Vumon e Mycostatin) sulla stessa è stata apposta un'etichetta. Quanto al Capoten e al Diclocil, il preparato farmaceutico è proposto in forma di pillole e la confezione interna consiste di blister. Nel caso del Vepesid e del Vumon, il preparato farmaceutico è in forma liquida e per la confezione interna vengono utilizzate fiale. Sulla nuova confezione esterna, la Paranova utilizza solitamente gli stessi colori della Bristol-Myers Squibb. In un caso (Mycostatin) è inserito nella nuova confezione un prodotto in più, cioè un piccolo atomizzatore a forma di siringa, avvolto in una busta di plastica sigillata sulla quale compaiono i nomi «Asie» e «ONCE»; niente lascia supporre che questi nomi siano marchi della Bristol-Myers Squibb. Sulla confezione esterna è indicato che la scatola contiene un atomizzatore prodotto dalla Paranova. |
109. |
Occorre dunque accertare se le operazioni sopra descritte pregiudichino qualcuno dei legittimi interessi tutelati dalla normativa sul marchio (interessi definiti supra, paragrafo 72). Il semplice fatto che la Paranova sostituisca la confezione esterna ed apponga il marchio sulla nuova confezione non sembra pregiudicare alcuno di questi interessi. Il prodotto indicato come «Capoten» è autentico Capoten prodotto dalla Bristol-Myers Squibb. La Paranova non spaccia per proprio un prodotto della Bristol-Myers Squibb. Il consumatore non viene ingannevolmente indotto ad acquistare un prodotto che sembra provenire dal titolare del marchio «Capoten», mentre in realtà proviene da una fonte diversa. L'uso degli stessi colori impiegati sui prodotti smerciati in Danimarca dalla Bristol-Myers Squibb non è fuorviarne; aiuta semplicemente ad identificare il prodotto. Non v'è appropriazione dell'avviamento della Bristol-Myers Squibb. Si può argomentare che, se la confezione esterna fosse scadente o difettosa, potrebbe danneggiare la reputazione del marchio, ma non v'è alcuna affermazione della Bristol-Myers Squibb in tal senso. |
110. |
Quanto alla questione cruciale, consistente nell'accertare se il riconfezionamento possa incidere sullo stato originario del prodotto, la risposta dev'essere negativa nel caso di quattro prodotti. Nel caso del Capoten e del Diclocil i blister originali sono lasciati intatti e la Paranova si limita ad apporvi l'indicazione (senza cancellare il marchio originale) che essa ha effettuato il riconfezionamento. Nel caso del Vepesid e del Vumon, sembra che la Paranova rimuova l'etichetta originale dalle fiale o dai flaconi e vi apponga una nuova etichetta, che identifica il prodotto e descrive il ruolo della Paranova. Non si vede come, in questi casi, il riconfezionamento possa incidere sullo stato originario del prodotto. |
111. |
Il Mycostatin è riconfezionato come il Vepesid e il Vumon, e ancora una volta lo stato originario del medicinale in sé non dovrebbe essere pregiudicato. Maggiori difficoltà, tuttavia, sorgono a causa dell'inserimento dell'atomizzatore nella scatola di Mycostatin. In via di principio, il titolare del marchio può opporsi all'inserimento, in una scatola recante il suo marchio, di prodotti provenienti da una fonte diversa, poiché si ingenera in tal modo l'impressione che la merce aggiunta sia stata prodotta sotto il suo controllo. Forse, una chiara indicazione su uno dei lati della scatola che la merce è stata prodotta da un'azienda diversa potrebbe essere sufficiente a dissipare tale impressione. Spetta al giudice nazionale determinare se l'indicazione sia sufficientemente chiara e se, nonostante tale indicazione, si potrebbe continuare ad attribuire al titolare del marchio la responsabilità del materiale aggiuntivo. |
2) Procedimento C-429/93
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In via di principio è difficile capire come il riconfezionamento effettuato dalla Paranova in questo caso possa incidere sullo stato originario del prodotto. Nel caso dell'Atrovent, del Berodual e del Berotec la Paranova semplicemente rimuove gli inalatori aerosol dalle loro scatole originali, inserendoli in nuove scatole. Prima di riconfezionare gli inalatori, la Paranova vi appone un adesivo recante informazioni in danese. Il nuovo adesivo ricopre interamente l'adesivo originale. Esso contiene informazioni sui principi attivi, sulla data di scadenza e sul numero di lotto e indica che il prodotto è stato importato e riconfezionato dalla Para-nova. In alcuni casi, è inserita una versione danese delle istruzioni per l'uso. |
