EUR-Lex Access to European Union law
This document is an excerpt from the EUR-Lex website
Document 61976CC0085
Opinion of Mr Advocate General Reischl delivered on 19 September 1978. # Hoffmann-La Roche & Co. AG v Commission of the European Communities. # Dominant position. # Case 85/76.
Conclusioni dell'avvocato generale Reischl del 19 settembre 1978.
Hoffmann-La Roche & Co. AG contro Commissione delle Comunità europee.
Posizione dominante.
Causa 85/76.
Conclusioni dell'avvocato generale Reischl del 19 settembre 1978.
Hoffmann-La Roche & Co. AG contro Commissione delle Comunità europee.
Posizione dominante.
Causa 85/76.
European Court Reports 1979 -00461
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1978:162
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
GERHARD REISCHL DEL 19 SETTEMBRE 1978 ( 1 )
Signor Presidente,
signori Giudici,
Nell'odierno procedimento si discute di una decisione emanata dalla Commissione delle Comunità europee ai sensi dell'art. 86 del Trattato CEE per «sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato comune».
Ricorrente è la societa-madre di un gruppo operante su scala mondiale: il gruppo Hoffmann-La Roche. Questa società, con sede in Basilea, ha affiliate in quasi tutti i paesi della Comunità eccetto il Lussemburgo e l'Irlanda. La società Hoffmann-La Roche (che in prosieguo, per brevità, chiamerò soltanto la «Roche») produce, fra l'altro, vitamine sintetiche sciolte. Questa produzione ebbe in parte inizio già negli anni «trenta» e «quaranta» e sembra che, nel frattempo, i relativi brevetti siano scaduti. La Roche ha, nel mercato comune, circa 5000 clienti che producono medicinali, alimentari e mangimi. Con alcuni di costoro — si tratta di 22 acquirenti che operano sul mercato comune in qualità di produttori e di venditori — venivano stipulati nel periodo 1963-1973 dei contratti di fornitura, il cui contenuto, in parte assai diverso, dovrà essere sottoposto ad un attento esame. Secondo la Commissione tali contratti intendevano vincolare alla ricorrente i principali compratori di vitamine, sia mediante espressi impegni d'acquisto per l'intero fabbisogno o per la maggior parte di esso, sia mediante premi di fedeltà o prezzi di favore, variamente congegnati.
La Commissione ritiene che detti accordi — i quali sarebbero rimasti in vigore fino a tutto il 1974 — siano contrari al diritto comunitario. Essa crede cioè di poter ravvisare una posizione dominante della Roche su parecchi mercati delle vitamine ed opina che tali accordi possano pregiudicare la libera scelta ed il pari trattamento dei compratori.
Pur non condividendo questa tesi, la ricorrente ci ha assicurato d'aver posto mano alla modifica dei contratti controversi, già dopo una prima visita di funzionari della Commissione nell'autunno 1974. Tali contratti sarebbero stati disdetti o modificati prima ancora che fosse emessa la decisione impugnata. Nuovi contratti di base sono stati, a quanto sembra, sottoposti al giudizio della Commissione nel gennaio 1975. Inoltre, apparentemente nel giugno 1975, sono state sottoposte alla Commissione le nuove redazioni dei contratti che dovevano venir conclusi con la ditta Merck, uno degli acquirenti in questione.
Tuttavia, a causa del sistema di smercio praticato in precedenza, nel luglio 1975 veniva instaurato contro la Roche un procedimento per violazione della concorrenza, che si chiudeva il 9 giugno 1976 con l'emanazione d'una decisione, dopo che la ricorrente ed i suoi «partners» contrattuali avevano presentato le proprie osservazioni circa gli addebiti notificati dalla Commissione, dopo che gli interessati erano stati ascoltati e dopo che avevano ricevuto risposta le richieste d'informazioni indirizzate sia ai clienti sia alle affiliate della ricorrente nel mercato comune.
Mediante la predetta decisione la Commissione constatava che, nell'ambito del mercato comune, la ricorrente godeva d'una posizione dominante su sette mercati di vitamine (Vitamine A, B2, B6, C, E, H e acido pantotenico e poteva, in considerazione dei vincoli variamente congegnati con cui legava a sè alcuni acquirenti e del diverso trattamento che praticava loro, essere ritenuta responsabile dell'abuso contemplato dall'art. 86 del Trattato CEE. Perciò l'art. 2 della decisione imponeva all'interessata di cessare immediatamente dal comportamento censurato. Inoltre, partendo dal presupposto che la trasgressione dell'art. 86 fosse dolosa, o almeno colposa, veniva inflitta all'interessata, ai sensi dell'art. 15, n. 2, del regolamento n. 17, un'ammenda per la quale veniva però preso in considerazione unicamente il periodo 1970-1974. L'ammenda, da pagarsi entro i tre mesi successivi alla notifica del provvedimento, ammontava, come risulta dall'art. 3 della decisione stessa, a 300000 unità di conto e, dal momento che la ricorrente ha un'affiliata nella Repubblica federale di Germania, veniva convertita contestualmente nella somma di 1098000 DM.
Con atto di ricorso del 27 agosto 1976 la Roche chiedeva alla Corte di cassare l'intera decisione o quantomeno di annullarne l'art. 3, relativo all'inflizione dell'ammenda.
La controversia è stata trattata con ampie osservazioni dalle parti che, rispondendo ad un nutrito questionario inviato loro dalla Corte, hanno ancora fornito una serie di ulteriori chiarimenti. Vi è poi stata un'approfondita discussione orale nell'udienza del 31 maggio 1978. Tocca quindi a me, ora, esprimere il mio parere.
