This document is an excerpt from the EUR-Lex website
Document 61989CC0243
Opinion of Mr Advocate General Tesauro delivered on 17 November 1992. # Commission of the European Communities v Kingdom of Denmark. # Award of a works contract - Bridge over the "Storebaelt". # Case C-243/89.
Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 17 novembre 1992.
Commissione delle Comunità europee contro Regno di Danimarca.
Appalti di lavori pubblici - Ponte sullo Storebælt.
Causa C-243/89.
Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 17 novembre 1992.
Commissione delle Comunità europee contro Regno di Danimarca.
Appalti di lavori pubblici - Ponte sullo Storebælt.
Causa C-243/89.
Raccolta della Giurisprudenza 1993 I-03353
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1992:438
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
GIUSEPPE TESAURO
presentate il 17 novembre 1992 ( *1 )
Signor Presidente,
Signori Giudici,
|
1. |
Con il ricorso in esame la Commissione chiede alla Corte di constatare che il Regno di Danimarca è venuto meno, in relazione all'appalto di lavori pubblici per la costruzione di un ponte sul canale ovest del Grand-Belt, agli obblighi che gli incombono in forza degli artt. 30, 48 e 59 del Trattato CEE, nonché della direttiva del Consiglio 26 luglio 1971, 71/305/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici ( 1 ). Due gli aspetti della procedura di aggiudicazione che sono contestati dalla Commissione: a) la presenza, nel capitolato d'oneri, di una clausola che invitava a presentare offerte a condizione di utilizzare nella misura più ampia possibile materiali e beni di consumo danesi, nonché manodopera ed attrezzature danesi (nel prosieguo: la «riserva danese»); b) il fatto che le trattative con il consorzio prescelto sarebbero state condotte sulla base di un'offerta non conforme al capitolato d'oneri. |
|
2. |
I fatti e la procedura precontenziosa sono descritti in dettaglio nella relazione d'udienza, cui si rinvia. In questa sede mi limito pertanto a richiamare, nella misura necessaria a rendere più agevole la lettura delle osservazioni che seguono, i termini essenziali della questione. L'appalto per la costruzione del ponte sul canale ovest del Grand-Belt veniva aggiudicato alla European Storebælt Group (nel prosieguo: la «ESG»), uno dei cinque consorzi internazionali invitati a presentare offerte nell'ambito del bando di gara ristretto indetto dall'Aktieselskabet Storebæltsforbindelsen (in prosieguo: la «Storebælt»), società controllata al 100% dallo Stato danese e committente dei lavori in questione. La Storebælt, che aveva elaborato tre differenti progetti che dovevano servire come base per le offerte, avviava dei colloqui con le imprese preselezionate e continuava poi le trattative con l'ESG, che si era avvalsa della possibilità, prevista dall'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri, di presentare un'offerta alternativa; tali trattative si concludevano con la firma del contratto in data 26 giugno 1989. |
|
3. |
Fin dal 18 maggio 1989, la Commissione si era messa in contatto con le autorità danesi esprimendo dubbi quanto alla conformità col diritto comunitario sia della riserva danese, sia della circostanza che le trattative con l'ESG sarebbero state condotte sulla base di un'offerta non conforme all'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri. Non soddisfatta delle spiegazioni del governo danese, il 21 giugno 1989 la Commissione inviava la lettera di messa in mora, con cui chiedeva, tra l'altro, di non procedere alla firma del contratto. In risposta a tale lettera le autorità danesi facevano sapere che non avevano ritenuto opportuno rinviare ulteriormente la firma del contratto, ma che avevano chiesto alla Storebælt, con lettera del 21 giugno, di sopprimere la riserva danese, sicché questa non appariva più nel contratto definitivo. Sulla premessa dell'avvenuta infrazione, e ritenendo che l'eliminazione della clausola in parola successivamente all'aggiudicazione non avesse fatto venir meno l'inadempimento, con telex del 14 luglio 1989 la Commissione notificava alla Danimarca un parere motivato in cui — tra l'altro — si affermava che l'unico modo per porre rimedio alla situazione creatasi, data la sopravvenuta firma del contratto, consisteva nel chiedere alla Storebælt di risolvere il contratto stipulato con la ESG e riaprire la procedura di aggiudicazione. Ritenendo che il Regno di Danimarca non si fosse conformato al parere motivato, la Commissione presentava un ricorso ex art. 169, nonché una domanda di provvedimenti urgenti ai sensi dell'art. 186 del Trattato, domanda relativa unicamente alla censura concernente la riserva danese. |
|
4. |
All'udienza relativa al procedimento cautelare, tenutasi il 22 settembre 1989, il governo danese rilasciava una dichiarazione con cui riconosceva che la riserva danese costituiva una violazione del principio fondamentale di non discriminazione sancito dal Trattato CEE e si impegnava: a) ad evitare qualsiasi clausola o pratica discriminatoria nei futuri appalti di lavori o forniture pubblici; b) a garantire il risarcimento del danno subito dalle imprese offerenti qualora tali imprese fossero in misura di provare la fondatezza delle loro pretese risarcitone sulla base del diritto danese; e) a garantire comunque la restituzione delle spese di presentazione delle offerte mediante una procedura di arbitrato: e ciò senza che le imprese in questione dovessero provare che la portata discriminatoria della riserva danese fosse stata la causa