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Document 61994CC0013

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 14 dicembre 1995.
P contro S e Cornwall County Council.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Industrial Tribunal, Truro - Regno Unito.
Parità di trattamento tra uomini e donne - Licenziamento di un transessuale.
Causa C-13/94.

European Court Reports 1996 I-02143

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1995:444

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

GIUSEPPE TESAURO

presentate il 14 dicembre 1995 ( *1 )

1. 

Ancora una volta la Corte è chiamata a pronunciarsi sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro ( 1 ) (nel prosieguo: la «direttiva»).

La novità, non certo di poco conto, consiste nella circostanza che ad invocare la direttiva è un transessuale. I quesiti posti dall'Industrial Tribunal di Truro portano cosi all'attenzione della Corte il fenomeno del transessualismo sotto il profilo del divieto di discriminazioni in base al sesso: un transessuale che sia licenziato a motivo di tale sua condizione, in particolare in ragione e in occasione del mutamento di sesso, può utilmente invocare la direttiva?

Il contesto normativo, i fatti, i quesiti pregiudiziali

2.

Scopo della direttiva, quale enunciato nell'art. 1, n. 1, della stessa, è «l'attuazione negli Stati membri del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, ivi compresa la promozione, e l'accesso alla formazione professionale, nonché le condizioni di lavoro e, alle condizioni di cui al paragrafo 2, la sicurezza sociale. Tale principio è denominato qui appresso il “principio della parità di trattamento”».

Il successivo art. 2, n. 1, della direttiva afferma poi che «il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». L'applicazione di tale principio concerne, in particolare, «le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro» (art. 3, n. 1), nonché le «condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento» (art. 5, n.l).

3.

Quanto alla pertinente normativa nazionale, viene qui in rilievo il Sex Discrimination Act del 1975, che definisce come discriminazione diretta fondata sul sesso — e quindi vieta — il fatto di riservare alla donna, in ragione del suo sesso un trattamento meno favorevole di quello riservato ad un uomo (art. 1, lett. a). È inoltre previsto che le discriminazioni fondate sul sesso di cui siano considerate vittime le donne devono intendersi ugualmente valide per quanto riguarda il trattamento degli uomini, fatto salvo il trattamento speciale concesso alle donne in rapporto alle ipotesi di gravidanza e di puerperio (art. 2). Infine, va qui ricordato che il Sex Discrimination Act, definiti l'uomo e la donna come persone di sesso maschile o femminile di qualunque età, stabilisce che il confronto tra casi di persone di sesso o stato matrimoniale differente «presuppone che le circostanze rilevanti nell'un caso siano quelle rilevanti nell'altro, o comunque non siano sostanzialmente differenti» (art. 5).

Nessuna disposizione specifica è invece prevista per disciplinare la condizione dei transessuali, neppure dopo che abbiano subito un intervento chirurgico per il mutamento del sesso ( 2 ). Diversamente da quanto previsto in alcuni ordinamenti giuridici nazionali, nel Regno Unito ogni persona conserva il sesso, maschile o femminile, che aveva alla nascita: non è dunque possibile ottenere una modifica nei registri dello stato civile dell'attribuzione del sesso originario.

4.

E veniamo alla fattispecie, costituita dal licenziamento di un transessuale, licenziamento dovuto al cambiamento di sesso; più precisamente all'annuncio di sottoporsi ad un intervento chirurgico per adattare il sesso biologico (maschile) all'identità sessuale (femminile). Nel prosieguo, farò riferimento a tale persona, identificata come P. per ovvi motivi di anonimato, come ad una persona di sesso femminile; e ciò, lo evidenzio, indipendentemente non solo dal sesso originario (maschile), quale tuttora risulta dal suo atto di nascita, ma anche dal momento in cui, a seguito dell'intervento chirurgico conclusivo, ha effettivamente cambiato sesso dal punto di vista fisico.

5.