I — |
Per qualche tempo non è stato chiaro se la ricorrente intendesse chiedere l'annullamento dell'intera decisione oppure soltanto della parte contenente l'ammenda, cioè dell'art. 3. Su questo punto non sussiste più alcun dubbio dopo le esplicite dichiarazioni formulate in udienza. La ricorrente tiene ferma anche la domanda principale relativa all'annullamento della decisione nella parte in cui si dichiara che la Roche controlla alcuni mercati di vitamine ed ha sfruttato abusivamente la propria posizione dominante nel congegnare i contratti di fornitura da essa conclusi in precedenza. |
II — |
Il punto di partenza di questa mia analisi sarà dunque costituito dalla «vexata quaestio» della posizione dominante di cui la ricorrente avrebbe goduto nel periodo in esame ed in particolare dal 1970 al 1974. Dopo di ciò accerterò se la conclusione dei citati contratti di fornitura vada reputata come un abuso ai sensi dell'art. 86 del Trattato CEE e solo in seguito affronterò i restanti motivi di gravame, o almeno quelli che non sono stati abbandonati in corso di causa come ad es. l'asserzione che la Commissione, fissando l'importo dell'ammenda nella valuta d'uno Stato membro, avrebbe violato il diritto comunitario, e precisamente l'art. 18 del regolamento n. 17. |
1. |
La nozione di «posizione dominante» contenuta nell'art. 86 del Trattato CEE ha già fornito lo spunto per un certo numero di pronunzie della Corte. Sulla base di tale giurisprudenza si può parlare di posizione dominante quando la libera concorrenza è sostanzialmente ostacolata (causa 6/72, Europemballage Corporation e Continental Can Company Inc./Commissione delle Comunità europee, sentenza del 21 febbraio 1973, Racc. 1973, pag. 215), quando un'impresa può — secondo la formulazione rinvenibile nella sentenza 78/70 (Deutsche Grammophon Gesellschaft mbH/Metro-SB-Großmärkte GmbH & Co. KG, sentenza dell'8 giugno 1971, Racc. 1971, pag. 487) — ostacolare l'effettiva concorrenza su una parte rilevante del mercato in esame. In un'indagine di questo genere occorre specialmente accertare — com'è del pari ricordato nella sentenza citata per ultima se esistano fabbricanti di prodotti analoghi e quale sia la loro posizione sul mercato. Con riferimento all'art. 86 s'è parlato di quote di mercato fra l'altro nel famoso caso dello zucchero (cause riunite 40 ecc./73, «Suiker Unie» e altri/Commissione delle Comunità europee, sentenza del 16 dicembre 1975, Racc. 1975, pag. 1663). Da quella sentenza si ricava che, qualora le quote di partecipazione ad un mercato ben delimitato siano assai alte (85, 90, 95 %) e le importazioni estremamente ridotte, si può senza bisogno d'altro, cioè senza ulteriori indagini, presumere che l'impresa interessata possa ostacolare lo svolgersi di un'effettiva concorrenza. Un ulteriore importante chiarimento è fornito anche dalla sentenza 27/76 (United Brands contro Commissione delle Comunità europee, sentenza del 14 febbraio 1978), cui ha fatto rinvio soprattutto la Commissione. In essa assume rilievo l'affermazione di carattere generale che chi occupa una posizione dominante può tenere — ed è questa la particolarità di tale posizione — comportamenti al quanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e dei consumatori. Più avanti, sempre nella stessa sentenza, si afferma che l'esistenza d'una posizione dominante deriva in generale dalla concomitanza di più fattori, fra i quali occorre esaminare anzittutto la struttura dell'impresa considerata e poi la situazione concorrenziale del mercato. Sotto il primo aspetto entra in gioco nella sentenza 27/76 un complesso di fattori quali la forte integrazione in senso verticale, la proprietà di mezzi di trasporto, le cognizioni tecniche, l'efficace pubblicità che ha saputo attirare le preferenze dei consumatori, il numero limitato dei clienti ed il contenimento della produzione. Per quanto riguarda la situazione concorrenziale del mercato — ad essa si riferisce, se vogliamo, anche qualcuno dei fattori testè menzionati — ha avuto peso la quota di mercato della ricorrente che oscilla fra il 40 % ed il 45 %. Oltracciò è stato tuttavia accertato — e solo a questo punto la Corte ha riconosciuto l'esistenza d'una posizione dominante — che la ricorrente è il più importante dei gruppi bananieri; inoltre sono state compiute delle ricerche intorno al numero ed alla forza dei suoi concorrenti e si è scoperto che, nonostante ripetute ed accanite offensive concorrenziali su singoli mercati, cui la ricorrente è riuscita a far fronte, non si sono verificati spostamenti di quote di mercato. Una certa importanza ha avuto anche il fatto che l'accesso al mercato è reso difficile dalla necessità di enormi investimenti, ostacolo che rende improbabile la comparsa di nuovi concorrenti, mentre sono state ritenute irrilevanti le considerazioni sulla redditività e sulla possibilità di imporre i prezzi. |
2. |
Mi sembra poi utile gettare anche un rapido sguardo su quegli ordinamenti nazionali che conoscono il concetto di posizione dominante. Stando agli sviluppi della dottrina e della prassi in tali ordinamenti, si è effettivamente portati a credere che, per quanto riguarda sia le quote di mercato, sia indagini più approfondite, la citata sentenza delle banane segni un orientamento che è generalmente ritenuto giusto. Così, è interessante sapere che in Francia sono spesso considerate rilevanti quote di mercato oscillanti sul 50 %, cui poi si aggiungono altri elementi di giudizio, quali la potenza e le dimensioni di altri concorrenti, l'organizzazione tecnica e commerciale, e simili (cfr. R. Collin, in La réglementation du comportement des monopoles et entreprises dominantes en droit communautaire, Semaine de Bruges 1977, pag. 244 e segg.). Anche nell'ordinamento tedesco ci si fonda su tali ordini di grandezza delle quote di mercato (cfr. le ordinanze del Bundesgerichtshof del 3 luglio 1976 e del 16 dicembre 1976 in: Wirtschaft und Wettbewerb 1976, pag. 783, e 1977, pag. 255). Si aggiungono però ancora esami dettagliati dei rapporti concorrenziali, ad esempio della posizione dei concorrenti, della struttura del mercato, dello sviluppo del mercato e del comportamento degli interessati; vengono altresì prese in considerazione le risorse finanziarie e tecniche di un'impresa leader. Lo stesso sembra valere per i paesi nordici (cfr. La réglementation du comportement des monopoles et entreprises dominantes en droit communautaire, Semaine de Bruges 1977, pag. 301 e segg.). In Finlandia, ad esempio, si parla di posizione dominante se un'impresa controlla oltre il 50 % del mercato. Se in altri ordinamenti (Norvegia, Danimarca e Svezia) bastano quote di mercato del 25 % o comprese fra il 25 % ed il 50 %, non bisogna dimenticare che in tali paesi il «mercato rilevante» viene inteso in senso assai stretto. Non fa infine eccezione neppure la situazione degli Stati Uniti con la ricca prassi che colà esiste in tema di disciplina giuridica del monopolio. Essa viene esattamente caratterizzata da un sommario di giurisprudenza che lo Holley riporta alla pag. 177 e segg. della già citata pubblicazione della Semaine de Bruges 1977. In base a tale giurisprudenza, se un'impresa controlla il 90 % del mercato, non sono necessari altri argomenti. Se la quota controllata scende al 75 %, la situazione comincia a cambiare: occorre accertare la presenza di altri fattori, anche se la presunzione dell'esistenza d'una posizione dominante rimane così forte che è difficile controbatterla. Quanto più scende la percentuale (70-60 %), tanto più aumenta il peso degli altri fattori da prendere in esame. Sé la quota di mercato detenuta dall'impresa supera di poco il 50 %, l'esistenza di una posizione dominante può essere provata soltanto mediante forti indizi di altro genere, mentre per quote inferiori al 50 % questa prova diventa, secondo il diritto statunitense, molto difficile. |