della loro esclusione. A seguito di tale dichiarazione, la Commissione ritirava la domanda di provvedimenti urgenti, mantenendo tuttavia, anche relativamente alla censura oggetto della domanda di misure provvisorie, il ricorso ex art. 169. Peraltro, dopo tale data, la Commissione, che si era riservata nell'atto introduttivo del giudizio di integrare e sviluppare ulteriormente i motivi dedotti a sostegno del ricorso medesimo, ha chiesto al governo danese — ed in larga misura ottenuto — vari documenti relativi alla procedura di aggiudicazione ed al contratto definitivo, sulla base dei quali essa ha poi, in sede di replica, avanzato nuovi motivi a sostegno del ricorso. Un siffatto modo di procedere ha indotto il governo danese ad opporre, in sede di controreplica, una serie di eccezioni di irricevibilità, sia in ordine alla censura concernente la riserva danese che in relazione alla censura concernente le trattative intercorse tra la Storebælt e l'ESG. Tali eccezioni del governo danese sono esaminate qui di seguito nell'ambito delle due censure mosse dalla Commissione. |
a) Sulla riserva danese
|
5. |
Il governo danese si oppone a che la Commissione estenda l'oggetto della controversia a clausole del capitolato d'oneri diverse da quelle menzionate nella lettera di messa in mora e nel parere motivato, in quanto si tratterebbe — nella sostanza — di nuove censure, contenute e sviluppate solo nella memoria di replica. Invero, nella fase precontenziosa la Commissione si era riferita unicamente alla riserva danese quale formulata all'art. 6, n. 2, delle condizioni generali del capitolato d'oneri; nel ricorso, e soprattutto nella memoria di replica, essa ha invece formulato censure in ordine a varie altre clausole contenute nello stesso capitolato o addirittura introdotte per la prima volta nel contratto definitivo e da cui risulterebbe che specificazioni della riserva danese compaiono ancora nel contratto d'appalto, sotto forma, in particolare, di prescrizioni attinenti ai materiali. La Commissione giustifica un tale comportamento sostenendo che nella fase precontenziosa essa ha inteso contestare in via generale la riserva danese e che, pertanto, le censure avanzate nella replica andrebbero lette come semplici specificazioni di tale addebito più generale e non costituirebbero delle autonome e nuove contestazioni. Ed è certo incontestabile che le clausole citate dalla Commissione nell'atto introduttivo del giudizio e nella replica altro non sono, nella sostanza, che specificazioni della riserva danese quale formulata all'art. 6, n. 2, delle condizioni generali del capitolato d'oneri. |
|
6. |
Ciò detto, va rilevato che, conformemente ad una costante giurisprudenza della Corte ( 2 ), l'oggetto del ricorso proposto ai sensi dell'art. 169 del Trattato è definito dalla fase amministrativa precontenziosa contemplata da detta disposizione, nonché dalle conclusioni del ricorso; e che il parere motivato e il ricorso devono essere basati sui medesimi motivi e mezzi. È ben vero, poi, che la Corte riconosce la possibilità di contestare nel ricorso fatti nuovi che siano «della medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e che costituiscono uno stesso compor-tamento» ( 3 ) deve tuttavia trattarsi, conformemente all'art. 42, n. 2, del regolamento di procedura, di fatti intervenuti successivamente al parere motivato o comunque non noti al ricorrente al momento della presentazione del ricorso. Ora, nella misura in cui gli addebiti mossi per la prima volta dalla Commissione in sede di ricorso e di replica concernono clausole del capitolato d'oneri, dunque clausole già esistenti al momento della lettera di messa in mora, non può farsi a meno di osservare, conformemente alla giurisprudenza della Corte, che la Commissione avrebbe dovuto o quantomeno potuto esserne a conoscenza. Ne consegue che tali clausole «discriminatorie» non possono essere prese in considerazione nel presente procedimento: l'eccezione di irricevibilità del governo danese va dunque accolta. Al riguardo, non posso tuttavia fare a meno di aggiungere che, posto in questi termini, il problema è puramente formale. Mi spiego: nella misura in cui la riserva danese è incompatibile col diritto comunitario, circostanza questa incontestata, a me sembra che lo Stato inadempiente sia comunque tenuto a tirarne le ovvie conseguenze, vale a dire a sopprimere tutte quelle prescrizioni che siano espressione della riserva in parola. E che lo stesso governo danese ne sia stato ben cosciente, lo si deduce sia dal fatto che nella risposta al parere motivato ha assicurato che il contratto definitivo non conteneva alcuna clausola del tipo della riserva danese, sia dall'affermazione, dello stesso governo, secondo cui, dovendo procedere alla soppressione della riserva danese prima della firma del contratto, dunque in tempi molto ristretti, alcune indicazioni concrete relative all'utilizzo di materiali danesi sarebbero passate inosservate; e ciò proprio a causa della fretta ( 4 ). |
|
7. |