P. è stata assunta nell'aprile 1991 in qualità di amministratore presso un istituto d'insegnamento professionale, che, all'epoca dei fatti di causa, dipendeva dal Cornwall County Council, autorità amministrativa territorialmente competente. Un anno più tardi P. comunicava ad S., direttore e responsabile amministrativo dell'istituto in questione, la sua intenzione di sottoporsi ad intervento chirurgico per il mutamento di sesso S. in un primo momento si mostrava comprensivo e tollerante, rassicurandola sulla sua posizione all'interno dell'istituto, ma successivamente cambiava atteggiamento. Secondo la ricostruzione del giudice di rinvio, il mutato atteggiamento era essenzialmente dovuto all'opposizione dei membri del consiglio di amministrazione che, in una certa fase, prospettavano anche l'ipotesi che P. continuasse a lavorare per l'istituto in qualità di lavoratore autonomo.

P. intanto si sottoponeva, nell'estate del 1992, ai primi interventi in vista del suo nuovo stato, con la conseguenza che restava lontana dal luogo di lavoro per malattia. Ed è in questo periodo che maturava, da parte di S. e dei membri del consiglio di amministrazione, la decisione di licenziarla, decisione che le veniva comunicata con tre mesi di preavviso, con effetto dal 31 dicembre 1992. Contestualmente veniva chiesto a P. di completare, entro tale data, un certo numero di programmi specifici che essa stava organizzando. Allorché P. comunicava che sarebbe rientrata in ufficio nelle vesti di una persona di sesso femminile, le veniva tuttavia risposto che il completamento degli incarichi che le erano stati assegnati ben poteva essere svolto al suo domicilio, sicché non era necessario né previsto che essa frequentasse i locali dell'ufficio. In definitiva, il rapporto di lavoro di P. con l'istituto si interrompeva alla data prevista, senza che P. ritornasse più in ufficio.

6.

P. si sottoponeva all'intervento conclusivo di cambiamento del sesso in data 23 dicembre 1992, dunque prima che il licenziamento diventasse effettivo, ma successivamente alla comunicazione con cui, il 15 settembre 1992, l'interruzione del rapporto di lavoro le era stata annunciata. Il 13 marzo 1993 P. presentava ricorso dinanzi all'Industriai Tribunal di Truro, adducendo di essere vittima di una discriminazione fondata sul sesso. Sia S. che il Cornwall County Council sostenevano invece che il licenziamento di P. era dovuto a motivi di esubero.

Il giudice nazionale investito della causa ha tuttavia accertato che, sebbene vi fosse effettivamente un esubero, il vero motivo del licenziamento era stato l'opposizione di S. e del Cornwall County Council all'intenzione di P. di sottoporsi ad un intervento per il cambiamento di sesso.

In definitiva, per la Corte il dato di partenza rilevante, in quanto accertato dal giudice a quo, è che P. è stata licenziata solo ed esclusivamente in ragione del mutamento di sesso, annunciato e poi, prima che il licenziamento avesse effetto, realizzato.

7.

L'Industriai Tribunal ritiene che il diritto inglese non fornisca alcuna risposta utile nella fattispecie ( 3 ) e che, in particolare, nessuna discriminazione a danno di P. sia rinvenibile sulla base del Sex Discrimination Act. Lo stesso giudice è tuttavia dell'avviso che la direttiva comunitaria sulla parità uomo-donna, in quanto fa riferimento alle discriminazioni «fondate sul sesso», possa consentire un'interpretazione più estensiva, tale da comprendere anche le discriminazioni a danno dei transessuali. Ed è appunto in tale prospettiva che esso chiede alla Corte:

«1)

Se, in considerazione dello scopo della direttiva del Consiglio 76/207/CEE, indicato nel suo art. 1 — attuare il principio di parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro ecc. — il licenziamento di un transessuale per motivi connessi al mutamento di sesso costituisca una violazione della direttiva.

2)

Se l'art. 3 della suddetta direttiva, relativo alla discriminazione fondata sul sesso, proibisca di discriminare un dipendente a causa della sua condizione di transessuale».

Transessualismo e diritto

8.