3. |
Procedendo, su questo sfondo, ad esaminare il presente caso, occorre anzitutto ricordare che la Commissione ha sostenuto l'esistenza d'una posizione dominante della ricorrente soprattutto con riferimento alla grandezza delle sue quote di mercato sui diversi mercati di vitamine ed alla posizione dei suoi immediati concorrenti. La Commissione ha tuttavia considerato rilevante anche il fatto che la Roche è la maggior produttrice di vitamine ed appare dotata di corrispondente flessibilità e potenza economica, che essa può offrire un vasto assortimento di vitamine di propria produzione e che dispone di fronte ai propri concorrenti d'un vantaggio tecnico e commerciale (basti pensare al suo know-how tecnico ed alla sua sviluppatissima rete di distribuzione). La ricorrente eccepisce anzitutto che la Commissione s'è fondata su cifre inesatte; le sue quote di mercato per i vari tipi di vitamine sarebbero in realtà più ridotte. Inoltre alcuni aspetti ulteriormente sfruttati dalla Commissione — ad esempio il vasto assortimento di vitamine della ricorrente, nonchè la sua potenza economica — risulterebbero inadatti a provare la forza di mercato dell'interessata, se si tiene conto della concorrenza. Inoltre la Commissione avrebbe a torto trascurato altri elementi. Nel dir ciò, la ricorrente intende riferirsi all'analisi della situazione di mercato e del comportamento di mercato durante un periodo piuttosto lungo, analisi per la quale assumerebbe specialmente rilevanza il fatto che il mercato delle vitamine si trova in una fase di forte espansione; per di più la ricorrente non sarebbe in grado di imporre da sola i prezzi, il cui sviluppo sarebbe invece condizionato dalla pressione di altri concorrenti, anche potenziali. La Commissione non avrebbe inoltre preso in esame l'accesso ai mercati delle materie prime, sui quali l'interessata incontra, a differenza dei suoi principali concorrenti, delle difficoltà, in quanto dipende per i prodotti iniziali da altri fabbricanti. |
4. |
È perciò opportuno accertare anzitutto le quote di mercato che la ricorrente detiene per le singole vitamine. Le parti concordano nell'affermare che i mercati delle vitamine vanno esaminati separatamente, giacchè i vari tipi di vitamine richiedono distinti impianti di produzione e non sono intercambiabili. Nel corso del procedimento, dopo che la Commissione aveva esposto il fatturato dei concorrenti dell'interessata, le parti hanno poi concordato su alcune delle cifre indicate, come risulta dalla dichiarazione comune ch'esse hanno redatto in risposta al questionario della Corte. I punti che sono rimasti controversi verranno trattati nell'esame dei singoli mercati.
|
5. |
Dopo queste considerazioni sulle quote di mercato, dalle quali è risultata in modo pressocché inoppugnabile l'esistenza d'una posizione dominante per quanto riguarda le vitamine B2, B6, H e C, mentre qualche dubbio sussiste ancora in merito alle vitamine A ed E per una parte del periodo che qui ci interessa, affronterò ora gli ulteriori elementi che la Commissione ha espressamente menzionato nella sua decisione e cercherò di stabilire se essi confermino la conclusione provvisoria che ammette l'esistenza d'una posizione dominante.
|
6. |
Poiché tuttavia l'esame delle quote di mercato ha evidenziato in taluni settori (la vitamina A ed in parte la vitamina E; la vitamina B3 può essere trascurata per altre ragioni) dei valori che raggiungono appena il limite dell'ordine di grandezze rilevanti, e visto che nella già citata sentenza delle banane sono state ritenute necessarie approfondite analisi aggiuntive di vario tipo, voglio ancora esaminare i diversi aspetti posti in luce dalla ricorrente per giustificare dubbi circa la sua posizione di mercato.
|
7. |
Sulla base di tutto quanto s'è visto occorre dunque dare per scontato, come ha sostenuto la Commissione nella sua decisione, che la ricorrente detiene una posizione dominante sui mercati delle vitamine A, B2, B6, C, E e H. Una diversa conclusione appare giustificata soltanto per la vitamina B3. In realtà anche sul mercato di questa vitamina la ricorrente ha detenuto nel 1974 una quota di mercato tale da assumere rilievo ai sensi dell'articolo 86. Questo mercato parziale va però trascurato, non tanto a causa delle quote di mercato dei concorrenti e dell'andamento dei prezzi, quanto piuttosto perchè i contratti che qui ci interessano sono stati conclusi al più tardi nel 1973. |
III — |
Dobbiamo ora accertare se la ricorrente abbia realmente abusato della posizione dominante. La Commissione riscontra tale abuso in 26 contratti stipulati dalla ricorrente con 22 compratori nel periodo 1963-1973. Si tratta di contratti che, con diverse modalità, vincolavano i clienti alla Roche per l'acquisto di singole vitamine, quando non addirittura per tutto il loro fabbisogno di vitamine. Tali contratti avrebbero inoltre concesso ai clienti vantaggi differenti, non proporzionati ai risparmi così realizzati dalla Roche. Poiché, in tal modo, si è pregiudicata la libertà di scelta dei compratori, si è limitata la concorrenza fra i produttori di vitamine e si è impedito agli altri concorrenti ogni contatto con i predetti compratori, si può — secondo la Commissione — parlare di violazione del principio enunciato all'articolo 3 f) del Trattato CEE e volto ad impedire ie distorsioni della concorrenza. Inoltre — prosegue la Commissione — è stato del pari violato il principio della parità di trattamento figurante all'articolo 86, 2o comma, lettera C. La ricorrente sostiene che non si può parlare di un sistema uniforme di smercio; in particolare, gli accordi stipulati con la Unilever e con la Merck avrebbero caratteristiche tali da giustificarne un esame separato. Sarebbe inoltre importante considerare che i contratti non sono stati conclusi sulla base d'una posizione dominante e non sono quindi espressione della preponderanza di uno dei contraenti, senza contare che essi sono assolutamente usuali nei rapporti commerciali. Quantomeno essi andrebbero esaminati ponderando gli interessi delle parti ed in particolare tenendo conto del fatto che la cosiddetta «clausola inglese di scioglimento» figurante nei contratti lasciava spazio sufficiente al gioco della concorrenza. Per quanto riguarda le differenze sottolineate dalla Commissione, esse sarebbero almeno in parte giustificate, vista la diversità delle spese incontrate dalla Roche nei singoli casi, e sarebbero comunque di portata così ridotta che non avrebbero potuto in alcun caso pregiudicare la capacità concorrenziale dei compratori. Infine sarebbe giusto tener presente anche i riflessi di tali contratti sul mercato. Una volta lasciati da parte gli accordi che non danno adito a critiche, ciò che resta non potrebbe comunque essere ritenuto tale da poter pregiudicare in modo degno di nota la concorrenza e il commercio fra gli Stati membri. |
1. |
Nell'esaminare il problema comincerò con l'affrontare alcuni argomenti di carattere generale, avanzati dalla ricorrente.