113. |
Si potrebbe argomentare che, nel riprodurre la data di scadenza o nella traduzione delle istruzioni, vi potrebbero essere errori, oppure che nel corso del riconfezionamento v'è il rischio che gli inalatori siano contaminati. Si tratta di questioni di fatto, che spetta al giudice nazionale decidere. Per quanto riguarda il riconfezionamento del Catapresan, è difficile immaginare che ne possa in qualche modo risultare pregiudicato lo stato originario. La Paranova semplicemente rimuove i blister dalle loro scatole originali e li inserisce in nuove scatole. I blister non vengono tagliati e il rischio di contaminazione appare minimo, se non inesistente. Spetta al giudice nazionale valutare se le informazioni stampate sulla nuova confezione esterna siano accurate e sufficienti. |
3) Procedimento C-436/93
114. |
Anche questo procedimento riguarda il riconfezionamento di blister non tagliati in nuove confezioni esterne. Ritengo siano applicabili al prodotto di cui trattasi (Adalat) le osservazioni svolte con riferimento al Catapresan. |
115. |
Spetta al giudice nazionale decidere se l'omessa inclusione di un'avvertenza inerente alla fotosensibilità del prodotto giustifichi il divieto di vendita del prodotto di cui trattasi. Questo aspetto dimostra quanto sia auspicabile che venga fornito al titolare del marchio un campione del prodotto riconfezionato. È quasi superfluo sottolineare che, se l'avvertenza non era stata inserita nella confezione originale, il titolare del marchio non può lamentarne la mancanza nel prodotto riconfezionato. |
4) Procedimento C-71/94
116. |
Vi sono tre caratteristiche in questo procedimento che sollevano particolari difficolta. In primo luogo, occorre accertare se l'uso di blister tagliati e di una confezione esterna munita di una finestrella attraverso la quale è visibile il marchio stampato sulla confezione interna originale dia al prodotto un'apparenza scadente, e se ciò sia di per sé motivo per non applicare il principio dell'esaurimento del diritto. In secondo luogo, occorre chiedersi se tagliare i blister implichi un rischio di contaminazione. In terzo luogo, si deve considerare se l'interruzione — a seguito del taglio dei blister — della serie dei giorni della settimana ai quali si riferisce ciascuna pillola possa confondere il consumatore o addirittura metterne in pericolo la salute. |
117. |
Il primo dei punti citati solleva un'importante questione generale sulla portata della tutela conferita da un marchio. Il diritto conferito dal marchio può essere esercitato al fine di impedire l'ulteriore commercializzazione di merci riconfezionate ove il riconfezionamento sia effettuato in modo che, sebbene non sia pregiudicata la qualità tecnica del prodotto, l'immagine del marchio potrebbe risultare danneggiata dall'aspetto esteriore del prodotto riconfezionato? Poiché la funzione del marchio è anche quella di consentire al suo titolare di tutelare la propria reputazione commerciale, sarebbe errato dire che non si può far valere un marchio per opporsi all'ulteriore commercializzazione di merci dall'apparenza scadente. È ovvio che la reputazione del marchio potrebbe soffrirne. L'importanza della presentazione può variare a seconda del tipo di prodotto. Per beni di lusso, come profumi e gioielli, una presentazione attraente può essere più importante che non per beni più funzionali come i prodotti farmaceutici. |
118. |
Ancora una volta spetta al giudice nazionale decidere, sulla base dei fatti, se l'aspetto esteriore della merce riconfezionata possa arrecare danno alla reputazione del marchio. Per fare ciò, egli dovrà considerare se l'indicazione, sulla nuova confezione esterna, del fatto che il prodotto è stato riconfezionato dalla Eurim-Pharm escluda qualunque rischio di danno per il marchio dipendente dalla qualità scadente della nuova confezione. Si potrebbe argomentare che, nel caso di prodotti farmaceutici che necessitano di prescrizione medica, il soggetto da prendere in considerazione per valutare se vi sia un danno alla reputazione del marchio è in realtà il farmacista che distribuisce il prodotto e che, essendo al corrente dell'esistenza di importazioni parallele, sa perfettamente perché la merce viene riconfezionata, ed è improbabile che tenga un marchio in minor considerazione semplicemente perché i pacchetti originali sono stati inseriti in una nuova scatola con un'apertura laterale o perché taluni blister sono incompleti. |