Quanto poi a quelle clausole inserite per la prima volta nel contratto definitivo e che, ad avviso della Commissione, sarebbero anch'esse specificazioni della riserva danese, va anzitutto rilevato che le conclusioni della Commissione sulla censura in esame concernono unicamente l'irregolarità della procedura di aggiudicazione e che dunque, a differenza delle clausole «discriminatorie» contenute nelle condizioni generali e particolari del capitolato d'oneri, quelle aggiunte nel contratto definitivo non possono aver avuto alcuna incidenza sullo svolgimento di tale procedura ( 5 ). A stretto rigore, pertanto, tali clausole potrebbero costituire fondamento per un'autonoma procedura d'infrazione: è evidente infatti che, se illegittime, esse configurerebbero, essendo ancora in corso i lavori per la costruzione del ponte, un'infrazione attuale al diritto comunitario. Certo, si potrebbe anche sostenere che la presa in considerazione, ai fini del presente procedimento, delle eventuali prescrizioni illecite contenute in tali clausole, trattandosi di addebiti della stessa natura di quelli contestati nel parere motivato e che costituiscono uno stesso comportamento, non sia tale da comportare una variazione sostanziale dell'oggetto del ricorso. Inoltre, se è vero che il contratto definitivo è stato concluso prima dell'invio del parere motivato, è altresì vero che l'istituzione agente, che peraltro non può essere accusata né di inerzia né di negligenza dati i tempi brevissimi in cui ha istruito la presente procedura (dall'inizio della fase precontenziosa all'introduzione del ricorso è passato meno di un mese), ne ha avuto materialmente conoscenza solo in data successiva all'introduzione del ricorso. Tuttavia, dato il rigore dimostrato dalla Corte quanto all'estensione dell'oggetto della causa a fatti non noti al ricorrente al momento dell'invio del parere motivato, propongo, in ossequio ai principi procedurali che reggono il ricorso ex art. 169, di accogliere anche su questo punto l'eccezione di irricevibilità opposta dal governo danese. |
|
8. |
Stabilito che l'oggetto della censura in esame va limitato alla riserva danese quale formulata all'art. 6, n. 2, delle condizioni generali del capitolato d'oneri, e ricordato che è qui incontestata l'incompatibilità di tale riserva rispetto agli artt. 30, 48 e 59 del Trattato, occorre in primo luogo accertare se il governo danese, eliminando la riserva in questione, si sia o meno conformato al parere motivato. Invero, come si ricorderà, una tale clausola è stata soppressa prima della firma del contratto (26 giugno) e dunque ancor prima che la Commissione notificasse al governo danese il parere motivato (14 luglio). Ed è appunto invocando una tale circostanza che detto governo sostiene che il ricorso dovrebbe essere dichiarato irricevibile, o quantomeno respinto, analogamente a quanto deciso dalla Corte nella causa C-362/90 ( 6 ). Al riguardo, dirò subito che non ritengo che il caso che ci occupa possa essere assimilato a quello appena richiamato. Ricordo infatti che nella causa C-362/90 l'infrazione contestata aveva già completamente esaurito i suoi effetti al momento dell'invio del parere motivato e che, inoltre, la Corte ha in particolare fatto carico alla Commissione di non aver «agito in tempo utile per evitare, con i procedimenti di cui dispone, che l'inadempimento addebitato producesse effetti, e non ha neanche eccepito l'esistenza di circostanze che le avrebbero impedito di terminare il procedimento precontenzioso, contemplato dall'art. 169 del Trattato, prima che detto inadempimento avesse cessato di sussistere» ( 7 ). |
|
9. |
Nel caso che ci occupa la situazione si presenta invece in modo completamente diverso. Come si è già detto, infatti, la Commissione aveva chiesto nella lettera di messa in mora non solo di fornire le spiegazioni richieste in un termine di sette giorni, ma anche di rinviare, nell'attesa, la firma del contratto. Il governo danese poteva dunque evitare di «consumare» l'inadempimento aderendo alle richieste della Commissione; viceversa, proprio nelle more della procedura d'infrazione, esso ha comunicato, nella risposta alla lettera di messa in mora, che la Storebælt aveva ormai proceduto alla firma del contratto. Un siffatto modo di procedere ha impedito che fosse riaperta la procedura di aggiudicazione, ciò che ha condotto l'istituzione agente a chiedere nel parere motivato, come solo rimedio per porre fine all'inadempimento, che fosse risolto il contratto e riaperta la procedura di aggiudicazione. Peraltro, nella misura in cui il contratto d'appalto è stato concluso sulla base di un'aggiudicazione irregolare, non mi sembra si possa nutrire alcun dubbio — essendo incontestata l'illegittimità della riserva danese — sulla sussistenza dell'infrazione. È evidente infatti che solo una nuova procedura di aggiudicazione sarebbe stata tale da eliminare l'infrazione, dato che tale procedura era stata condotta in aperta violazione del diritto comunitario. In altre parole, avendo la riserva danese influenzato la presentazione delle offerte, è indubbio che la sua successiva eliminazione, sia pure anteriormente alla firma del contratto, non può in alcun caso aver sanato un vizio procedurale della gara di appalto di così rilevante importanza. Dubito poi che il governo danese possa avvalersi dell'affermazione della Commissione secondo cui non è più possibile, allo stadio attuale, ottenere il pieno rispetto del diritto comunitario, per sostenere che le conclusioni della stessa relative alla censura sulla riserva danese non sarebbero più pertinenti. Invero, sarebbe quantomeno singolare che uno Stato membro, che pure aveva la possibilità di impedire che l'inadempimento producesse effetti definitivi, possa poi servirsi della circostanza che l'inadempimento in questione sia già stato consumato per (...) evitarne il «riconoscimento» ai sensi dell'art. 171. Un'eventuale sentenza in tal senso della Corte non è infatti diretta a far dichiarare che la Storebælt avrebbe dovuto riaprire la procedura di aggiudicazione, ma molto più