|
2. |
Proseguendo nell'esame del caso mi dedicherò innanzitutto alla fattispecie costituita dai vincoli che legavano i compratori alla ricorrente. Trascurerò tuttavia provvisoriamente — come suggerisce l'interessata — i contratti conclusi con la Merck e con l'Unilever, i quali sembrano avere caratteristiche particolari, che ne giustificherebbero comunque una diversa valutazione. Nei predetti contratti si riscontrano due tipi di vincoli: da un lato, impegni formali d'acquisto abbinati a promesse di sconto; dall'altro, vincoli che si fondano unicamente sugli sconti di fedeltà, se vogliamo così riassumere in una sola espressione le diverse agevolazioni promesse.
|
3. |
Dopo aver così constatato che gli addebiti di vincolo abusivo formulati dalla Commissione nei confronti della ricorrente erano fondati — almeno per quanto riguarda la maggior parte dei contratti in esame — vorrei ora esaminare dettagliatamente i contratti conclusi con la Merck e con la Unilever, per accertare se essi debbano essere valutati in modo speciale.
|
4. |
Affronto ora il secondo addebito: esso riguarda l'applicazione di condizioni differenti a partià di prestazioni, comportamento che l'artciolo 86, 2o comma, lettera c) del Trattato vieta alle imprese che godono di una posizione dominante sul mercato. Anche a questo riguardo si può ricordare il caso dello zucchero, nel quale un addebito di tal genere è stato formulato proprio con riguardo agli sconti di fedeltà, che avrebbero pregiudicato la capacità concorrenziale dei compratori. Merita inoltre osservare che simili apprezzamenti si ritrovano anche nelle legislazioni nazionali, ad esempio nel diritto francese che vieta la pratica di differenze di prezzo non giustificate da differenti costi di produzione; lo stesso vale per il diritto inglese (cfr. la relazione della Monopoliers and Restrittive Practices Commission «on supply of insulated electric wires and cables». È indubbio che nella fattispecie, come la ricorrente stessa ha riconosciuto, gli acquirenti hanno ottenuto sconti diversi gli uni dagli altri. Osservando gli sconti scaglionati in funzione del fatturato globale, si constata l'esistenza di scarti talvolta considerevoli in relazione ai quantitativi minimi necessari ed agli sconti di quantità, e ciò tanto se si confrontano fra loro i contratti conclusi nella stessa moneta e relativi allo stesso periodo, quanto se si confrontano contratti conclusi in valute differenti. Identiche considerazioni valgono per gli altri sconti, inclusi gli sconti di garanzia, che oscillano fra l'1 % e il 7,5 % se si trascurano gli sconti figuranti nel contratto con la Merck e definiti sconti di quantità. Questi divari non si possono certo giustificare con riferimento ai periodi di validità dei contratti — che in parte si sovrappongono — né con riferimento all'ampiezza della copertura del fabbisogno ovvero agli acquisti realmente effettuati, che ci sono stati resi noti per l'anno 1974. Non ho bisogno ora di dimostrare nei dettagli quanto ho appena detto; un'accurata analisi dei contratti non permette alcun dubbio a questo riguardo. Anche i tentativi di giustificazione della ricorrente sono perciò i più disparati. Nel corso dell'audizione che si svolse durante il procedimento amministrativo, essa affermò che gli sconti e la loro diversità erano irrilevanti, tenuto conto delle oscillazioni valutarie. Più tardi essa ha sostenuto che la capacità concorrenziale dei clienti non era mai stata pregiudicata. Quasi tutti i compratori infatti avrebbero lavorato le vitamine. Nei prodotti finiti però le vitamine avrebbero svolto soltanto una funzione subordinata; proprio nel settore della produzione di alimentari e di mangimi, cui sarebbe stata destinata la maggior parte delle forniture, esse avrebbero influito sul prezzo in maniera minima: per l'1 % o ancor meno. Perciò addirittura una differenza di sconto del 5 % non avrebbe potuto influire in alcun modo sulla concorrenza. Mi sembra tuttavia che con questa argomentazione la ricorrente non riesca a difendersi dall'addebito di comportamento abusivo. Alla prima parte dall'argomentazione basta obiettare che sconti diversi si ritrovano anche in contratti conclusi nella stessa valuta. Circa la seconda parte, concordo con la Commissione nel ritenere che l'espressione «svantaggio per la concorrenza» (articolo 86, 2o comma, lettera c)) non equivalga al pregiudizio della capacità concorrenziale. Nello stesso senso anche la dottrina (Siragusa in «Semaine de Bruges 1977», pag. 425) sottolinea che le discriminazioni sono vietate indipendentemente dall'esistenza di una situazione di concorrenza fra i clienti considerati. Non si può inoltre dimenticare che i compratori hanno ovviamente attribuito grande importanza agli sconti, per cui è necessario concludere che tali sconti avevano senz'altro molto peso per la loro posizione di mercato e per le loro iniziative economiche; va pure ricordato che anche nelle cause dello zucchero la Corte ha ritenuto che differenze di prezzo del 5 % bastassero per concretare la violazione dell'articolo 86, 2o comma, lettera c). Si deve quindi concludere — senza che occorra affrontare l'argomento, palesemente irrilevante, secondo cui anche i concorrenti dell'interessata avrebbero concesso sconti dello stesso ordine di grandezza — che anche l'addebito d'infrazione consistente nel concedere condizioni contrattuali diverse risulta fondato. |
5. |
Dopo queste osservazioni fondamentali circa l'abuso di posizione dominante, occorre ancora esaminare se il giudizio della Commissione, che — come abbiamo visto — può ritenersi fondato, salvo per qualche aspetto marginale, possa venire contestato in base al volume d'affari cui i contratti si riferiscono. Si deve ancora accertare se ci si trovi di fronte ad una distorsione della concorrenza o del commercio intracomunitario che sia rilevante e se nella fattispecie vada esclusa l'applicazione dell'articolo 86 perché, come sostiene la ricorrente, tale distorsione manca. In proposito essa sostiene specialmente che il sistema di distribuzione criticato riguardava — se si trascurano i contratti con la Merck e la Unilever e ci si limita ai contratti di fedeltà veri e propri, senza tener conto degli sconti sul fatturato globale — una quota delle vendite di vitamine nel mercato comune che negli anni 1970-1974 fu pari in media ad un modesto 4 %. Non posso dar ragione alla ricorrente neppure su questo punto. Come giustamente ricorda la Commissione, la teoria della rilevanza è stata elaborata con riferimento all'articolo 85, cioè ad un settore nel quale l'effettiva concorrenza già esistente può venir limitata da accordi o da altre pratiche analoghe. Nelle fattispecie prese in esame dall'articolo 86 la concorrenza è invece praticamente inesistente dal momento che un'impresa