119. |
Spetta inoltre al giudice nazionale decidere se il taglio dei blister possa determinare un rischio di contaminazione. Si può rilevare che, nel campione presentato alla Corte dalla Eurim-Pharm, il blister è stato tagliato in modo che alcune pillole sono molto vicine al bordo. Il giudice nazionale dovrà accertare se ciò aumenti il rischio che le pillole vengano accidentalmente esposte all'aria. Certamente, sarebbe difficile dire a priori che non vi è rischio di contaminazione. |
120. |
Quanto all'interruzione della serie di giorni della settimana, è innegabile che ciò può determinare una notevole confusione nel consumatore. Nel campione fornito alla Corte, la serie è interrotta in modo che due pillole risultano assegnate allo stesso giorno (giovedì). Non si può scartare l'ipotesi che qualche consumatore possa occasionalmente superare la dose corretta. Il fatto che i giorni della settimana siano indicati in francese e in inglese, e non in tedesco, non è rilevante, in quanto si può presumere che un numero significativo di consumatori tedeschi di prodotti medicinali abbia qualche nozione di inglese o di francese. |
5) Procedimento C-72/94
121. |
In questo caso, non pare esservi alcun rischio di contaminazione del prodotto farmaceutico, in quanto la Eurim-Pharm semplicemente rimuove i blister dalla confezione esterna originale e li inserisce, senza tagliarli, in nuove scatole. Anche in questo caso è usato il metodo di riconfezionamento «a finestrella», e paiono dunque parimenti valide le considerazioni svolte con riferimento al procedimento C-71/94, anche se il titolare del marchio non sembra contestare specificamente l'aspetto esteriore della merce. |
6) Procedimento C-73/94
122. |
Due caratteristiche di questa causa sollevano difficoltà, in particolare per quanto riguarda l'uso di blister tagliati per ottenere una scatola da 50 capsule partendo dalle scatole da 45 vendute in Spagna e per l'aggiunta del termine «forte», ad indicare che la merce importata dal Portogallo corrisponde alla versione più forte del prodotto. |
123. |
Quanto al taglio dei blister, valgono in questo caso le osservazioni già svolte in merito al procedimento C-71/94. Rileverò semplicemente che, nel campione fornito alla Corte, i blister sono stati tagliati in modo che le pillole si trovino a diversi millimetri dall'orlo della confezione. Se il campione è rappresentativo, il rischio di contaminazione sembra esiguo, ma occorre comunque sottolineare che la decisione definitiva sul punto spetta al giudice nazionale. |
124. |
L'aggiunta del termine «forte» solleva problemi più complicati. V'è un qualche parallelismo con la causa American Home Products Corporation/Centrafarm ( 34 ), nel senso che nomi leggermente diversi (Sermion e Sermion forte) vengono utilizzati per lo stesso prodotto (la versione più forte del medicinale, contenente 10 mg di principio attivo) in Stati membri diversi (Portogallo e Germania). Se si applicasse direttamente il principio sancito nella causa anteriore, ne risulterebbe che la Farmitalia potrebbe opporsi al cambiamento del nome da parte dell'importatore parallelo, a meno che si dimostri che la Farmitalia e le sue consociate hanno usato nomi diversi al fine di isolare deliberatamente i mercati. |
125. |
Non ritengo di dover seguire questa impostazione. Si ricordi che, nella causa American Home Products Corporation, i due marchi erano «Serenid» e «Seresta»; un marchio non poteva essere trasformato nell'altro semplicemente aggiungendo un adesivo recante una parola in più. Pertanto, il presente caso non è identico. Nella fattispecie, occorre considerare anzitutto che il Sermion smerciato con il consenso della Farmitalia in Portogallo può in via di principio essere rivenduto in Germania da un importatore parallelo con il nome «Sermion»; il titolare del marchio non può opporsi adducendo che il prodotto che vende in Portogallo con il nome di «Sermion» è diverso dal prodotto che vende in Germania con lo stesso nome. Il titolare del marchio non può sostenere che i consumatori (o i farmacisti) verrebbero indotti a ritenere