semplicemente a far constatare che la procedura di cui trattasi si è svolta in violazione delle conferenti norme di diritto comunitario. In definitiva, accettare la tesi del governo resistente secondo cui già prima dell'invio del parere motivato la riserva danese era stata soppressa e che dunque, e comunque, la censura concernente tale riserva non sarebbe più pertinente dopo ľawenuta firma del contratto, significherebbe premiare il fatto che l'inadempimento sia stato «consumato» nonostante fosse già in corso la procedura d'infrazione. Un'ultima considerazione al riguardo. Mi sembra fin troppo evidente che se la Corte aderisse alla tesi del governo danese, la stessa ragion d'essere della procedura di infrazione sarebbe del tutto vanificata ogniqualvolta si tratti di inadempimenti puntuali, rispetto ai quali, cioè, vi è il rischio che l'inadempimento stesso sia «consumato» già durante la fase precontenziosa, eventualmente prima dell'invio del parere motivato. Ed è questo un rischio che, all'evidenza, è pressocché normale in un settore quale quello degli appalti pubblici. In quest'ottica, ed a meno di svuotare e svilire la procedura ex art. 169 rispetto ad inadempimenti del tipo in questione, non può essere utilmente richiamata né l'affermazione della Corte secondo cui essa «può essere adita soltanto qualora lo Stato in causa non si conformi al parere motivato» ( 8 ), né può sostenersi, come nella già citata causa C-362/90, che «alla data di scadenza del termine fissato dal parere motivato l'inadempimento addebitato non era più sussistente» in quanto aveva completamente esaurito i propri effetti. Nel caso di specie, infatti, la Commissione ha avviato la procedura di infrazione in tempo utile per evitare che l'inadempimento contestato producesse effetti, nel senso che lo Stato di cui trattasi aveva la possibilità, non essendo ancora stato firmato il contratto definitivo, di riaprire la procedura di aggiudicazione. |
|
10. |
Ciò precisato, occorre poi stabilire se, ed eventualmente in che misura, la dichiarazione del 22 settembre 1989 del governo danese in occasione della procedura cautelare abbia un'incidenza ai fini del presente procedimento. Al riguardo, il governo danese fa valere che con tale dichiarazione esso ha non solo riconosciuto la sussistenza dell'infrazione, ma anche ammesso la propria responsabilità patrimoniale nei confronti delle imprese offerenti, tanto che la dichiarazione in parola varrebbe, al pari di una sentenza, come constatazione definitiva dell'inadempimento. Ora, se è vero che il governo danese ha riconosciuto l'inadempimento e garantito la risarcibilità dei danni subiti dalle imprese concorrenti, è altresì vero — a mio avviso — che una siffatta circostanza non è tale da far venir meno l'interesse alla prosecuzione del giudizio. Il fatto che una tale dichiarazione abbia indotto l'istituzione agente a ritirare la domanda di misure provvisorie è semplicemente frutto di un accordo intervenuto tra le parti esclusivamente in funzione del procedimento cautelare ed in particolare per porvi termine in maniera extragiudiziale. Da un siffatto comportamento della Commissione non mi sembra pertanto corretto far discendere come conseguenza l'irricevibilità o comunque la non fondatezza del ricorso. Diversamente, si stabilirebbe il principio secondo cui la Commissione è tenuta a rinunciare al ricorso ogniqualvolta, nel corso della procedura, l'inadempimento non sia più contestato e, al contempo, venga riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni eventualmente subiti dai privati a causa dell'inadempimento di cui trattasi. |
|
11. |
Peraltro, emerge dalla giurisprudenza della Corte in materia, che pure ha sottolineato talvolta in modo espresso che l'interesse alla prosecuzione del giudizio può consistere nello stabilire il fondamento di una responsabilità che può insorgere per uno Stato membro in conseguenza del suo inadempimento ( 9 ), che si deve in ogni caso presumere l'interesse della Commissione nei procedimenti da essa intentati ai sensi dell'art. 169, anche in caso di inadempimenti non contestati ( 10 ). In definitiva, la Commissione, come riconosciuto dalla stessa Corte ( 11 ), non è tenuta a dimostrare un interesse «ad agire» per poter proseguire la propria azione. In quanto «guardiana» dei Trattati, la Commissione ha comunque un interesse a veder constatato l'inadempimento attraverso una sentenza della Corte: a tale scopo l'unico elemento rilevante è che lo Stato in questione non abbia provveduto ad eliminare l'infrazione contestatagli nei termini fissati dal parere motivato. La circostanza che l'infrazione di cui trattasi sia stata riconosciuta già prima dell'invio del parere motivato è invece, a differenza di quanto ritiene il governo danese, del tutto irrilevante. Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo pertanto che, avendo la Storebælt proceduto all'aggiudicazione di un appalto di lavori pubblici sulla base di una clausola che invitava a presentare offerte a condizione di utilizzare nella misura più ampia possibile materiali e manodopera danesi, il Regno di Danimarca è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in virtù degli artt. 30, 48 e 59 del Trattato. |
b) Sulle trattative condotte sulla base di un'offerta non conforme al capitolato d'oneri
|
12. |