in posizione dominante non può subire un'efficace concorrenza. In quest'ultimo caso non è in realtà possibile considerare innocuo perché privo di effetti degni di nota sulla concorrenza il comportamento di un'impresa in posizione dominante che costituisca un comportamento abusivo ai sensi dell'articolo 86. Quand'anche si ritenesse lecito trascurare o almeno lasciare impuniti degli abusi, perché essi si riferiscono per così dire a «quantités négligeables», sarebbe comunque assai difficile far rientrare nella predetta categoria il caso di cui stiamo discutendo. Come abbiamo visto, non è assolutamente possibile trascurare i contratti stipulati con la Unilever e con la Merck; quelli di cui si potrebbe forse non tener conto, e cioè i contratti con la Protector e con la Upjohn, riguardano meno dello 0,50 % delle vendite di vitamine effettuate nella Comunità durante il 1974. E pure importante la circostanza che si tratta di contratti con grossi clienti della ricorrente che operano quasi tutti nel settore degli alimentari e dei mangimi. Però, sia che confrontiamo il loro volume d'affari con il fatturato globale della ricorrente, sia che lo confrontiamo — come suggerisce l'interessata — con l'intero smercio di vitamine nel mercato comune, una cosa è certa: non si tratta mai di grandezze che consentano, anche tenendo conto della clausola inglese di recesso, di considerare irrilevanti i loro riflessi sulla situazione della concorrenza. Poiché si tratta inoltre di contratti con trasformatori di vitamine la cui attività si estende oltre i confini di un singolo Stato membro, è legittimo presumere al tempo stesso l'esistenza di un pregiudizio al commercio fra gli Stati membri di dimensioni tali da essere comunque rilevante ai sensi dell'articolo 86. |
IV — |
Dopo che le precedenti osservazioni hanno dimostrato la legittimità della decisione della Commissione per quanto riguarda l'abuso di posizione dominante, e l'impossibilità di metterla in dubbio salvo sotto qualche aspetto marginale, permettetemi ora di affrontare le ulteriori questioni che vertono sulla legittimità dell'ammenda. A questo riguardo sono stati, in primo luogo, dedotti tre argomenti:
|
1. |
Sul primo punto la ricorrente rinvia al § 22 della legge tedesca contro le restrizioni della concorrenza, che non contempla ammende per il semplice comportamento abusivo di imprese che si trovino in posizione dominante, e ad altre legislazioni nazionali in tema di concorrenza, che irrogano ammende soltanto quando gli interessati non abbiano rispettato concrete disposizioni delle autorità di controllo antitrust. Inoltre essa ricorda che una legge del 1973 ha introdotto nel diritto tedesco della concorrenza un ulteriore procedimento di divieto, motivandolo con l'affermazione che le ammende non servirebbero per chiarire i problemi concorrenziali. Se non vado errato, la ricorrente non osa tuttavia concludere che l'articolo 15 del regolamento n. 17 (cioè la norma che contempla l'istituto dell'ammenda) è interamente illegittimo quando si riferisce all'articolo 86 del Trattato CEE. Essa si limita invece ad affermare che il predetto articolo 15 va interpretato «in senso conforme ai diritti fondamentali», cioè nel senso che è possibile infliggere ammende soltanto se la materia è già stata chiarita da decisioni amministrative. Questa tesi si fonda sull'assunto che nella fattispecie venga criticata la conclusione di determinati contratti, che sarebbero senz'altro normali e corretti dal punto di vista della legislazione anticartello e che potrebbero essere ritenuti inammissibili soltanto in presenza di una posizione dominante. Circa il problema della posizione dominante si dovrebbe tuttavia ammettere che esso implica difficili apprezzamenti di fatto e che di conseguenza, giacché non si tratta soltanto di quote di mercato e di struttura del mercato, bensì di un'intera serie di ulteriori questioni, esistono nel caso di specie perlomeno dei fondati dubbi. L'inflizione di un'ammenda in un caso del genere contrasterebbe dunque con il principio secondo cui le disposizioni penali non possono essere applicate se non sono sufficientemente chiare. Questo principio della precisione, che è collegato al principio della certezza del diritto, è, come si può ricavare dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in parte enunciato dal diritto costituzionale degli Stati membri (art. 103 della Costituzione tedesca; art. 25, n. 2, della Costituzione italiana); inoltre esso trova espressione — come risulta del pari dalla dottrina — nell'articolo 7 della Convenzione sui diritti dell'uomo. Per quanto riguarda gli ordinamenti giuridici in cui manca una norma costituzionale di questo tipo, che del resto si riferisce non soltanto ai delitti, ma anche alle contravvenzioni, si potrebbe, come si fa ad esempio nel diritto belga, invocare il principio «in dubio pro reo» oppure — e ciò varrebbe anche per altri Stati membri — il principio «nullum crimen sine lege». Anche da esso si potrebbe desumere, e ciò pure con riferimento alle contravvenzioni, che non si può infliggere una pena quando i concetti sono imprecisi e la loro interpretazione è dubbia. Le leggi indeterminate sarebbero quindi, se non altro, da interpretare in senso restrittivo. La Commissione ha opposto ai predetti argomenti una serie di critiche e di obiezioni relative in particolare alla portata delle citate norme costituzionali, della norma contenuta nella Convenzione sui diritti dell'uomo e del principio riscontrabile nel diritto belga. Secondo la Commissione, si deve dubitare che esista un principio generale di diritto del tenore indicato dalla ricorrente. Essa ha osservato che tale principio è presente nel diritto costituzionale di due soli Stati membri, i quali conoscono il controllo giurisdizionale sull'attività legislativa, che si tratta di un principio di nuovo tipo e che esso si riferisce anzitutto al diritto penale, senza che sia stato ancora chiarito in modo definitivo se la sua validità si estenda alle contravvenzioni, categoria in cui vanno fatti rientrare i comportamenti puniti con le ammende contemplate dall'articolo 15 del regolamento n. 17. Si dovrebbe comunque ammettere che da ciò non si possono trarre conclusioni troppo categoriche. Sia in Germania, sia in Italia, si sarebbe riconosciuto che è possibile trovare nella legislazione norme generali, non precisabili in modo univoco, e che è dunque soprattutto importante accertare se la cornice così delineata consenta un'interpretazione giudiziaria e costituisca un fondamento sicuro per la giurisprudenza. Non da ultimo ciò varrebbe per il diritto della concorrenza, nel quale a causa della multiformità della vita economica non si può rinuciare a concetti generali. In tale settore sarebbe sufficiente la possibilità di