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Document 61979CC0034
Opinion of Mr Advocate General Warner delivered on 25 October 1979. # Regina v Maurice Donald Henn and John Frederick Ernest Darby. # Reference for a preliminary ruling: House of Lords - United Kingdom. # Prohibition on imports - Justification on groaunds of public morality - Art. 36 of the Treaty - Pornographic articles. # Case 34/79.
Conclusioni dell'avvocato generale Warner del 25 ottobre 1979.
Regina contro Maurice Donald Henn e John Frederick Ernest Darby.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: House of Lords - Regno Unito.
Divieto d'importazione - Motivi di moralità pubblica - Art. 36 del Trattato - Oggetti pornografici.
Causa 34/79.
Conclusioni dell'avvocato generale Warner del 25 ottobre 1979.
Regina contro Maurice Donald Henn e John Frederick Ernest Darby.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: House of Lords - Regno Unito.
Divieto d'importazione - Motivi di moralità pubblica - Art. 36 del Trattato - Oggetti pornografici.
Causa 34/79.
Raccolta della Giurisprudenza 1979 -03795
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1979:246
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
JEAN-PIERRE WARNER
DEL 25 OTTOBRE 1979 ( 1 )
Signor Presidente,
signori Giudici,
La peculiarità della presente causa consiste nel fatto che è la prima domanda di pronunzia pregiudiziale ad esservi sottoposta dalla House of Lords. È anche la prima volta che la Corte è invitata a valutare la portata della deroga contemplata dall'art. 36 del Trattato CEE quanto ai divieti o restrizioni alla libera circolazione delle merci «giustificati da motivi di moralità pubblica».
I ricorrenti avanti la House of Lords sono i sigg. Maurice Donald Henn e John Frederick Ernest Darby. Essi, a quanto sembra, si occupavano in Inghilterra della vendita per corrispondenza di pellicole e di riviste pornografiche. Il 14 luglio 1977, la Crown Court d'Ipswich li dichiarava colpevoli di un certo numero di reati. Lo Henn veniva condannato a 18 mesi di reclusione e al versamento di 20 sterline per spese giudiziarie. Il Darby veniva condannato a complessivi 30 mesi di reclusione nonché ad altre pene.
Uno solo dei reati di cui i ricorrenti sono stati giudicati colpevoli ha rilevanza nell'ambito del presente rinvio: quello di «trasgressione del divieto di importare articoli osceni o scandalosi», in contrasto con la sezione 42 del «Customs Consolidation Act» (testo unico delle leggi doganali) del 1876 e della sezione 304 del «Customs and Excise Act» (legge in materia di dazi doganali e di imposte di fabbricazione) del 1952.
La sezione 42 del «Customs Consolidation Act» 1876 vieta l'importazione nel territorio doganale del Regno Unito di articoli «indecenti od osceni» e stabilisce che gli articoli importati in ispregio del divieto devono venir confiscati e possono venir distrutti o riservati alla destinazione per loro stabilita dai «Commissioners of Customs». La sezione 304 del «Customs and Excise Act» 1952 dichiara che commette reato chiunque sia implicato nella trasgressione o nel tentativo di trasgressione del divieto di importazione.
Gli articoli indicati nel capo d'imputazione di cui trattasi a carico dei ricorrenti facevano parte d'una partita di pellicole e di riviste introdotte in Inghilterra con un autocarro arrivato il 14 ottobre 1975 a Felixstowe col traghetto proveniente da Rotterdam. Il capo d'imputazione faceva menzione di sei pellicole e di sette riviste, tutte d'origine danese. L'esposizione dei fatti che accompagna l'ordinanza di rinvio, così le descrive:
«Le pellicole erano tutte di 8 mm., formato comunemente usato per i proiettori domestici piuttosto che nelle sale pubbliche. La durata di proiezione era di circa dieci minuti. Esse riproducevano nei particolari ed in modo inequivocabile rapporti sessuali tra uomini e donne, tra uomini, tra donne e un cane e tra un uomo e un maiale. Esse comprendevano scene di violenza e di comportamento sessuale aberrante, ivi comprese minzione e defecazione.
Le riviste contenevano soprattutto fotografie, anch'esse riproducenti nei particolari ed in modo inequivocabile rapporti sessuali tra uomini e donne, tra soli uomini, sole donne, tra donne e un cane e un cavallino. Due riviste contengono unicamente nudi femminili di bambine tra i cinque e i quattordici anni. Vi è abbondante esibizione di pudende, in una vi è riprodotta una presunta recente rottura dell'imene e nelle altre ragazze occupate ad eccitare e a masturbare un uomo».
L'esposizione dei fatti continua menzionando, tra i delitti, rappresentati in detti articoli, lo stupro, il ratto di donne, la sodomia (tra persone ed animali), la violenza carnale, gli atti di libidine con o nei confronti di bambini di età inferiore a 14 anni.
I ricorrenti impugnavano la sentenza di condanna dinanzi alla Court of Appeal of England and Wales. Il loro patrono sosteneva, fra l'altro, dinanzi a detto giudice, che la sezione 42 del Customs Consolidation Act 1876 non poteva essere applicata ai ricorrenti in quanto su di essa prevalgono gli artt. 9 e 30 del Trattato CEE.
Con sentenza 13 luglio 1978, la Court of Appeal respingeva gli appelli (la sentenza è pubblicata nel «Weekly Law Reports» 1978, I, pag. 1031).
Per quanto riguarda la tesi dei ricorrenti basata sul Trattato CEE, la Court of Appeal faceva due osservazioni. In primo luogo, essa esprimeva il parere che l'espressione «restrizioni quantitative» di cui all'art. 30 si riferisce a restrizioni «concernenti la quantità» e non si applica ad un divieto assoluto d'importare come quello di cui trattasi nella fattispecie. La Court of Appeal ha poi affermato che tale divieto, quand'anche ricadesse sotto l'art. 30, fruisce della deroga contemplata dall'art. 36. La sentenza della Court of Appeal lascia capire che, a questo proposito, i ricorrenti hanno sostenuto, in particolare, che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, il termine «giustificato» di cui all'art. 36 equivale a «necessario» e, di fronte ad una questione del genere, la Court of Appeal non poteva basarsi sulla propria valutazione, ma doveva rivolgersi a questa Corte. La Court of Appeal rifiutava di ammettere che l'art. 36 del Trattato potesse venir letto come se contenesse il termine «necessario» invece di «giustificato», anche se, a suo avviso, era dubbio che il fatto d'inserirvi il termine «necessario» avrebbe comportato una differenza qualsiasi. La Court of Appeal soggiungeva che avrebbe sottoposto il problema a questa Corte qualora avesse nutrito il benché minimo dubbio quanto alla sua soluzione, ma questo non era il caso. «Non vediamo» essa dichiarava «come il divieto d'importare riviste pornografiche possa non essere un divieto giustificato da motivi di moralità pubblica e di ordine pubblico».