Anche relativamente ad una tale censura, il governo danese ha opposto una serie di eccezioni di irricevibilità, concernenti sia le circostanze di fatto aggiuntive che la Commissione avrebbe introdotto in sede di memoria di replica a sostegno della censura in questione, sia — e soprattutto— una lamentata modifica delle conclusioni, che avrebbe comportato un ampliamento delle stesse. Quanto ai fatti citati dalla Commissione per la prima volta in sede di replica, vale a dire le «presunte» trattative intercorse fra la Storebælt e l'ESG e da cui sarebbero scaturite disposizioni del contratto definitivo incompatibili con clausole del capitolato d'oneri ( 12 ), valgano le stesse considerazioni già svolte in relazione alla censura sulla riserva danese. In conformità alla già richiamata giurisprudenza della Corte, è infatti da escludere che la Commissione possa invocare a sostegno della censura in esame fatti non contestati nella fase precontenziosa. Più delicato si rivela invece l'esame relativo alla riformulazione delle conclusioni. Invero, la Commissione ha inizialmente contestato al governo danese la circostanza che la Storebælt avrebbe condotto delle trattative con la ESG sulla base di un'offerta non conforme all'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri. Nella replica la Commissione ha poi riformulato tali conclusioni, sostenendo che, basandosi su di un'offerta non conforme al capitolato d'oneri, la Storebælt avrebbe condotto con la ESG trattative dalle quali sarebbe risultato l'inserimento nel contratto finale di modifiche delle condizioni della gara d'appalto in favore unicamente di detta impresa offerente e relative, in particolare, ad elementi determinanti ai fini dei prezzi. Inoltre, la Commissione ha aggiunto un esplicito riferimento al principio della parità di trattamento in quanto fondamento della direttiva 71/305, mentre nelle conclusioni quali formulate nell'atto introduttivo del giudizio si era riferita, in particolare, al titolo IV di tale direttiva. Il governo danese sostiene che la riformulazione delle conclusioni su tale punto costituirebbe un ampliamento delle stesse e si richiama alla costante giurisprudenza della Corte secondo cui una parte non può modificare l'oggetto del contendere in corso di istanza e che, conseguentemente, la fondatezza del ricorso deve essere valutata unicamente con riguardo alle conclusioni contenute nell'atto introduttivo ( 13 ). Inoltre, sempre ad avviso del governo resistente, le conclusioni così come riformulate sarebbero fondate su una nuova base giuridica, cioè il principio di parità di trattamento cui si ispirerebbe la direttiva. Un siffatto modo di procedere non sarebbe accettabile in quanto comporterebbe una violazione delle prerogative della difesa, non avendo avuto lo Stato convenuto la possibilità di pronunciarsi al riguardo nei tempi e nelle forme prescritte. |
|
13. |
Dirò subito che non ritengo di poter condividere una tale tesi. In primo luogo, come riconosciuto dallo stesso governo danese, una riformulazione delle conclusioni è legittima qualora tenda a delimitare, nel senso di «restringere», le conclusioni. Ed è appunto questa, a mio avviso, la situazione nel caso che ci occupa, nella misura in cui la Commissione, non contestando più, in generale, che le trattative siano state condotte sulla base di un'offerta non conforme al capitolato d'oneri, ma lamentando che le stesse avrebbero avuto ad oggetto una clausola inderogabile del capitolato d'oneri ed avrebbero condotto a risultati in aperto contrasto con il principio ispiratore della direttiva 71/305 — la parità di trattamento tra offerenti — sostanzialmente finisce col delimitare e limitare la portata della censura così come formulata nel parere motivato. Quanto poi alla tesi secondo cui il principio della parità di trattamento costituirebbe una nuova base giuridica, osservo anzitutto che, se è vero che un tale principio è stato inserito materialmente nelle conclusioni per la prima volta in sede di replica, è altresì vero che già nella fase precontenziosa la Commissione aveva contestato al governo danese di aver violato un tale principio. In particolare, ricordo che nel parere motivato la Commissione ha espressamente affermato che il fatto di aver condotto delle trattative sulla base di un'offerta non conforme al capitolato d'oneri «infringed the principle of equal treatment of all contractors which lies at the heart just as much of national laws in the field of procurement as of Council Directive 71/305». Ne consegue, pertanto, che il governo danese ha avuto modo di esprimere le proprie osservazioni su un tale aspetto, come risulta peraltro sia dalla risposta al parere motivato che dal controricorso. |
|
14. |
Ciò detto, passo ad esaminare nel merito una tale censura. È opportuno anzitutto richiamare il contenuto dell'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri, vale a dire il tenore della clausola alla quale l'ESG non si sarebbe conformata nel presentare la propria offerta. Ai sensi di tale disposizione il prezzo indicato per un'offerta alternativa deve comprendere i costi dell'elaborazione particolareggiata del progetto presentato dall'offerente al committente ai fini della sua accettazione; inoltre, l'offerente stesso deve assumersi integralmente la responsabilità della realizzazione e dell'esecuzione del progetto medesimo, ivi compreso il rischio inerente alle variazioni quantitative insite nell'offerta alternativa. Lo stesso art. 3, n. 3, prevede poi che l'offerente è tenuto ad indicare, per il caso in cui il committente decida di provvedere direttamente all'elaborazione particolareggiata del progetto, la riduzione applicabile al prezzo del progetto. In tal caso, la responsabilità della concezione del progetto ed i rischi