accertare l'esatto contenuto della norma mediante un'interpretazione teleologico-sistematica, e sotto questo aspetto assumerebbe senza dubbio rilievo, in un caso come quello di specie, la considerazione che una grossa impresa commerciale, attiva su scala internazionale, è in grado di conoscere i diversi ordinamenti giuridici interni e di trarre da essi elementi di giudizio sufficienti per valutare la liceità o l'illiceità del proprio operato. Circa questo punto — e proprio per questo mi sono attardato un po' di più su di esso — va senza dubbio detto che è fortissima la tentazione di esaminare dettagliatamente il problema posto sul tappeto. Nella fattispecie ciò non è tuttavia necessario, per i motivi che esporrò più oltre. A mio giudizio, è difficile sostenere che la norma del regolamento n. 17 in materia di ammende non può assolutamente essere applicata prima che siano stati emanati provvedimenti amministrativi volti a concretare l'articolo 86. Una simile conclusione sarebbe palesemente eccessiva, giacché esistono senza alcun dubbio delle fattispecie che si lasciano facilmente sussumere sotto l'articolo 86 e che non lasciano alcun dubbio circa l'esistenza di una posizione dominante e di un abuso corrispondente agli esempi indicati nell'articolo 86. Nella misura in cui esistono tuttavia, a fianco di tali ipotesi, zone grigie e settori marginali, sarà possibile, finché la prassi amministrativa non si sarà adeguatamente sviluppata, tenerne conto mediante considerazioni che attengono al problema della colpa. Tale dovrebbe quantomeno essere la situazione nel caso di specie, ragion per cui ritengo opportuno spostare l'attenzione sul predetto tema, cioè sul secondo degli argomenti dedotti dalla ricorrente. |
2. |
In relazione al problema del se la ricorrente sia responsabile, per dolo o per colpa, di abuso della propria posizione dominante, la Roche ha suggerito l'interessante costruzione giuridica dell'errore scusabile su un divieto. Grazie ad approfondite analisi di diritto comparato essa ha potuto dimostrare che si tratta di una teoria assai diffusa e meritevole d'essere accolta anche nell'ambito comunitario, e specificamente nel settore delle ammende, come elemento di progresso giuridico. Rinvio, in proposito, alle osservazioni svolte dalla ricorrente circa l'efficacia dell'errore sul divieto nell'ordinamento tedesco, anche per quanto riguarda le contravvenzioni, nonché nei diritti danese, olandese e francese — almeno sotto l'aspetto del dibattito dottrinale — e ricordo che lo Jeschek nel suo trattato «Die Strafgewalt übernationaler Gemeinschaften» (Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft 1953, pag. 497 e segg.) ha sostenuto che un principio di tal genere era stato introdotto nel diritto comunitario dall'articolo 36 del Trattato CECA. Contro di ciò avrebbe poca importanza che gli ordinamenti inglese ed italiano siano ancora un po' restii ad accettare tale principio. Se si accoglie questa tesi, il nocciolo della questione consiste nell'accertare se nel caso di specie sia effettivamente lecito affermare che la ricorrente è incorsa in un errore scusabile circa la propria posizione dominante e circa il comportamento criticato dalla Commissione. A questo riguardo, per quanto concerne la posizione dominante — e trascurando del tutto un eventuale errore di fatto per il quale potrebbe assumere rilievo la quota detenuta dalla ricorrente sul mercato mondiale — si può osservare quanto segue: Su alcuni mercati (vitamina A e vitamina E) la quota della ricorrente è senza dubbio a malapena rilevante. Negli altri casi, può avere importanza l'osservazione che i provvedimenti emanati nel periodo anteriore alla conclusione dei contratti in esame avevano sempre avuto per oggetto monopoli o quote di mercato molto elevate. Ci è stato detto — e nessuno lo ha contestato — che nella prassi tedesca anteriore alla riforma legislativa del 1973 nemmeno quote di mercato assai elevate erano ritenute prova sufficiente di una posizione dominante, se continuava ad esserci concorrenza sulla qualità. Può assumere rilievo nel predetto contesto anche quanto è emerso durante il procedimento con riferimento allo sviluppo dei prezzi sui mercati delle vitamine e ad una certa concorrenza sui prezzi, specialmente in relazione alla circostanza che il Trattato CECA ricollega la posizione dominante al potere di fissare i prezzi. Infine può darsi che l'interessata, conoscendo la potenza finanziaria dei suoi grandi concorrenti, abbia pensato che il proprio comportamento non sarebbe stato atto ad impedire un'effettiva concorrenza, come non si può trascurare che il suo giudizio sulla situazione sia stato influenzato dalla consapevolezza di operare su un mercato in fortissima espansione. Per quanto riguarda il comportamento criticato dalla Commissione, sotto l'aspetto del diverso trattamento dei clienti, si può osservare che i suoi effetti sulla capacità concorrenziale furono limitati e che a suo tempo gli operatori commerciali non erano in grado di riconoscere a prima vista che questa circostanza non era determinante nel caso dell'articolo 86. Circa il vincolo imposto ai clienti, occorre, secondo me, riconoscere che anche parte della dottrina non critica gli sconti di fedeltà nell'ambito del Trattato CECA e con riferimento all'art. 86 (Van Hecke, «Kartelle und Monopoli im modernen Recht», volume 1o, pag. 338) e che alla data in cui furono conclusi i contratti controversi non esisteva ancora alcuna decisione che distinguesse, nell'ambito degli sconti di fedeltà, fra quelli che erano veramente tali e quelli che non lo erano. In particolare — secondo quanto la ricorrente ha affermato senza essere contraddetta — tali contratti non sono finora mai stati puniti con ammende né negli Stati Uniti, né in Germania. Non è neppure del tutto da respingere l'asserzione che la ricorrente riteneva meno criticabili tali contratti nella fase d'espansione allora attraversata dal mercato, la quale, a differenza di ciò che avviene in un mercato stagnante, lasciava spazio sufficiente a tutti gli operatori economici. Del pari, la ricorrente non ha sbagliato del tutto nell'attribuire importanza al principio della ponderazione degli interessi, principio di cui s'è comunque parlato nella decisione GEMA, adottata dalla Commissione con riferimento ad un vincolo esclusivo, e nella sentenza SABAM, pronunciata dalla Corte con riferimento ad un caso analogo. Non da ultimo potrebbero assumere rilievo nel predetto contesto la clausola inglese di recesso, presente in tutti i contratti, e la sua effettiva applicazione da parte della ricorrente, e ciò in ispecie se si considera che tale clausola è stata inserita nei contratti in ottemperanza a quanto suggerito dalla Commissione stessa nella sua decisione Dunlop (GU 1969, n. L 323, pag. 21). Di fronte a tutte queste osservazioni — cui non si può secondo me validamente contrapporre che la ricorrente avrebbe potuto garantirsi da errori mediante ricerche giuridiche e che, conoscendo il diritto nazionale, il quale era in parte assai diverso da un paese all'altro, essa avrebbe dovuto essere prudente — non si dovrebbe esitare ad accogliere nella fattispecie l'idea d'un errore scusabile di diritto circa l'applicazione dell'articolo 86. Quantomeno è lecito affermare che la colpevolezza è stata così ridotta che non v'era motivo di infliggere un'ammenda, e questo particolarmente quando s'aveva a che fare con un'impresa che s'era dimostrata — tutti lo hanno riconosciuto — pronta alla massima cooperazione durante il procedimento amministrativo e che aveva provveduto immediatamente a far cessare il comportamento criticato. |