Anzitutto, cos'è il transessualismo? Lungi da me l'idea di avventurarmi in un terreno che presuppone ben altre conoscenze e approfondimenti. Ritengo preferibile, piuttosto, ricordare la definizione che ne dà una raccomandazione del Consiglio d'Europa, secondo cui «le transsexualisme est un syndrome caractérisé par une personnalité double, l'une physique, l'autre psychique, la personne transsexuelle ayant la conviction profonde d'appartenir à l'autre sexe, ce qui la pousse à demander que son corps soit “corrigé” en conséquence» ( 4 ).

Quanto alle cause di una tale condizione, la ricorrente ha presentato numerosi articoli di esperti, in cui si sostiene che esse vanno ricercate in disfunzioni biologiche, dunque presenti già al momento della nascita, ovvero in disfunzioni psicologiche legate all'ambiente. Il risultato è comunque lo stesso: una mancata coincidenza tra sesso biologico e identità sessuale ( 5 ). Basti peraltro, in questa sede, rilevare la circostanza che gli studi in materia di transessualismo hanno raggiunto risultati di estremo interesse, in ogni caso tali da sfatare vecchi tabù e pregiudizi del tutto immotivati, spostando l'attenzione dalla dimensione morale del problema, del tutto riduttiva e a volte fuorviarne, ad una rigorosamente medica e scientifica.

9.

Ciò che mi preme qui sottolineare è invece che il fenomeno del transessualismo, sia pure non rilevantissimo dal punto di vista statistico ( 6 ), costituisce oggi una realtà, discussa in seno a diverse istanze, non solo scientifiche ma anche giuridiche, in particolare sotto il profilo dei diritti fondamentali della persona ( 7 ). Il diritto, dunque, si confronta — ed è destinato a confrontarsi in misura sempre maggiore — con tale realtà. Né potrebbe essere diversamente. Nella società attuale, in cui si assiste ad una rapida trasformazione dei costumi e della morale, in cui la tutela delle libertà riservate ai cittadini è sempre più ampia e profonda, in cui gli studi sociali e giuridici si arricchiscono sempre più di valori attuali e per ciò stesso reali, ispirandosi così al principio dell'effettività, non sarebbe giustificato rifiutare aprioristicamente il problema del transessualismo — che certo resta valutabile moralmente in piena autonomia — o addirittura condannarlo e considerarlo non conforme al diritto.

A mio avviso, il diritto non può isolarsi dalla realtà sociale e non può non adattarsi ad essa nel più breve tempo possibile. Altrimenti, c'è il rischio di imporre punti di vista superati e di assumere così un ruolo statico. Il diritto, in quanto teso a disciplinare la vita di relazione, deve invece adeguarsi all'evoluzione sociale, deve dunque essere in grado di disciplinare situazioni nuove, quali messe in luce da quella evoluzione e dallo stesso progresso scientifico. In tale prospettiva è indubbio, per quanto qui rileva, che il principio della pretesa indisponibilità dello stato civile è superato nei fatti; e lo è nella misura e a partire dal momento in cui l'indisponibilità amministrativo-burocratica del sesso non corrisponde più, se non altro a motivo del progresso scientifico registratosi in materia, all'immutabilità dello stesso.

10.

Un rapido sguardo alla situazione esistente in materia nei diversi Stati della Comunità mostra invero una chiara tendenza, riscontrabile soprattutto a partire dagli inizi degli anni ottanta, ad un riconoscimento sempre più ampio del fenomeno in questione, vuoi per via legislativa, vuoi per via giurisprudenziale. Tale riconoscimento si estrinseca in primo luogo nell'accettazione del mutamento di sesso, nel senso preciso che gli interventi chirurgici effettuati a tal fine risultano oramai consentiti, sia pure con modalità diverse, in quasi tutti gli Stati ( 8 ). In secondo luogo, alla liceità di tale tipo di intervento si accompagna normalmente l'autorizzazione, ancora con modalità diverse, alla rettifica del sesso nei registri dello stato civile, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Una risposta giuridica al problema del transessualismo è stata apportata in alcuni Stati attraverso l'adozione di normative ad hoc. È questo il caso, per quanto riguarda Stati membri della Comunità, della Svezia ( 9 ), della Repubblica federale di Germania ( 10 ), dell'Italia ( 11 ) e dei Paesi Bassi ( 12 ). Le leggi in questione autorizzano i transessuali a rettificare il loro atto di nascita in modo da ricomprendervi la menzione della nuova identità sessuale, con la conseguenza che essi hanno diritto a sposarsi, ad adottare bambini e a beneficiare dei diritti a pensione conformemente alla loro nuova identità sessuale.