Ritengo che a proposito di tale sentenza debbano farsi due osservazioni.
La prima è che, con tutto il rispetto dovuto alla Court of Appeal, è assolutamente errato ritenere che il riferimento alle «restrizioni quantitative», di cui all'art. 30 del Trattato, non includa un divieto assoluto. E appena necessario soffermarsi su questo punto giacché nessuna delle parti intervenute nella discussione davanti a questa Corte ha cercato di difendere il modo di vedere della Court of Appeal relativamente a tale punto. Come è stato dedotto in tale discussione, le sentenze di questa Corte, forniscono ad abundantiam una giurisprudenza in senso contrario: vedansi, ad esempio, le cause 7/68, Commissione c/ Repubblica italiana (Racc. 1968, pagg. 561, 572), 2/73 Geddo c/ ENR (Racc. 1973, II, pag. 865) e 74/76, Iannelli & Volpi c/ Meroni (Racc. 1977, I, pag. 574). Inoltre, come è stato pure evidenziato in corso di causa, questo punto di vista non solo viene smentito dall'uso, nell'art. 36 dei termini «divieti o restrizioni» ma è per di più incompatibile con la finalità di cui al titolo primo della parte seconda del Trattato, che definisce la libera circolazione delle merci come uno dei «fondamenti della Comunità». Come ha detto il Governo del Regno Unito nelle sue osservazioni scritte, divergendo dal punto di vista della Court of Appeal, «è evidente che il divieto assoluto d'importazione costituisce una lesione del principio fondamentale della libera circolazione delle merci più grave di una restrizione parziale».
La seconda osservazione è che, d'altra parte, la Court of Appeal ha, a mio avviso, perfettamente ragione di ritenere che l'art. 36 non debba essere letto come se contenesse il termine «necessario» invece di «giustificato». Questa Corte non ha mai affermato che debba farsi una sostituzione del genere; invero, essa non ha il potere di modificare il testo del Trattato. Questa Corte ha soltanto usato il termine «necessario» in un certo numero di cause per spiegare ciò che poteva esser giustificato in forza dell'art. 36 in materia di restrizioni o di divieti delle importazioni imposti dagli Stati membri per determinati fini: la tutela delle indicazioni di provenienza (causa 12/74, Commissione c/ Repubblica federale di Germania, Racc. 1975, I, pag. 181, vedasi pag. 199), la protezione del consumatore in generale (causa 13/78, Eggers c/ Freie Hansestadt Bremen, Racc. 1978, pag. 1935, cfr. pag. 1956); la tutela della salute e della vita delle persone e degli animali e preservazione dei vegetali (causa 29/72, Marimex c/ Amministrazione finanziaria italiana, Racc. 1972, II, pag. 1309, cfr. pag. 1317, causa 104/75 De Peijper's, Racc. 1976, I, pag. 613, causa 35/76, Simmenthal c/ Ministero delle Finanze italiano, Racc. 1976, II, pag. 1871, causa 46/76, Bauhuis c/ Stato olandese, Racc. 1977, I, pag. 5, causa 5/77, Tedeschi c/ Denkavit, Racc. 1977, II, pag. 1555 e causa 153/78, Commissione c/ Repubblica federale di Germania, sentenza 12 luglio 1979, non ancora pubblicata).
Ritengo che si debba tener presente che, malgrado le incontestabili possibilità di divergenze d'opinione tra i periti relativamente a ciò che è giustificato imporre per la tutela delle indicazioni di provenienza, dei consumatori in generale e della salute delle persone, degli animali e per la preservazione dei vegetali, queste sono questioni che, in definitiva, possono essere oggetto di valutazione obiettiva. Si tratta, inoltre, di materie in cui, tutto sommato, è possibile prescrivere una soluzione che si applichi uniformemente in tutti gli Stati membri. Questo è, per l'appunto, il motivo per cui gli organi legislativi della Comunità hanno fatto un notevole sforzo — e lo proseguono — per istituire provvedimenti comunitari «d'armonizzazione» in tali settori, eliminando quindi la necessità, per gli Stati membri, di far ricorso a divieti e restrizioni nazionali autorizzati dall'art. 36, ma contrastanti con la libera circolazione delle merci nell'ambito della Comunità (vedansi le affermazioni di questa Corte relativamente a questo punto nella causa Tedeschi c/ Denkavit, già menzionata, pagg. 1576-1577). È quindi ovvio, in materie del genere, ritenere che provvedimenti superflui o eccessivi rispetto all'obiettivo perseguito, non possano essere giustificati dall'art. 36. Un diverso modo di vedere deve però, a mio avviso, necessariamente adottarsi quando si tratti di accertare in quali casi «motivi di moralità pubblica» possano giustificare divieti o restrizioni all'importazione imposti da uno Stato membro. La nozione di «moralità pubblica» non rientra fra quelle che possono costituire oggetto di valutazione oggettiva, né di una definizione valida per l'intera Comunità. Il suo contenuto è estremamente variabile e non può essere determinato mediante una perizia.
Ritengo che, onde determinare la corretta via per l'interpretazione dell'espressione «giustificati da motivi di moralità pubblica» che figura nell'art. 36, sia opportuno ispirarsi ai punti 48 e 49 della sentenza (7 dicembre 1976, serie A, n. 24) della Corte europea dei Diritti dell'Uomo nella causa Handyside. Detta Corte doveva nella fattispecie pronunciarsi sull'interpretazione dell'art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo che riguarda la libertà di espressione. Più precisamente trattavasi dell'interpretazione dell'eccezione di cui al n. 2 di detto articolo, concernente «determinate … restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica per … la protezione … della morale». La Corte europea dei Diritti dell'Uomo si è pronunciata in questi termini:
«In particolare, non si può ricavare dal diritto nazionale dei vari Stati contraenti una nozione europea uniforme di “moralità”. I principi cui le leggi nazionali si ispirano per determinare le esigenze di questa variano nel tempo e nello spazio, specialmente nella nostra epoca caratterizzata da un'evoluzione rapida e profonda delle opinioni in materia. Grazie al loro contatto diretto e costante con le forze vive del loro paese, le autorità nazionali sono, in linea di principio, meglio qualificate del giudice internazionale a pronunciarsi sull'esatto contenuto di dette esigenze, nonché sulla “necessità” di una “restrizione” o “sanzione” destinata a soddisfarvi. La Corte sottolinea in questa occasione che … l'aggettivo “necessario” ai sensi dell'art. 10, n. 2, non è sinonimo di “indispensabile”.