che il prodotto contenga 5 mg del principio attivo anziché 10 mg. Nella causa IHT Internationale Heiztechnik/Ideal Standard ( 35 ) la Corte ha dichiarato che «se la fabbricazione dei prodotti è decentralizzata all'interno del medesimo gruppo societario e le consociate stabilite in ogni Stato membro fabbricano prodotti la cui qualità corrisponde alle specificità di ogni mercato nazionale, la legge nazionale che consentisse a una società del gruppo di invocare queste differenze di qualità per opporsi nel suo territorio alla distribuzione di prodotti fabbricati da una consociata andrebbe anch'essa disapplicata [in forza degli artt. 30 e 36]» ( 36 ). |
126. |
È quindi chiaro che la Eurim-Pharm può, in via di principio, vendere in Germania con il marchio «Sermion» un prodotto che il titolare del marchio ha immesso in commercio in Portogallo con il marchio «Sermion». Ma, se ciò dovesse generare confusioni, in quanto il prodotto è due volte più forte del prodotto noto come «Sermion» in Germania, è ovviamente necessario, dal punto di vista di ciascuno degli interessati, che la Eurim-Pharm sia autorizzata ad evitare tale confusione chiarendo che il prodotto corrisponde al prodotto noto in Germania come «Sermion forte». |
7) Procedimento C-232/94
127. |
In linea di massima, questo procedimento non sembra porre alcuna difficoltà particolare. La MPA estrae i blister dalla confezione esterna originale e li inserisce, intatti, in una nuova confezione esterna. Non pare esserci potenzialmente alcun rischio per la qualità dei prodotti. |
128. |
La seconda questione sollevata dal giudice nazionale suggerisce che il soggetto che ha proceduto al riconfezionamento del prodotto non è indicato con sufficiente chiarezza sulla confezione esterna. Il contenuto di tale indicazione, come descritto nel paragrafo 35 delle presenti conclusioni, sembra perfettamente adeguato, restando da chiedersi, forse, se tale indicazione sia stampata in caratteri sufficientemente leggibili. Si tratta ovviamente di una questione di fatto, su cui spetta al giudice nazionale statuire. Occorre tuttavia sottolineare che è necessario un approccio dettato da ragionevolezza. Basta, in realtà, che l'indicazione sia scritta in modo che un consumatore dotato di vista normale, esercitando un normale grado di attenzione, possa comprendere chi è il responsabile del confezionamento. La scrittura non dev'essere anormalmente piccola, ma non occorre che sia anormalmente grande. |
V — Soluzione delle questioni pregiudiziali
129. |
Anziché rispondere direttamente a ciascuna delle specifiche questioni sollevate dai diversi giudici di rinvio, mi pare più utile enunciare una serie di principi generali, che saranno d'aiuto ai giudici nazionali nel determinare in quali circostanze il titolare di un marchio possa esercitare il suo diritto per opporsi all'ulteriore smercio di prodotti riconfezionati, formulando poi una serie di principi specifici, che pongano il giudice a quo in grado di risolvere i problemi particolari sorti in talune cause. Nel formulare tali principi ho tentato anche di chiarire che, applicando le disposizioni del Trattato o quelle della direttiva, si raggiungono gli stessi risultati. |
Conclusione
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Di conseguenza, ritengo che le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte debbano essere risolte nel modo seguente: Procedimenti riuniti C-427/93, C-429/93 e C-436/93
Procedimenti riuniti C-71/94, C-72/94 e C-73/94
Procedimento C-232/94
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( *1 ) Lingua originale: l'inglese.
( 1 ) L'esistenza di provvedimenti nazionali che incidono sulla formazione dei prezzi si evince chiaramente dalla direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/105/CEE, riguardante la trasparenza delle misure che regolano la fissazione dei prezzi delle specialità medicinali per uso umano e la loro inclusione nei regimi nazionali di assicurazione malattia (GU L 40, pag. 8).
( 2 ) GU L 40, pag. 1.
( 3 ) Il termine inglese «commercialization» e evidentemente la trasposizione letterale del francese «commercialisation». Più corretto sarebbe, in inglese, parlare di «further marketing of the goods» (ulteriore immissione in commercio dei prodotti).
( 4 ) Sentenza 8 giugno 1971, causa 78/70 (Race. pag. 487, punto 13).