L'assenza, negli altri Stati membri, di leggi specifiche in materia non significa che la situazione dei transessuali sia ignorata. Infatti, in alcuni Stati la base per la liceità degli interventi chirurgici sui transessuali e per il conseguente riconoscimento del cambiamento di stato civile è costituita da leggi di per sé estranee al problema del transessualismo ( 13 ). Nella maggior parte degli altri Stati il problema è invece risolto caso per caso dalla giurisprudenza ( 14 ); o anche, e molto più semplicemente, a livello amministrativo ( 15 ).

11.

Il fenomeno del transessualismo è stato peraltro affrontato anche dalla Commissione e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, sotto il duplice profilo della violazione del rispetto alla vita privata (art. 8 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) e della violazione del diritto a contrarre validamente matrimonio (art. 12 della stessa Convenzione).

La strada è stata aperta da una decisione della Commissione europea dei diritti dell'uomo, che nel 1979, all'unanimità, si è pronunciata nel senso che il rifiuto dello Stato belga di prevedere misure volte a tener conto, nel registro dello stato civile, di modifiche del sesso legittimamente intervenute costituiva una violazione del rispetto della vita privata di cui all'art. 8, n. 1, della Convenzione ( 16 ).

12.

L'approccio della Corte europea dei diritti dell'uomo, chiamata a pronunciarsi sulla violazione degli arti. 8 e 12 della Convenzione da parte del Regno Unito, è stato invero diverso. Nel caso Rees, essa ha infatti ritenuto che si dovesse «rimettere allo Stato convenuto il compito di determinare sino a che punto esso possa venire incontro alle richieste dei transessuali ancora senza risposta. Questa Corte è comunque consapevole della gravità dei problemi che affliggono queste persone e dei disagi che patiscono. La convenzione dev'essere sempre interpretata e applicata alla luce della situazione generale. (...). La necessità di misure giuridiche adeguate dovrebbe pertanto essere oggetto di particolare attenzione, con particolare riguardo agli sviluppi scientifici e sociali» ( 17 ). Stessa soluzione è stata poi adottata in relazione al caso Cossey ( 18 ).

Nel successivo caso B. e. Francia, la Corte di Strasburgo ha invece condannato la Francia, affermando che l'impossibilità per la ricorrente, che si era sottoposta nel 1972 ad intervento per diventare donna (anche) dal punto di vista sessuale, di farsi attribuire un nome femminile, nonché la stessa circostanza di non poter cambiare stato civile, costituivano una violazione dell'art. 8, n. 1, della Convenzione ( 19 ). Nel pervenire a una tale conclusione — e pur distinguendo il caso B. dai casi Rees e Cossey ( 20 ) — la Corte europea non ha mancato di precisare che la mentalità in materia è cambiata, che vi sono stati sviluppi della scienza medica e che i problemi legati al fenomeno del transessuahsmo hanno acquisito un'importanza sempre maggiore.

13.

L'analisi che precede dimostra che attualmente l'intervento chirurgico «transessuale» è considerato conforme al diritto, anche in quei Paesi che ancora non consentono di farvi corrispondere un cambiamento dello stato civile. Questo solo dato sta già a significare che il diritto, sulla scorta dell'evoluzione scientifica e sociale registratasi in materia, presta una sempre maggiore attenzione al fenomeno del transessuahsmo, disciplinandone quegli aspetti che sono suscettibili di avere riflessi importanti nella vita di relazione. Lo conferma, come si è visto, la circostanza che nella maggior parte degli ordinamenti giuridici nazionali il cambiamento di stato civile è comunque ammesso, vuoi in virtù di leggi specifiche, vuoi grazie all'intervento, caso per caso, del giudice.