Quindi, l'art. 10, n. 2, lascia agli Stati contraenti un margine di discrezionalità …
Cionondimeno, l'art. 10, n. 2, non attribuisce agli Stati contraenti un potere discrezionale illimitato … Il margine di discrezionalità delle autorità nazionali … va quindi di pari passo con un controllo europeo.
Ciò significa, fra l'altro, che qualsiasi … “restrizione” o “sanzione” imposta in materia dev'essere proporzionata all'obiettivo legittimo perseguito».
Vedete, Signori, che talune di queste frasi fanno eco a ciò che la stessa Corte di giustizia ha già detto a proposito dell'eccezione relativa all'«ordine pubblico» di cui all'art. 48 del Trattato CEE nella causa 41/74 Van Duyn c/ Home Office, (Racc. 1974, II, pag. 1337) e nella causa 30/77, Regina c/ Bouchereau (Racc. 1977, II, pag. 1999).
La House of Lords, davanti alla quale il sig. Henn ed il sig. Darby hanno impugnato la sentenza della Court of Appeal, ha sottoposto a questa Corte sette questioni.
La prima è formulata nei seguenti termini:
«Se la legge di uno Stato membro, che vieti l'importazione nello stesso Stato di articoli pornografici, sia una misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione ai sensi dell'art. 30 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea.»
È chiaro che tale questione mira a determinare se la Court of Appeal avesse ragione nel ritenere che l'art. 30 del Trattato non si applichi ad un divieto assoluto. Non è necessario, a mio avviso, aggiungere qualcosa a quanto ho già detto in proposito, a parte la seguente osservazione: la formulazione della questione lascia intendere che un divieto assoluto non può costituire una «restrizione quantitativa», ma può essere una misura d'effetto equivalente. A mio avviso, le cose non stanno così. Un divieto assoluto è una restrizione quantitativa, in base alla quale la quantità ammessa è pari a zero. Essa equivale ad una «quota zero». La nozione di «misure d'effetto equivalente» è ben più ampia ed elastica: come la Corte ha affermato per la prima volta nella causa 8/74, Procureur du Roi c/ Dassonvilie, (Racc. 1974, I, pag. 837) — e da allora ha poi ripetuto in molte altre cause — essa comprende prima facie «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari».
Prima di passare alla seconda questione ed alle altre sottopostevi dalla «House of Lords» devo dire due parole sulla complessità delle leggi in materia di pornografia vigenti nel Regno Unito, che è, in misura sostanziale, all'origine delle questioni stesse e le giustifica. Detta complessità sussiste sotto un duplice profilo:
1) |
le normative vigenti nelle diverse parti del Regno Unito, cioè Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord, e l'Isola di Man, sono differenti le une dalle altre, e ciascuna di esse deriva da fonti disparate piuttosto che da una fonte unitaria e coerente; |
2) |
in nessuna parte nel Regno Unito la pornografia viene trattata, sul piano interno, altrettanto rigorosamente che all'importazione. |
Le disposizioni fondamentali in materia d'importazione di articoli pornografici sono quelle che ho menzionate all'inizio, cioè la sezione 42 del «Customs Consolidation Act» 1876, e la sezione 304 del «Customs and Excise Act» 1952. Esse si applicano nell'intero Regno Unito. Detto in termini concisi, esse dispongono che gli articoli indecenti od osceni sono passibili di confisca e di distruzione al loro arrivo nel Regno Unito e che chiunque con frode tenti d'introdurre articoli del genere nel Regno Unito, commette reato. L'Allegato 7 del «Customs and Excise Act» 1952 contempla un procedimento che consente di adire un giudice al fine di accertare se gli articoli siano passibili di confisca.
Nella esposizione in diritto che accompagna l'ordinanza di rinvio, è precisato che nelle diverse normative vigenti nel Regno Unito (di cui talune derivano dalle «Common Law» e altre sono leggi scritte), sono ammessi ed applicati due criteri diversi e distinti.
Il primo, chiamato nella suddetta esposizione criterio A, è espresso con i termini «indecente o osceno» che figurano nelle norme doganali ed in talune altre norme di legge e che definiscono pure il reato, noto alla «Common Law», di offesa alla pubblica decenza. Tali termini, ci è stato detto, richiamano una sola idea, cioé la violazione dei criteri comunemente ammessi di decenza, generalmente, ma non esclusivamente, in relazione alla sfera sessuale, violazione di gravità variabile da un minimo (indecente) ad un massimo (osceno).
Il secondo criterio, designato nella stessa esposizione come «criterio B» è espresso con il termine «osceno» usato da solo, com'è il caso negli «Obscene Publications Acts» 1959 e 1964 (in vigore in Inghilterra e nel Galles) e per descrivere taluni reati di «Common Law» in Inghilterra, nel Galles, in Scozia e nell'Irlanda del Nord. Questo termine si riferisce ad una categoria più limitata di articoli, cioè quelli che possono depravare o corrompere coloro che vi sono esposti. Gli «Obscene Publications Act» 1959 e 1964 escludono dal loro ambito di applicazione gli articoli osceni la cui pubblicazione, malgrado la loro oscenità, «è giustificata in quanto di pubblica utilità, avendo interesse scientifico, letterario, artistico o didattico, o altri fini di interesse gererale».