inerenti alle variazioni quantitative, nei limiti in cui siano conseguenza dell'elaborazione particolareggiata del progetto, sono a carico del committente. Ora, l'offerta alternativa presentata dalla ESG, consistente in un ponte in cemento armato, prevedeva al punto 6.1. (offerta attuale) che il committente si facesse carico dell'elaborazione particolareggiata del progetto e si assumesse integralmente la responsabilità della realizzazione dello stesso progetto, nonché il rischio inerente alle variazioni quantitative. Come variante, l'ESG proponeva, al punto 6.2. dell'offerta, di procedere essa stessa all'elaborazione del progetto con un costo supplementare di 42 milioni di corone; anche in tal caso, tuttavia, l'offerente in questione riteneva che dovesse essere il committente ad assumersi la responsabilità della realizzazione del progetto ed il rischio inerente alle variazioni quantitative, rischio valutato all'incirca in 5 milioni di corone. |
|
15. |
La non conformità all'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri, di una tale offerta mi sembra risultare in maniera inequivoca dalla stessa formulazione del punto 6.2. La tesi del governo danese, secondo cui l'assunzione — da parte del committente — della responsabilità dell'esecuzione del progetto e dei rischi inerenti alle variazioni quantitative si riferirebbe solo all'ipotesi in cui sia lo stesso committente a farsi carico dell'elaborazione del progetto, è peraltro contraddetta dalla stessa Storebælt, come risulta dalla nota 21 giugno 1989 allegata alla risposta del governo danese alla richiesta di chiarimenti da parte della Commissione ( 14 ). In ragione della non conformità di una tale offerta al capitolato d'oneri, la Commissione ha inizialmente sostenuto che il fatto stesso che la Storebælt l'abbia presa in considerazione, nonché avviato le trattative su tale base, costituirebbe una violazione del principio della parità di trattamento quale si evince dal titolo IV della direttiva 71/305. In particolare, la Commissione, pur riconoscendo che le imprese offerenti possano inserire riserve nelle loro offerte, ritiene che una tale facoltà trovi un limite nelle prescrizioni fondamentali del capitolato d'oneri, tra cui sicuramente rientrerebbe l'art. 3, n. 3. Ne deriva che la Storebælt non avrebbe proceduto ad una comparazione obiettiva di offerte presentate in condizioni identiche, con l'ulteriore conseguenza che l'ultima fase della procedura di aggiudicazione non si sarebbe svolta regolarmente nei confronti delle altre imprese offerenti. In sede di replica, come si è già detto, la Commissione ha poi precisato la censura in questione, affermando che le trattative tra l'ESG e la Storebælt sarebbero incompatibili col diritto comunitario nella misura in cui avrebbero avuto un'incidenza sui prezzi. |
|
16. |
Invero, come si è appena evidenziato, l'ESG si era impegnata a provvedere all'elaborazione particolareggiata del progetto per un importo fisso di 42 milioni di corone, ma non si era impegnata ad assumere né la responsabilità né i rischi relativi alla progettazione. Queste condizioni sono dunque necessariamente state oggetto di trattative e lo stesso deve presumersi anche in relazione al rischio inerente alle variazioni quantitative. Dato il rifiuto del governo danese di fornire alla Commissione i documenti concernenti le trattative in questione ( 15 ), non è possibile indicare in che modo la Storebælt abbia valutato le riserve in parola e fissato i relativi prezzi. Resta, tuttavia, che talune condizioni del capitolato d'oneri sono state modificate nel corso delle trattative, con la conseguenza — data la natura stessa di tali condizioni — che il prezzo d'appalto, quale fissato nell'offerta, ne è risultato modificato. Inoltre, come risulta dai documenti presentati dalla Commissione, il contratto concluso con la ESG prevede una limitazione della responsabilità a 300 milioni di corone, nonché un limite temporale della stessa a 6 anni: e ciò in evidente contrasto non solo con l'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri, in base al quale l'imprenditore deve assumersi integralmente la responsabilità della realizzazione e dell'esecuzione del progetto, ma anche e soprattutto in violazione del principio della parità di trattamento: è chiaro infatti che gli altri offerenti hanno fissato il prezzo d'appalto tenendo conto del fatto di assumersi l'intera responsabilità dei lavori. Quanto poi al rischio delle variazioni quantitative, il contratto prevede un importo fisso di 5 milioni di corone, corrispondente alla stima fatta dall'ESG nella variante all'offerta: è chiaro dunque che le trattative in questione hanno avuto un'incidenza sui prezzi. Tutti questi elementi non possono non condurre alla conclusione che le condizioni dell'aggiudicazione, quali stabilite nelle condizioni dél capitolato d'oneri (e per quanto qui rileva nell'art. 3, n. 3), sono state modificate a favore di uno solo degli offerenti. Ne consegue, in definitiva, che in tal modo sono state falsate le condizioni di concorrenza tra gli offerenti e dunque violato il principio di parità di trattamento tra gli offerenti stessi. |
|
17. |