Resta ancora da chiedersi se si possa configurare una tutela giuridica delle persone che abbiano cambiato sesso o che vivono la fase del cambiamento, allorché, precisamente e solo a motivo di tale condizione, sono oggetto di discriminazioni o comunque di trattamento sfavorevole nel mondo del lavoro, trattamento che può addirittura consistere, come nel caso che ci occupa, nel licenziamento.

Le risposte ai quesiti

14.

Il giudice di rinvio chiede infatti alla Corte di stabilire se, tenuto conto dello scopo della direttiva, quale enunciato al suo art. 1, il licenziamento di un transessuale in ragione del mutamento di sesso costituisca una discriminazione vietata dalla direttiva stessa; nonché, più in generale, se l'art. 3, n. 1, debba essere interpretato in modo da comprendere, relativamente alle condizioni di lavoro, anche le discriminazioni a danno dei transessuali.

Il presupposto da cui parte il giudice è che la direttiva, e in particolare l'art. 3, n. 1, in quanto postula «l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso» ( 21 ), non comprenderebbe, almeno non comprenderebbe necessariamente, la sola idea della discriminazione tra una persona di sesso maschile e una di sesso femminile, ma ben potrebbe essere interpretata in modo da comprendere anche le discriminazioni a danno dei transessuali.

15.

Osservo anzitutto che le disposizioni rilevanti nella specie sono piuttosto l'art. 2, n. 1, della direttiva, che impone in termini generali il divieto di discriminazioni fondate sul sesso; nonché l'art. 5, n. 1, della stessa direttiva, che vieta, più precisamente, le discriminazioni fondate sul sesso per quanto riguarda le condizioni inerenti al licenziamento. La domanda del giudice va pertanto riformulata in tal senso.

Ciò premesso, si tratta comunque di stabilire se il licenziamento di un transessuale, dovuto al cambiamento di sesso, rientri nel campo di applicazione del diritto comunitario, più precisamente della direttiva sulla parità di trattamento uomo-donna.

16.

Se è ben vero che la direttiva esige l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, è altresì pacifico che il principio della parità di trattamento, quale in essa sancito, è testualmente riferito alla dicotomia tradizionale uomo-donna.

Per verificare se la direttiva possa essere, così come suggerito dal giudice di rinvio, interpretata in modo da comprendere anche le discriminazioni a danno dei transessuali, occorre comunque, e in primo luogo, stabilire se il trattamento sfavorevole riservato ai transessuali costituisca una discriminazione fondata sul sesso. Si tratterà poi di valutare se l'espressione «discriminazione fondata sul sesso» comprenda unicamente le discriminazioni uomo-donna ovvero, più in generale, tutti i trattamenti sfavorevoli connessi al fattore sesso.

17.

Comincio col ricordare la tesi, sostenuta con sempre maggiore forza in ambienti medico-scientifici, secondo cui occorrerebbe andare oltre la classificazione tradizionale e riconoscere che, al di là della dicotomia uomo-donna, vi è un ventaglio di caratteristiche, di comportamenti e di ruoli che partecipano dell'uomo e della donna, sicché il sesso dovrebbe piuttosto essere considerato come un continuum. In tale prospettiva, è evidente che non sarebbe lecito continuare a sanzionare esclusivamente le discriminazioni fondate sul sesso che siano riferibili all'uomo e alla donna nel senso tradizionale dei termini, rinunciando invece a tutelare coloro che, precisamente a motivo del loro sesso e/o della loro identità sessuale, sono trattati ugualmente in modo sfavorevole.

La tesi appena prospettata, invero suggestiva, presuppone una ndefimzione del sesso che merita approfondimenti in sedi più idonee; sicché non è questa la strada che vi propongo di seguire. Mi rendo ben conto che da sempre ci si è limitati a constatare il sesso, senza che il diritto dovesse intervenire per definirlo. Il diritto non ama le ambiguità e ragiotiare in termini di Adamo ed Eva è certo più semplice.

Ciò detto, ritengo comunque superata l'idea che il diritto prenda in considerazione e tuteli una donna discriminata rispetto ad un uomo, così come l'ipotesi inversa, ma neghi quella stessa tutela a chi, comunque in ragione del sesso, sia ugualmente discriminato: e ciò solo perché non rientra nella classificazione tradizionale uomo-donna.