L'esposizione in diritto contiene una presentazione sommaria delle normative vigenti nelle varie parti del Regno Unito, distinguendo tra quelle che impiegano il criterio A e quelle che applicano il criterio B e menzionandone talune che si servono di altri criteri. Nessuna delle parti ha però cercato, nel corso della discussione dinanzi a questa Corte, di ricavare da questo sommario particolari elementi per sostenere che le disparità esistenti tra dette normative hanno rilevanza ai fini della presente causa. Il motivo è forse che i ricorrenti si sono richiamati a tali disparità solo per corroborare l'assunto che non esiste nel Regno Unito alcuna politica o concezione chiaramente definita per quanto riguarda le esigenze della moralità pubblica (e per concludere che, in mancanza di una politica o concezione chiaramente definita, uno Stato membro non può avvalersi della deroga consentita, per motivi di «moralità pubblica», dall'art. 36), mentre il rappresentante del Governo del Regno Unito ha sostenuto che dette disparità non sono pertinenti. La Commissione da parte sua ha allegato alle sue osservazioni una minuziosa analisi del suddetto sommario di leggi senza tuttavia trarne una qualsivoglia conclusione, per quanto ho potuto capire. Sembra pacifico che le leggi sono più severe in Scozia e nell'Isola di Man che in Inghilterra e nel Galles, ed in particolare che le leggi dell'Isola di Man impiegano esclusivamente il criterio A. Il Governo del Regno Unito e la Commissione hanno del pari sostenuto che, sotto taluni aspetti, la sola differenza tra le leggi delle diverse parti del Regno Unito consiste nella diversa gravità delle sanzioni comminate per determinati casi. Per quanto riguarda il diverso trattamento riservato dalle leggi del Regno Unito al materiale pornografico nazionale ed a quello straniero, i ricorrenti sembrano essersi principalmente basati sui seguenti punti:
(1) |
Il semplice possesso di articoli che rispondono al criterio A, od anche al criterio B, non costituisce reato in nessuna parte nel Regno Unito. Ritengo che col riferimento al «semplice possesso» si sia voluto alludere al possesso senza fini commerciali giacché un gran numero di leggi (ad esempio l'«Obscene Publications Act» 1964, in Inghilterra e nel Galles, talune leggi locali scozzesi, l'«Obscene Publications Act» 1857 in Irlanda del Nord ed una legge del 1907 «Act for the Suppression of Obscene Publications and Indecent Advertisements» nell'Isola di Man) vietano il possesso di articoli pornografici al fine di vendita o dispongono che gli articoli detenuti a tale scopo vanno confiscati e distrutti. Alcune di queste leggi impiegano il criterio A, altre il criterio B. |
(2) |
Almeno in Inghilterra e nel Galles, che costituiscono la parte di gran lunga più vista del Regno Unito, gli articoli che rispondono al criterio A, ma non al criterio B, possono essere posti in commercio purché non siano né esposti né venduti in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Detti articoli possono inoltre essere spediti tramite agenzie di recapito private, ma non per posta. |
(3) |
In Inghilterra e nel Galles anche articoli che rientrano nel criterio B possono costituire oggetto di pubblicazione qualora questa sia «giustificata in quanto di pubblica utilità» per uno qualsiasi dei motivi menzionati nell'«Obscene Publications Act» 1959. |
Al contrario, la legislazione doganale vieta in modo assoluto l'introduzione nel Regno Unito di qualsiasi articolo che risponde al criterio A, per non parlare del criterio B.
La seconda, la terza, la quarta, la quinta e la sesta questione sottoposte alla Corte dalla «House of Lords», che esaminerò congiuntamente, sono le seguenti:
«2) |
In caso affermativo: Se la prima frase dell'art. 36, correttamente interpretata, significhi che uno Stato membro può legittimamente vietare l'importazione, da un altro Stato membro, di merci scandalose od oscene ai sensi delle leggi del primo Stato membro. |
3) |
In particolare:
|
4) |
Se il divieto d'importare merci motivabile con considerazioni di pubblica moralità o di ordine pubblico ed imposto a questo scopo, possa cionondimeno costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata degli scambi in contrasto con l'art. 36. |
5) |
In caso affermativo, se il fatto che il divieto d'importare dette merci abbia portata diversa da quello imposto dalla legge penale sulla detenzione e sulla pubblicazione di dette merci nello Stato membro o in una sua parte, costituisca necessariamente un mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata del commercio tra Stati membri incompatibili con i requisiti di cui alla seconda frase dell'art. 36. |
6) |
Qualora — dal punto di vista amministrativo — il divieto imposto all'importazione possa venir fatto osservare dagli addetti alla dogana che esaminano le merci ai valichi d'entrata, mentre ciò non è possibile per il divieto relativo alla detenzione ed alla pubblicazione, se ciò possa aver rilievo per la soluzione del punto 5». |
Trattasi naturalmente, di questioni tutte relative all'interpretazione dell'art. 36. Mi sembra opportuno intraprendere il loro esame con alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto, come le parti hanno unanimemente sostenuto, richiamandosi a talune sentenze di questa Corte, così note che non è necessario citarle, l'art. 36 va interpretato in senso restrittivo giacché stabilisce una deroga al principio fondamentale della libera circolazione delle merci nell'ambito della Comunità.
In secondo luogo, a mio avviso, l'eccezione relativa all'«ordine pubblico» di cui all'art. 36 non si applica ai divieti od alle restrizioni all'importazione di materiale pornografico in uno Stato membro. Se divieti o restrizioni del genere devono essere fatti salvi in base all'art. 36, ciò deve avvenire in forza dell'eccezione relativa alla «moralità pubblica» che è la più specifica e la più adeguata nel loro caso.
La mia terza osservazione è che, delle due parti della seconda frase dell'art. 36, solo quella relativa alla «discriminazione arbitraria» può applicarsi nella presente causa, giacché non vi è niente di «dissimulato» nell'applicazione delle leggi del Regno Unito di cui trattasi nel nostro caso di specie.
La mia quarta osservazione verte sulla relazione intercorrente tra la prima e la seconda frase dell'art. 36. Relativamente a questo punto i ricorrenti hanno sostenuto che la seconda frase va considerata «prevalente» rispetto alla prima, nel senso che un divieto o una restrizione non sono autorizzati dall'art. 36, qualora pur se «giustificato» ai sensi del primo inciso, costituiscano «un mezzo di discriminazione arbitaria o “una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.” Il Governo del Regno Unito, d'altro canto, ha dedotto che le due frasi vanno lette assieme, dato che la seconda costituisce una postilla della prima. Un provvedimento non può essere “giustificato” e nel contempo “arbitrario”, ha sottolineato il Governo del Regno Unito, giacché queste due nozioni sono reciprocamente incompatibili. Il punto di vista della Commissione sembra essersi modificato nel corso del procedimento. Nelle osservazioni scritte la Commissione sembrava condividere la tesi dei ricorrenti, ma all' udienza mi è parso che essa aderisse al punto di vista del Governo del Regno Unito secondo il quale l'art. 36 va Ietto come una disposizione unitaria. Comunque, non dubito che il Governo del Regno Unito abbia ragione. A mio avviso, la seconda frase dell'art. 36 mira a chiarire che il divieto o la restrizione che costituiscono “un mezzo di discriminazione arbitraria” o “una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”, non possono essere “giustificati” nel senso che detto termine assume nella prima frase. “Giustificato” non è, naturalmente, sinonimo di “imposto”: un divieto od una restrizione possono essere imposti per uno scopo particolare senza essere giustificati in vista di tale scopo. Il mio punto di vista su questo punto corrisponde quindi a quello espresso dall'avvocato generale Trabucchi, nella causa Procureur du Roi c/ Dassonville, nel passo delle sue conclusioni richiamato in corso di causa (Racc. 1974, I, pag. 860). La sentenza della Corte nella suddetta causa — invocata dai ricorrenti — mi sembra del tutto irrilevante in proposito, Il mio punto di vista può, sulle prime, apparire in contrasto con l'iter logico seguito dalla Corte nella causa 102/77, Hoffmann — La Roche c/ Centrafarm (Racc. 1978, pag. 1139) e nella causa 3/78, Centrafarm c/ American Home Products Corporation (Racc. 1978, pag. 1823); a mio avviso, però, quello che la Corte ha voluto dire nelle sentenze pronunziate in dette cause — se correttamente analizzate — è che, mentre il riconoscimento di taluni diritti al marchio da parte delle leggi d'uno Stato membro può essere giustificato in base all'art. 36, l'esercizio di tali diritti da parte del titolare del marchio può non essere giustificato qualora costituisca una restrizione dissimulata del commercio tra gli Stati membri.