3. |
Ciò premesso, non è più il caso di approfondire l'argomento che verte sulla disparità di trattamento nell'inflizione delle ammende. Se tuttavia volessimo ugualmente farlo, basterebbe ricordare in breve che nel presente caso tale argomento non gioverebbe in realtà alla ricorrente. Quando in tale contesto la ricorrente rinvia al caso dello zucchero bisognerebbe precisare che in tale occasione erano state inflitte ammende anche per violazione dell'articolo 86 mediante la concessione di sconti di fedeltà e che la Corte s'è limitata a ridurre tali ammende, sebbene in misura cospicua. |
4. |
Allo stesso modo è inutile — una volta detto che occorre annullare le ammende — discutere se non si dovessero almeno correggere le loro modalità di calcolo. Vorrei tuttavia osservare che una simile correzione sarebbe comunque stata opportuna, giacché secondo le risultanze del procedimento l'interessata non godeva di una posizione dominante sul mercato della vitamina B 3 ed anche per quanto riguarda l'abuso consistente nel vincolo imposto ai clienti, per due contratti esso è piuttosto difficile da dimostrare. Oltracciò sarebbe possibile nel predetto contesto tener conto del fatto che una parte notevole delle forniture della ricorrente era destinata ad impieghi tecnici, cioè ad un mercato per il quale non è stato possibile provare che la ricorrente vi godesse d'una posizione dominante. Inoltre si potrebbe qui tener conto anche dei reali effetti prodotti dai contratti controversi. Ricordo in proposito le asserzioni della ricorrente, che essa ha cercato in parte di convalidare rinviando alle precisazioni fornite, circa gli addebiti contestatile dalla Commissione, dai suoi clienti, i quali avrebbero continuato a sentirsi largamente liberi nel decidere i propri acquisti anche grazie alla clausola inglese di recesso ed alla sua generosa applicazione da parte dell'interessata. Ricordo pure le osservazioni della Commissione la quale ha riconosciuto che apparentemente — questa circostanza non è stata a quanto sembra controllata in ogni singolo caso — gli impegni assunti nei contratti non sono sempre stati rigorosamente rispettati e che l'attrazione esercitata dagli sconti non è sempre stata così forte come si temeva. Questo almeno sembra doversi intendere quando la Commissione conclude che i 22 clienti di cui si tratta hanno coperto per la maggior parte o sostanzialmente il loro fabbisogno presso la ricorrente. Non voglio ora entrare nei dettagli e mi accontento di rinviare alle osservazioni svolte dalla Commissione nella controreplica (pag. 52 e segg.) e nella risposta al questionario della Corte (pag. 12 e segg.) nonché nei rapporti — versati agli atti — concernenti le ispezioni svolte presso i clienti della ricorrente. |
V — |
Non abbiamo però ancora terminato l'esame di questo caso. Ci sono due altri argomenti che secondo la ricorrente metterebbero in forse la legittimità dell'intera decisione: l'uno concerne la violazione del divieto di usare documenti di cui si sia venuti in possesso illegalmente, l'altro il diniego del contraddittorio. |
1. |
Sul primo punto sarò abbastanza breve. La ricorrente ha sostenuto che suoi documenti confidenziali erano stati consegnati abusivamente alla Commissione da un suo ex-dipendente, cosa che è punita dalla legge svizzera — come risulta da una sentenza penale pronunciata contro tale impiegato —. Stando alle deposizioni rese dall'imputato alla polizia, la sottrazione dei documenti sarebbe avvenuta su richiesta della Commissione. Nel far ciò la Commissione avrebbe violato il diritto internazionale, conducendo indagini in territorio svizzero senza l'autorizzazione delle autorità elvetiche. Una simile ingerenza nella sovranità d'uno Stato estraneo alla Comunità renderebbe necessariamente inutilizzabili i documenti in tal modo ottenuti, e ciò tanto più in quanto, visto che la fattispecie controversa risulta senz'altro dai contratti consegnati dalla ricorrente, un simile straripamento di competenza da parte della Commissione non appariva necessario e contrasta quindi col principio della proporzionalità. La Commissione nega anzitutto d'aver indotto l'ex-dipendente dell'interessata a compiere gli atti di cui s'è detto. Nessun indizio in questo senso trasparirebbe dalla già citata sentenza penale. Si potrebbe inoltre osservare che la Svizzera non ha mai protestato presso la Comunità per indagini effettuate illegalmente in territorio elvetico. Non è il caso di soffermarsi su questo argomento. In fin dei conti — ed è questo che ha importanza — la ricorrente ha prodotto in giudizio di propria iniziativa i suddetti documenti ed ha per di più dichiarato di rinunciare all'eccezione di inutilizzabilità, rimettendosi espressamente al prudente giudizio della Corte per quanto riguardava il modo di affrontare e chiarire tale problema. Sulla base delle conclusioni cui sono giunto finora, non v'è di certo alcun motivo per approfondire l'argomento. Ritengo dunque che sia meglio astenerci dall'esaminare tale delicata questione, non da ultimo per il fatto che, altrimenti, sarebbe necessario accertare quale parte abbiano svolto la Commissione ed i suoi funzionari nella vicenda dei documenti sottratti. |
2. |