18.

L'obiezione è fin troppo scontata ed è stata proposta a più riprese nel corso della presente procedura: mancherebbe l'elemento della discriminazione tra i sessi, atteso che il «transessuale donna» non è trattato diversamente dal «transessuale uomo». In definitiva, entrambi sono trattati sfavorevolmente, dunque non ci sarebbe discriminazione alcuna. Uno sguardo alla giurisprudenza nazionale in materia conferma tale punto di vista ( 22 ), sia pure con qualche eccezione ( 23 ).

Una tale prospettiva non riesce a convincermi. È ben vero, infatti, che anche se P. si fosse trovata nella situazione inversa, fosse cioè passata dal sesso femminile a quello maschile, non è escluso che sarebbe stata licenziata comunque. Un dato è tuttavia non possibile, ma certo: P. non sarebbe stata licenziata se fosse rimasta uomo.

Come dunque affermare che non si tratta di una discriminazione fondata sul sesso? Come rifiutare che il fattore discriminante consiste precisamente e solo nel sesso? A mio avviso, allorché il trattamento sfavorevole destinato al transessuale è connesso al (o, meglio, è determinato dal) mutamento di sesso, si è in presenza di una discriminazione in ragione del sesso o, se si preferisce, fondata sul sesso.

19.

In proposito non posso non ricordare che il divieto di discriminazioni in base al sesso è un aspetto del principio di uguaglianza, principio che richiede non vengano presi in considerazione fattori discriminanti: principalmente il sesso, la razza, la lingua, la religione. Ciò che conta è che, a parità di situazioni, vi sia un pari trattamento degli individui.

Il principio di eguaglianza vieta dunque di fondare le disparità di trattamento tra individui su taluni fattori differenziami; e tra questi appunto il sesso. Ciò significa che il sesso, in quanto tale, non può e non deve venire in rilievo per influenzare in un modo o nell'altro il trattamento, ad esempio, dei lavoratori. È, questa, la stessa logica alla base delle mie conclusioni relative alla causa Kalanke ( 24 ), in cui, lo ricordo, mi sono pronunciato contro le quote a favore delle donne ai fini delle assunzioni e delle promozioni: e ciò perché ritengo che il principio di non discriminazione in base al sesso consenta unicamente quelle deviazioni che, in quanto tese al raggiungimento di una uguaglianza sostanziale, siano giustificate dallo scopo di assicurare un'effettiva parità tra persone.

Nella specie, si richiede almeno una rigorosa applicazione del principio di eguaglianza, senza dunque che possano rilevare, in alcun modo, connotazioni collegate al sesso e/o all'identità sessuale. D'altra parte, per giustificarne la rilevanza, sarebbe ben difficile sostenere, e comunque non è stato dedotto, che le capacità e il ruolo della persona di cui si tratta abbiano subito delle modifiche in senso negativo a causa del mutamento di sesso.

20.

A ciò si aggiunga che, ai fini che qui interessano, il sesso rileva come convenzione, come parametro sociale. Le discriminazioni di cui sono spesso vittime le donne non sono certo dovute ai loro caratteri fisici, bensì al ruolo, all'immagine che la società ha della donna. Il trattamento meno favorevole trova dunque la sua ragion d'essere nel ruolo sociale che si attribuisce all'essere donna e non certo nei caratteri fisici. Allo stesso modo deve riconoscersi che il trattamento sfavorevole subito dai transessuali è il più delle volte legato ad un'immagine negativa, ad un apprezzamento morale che nulla ha a che vedere con le loro capacità nel mondo del lavoro.

Una tale situazione è tanto più inaccettabile ove si considerino l'evoluzione sociale ed il progresso scientifico registratisi in materia negli ultimi anni. Se è vero dunque, come si è già detto, che i transessuali costituiscono una realtà non rilevantissima dal punto di vista statistico, è altresì vero che proprio per questo urge nei loro confronti almeno un minimo di tutela. In tale ottica, affermare che il trattamento sfavorevole subito da P. non è fondato sul sesso perché dovuto al cambiamento di sesso ovvero perché non può parlarsi, in tale ipotesi, di discriminazione tra i due sessi, sarebbe un cavilloso formalismo ermeneutico che tradisce la sostanza vera di quel valore fondamentale e irrinunciabile che è l'eguaglianza.