Il governo danese obietta tuttavia che la maggiorazione del prezzo sarebbe del tutto proporzionata rispetto al costo totale dell'opera in questione e che, comunque, i fatti contestatigli dalla Commissione non sarebbero disciplinati dal diritto comunitario; in particolare, la possibilità di accettare offerte che prevedono riserve e la facoltà per il committente di condurre trattative con le imprese offerenti sarebbero disciplinate da norme nazionali. Esso insiste quindi sul fatto che la direttiva 71/305 non disciplina lá questione dei limiti entro i quali possono svolgersi le trattative e che il pertinente diritto nazionale sarebbe stato applicato senza alcuna discriminazione tra i diversi offerenti. Al riguardo, dirò subito che non mi sembra meriti particolari commenti l'affermazione del governo danese secondo cui «on ne peut inférer de la directive 71/305 une règle imposant aux Etats membres des obligations supérieures aux exigences du droit danois en matière de marchés publics en ce qui concerne le fait de ne pas prendre en considération une offre comportant une réserve ou de s'abstenir absolument de toute négociation» ( 16 ). Va da sé, infatti, che nella misura in cui le norme danesi si rivelassero incompatibili con il diritto comunitario, sarebbe quest'ultimo ad avere la prevalenza. Né, d'altra parte, riesco a cogliere il senso della censura, rivolta dallo stesso governo alla Commissione, per aver quest'ultima interpretato la direttiva come ispirata al principio della parità di trattamento. Sarebbe quantomeno singolare ritenere che tale principio, in quanto non codificato espressamente in alcuna delle disposizioni della direttiva in questione, sia estraneo alla direttiva stessa, quando lo scopo di quest'ultima è viceversa proprio quello di garantire, anzitutto e soprattutto, l'uguaglianza tra tutti i partecipanti ad una procedura di aggiudicazione. |
|
18. |
Invero, è certo che la direttiva 71/305 non contiene alcuna norma specifica sulle riserve, né tantomeno codifica espressamente il principio della parità di trattamento; ciò non implica, tuttavia, che il diritto nazionale possa disciplinare tutte le vicende connesse alla materia degli appalti senza tener conto di un così fondamentale principio. E francamente stupisce che le parti abbiano sprecato così tante energie per dimostrare e, rispettivamente, contestare che il principio della parità di trattamento sia o meno alla base della direttiva 71/305. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare, infatti, che nell'ambito di una gara d'appalto, proprio perché di gara trattasi, dovrà necessariamente essere garantita l'uguaglianza di tutti i partecipanti alla gara medesima: diversamente non di una gara d'appalto si tratterebbe, quanto piuttosto di una trattativa (...) privata. Insomma, la parità di trattamento è alla base di qualunque disciplina degli appalti in quanto è l'essenza stessa di una gara d'appalto. Peraltro, sia i considerando della direttiva 71/305 che le sue disposizioni, complessivamente considerate, sono più che indicative in proposito. Basti qui ricordare che è espressamente affermato che l'elaborazione di criteri obiettivi di partecipazione costituisce uno dei principi fondamentali il cui rispetto deve essere assicurato nell'ambito delle procedure di aggiudicazione (terzo considerando); che le offerte devono essere presentate in conformità alle condizioni prescritte nel bando di gara, allo scopo di assicurare «lo sviluppo di una concorrenza effettiva»: e ciò a maggior ragione nell'ambito di procedure ristrette (penultimo considerando). |
|
19. |
Quanto poi alla dichiarazione comune del luglio 1989 ( 17 ), allegata alla direttiva 89/440 del Consiglio ( 18 ), dichiarazione in base alla quale nelle procedure aperte o ristrette è esclusa qualsiasi trattativa con gli offerenti vertente su elementi fondamentali dei contratti la cui variazione possa falsare la concorrenza, in particolare sui prezzi, non mi sembra possa accogliersi la tesi del governo danese secondo cui si tratterebbe di una dichiarazione non avente alcuna portata giuridica e che comunque, in quanto successiva ai fatti di causa, non avrebbe alcun valore rispetto al presente procedimento. Né ritengo, date le osservazioni che precedono, che il governo danese possa avvalersi dell'affermazione della Corte, nella sentenza Antonissen ( 19 ), secondo cui la rilevanza di una dichiarazione dipende dal contenuto della dichiarazione medesima e dal fatto se essa trovi riscontro nel testo della disposizione cui si riferisce. È infatti indubbio, a mio avviso, che la citata dichiarazione sia meramente dichiarativa, essendo il principio della parità di trattamento tra offerenti, principio che nel settore che ci occupa ha come scopo — in particolare — di garantire che non sia falsata la concorrenza tra i partecipanti alla gara d'appalto, il fondamento stesso della regolamentazione qui considerata. Un'ultima osservazione. La circostanza fatta valere dal governo resistente, secondo cui il diritto nazionale in materia di aggiudicazione sarebbe stato applicato senza discriminazione alcuna rispetto a tutti i partecipanti alla gara d'appalto, pone la questione del se, in tal caso, possa ritenersi violato il divieto di discriminazione quale stabilito dalla direttiva 71/305. Personalmente non ho alcun dubbio al riguardo: se, come nel caso di specie, la normativa danese in materia di appalti è tale che — anche allorché applicata indiscriminatamente — si pone in contrasto con il principio della parità di trattamento quale si evince dalla direttiva 71/305 e quale riaffermato nella dichiarazione comune del luglio 1989, una tale normativa deve essere considerata incompatibile con il diritto comunitario. |
|
20. |
Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo pertanto alla Corte di accogliere il ricorso e di condannare lo Stato convenuto alle spese di giudizio. |
( *1 ) Lingua originale: l'italiano.