Non ritengo, d'altra parte, che si possa ammettere la tesi implicita nell'argomento svolto in udienza dal Governo del Regno Unito e cioè che, nel valutare se la normativa doganale di cui trattasi sia autorizzata dall'art. 36, si deve tener conto del fatto che essa è stata adottata ed applicata “in piena buona fede dal Regno Unito onde proteggere il pubblico contro una grave minaccia e senza alcuna intenzione di assoggettare gli importatori ad un regime più rigoroso di quello applicato ai commercianti del Regno Unito”. Pur se a prima vista può sembrare che l'espressione “un mezzo di discriminazione arbitraria” di cui alla seconda frase dell'art. 36, alluda alla necessità di un'indagine sulle intenzioni degli autori dei provvedimenti considerati e sebbene vi possano essere casi in cui tali intenzioni sono determinabili (per deduzione o perché sono state espresse), non posso credere che gli autori dell'art. 36 abbiano voluto che la sua applicazione dipendesse dal risultato di un'indagine del genere che, nella maggior parte dei casi, sarebbe manifestamente impossibile e anzi non realistica.
Respingerei pure la tesi del Governo del Regno Unito in base alla quale la seconda frase dell'art. 36 esclude solo le discriminazioni o le restrizioni che colpiscono il “commercio” tra Stati membri, nel senso, se ho ben capito, di negozi attuati da o tra commercianti, e non si applica quindi ai divieti od alle restrizioni all'importazione in uno Stato membro che interessino unicamente i privati. Questa tesi, a mio avviso, attribuisce eccessiva importanza all'espressione “commercio tra gli Stati membri”, figurante nell'art. 36, in fine, ed attribuisce inoltre un significato ingiustificatamente restrittivo al termine “commercio” contenuto nella stessa espressione. Vi è commercio tra gli Stati membri quando una persona importa per uso personale in uno Stato membro delle merci che ha acquistato in un altro Stato membro. L'art. 36, lo si ricordi, fa parte del titolo primo della seconda parte del Trattato, in cui la libera circolazione delle merci nell'ambito della Comunità — e non semplicemente la libertà degli scambi delle merci in senso stretto — è annoverata fra i “fondamenti” della Comunità. Il termine “scambi” viene usato in vari articoli appartenenti al titolo I e figura persino nell'art. 9. Nessuno oserebbe sostenere, cionondimeno, che l'uso sporadico del termine “scambi” negli artt. 12-17, relativi all'abolizione dei dazi doganali tra gli Stati membri, autorizzi ad assoggettare a dazi doganali i privati che trasferiscono i loro beni da uno Stato membro all'altro, né che, per il fatto che tale termine figuri sporadicamente, negli artt. 18-29, relativi alla tariffa doganale comune i privati che introducono i loro beni nella Comunità siano soggetti, non già alla tariffa doganale comune, bensì alle tariffe nazionali precedentemente in vigore. Seguendo questo stesso ragionamento, l'art. 30 che è la norma fondamentale in materia di abolizione delle restrizioni quantitative tra gli Stati membri — e nel quale il termine “scambi” non viene usato — non può interpretarsi nel senso che esso concerne solo i negozi effettuati da o fra commercianti. Stando così le cose, poiché l'art. 36 costituisce una clausola restrittiva rispetto all'art. 30, la sua seconda frase, che, come ha a buon diritto sostenuto lo stesso Governo del Regno Unito, rappresenta una postilla della prima, non può essere interpretata nel senso restrittivo sopra indicato.
La mia ultima considerazione generale è che taluni argomenti dedotti in corso di causa stando alla loro formulazione sembravano implicare che spetta a questa Corte approvare o condannare la legislazione doganale del Regno Unito di cui trattasi. La competenza di questa Corte in forza dell'art. 177 del Trattato è però limitata alla decisione delle questioni di diritto comunitario che le vengano sottoposte. Spetterà nella fattispecie alla House of Lords decidere alla luce di ciò che avrete dichiarato e, in particolare, stabilire se la normativa del Regno Unito, almeno nella parte in cui riguarda merci come quelle di cui trattasi, sia compatibile col diritto comunitario.
Posso ora occuparmi dei problemi direttamente sollevati nelle questioni sottoposte alla Corte dalla House of Lords.
Nella causa 35/76, Simmenthal c/ Ministero delle Finanze italiano (Racc. 1976, II, pag 1871) questa Corte ha affermato che:
“L'art. 36 non ha lo scopo di riservare talune materie alla competenza esclusiva degli Stati membri, ma ammette che le norme interne deroghino al principio della libera circolazione, nella misura in cui ciò sia e continui ad essere giustificato per conseguire gli obiettivi contemplati da quest'articolo”.
Nello stesso senso essa si è espressa nelle sentenze 5 ottobre 1977 (causa 5/77, Tedeschi c/ Denkavit, Racc. 1977, II, pag. 1555) e 12 luglio 1979 (causa 153/78, Commissione c/ Repubblica federale di Germania, non ancora pubblicata). Quindi nessuno Stato membro è interamente libero d'imporre divieti o restrizioni all'importazione di merci da altri Stati membri per “motivi di moralità pubblica”.
Tuttavia, come ha sottolineato la Corte europea dei Diritti dell'Uomo nel passo già citato, le concezioni circa le esigenze della moralità pubblica variano da un'epoca all'altra e da un paese all'altro, di guisa che agli Stati membri va attribuito un certo margine di discrezionalità in materia. Nella causa 41/74, Van Duyn c/ Home Office, (Racc. 1974, II, pag. 1337), questa Corte ha affermato:
“È opportuno … sottolineare che la nozione d'ordine pubblico nel contesto comunitario, specie in quanto autorizza una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei lavoratori, va intesa in senso stretto, col risultato d'escluderne qualsiasi valutazione unilaterale da parte dei singoli Stati membri senza il controllo delle istituzioni comunitarie.
Non si può tuttavia negare che la nozione di ordine pubblico varia da un paese all'altro e da un'epoca all'altra. È perciò necessario lasciare, in questa materia, alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale entro i limiti imposti dal Trattato”.
La Corte ha riaffermato la stessa cosa nella causa Regina c/ Bouchereau, (Racc. 1977, II, pag. 1999). Ritengo che considerazioni analoghe si applichino, per l'appunto, quando la nozione di moralità pubblica venga invocata per giustificare una deroga al principio fondamentale della libera circolazione delle merci.