21.

Resta da verificare se una direttiva testualmente diretta a garantire l'eliminazione delle discriminazioni uomo-donna possa ricomprendere anche i trattamenti sfavorevoli di cui sono oggetto i transessuali. In altre parole, in assenza di una legislazione ad hoc, che prenda espressamente in considerazione i transessuali, deve concludersi che i transessuali — una volta discriminati — sono sforniti di qualsivoglia tutela giuridica?

Al riguardo, non è priva di interesse una sentenza della Corte costituzionale tedesca, con cui si è riconosciuto — in assenza di una normativa in materia — il diritto dei transessuali al cambiamento di stato civile. In tale sentenza si afferma: «Certamente è nell'interesse della certezza del diritto che il legislatore venga a regolare le questioni dello stato giuridico personale collegate al mutamento del sesso e i loro effetti. Ma fin quando non ci sia una tale regolamentazione, i giudici non hanno un compito diverso da quello che scaturisce dal principio di eguaglianza dell'uomo e della donna anteriore all'entrata in vigore della legge che parifica ambedue» ( 25 ).

22.

Orbene, in primo luogo i transessuali non costituiscono certo una terza categoria sessuale, sicché dovrebbe già in via di principio ammettersi, considerato anche il prima ricordato riconoscimento del loro diritto all'identità sessuale ( 26 ), che sono coperti dalla direttiva.

In secondo luogo, osservo che la direttiva altro non è che una delle espressioni di un principio generale e di un diritto fondamentale. E qui ricordo che il rispetto dei diritti fondamentali fa parte dei principi generali dell'ordinamento comunitario di cui la Corte deve garantire l'osservanza; e che «è indubbio che Veliminazione delle discriminazioni fondate sul sesso fa parte di tali diritti fondamentali» ( 27 ).

23.

Posto in questi termini il problema, è fin troppo evidente, a mio avviso, che la direttiva, che risale al 1976, ha tenuto conto di quella che possiamo definire la realtà «normale» per il momento in cui è stata adottata. È del tutto naturale che essa non abbia tenuto conto espressamente di un problema e di una realtà che solo in quel periodo cominciavano ad essere «scoperti». Tuttavia, in quanto espressione di un principio più generale, in base al quale ognuno deve essere trattato senza che il sesso neppure venga in rilievo, la direttiva dovrebbe essere letta in una prospettiva più ampia, comprensiva dunque di tutte le situazioni nelle quali il sesso rileva come fattore discriminante.

Giova peraltro ricordare che la direttiva indica espressamente nella sua motivazione che «la parità di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile costituisce uno degli obiettivi della Comunità, in quanto si tratta in particolare di promuovere la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di Uvoro della manodopera» ( 28 ). La direttiva tende quindi, nell'ottica del raggiungimento degli obiettivi economici fissati da Trattato secondo criteri di giustizia sociale, essenzialmente a garantire la parità di trattamento tra lavoratori. In tale prospettiva, a me sembra fin troppo evidente che tutti i lavoratori, dunque anche coloro che abbiano cambiato sesso a seguito di un intervento chirurgico, hanno diritto a beneficiare della protezione accordata dalla direttiva: e ciò, lo ripeto, ogniqualvolta il sesso venga in rilievo come fattore discriminante.

In questo senso si è espresso anche il Parlamento europeo con una risoluzione sulla discriminazione dei transessuali del 9 ottobre 1989, in cui, tra l'altro, si «invitano la Commissione e il Consiglio a precisare che le direttive comunitarie sull'equiparazione di uomini e donne sul posto di lavoro vieta anche la discriminazione dei transessuali» ( 29 ). La stessa circostanza che il Parlamento chieda solo di precisare che le direttive comunitarie comprendono anche i transessuali implica che per tale istituzione i transessuali già dovrebbero poter godere della protezione garantita dalle direttive in questione.