( 1 ) GU L 185, pag. 5.
( 2 ) V., da ultimo, sentenza 31 marzo 1992, causa C-52/90, Commissione/Danimarca (Race. pag. I-2187, punto 23 della motivazione).
( 3 ) V. sentenza 22 marzo 1983, causa 42/82, Commissione/Francia (Race. pag. 1013), nonché sentenza 4 febbraio 1988, causa 113/86, Commissione/Italia (Race. pag. 607).
( 4 ) V. pag. 44 della controreplica. In effetti, il governo danese ha espressamente riconosciuto che talune disposizioni del contratto, definite di carattere secondario, contengono ancora specificazioni della riserva danese.
( 5 ) Beninteso, anche in questo caso valgono i rilievi appena svolti: sarebbe infatti quantomeno illogico che il governo danese, che pure ha riconosciuto l'incompatibilità della riserva danese col diritto comunitario e ne ha pertanto chiesto la soppressione, consentisse poi che nel contratto definitivo fossero introdotte prescrizioni illecite delio stesso tipo.
( 6 ) Sentenza 31 marzo 1992, Commissione/Italia (Race. pag. I-2353).
( 7 ) Sentenza 31 marzo 1992, citata, punto 12 della motivazione.
( 8 ) Sentenza 15 gennaio 1986, causa 121/84, Commissione/Italia (Race. pag. 107, punto 10 della motivazione).
( 9 ) V., da ultimo, sentenza 18 marzo 1992, causa C-29/90, Commissione/Grecia (Race, pag 1971, punto 12 della motivazione).
( 10 ) Al riguardo, è sufficiente osservare che la Corte non lia mai contestato l'interesse della Commissione a veder condannato uno Stato membro per inadempimento: e ciò anche allorché l'inadempimento in questione fosse ampiamente riconosciuto dallo Stato membro e non si ponesse, all'evidenza, alcun problema di risarcibilità del danno.
( 11 ) V. sentenza 4 aprile 1974, causa 167/73, Commissione/Francia (Race. pag. 359, punto 15 della motivazione).
( 12 ) Nella memoria di replica la Commissione non si è infatti più riferita unicamente alle trattative concernenti la riserva posta dall'ESG rispetto all'art. 3, n. 3, del capitolato d'oneri, ma anche a trattative che sarebbero intercorse relativamente al prezzo unitario per la sabbia di riporto, alle penalità ed al recupero dei ritardi, al contributo in favore del mercato del lavoro, alla formula di adeguamento dei prezzi, ecc..
( 13 ) V. ad esempio, sentenza 14 ottobre 1987, causa 278/85, Commissione/Danimarca (Race. pag. 4069).
( 14 ) In tale nota la Storcbaclt, al fine di dimostrare clic l'offerta della ESG, nei termini indicati al punto 6.2. dell'offerta stessa, non avrebbe avuto alcuna incidenza sul risultato delle trattative, afferma infatti di non aver accolto la proposta dcll'ESG in base alla quale il committente avrebbe assunto «le risque lié à la conception du projet et aux quantités, même si l'entrepreneur effectuait cette conception».
( 15 ) Rifiuto motivato dal fatto che: a) si tratterebbe di documenti confidenziali; e b) ia Storebaelt non avrebbe avuto, in ogni caso, alcun obbligo di determinare il prezzo delle riserve in questione.
( 16 ) V. pag. 54 della controreplica del governo danese.
( 17 ) GU L 210, pag. 22.
( 18 ) Direttiva 18 luglio 1989 che modifica la direttiva 71/305/CEE che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici (GU L 210, pag. 1).
( 19 ) Sentenza 26 febbraio 1991, causa C-292/89 (Race. pag. I-745).