Per quanto riguarda poi il diniego del contraddittorio, la ricorrente lamenta anzitutto che determinati documenti probatori, cui la decisione si riferisce, non siano stati oggetto di un'audizione. Essa aggiunge che non le è stato concesso di prendere visione di certi dati di mercato utilizzati dalla Commissione (quote di mercato dei concorrenti, smercio di vitamine nella Comunità, cifre concernenti le importazioni) e che non le è stato consentito di avere notizia completa e tempestiva delle informazioni fornite dai suoi clienti, dei rapporti sulle verifiche effettuate presso i suddetti clienti e delle precisazioni da costoro fornite con riferimento agli addebiti della Commissione. Infine essa ritiene che, nell'insieme, le sia stato ingiustamente impedito di avere piena conoscenza del fascicolo; ciò le avrebbe infatti permesso di far valere circostanze esimenti che invece non sono state invocate. Circa tale argomento, va in primo luogo osservato che i documenti i quali, secondo la ricorrente, avrebbero dovuto formare oggetto di un'audizione, provenivano dalla ricorrente stessa e le erano quindi noti. Va altresì ricordato che per tali procedimenti le norme vigenti nella Comunità contemplano in sostanza soltanto l'obbligo di notificare gli addebiti. Gli addebiti devono esporre — come è già stato chiarito dalla giurisprudenza — le circostanze essenziali del caso e le relative considerazioni giuridiche; non c'è invece alcun accenno ad un obbligo di comunicare i documenti cui la Commissione si riferisce. Qualora si ritenga tuttavia che esistano fattispecie in cui è necessario discutere tali documenti con l'interessato (o gli interessati) — ad esempio, quando sono possibili diverse interpretazioni o quando si può pensare che i documenti siano incompleti e possano essere integrati dall'interessato con materiale a suo discarico — va osservato che nel caso di specie non è stato fatto valere nulla di simile. Visto inoltre che i fatti (vincolo dei clienti mediante premi di fedeltà) comprovati dai documenti in questione sono stati chiaramente enunciati negli addebiti e per di più esaurientemente discussi in sede di ricorso giurisdizionale, non v'è alcun motivo di annullare il provvedimento della Commissione a causa del mancato contraddittorio su questi punti. La ricorrente ha inoltre sostenuto che le si sarebbe dovuto consentire di prendere completa visione del fascicolo del procedimento amministrativo. La Commissione ha risposto — ed io condivido tale risposta — che il diritto comunitario non contempla nulla di simile, né esiste un principio generale di diritto che abbia tale contenuto. Particolare attenzione meritano le osservazioni che essa ha svolto in proposito con riferimento ad un settore ampiamente elaborato come è quello del diritto tedesco antitrust (§ 53 della legge contro le restrizioni della concorrenza). Secondo tale legislazione, nel procedimento amministrativo si esige semplicemente che gli interessati possano rispondere agli addebiti formulati nei loro confronti e che la decisione non si fondi su circostanze loro ignote. Tale principio viene manifestamente applicato dal Bundeskartellamt nel senso che gli interessati ricevono soltanto comunicazione del contenuto sostanziale degli atti e vengono informati soltanto dei punti fondamentali delle dichiarazioni rese da altri interessati. Neppure nel ricorso, che è un procedimento giurisdizionale, esiste il diritto di ricevere comunicazione dell'intero fascicolo. Il § 71 della legge sulle restrizioni della concorrenza permette di prendere visione degli atti preliminari e collaterali, dei pareri e delle informazioni solo previo consenso dell'interessato; quando tale consenso viene negato, con richiamo all'obbligo del segreto, di tali atti viene reso noto solo il contenuto sostanziale affinché esso possa essere invocato nel corso del procedimento. Prendendo le mosse da questi principi, occorre ancora svolgere le seguenti osservazioni in merito alle singole critiche sollevate dalla ricorrente: Trascuriamo il fatto che la Direzione generale della concorrenza ha risposto in data 13 agosto 1975 ad alcune domande rivoltele dalla ricorrente e che talune asserzioni della ricorrente sono state sostanzialmente riconosciute esatte, come risulta da uno scritto della Commissione del 16 luglio 1976, e veniamo invece alla questione delle quote di mercato di altri concorrenti. A questo riguardo è importante osservare che la Commissione, dopo essersi inizialmente richiamata all'obbligo del segreto sulla base della sentenza 45/69 (Boehringer Mannheim GmbH/Commissione delle Comunità europee, sentenza del 15 luglio 1970, Racc. 1970, pag. 769), ha, se non altro in sede processuale, comunicato alla ricorrente tali cifre in forma resa anonima, il che ha manifestamente permesso alle parti di giungere, per quanto riguarda le quote di mercato, a valutazioni largamente coincidenti. Circa le precisazioni fornite dai clienti della ricorrente in merito agli addebiti formulati dalla Commissione, ritengo che sia ora inutile esaminare se la Commissione avesse il diritto di tenerle segrete. Esse sarebbero comunque di poco peso per il caso di specie, non solo per le considerazioni di cui dirò fra breve, ma già per il semplice fatto che sono state rese nel corso di un procedimento ai sensi dell'articolo 85, nel quale i «partners» contrattuali della ricorrente dovevano considerarsi, per così dire, «imputati». Per quanto riguarda le informazioni raccolte e le verifiche effettuate presso i clienti, non va infine dimenticato che solo una parte di costoro ha acconsentito a che la ricorrente prendesse visione di tali documenti. La ricorrente è dunque venuta a conoscenza dei predetti documenti nella misura in cui gli interessati lo hanno permesso ed ha inoltre preso visione di atti, resi anonimi, concernenti altri clienti. Per di più detti documenti assumerebbero rilievo soltanto se il giudizio sull'atto impugnato dipendesse dall'effettivo funzionamento del sistema di distribuzione della ricorrente. Ma ciò influisce a mio parere solo sulle ammende, che devono essere annullate, e non sul resto. In base a quanto s'è visto, si può avere l'impressione che nel corso del procedimento amministrativo la Commissione avrebbe dovuto discutere più in dettaglio con la ricorrente i documenti su cui fondava la propria azione e che essa avrebbe dovuto maggiormente informare la ricorrente su fatti sostanziali già durante il procedimento amministrativo, senza attendere il ricorso giurisdizionale. Ma anche così non è possibile, in ultima analisi, invocare nel presente caso una violazione dei diritti della difesa tale da implicare il completo annullamento della decisione impugnata. |
VI — |
Consentitemi di riassumere ancora una volta la mia opinione. Secondo me la decisione impugnata è fondata nella parte in cui afferma che la ricorrente domina il mercato di sei vitamine (con la sola eccezione della vitamina B 3) ed ha vincolato a sé in modo abusivo venti clienti (con l'eccezione delle ditte Protector ed Upjohn) e le fa carico di un trattamento ingiustificatamente diverso delle imprese menzionate nella decisione stessa. L'inflizione di un'ammenda per violazione dell'articolo 86 mi sembra invece ingiustificata, visto il grado di colpa assai ridotto della ricorrente. Il ricorso della ditta Hoffmann-La Roche va quindi accolto nella misura così indicata; per il resto esso va respinto. Propongo inoltre che ciascuna delle parti sopporti le spese da essa incontrate. |
( 1 ) Traduzione dal tedesco.