( 5 ) Sentenza 22 giugno 1994, causa C-9/93 (Race. pag. I-2789, punto 34).
( 6 ) Sentenza 23 maggio 1978, causa 102/77 (Racc. pag. 1139).
( 7 ) Sentenza 3 dicembre 1981, causa 1/81 (Racc. pag. 2913).
( 8 ) Sentenza 10 ottobre 1978, causa 3/78 (Racc. pag. 1823).
( 9 ) Sentenza 17 ottobre 1990, causa C-10/89 (Racc. pag. I-3711, punto 13).
( 10 ) GU 1992, L 6, pag. 35.
( 11 ) Sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall (Race. pag. 723, punto 46), 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori (Race. pag. I-3325), e 3 marzo 1994, causa C-316/93, Vancetveld (Race. pag. I-763).
( 12 ) Sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann (Race. pag. 1891, punto 26), 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marlcasing (Race. pag. I-4135, punto 8).
( 13 ) V. Prêchai: Directives in European Community law: a study of directives and their enforcement in national courts, Oxford, 1995, pag. 207; v. anche le mie conclusioni nella causa C-156/91, Hansa Fleisch Ernst Mund t (Race. 1992, pag. I-5567, paragrafo 23).
( 14 ) Sentente 14 luglio 1981, causa 187/80, Merck (Race. pag. 2063, punti 10 e 11), e 9 luglio 1985, causa 19/84, Pharmon (Race. pag. 2281, punti 25 e 30).
( 15 ) V, ad esempio, sentenza 31 ottobre 1974, causa 15/74, Centrafarm (Race. pag. 1147, punto 12).
( 16 ) Citata (nota 5).
( 17 ) Citata (nota 6).
( 18 ) Ciuu (nota 7).
( 19 ) Sentenza 31 ottobre 1974, causa 16/74 (Race. pag. 1183).
( 20 ) Citata (nota 15).
( 21 ) Citata (nota 8).
( 22 ) Punto 10 della sentenza.
( 23 ) V. punti 21-23 della sentenza.
( 24 ) GU L 113, pag. 8.
( 25 ) Sentenza 21 settembre 1983, cause riunite 205/82-215/82, Deutsche Milchkontor (Racc. pag. 2633, punti 36 e 39). Sul principio dell'autonomia processuale in generale, v. Bridge: «Procedural aspects of the enforcement of Community law trough the legal systems of the Member States» (1984) 9 EL Rev. 28, e Mertens de Wilmars: «L'efficacité des différentes techniques nationales de protection juridique contre les violations du droit communautaire par les autorités nationales et les particuliers» (1981) 17 CDE 379.
( 26 ) V., a titolo di esempio, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rcwe (Racc. pag. 1989, punto 5); 9 novembre 1983, causa 199/82, Amministrazione delle Finanze dello Stato/San Giorgio (Racc. pag. 3595, punti 12 e 14); 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott (Racc. pag. I-4269, punto 16); 1° aprile 1993, cause riunite da C-31/91 a C-44/91, Lagcdcr e a. (Racc. pag. I-1761, punti 27-29).
( 27 ) V. sentenza San Giorgio, citata (nota 26), punto 14, nonché sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Race. pag. I-5357, punto 43).
( 28 ) V, ad esempio, la normativa in discussione nella sentenza 22 marzo 1990, causa C-83/89, Houben (Race. pag. I-1161), e sentenza 24 ottobre 1990, causa C-301/88, Fish Producers c Grimsby Fish (Race. pag. I-3803).
( 29 ) Sentenze 17 ottobre 1989, causa 109/88, Danfoss (Racc. pag. 3199), e 27 ottobre 1993, causa C-127/92, Enderby (Racc, pag. I-5535).
( 30 ) V. sentenze Danfoss, punti 13 c 14, e Endcrby, punto 14.
( 31 ) Sentenza 14 luglio 1983, causa 174/82, Sandoz (Racc. pag. 2445).
( 32 ) Punto 24.
( 33 ) Punto 22. V. inoltre sentenze 8 novembre 1979, causa 251/78, Denkavit Futtermittel (Racc. pag. 3369, punto 24), e 30 novembre 1983, causa 227/82, Van Bennekom (Racc. pag. 3883, punto 40).
( 34 ) Citata (nota 8).
( 35 ) Ciuta (nou 5).
( 36 ) Punto 38.