Ne risulta, a mio avviso, che, qualora le leggi d'uno Stato membro applichino i medesimi criteri al materiale pornografico nazionale e a quello straniero, e se tali criteri sono ragionevoli, qualsiasi divieto o restrizione all'importare da altri Stati membri che, di conseguenza, può imporre tale Stato, può essere autorizzato dall'art. 36.
Nella presente causa, la vera difficoltà deriva, mi sembra, dalla mancanza d'uniformità delle leggi del Regno Unito ed in particolare dal fatto che tali leggi non applicano criteri perfettamente analoghi alle merci d'origine nazionale ed ai prodotti stranieri. La disparità più flagrante sta forse nel fatto che, mentre un libro osceno può essere lecitamente venduto nelle librerie inglesi perché, ad esempio, la sua pubblicazione è ritenuta d'interesse pubblico, in ragione del suo valore scientifico o letterario, lo stesso libro, pubblicato in un altro Stato membro, non può essere importato in Inghilterra. Il che costituisce indubbiamente una discriminazione. In una causa vertente su un libro del genere può essere difficile decidere se la discriminazione sia “arbitraria”» o «giustificata». Dalla descrizione, fornitaci nella esposizione dei fatti, delle pellicole e delle riviste sulle quali verte questa causa, sembra improbabile che la House of Lords debba risolvere nel caso di specie una questione così delicata. Sembra più probabile che tali pellicole e riviste appartengano ad una categoria di articoli che le leggi del Regno Unito trattano alla stessa stregua, prescindendo dal fatto che esse siano d'origine nazionale o straniera. L'unica differenza sta forse nel fatto che il «semplice possesso» di materiale pornografico, sia pure solo strettamente pornografico, non è vietato nell'ambito del Regno Unito. Tuttavia, colui che detiene articoli del genere unicamente per il proprio diletto (se mi consentite l'uso di questo termine) sarà quasi inevitabilmente entrato in loro possesso per mezzo d'un negozio che costituisce reato per l'altra parte contraente — si vedano le sezioni 1, § 3 e 2, § 1, dell'«Obscene Publications Act» 1959, che vieta la pubblicazione di materiale osceno «a scopo di lucro o no» e stabilisce che rende di pubblico dominio un articolo chi, a mo' d'esempio, lo «distribuisce, lo mette in circolazione, lo vende, lo dà a nolo, lo dona o lo presta». Queste considerazioni, non possono tuttavia dispensarvi — né dispensarmi — dall'esaminare il problema in tutta la sua ampiezza, così come è stato sottoposto alla Corte dalla House of Lords.
In sostanza, tale problema consiste nel distinguere tra le situazioni nelle quali la discriminazione è «arbitraria» e quelle in cui essa è «giustificata».
Utili indicazioni in proposito possono trarsi dalla giurisprudenza di questa Corte.
È stato fatto riferimento alla causa 4/75, Rewe-Zentralfinanz c/ Landwirtschaftskammer (Racc. 1975, I, pag. 843), che verteva su una legge tedesca in base alla quale le mele importate da altri Stati membri andavano ispezionate alla frontiera per l'individuazione della cocciniglia di San José, mentre, — si asseriva — le mele prodotte in Germania non erano soggette a controllo prima della messa in commercio. La Corte ha affermato, (Racc. 1975, pag. 858) che la differenza di trattamento fra merci importate e merci nazionali non può essere considerata come una discriminazione arbitraria, qualora siano stati adottati efficaci provvedimenti per impedire la messa in circolazione di prodotti nazionali infestati e se vi siano ragioni di credere, specialmente in base all'esperienza fatta, che, in mancanza di controlli all'importazione vi sarebbe un rischio di diffusione del parassita. E chiaro che questo principio può essere applicato, mutatis mutandis, all'importazione di materiale pornografico nel Regno Unito. Tuttavia la sua applicazione in tale contesto significa che una selezione dovrebbe esser fatta alla frontiera tra il materiale pornografico talmente pericoloso che la sua distribuzione nel Regno Unito è vietata (come per le mele contaminate) ed il materiale lecitamente smerciabile nel Regno Unito od in una parte sostanziale di esso.
Si è poi fatto riferimento alla causa 104/75, De Peijper's, (Racc. 1976, I, pag. 613), nella quale la Corte ha affermato che: «l'art. 36 non può servire a giustificare normative o prassi, anche utili, che tuttavia presentino aspetti restrittivi motivati essenzialmente dalla preoccupazione di ridurre l'impegno dell'amministrazione o le spese pubbliche, a meno che, in mancanza delle predette normative o prassi, tale impegno o tali spese risultino eccessivamente onerosi».
Il rappresentante del Governo del Regno Unito non ha sostenuto avanti a questa Corte che il divieto che figura alla sezione 42 del «Customs Consolidation Act» 1876, può giustificarsi col motivo che il criterio A è per i funzionari doganali di più facile applicazione di qualsiasi altro criterio più restrittivo. Forse si è ritenuto che un argomento del genere fosse insostenibile, tenuto conto del procedimento di cui all'Allegato 7 del «Customs and Excise Act» 1952, benché, da quanto hanno detto i ricorrenti, abbia potuto intendere che la Corona l'ha dedotto davanti alla House of Lords. In ogni caso, il Governo del Regno Unito ha sostenuto davanti a questa Corte che non si possono applicare alle «situazione alla frontiera» tutti gli elementi (come l'esposizione al pubblico o la vendita) necessari per la configurazione di un reato sul piano interno. L'adattamento più logico sarebbe di subordinare la confisca alla frontiera ad una minaccia di violazione della legislazione interna. Tuttavia, sarebbe sovente difficile, e a volte impossibile, accertare questo rischio con sufficiente certezza, di guisa che il funzionario doganale dovrebbe procedere ad un'indagine più difficile di quella che incomberebbe ad un agente di polizia che si occupasse di un reato commesso nel Regno Unito i cui elementi costitutivi (esposizione al pubblico o vendita, ad esempio) sarebbero concretamente accertabili e non ipotizzabili per il futuro. A queste considerazioni è stato soggiunto che non si può chiedere ad uno Stato membro di investire importanti risorse finanziarie od umane al solo scopo di garantire che, nell'ambito della repressione del traffico di materiale socialmente nocivo od immorale, i prodotti stranieri e i prodotti nazionali vengano trattati esattamente alla stessa stregua.
Condivido in gran parte queste considerazioni.
A mio avviso, la soluzione del problema consiste nell'applicare la nozione di ragionevolezza cui si è richiamata la Corte nella causa De Peijper o — il che, ritengo, è la stessa cosa — quella di proporzionalità usata dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo nella causa Handyside e da questa Corte nella causa Commissione c/ Repubblica federale di Germania (sentenza 12 luglio 1979, punto 15 della motivazione). Il fatto che in un contesto come il presente la «ragionevolezza» e la «proporzionalità» siano nozioni identiche o che comunque la proporzionalità sia un aspetto della ragionevolezza è stato dimostrato dal prof. Neville Brown in un istruttivo articolo «General Principles of Law and the English Legai System» pubblicato dall' Istituto universitario europeo di Firenze in «Nuove prospettive di un diritto comune dell'Europa» 1978, pagg. 177-185.
Quindi, a mio avviso, il criterio appropriato consiste nell'accertare caso per caso se un tale o tal'altro elemento di discriminazione insito nel divieto o nella restrizione delle importazioni considerati, sia ragionevole, tenuto conto di tutte le circostanze. Non lo sarà se i suoi effetti sono sproporzionati rispetto allo scopo legittimamente perseguito, sia che questo consista nell'evitare, prevenire o ridurre il rischio di violazioni della legge dello Stato membro di cui trattasi, sia che consista nell'evitare oneri amministrativi e spese pubbliche eccessive, ovvero in ambedue le cose. Qualora, in ragione della struttura dello Stato membro di cui trattasi, esistano divergenze tra le leggi delle diverse parti di esso, ciò costituisce, a mio avviso, un fattore — anche importante — di cui si deve tener conto nell'applicare il suddetto criterio.
Questo criterio, come lo intendo io, va applicato non già dalle autorità doganali quando esaminano le merci alla frontiera, ma dal potere legislativo, nello stabilire le norme che devono essere applicate dalle autorità doganali e, naturalmente, dai giudici chiamati a decidere in quale misura tali norme siano compatibili col diritto comunitario.
Nutro dubbi circa il se l'applicazione di detto criterio giustificherebbe il divieto di importare nel Regno Unito un libro che fosse legittimamente in vendita nelle librerie inglesi. Evidentemente, sarebbe irragionevole e sproporzionato vietare l'importazione di un libro del genere unicamente in ragione del rischio ch'esso sia esposto al pubblico in Inghilterra, o venduto in Scozia o nell'Isola di Man. La pubblicazione del libro in Inghilterra comporta esattamente gli stessi rischi.
Mi spingerei ben oltre quanto richiesto dall'esame delle questioni sottopostevi, qualora cercassi di stabilire, anche in via sperimentale, quale sarebbe la soluzione in altri casi.
Tuttavia, nell'ipotesi di importazione di grosse partite di materiale talmente osceno e spregevole che la sua pubblicazione o distribuzione in qualsiasi parte del Regno Unito costituirebbe reato, mi sembra che il problema non si ponga affatto. È inimmaginabile che chi importa grosse partite di tale materiale lo taccia solo per il suo piacere personale, e quindi, a mio avviso, non si opera nessuna discriminazione nel vietare siffatte importazioni.
I ricorrenti, come pure il Governo del Regno Unito, si sono richiamati al paragrafo della sentenza Vati Duyn in cui la Corte ha affermato che, qualora le competenti autorità di uno Stato membro abbiano decisamente preso posizione quanto al carattere antisociale di talune attività ed abbiano adottato provvedimenti volti ad ostacolarne l'esercizio, tale Stato membro può invocare ragioni di «ordine pubblico» ai sensi dell'art. 48 del Trattato anche se non gli sembrino sussistere i presupposti per vietare a norma di legge le suddette attività (Racc. 1974, II, pag. 1350).
Basandosi su questo paragrafo, i ricorrenti hanno sostenuto (come ho già detto) che uno Stato membro non può avvalersi dell'eccezione relativa alla «moralità pubblica» di cui all'art. 36 se non ha adottato una politica od una posizione chiaramente definita circa le esigenze della moralità pubblica e, che la complessità delle leggi del Regno Unito in materia dimostra che questo paese non l'ha fatto. A mio avviso, si tratta di una tesi erronea. L'atteggiamento del Regno Unito rispetto alle attività pornografiche (per quanto complesso) è definito dalle sue leggi. Nessuno sostiene l'esistenza di un qualsivoglia atto d'indole esecutiva o amministrativa che definisca detto atteggiamento, come quello che esisteva nel caso delle attività degli scientisti, su cui verteva la causa Vati Duyn. Il principio affermato dalla Corte nel punto della motivazione di cui trattasi non è quindi pertinente al caso presente.
Da parte sua, il Governo del Regno Unito si è basato sullo stesso paragrafo per sostenere che, se ho ben inteso, non è necessario, perché uno Stato membro possa avvalersi della clausola della «moralità pubblica» al fine di giustificare un provvedimento in forza dell'art. 36, che sussista una qualsiasi minaccia d'attività illecita, di guisa che uno Stato membro può mantenere in vigore un divieto come quello di cui trattasi nel caso di specie per motivi diversi dalla necessità di evitare, prevenire o ridurre il rischio di violazioni del diritto nazionale. Non v'è dubbio che, come affermazione di carattere generale ciò è esatto. Tuttavia il Governo del Regno Unito non ha indicato nessuno di tali motivi per quanto riguarda la sezione 42 del «Customs Consolidation Act» 1876, a parte il riferimento, in termini generali, al fatto che le leggi del Regno Unito hanno per denominatore comune, e da lungo tempo, l'ostilità nei confronti del materiale e delle attività indecenti ed oscene. È forse perché un argomento del genere è stato svolto dinanzi ad essa che la House of Lords ha incluso nelle sue questioni il punto (ii) della questione 3, che si riferisce ai «criteri nazionali ed alle caratteristiche» d'uno Stato membro. Mi sembra tuttavia che tale nozione sia veramente troppo vaga per poter esser richiamata nel presente contesto; inoltre, come ammette lo stesso Governo del Regno Unito, essa non è pertinente alla questione del se, e in qual misura, la sezione 42 del «Customs Consolidation Act» 1876, sia una fonte di discriminazione arbitraria.
Passo ora alla settima ed ultima questione sottoposta alla Corte dalla House of Lords, che è formulata nei seguenti termini:
«Indipendentemente dalle questioni di cui sopra, se uno Stato membro possa legittimamente vietare l'importazione di siffatte merci da un altro Stato membro richiamandosi agli obblighi imposti dalla Convenzione di Ginevra del 1923 per la soppressione del commercio di pubblicazioni oscene, nonché dalla Convenzione Postale Universale (rinnovata a Losanna nel 1974, entrata in vigore il 1o gennaio 1976), tenendo conto di quanto dispone l'art. 234 del Trattato».
Per quanto riguarda la Convenzione postale universale, la Commissione ha sottolineato che l'art. 234 del Trattato non può esserle applicato giacché essa è stata rinnovata a Losanna nel 1974. Nel caso degli Stati membri originari, tale articolo si applica solo agli accordi internazionali stipulati prima dell'entrata in vigore del Trattato e, per i nuovi Stati membri, soltanto agli accordi stipulati prima della loro adesione, cioè antecedentemente al 1o gennaio 1973 (vedasi l'art. 5 dell'Atto di adesione). La Commissione ha altresì sottolineato che tali Stati membri non possono modificare gli obblighi che loro incombono in base al Trattato aderendo a Convenzioni internazionali successive; una modifica del genere è possibile solo in forza dell'art. 236 del Trattato. Il Governo del Regno Unito ha fatto notare che le disposizioni pertinenti dall'articolo della Convenzione di Losanna che qui interessa (art.33) sono identiche alle disposizioni della precedente Convenzione di Tokio 1969 alla quale sono state sostituite (art. 29). Non mi sembra che ciò costituisca una risposta adeguata ai suddetti rilievi della Commissione. Il Governo del Regno Unito ha tuttavia soggiunto che tale questione ha un interesse puramente teorico, giacché nel caso di specie l'importazione non è stata effettuata per il tramite dei servizi postali.
La situazione per quanto riguarda la Convenzione di Ginevra del 1923 è diversa e non tanto semplice. Si tratta d'interpretare detta Convenzione, di cui, sia detto per inciso, tutti gli Stati membri erano parti in origine, ma che è stata denunciata (così ci ha detto la Commissione) dalla Danimarca con effetto dal 16 agosto 1968 e dalla Repubblica federale Germania con effetto dal 25 gennaio 1975.
Due interpretazioni sono state discusse dinanzi a noi.
Secondo la prima, la Convenzione si limita, almeno per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni, a creare una serie di obblighi bilaterali tra le parti contraenti. Se questa interpretazione è corretta, il Trattato CEE prevale su tale Convenzione per quanto riguarda gli Stati membri della Comunità, di guisa che la Convenzione non si applica più alle importazioni ed alle esportazioni tra Stati membri — vedasi la causa 10/61, Commissione c/ Repubblica italiana (Racc. 1962, pag. 1). Di conseguenza, uno Stato membro non potrebbe legittimamente vietare le importazioni da altri Stati membri richiamandosi agli obblighi impostigli dalla Convenzione.
Secondo l'altra interpretazione, la Convenzione crea obblighi multilaterali tra tutte le parti contraenti di guisa che gli Stati che sono parti della Convenzione ma che non sono membri della Comunità possono esigere che la Convenzione venga rispettata anche nell'ambito delle importazioni e delle esportazioni tra Stati membri, dato che, come la Commissione ha sostenuto in udienza, un commercio fiorente di materiale osceno nell'ambito della Comunità potrebbe frustrare gli sforzi degli Stati membri intesi a reprimere il traffico di detto materiale. Se questa è la giusta interpretazione della Convenzione, gli Stati membri hanno il diritto (indipendentemente dagli artt. 30 e 36) di imporre divieti o restrizioni alle importazioni da altri Stati membri nella misura in cui ciò può essere necessario per consentire loro di adempiere gli obblighi che gli incombono in forza della Convenzione. Tuttavia questo diritto resta subordinato agli obblighi derivanti, per gli Stati membri, dall'art. 234 del Trattato.
La competenza di questa Corte in forza dell'art. 177 si limita all'interpretazione del Trattato e degli atti delle istituzioni comunitarie. Essa non si estende all'interpretazione d'una Convenzione stipulata prima che la Comunità fosse creata. Qualora una convenzione del genere attenga ad una questione sottoposta alla Corte in forza dell'art. 177, e nessuno sostenga che ad essa possono darsi differenti interpretazioni, questa Corte può naturalmente risolvere la questione partendo dal presupposto che il significato della Convenzione è quello che risulta dalla lettera. Tuttavia, in un caso come il presente, la Corte è tenuta a mio avviso, a fornire soluzioni alternative ed a lasciare al giudice nazionale il compito di fare il miglior uso di tali soluzioni.
Propongo, quindi, di risolvere le questioni sottoposte dalla House of Lords, come segue:
1. |
La legge di uno Stato membro, la quale vieti l'importazione di materiale pornografico da un altro Stato membro costituisce una misura d'effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione ai sensi dell'art. 30 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea. |
2. |
L'art. 36 del Trattato non conferisce ad uno Stato membro il potere illimitato di vietare l'importazione, da un altro Stato membro, di merci scandalose od oscene ai sensi delle leggi del primo Stato membro. Esso attribuisce agli Stati membri il potere di vietare tali importazioni per motivi di moralità pubblica se questo divieto è giustificato da siffatti motivi. |
3. |
Un divieto non è giustificato, ai sensi dell'art. 36 se costituisce un mezzo di discriminazione arbitraria od una restrizione dissimulata agli scambi fra gli Stati membri. |
4. |
Per determinare se un divieto sia giustificato da motivi di moralità pubblica oppure costituisca un mezzo di discriminazione arbitraria, il criterio adeguato consiste nell'accertare di volta in volta se esso sia ragionevole, tenuto conto di tutte le circostanze. Un divieto non è ragionevole se i suoi effetti sono sproporzionati rispetto a qualsiasi legittimo scopo perseguito. |
5. |
L'evitare, prevenire o ridurre il rischio di violazioni del diritto dello Stato membro interessato costituisce uno scopo legittimo. |
6. |
Qualora, in ragione della struttura dello Stato membro interessato esistano divergenze tra le leggi delle diverse parti di esso, se ne deve tener conto nell'applicare il suddetto criterio. |
7. |
Uno Stato membro non può vietare l'importazione di merci da un altro Stato membro richiamandosi agli obblighi impostigli dalla Convenzione postale universale rinnovata, nel 1974, a Losanna. |
8. |
La soluzione della questione se uno Stato membro possa vietare importazioni da un altro Stato membro richiamandosi agli obblighi impostigli dalla Convenzione di Ginevra del 1923, per la repressione della circolazione e del commercio di pubblicazioni oscene, dipende dall'interpretazione che va data a tale Convenzione. Se detta Convezione va interpretata nel senso ch'essa impone alle parti contraenti una serie di obblighi bilaterali per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni, il Trattato CEE prevale su di essa per quel che concerne le importazioni e le esportazioni tra gli Stati membri. Se, al contrario, la Convenzione crea obblighi multilaterali, fra tutte le parti contraenti, uno Stato membro ha la facoltà, nonostante il Trattato, di vietare le importazioni da altri Stati membri, nella misura in cui ciò può essere necessario per consentirgli di adempiere gli obblighi impostigli dalla Convenzione; tuttavia questa facoltà è subordinata agli obblighi dello Stato membro ex art. 234 del Trattato. |
( 1 ) Traduzione dall'inglese.