24.

In definitiva, sono ben consapevole di chiedere alla Corte una scelta «coraggiosa». La chiedo, però, profondamente convinto che è qui in gioco un valore universale, fondamentale, scolpito a caratteri indelebili nelle moderne tradizioni giuridiche e nelle costituzioni dei Paesi più evoluti: l'irrilevanza del fattore sesso rispetto alla disciplina della vita di relazione. Chi crede in questo valore non può accettare l'idea che una normativa consenta di licenziare una persona perché donna, perché uomo, o perché da uno dei due sessi (quale che sia) passa all'altro con un'operazione, che costituisce — secondo le attuali conoscenze mediche — l'unico rimedio per ricomporre l'equilibrio tra caratteri somatici e psichici. Una diversa soluzione suonerebbe come una condanna morale, peraltro fuori del tempo, del transessualismo: e ciò quando il progresso scientifico e l'evoluzione sociale in materia offrono una dimensione del problema che certo trascende quella morale.

Mi rendo ben conto, lo ripeto, che nel diritto comunitario non c'è una precisa disposizione specificamente e testualmente destinata alla disciplina del problema: ma questa si deduce facilmente e chiaramente dai principi e dagli obiettivi del diritto sociale comunitario, dalla motivazione della direttiva che pone in rilievo «la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera», nonché dalla stessa giurisprudenza della Corte, sempre attenta e all'avanguardia nel garantire la tutela di soggetti sfavoriti. Così, ritengo anche che sarebbe un peccato mancare questa occasione per lasciare, con una scelta coraggiosa ma giusta e giuridicamente corretta, in quanto operata incontestabilmente sul fondamento e nella direzione del grande valore dell'eguaglianza, una traccia di sicuro spessore civile.

Ricordo infine, con le parole dell'avvocato generale Trabucchi in una conclusione che risale a ben venti anni or sono, che «se vogliamo che il diritto comunitario non sia soltanto una meccanica disciplina dell'economia, ma costituisca invece un ordinamento a misura della società che deve reggere, se vogliamo che sia un diritto rispondente all'idea di giustizia sociale e alle esigenze dell'integrazione europea al livello non solo dell'economia ma anche dei popoli, non possiamo deludere l'aspettativa, più che legittima, del giudice [nazionale]» ( 30 ).

25.

Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo pertanto alla Corte di rispondere come segue ai quesiti posti dall'Industrial Tribunal di Truro:

«Gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 76/207/CEE vanno interpretati nel senso che ostano al licenziamento di un transessuale in ragione del mutamento di sesso».


( *1 ) Lingua originale: l'italiano.

( 1 ) GU L 39, pag. 40.

( 2 ) È opportuno qui precisare che nel Regno Unito non è tuttavia richiesta alcuna formalità giuridica ai fini dell'intervento chirurgico volto a mutare sesso e che tutte le spese sono sopportate dal sistema nazionale di sicurezza sociale. A ciò si aggiunga che la legislazione del Regno Unito consente a ogni individuo di cambiare nome e di utilizzarlo senza alcuna restrizione o formalità, con la conseguenza che un transessuale non ha alcuna difficoltà a modificare il proprio nome e ad utilizzarlo su documenti quali la patente, il passaporto, il certificato di immatricolazione dell'auto, i documenti di sicurezza sociale e quelli fiscali. Per un quadro completo della situazione e dei diritti di cui godono i transessuali nel Regno Unito, v. Bradley: «Transsexualismc — L'idéologie, les principes juridiques et la culture politique», in Transsexualisme, medicine et droit, Actes du XXIII Colloque de droit européen, Vrije Universiteit Amsterdam, 14-16 avril 1993, 1995, pag. 63 ss.

( 3 ) In particolare, lo stesso giudice rileva che nella specie non è possibile valutare l'interruzione del rapporto di lavoro sotto il profilo del licenziamento senza giusta causa, atteso che a tal fine nel Regno Unito è richiesto che il rapporto di lavoro sia in corso da almeno due anni. Al momento del licenziamento P. lavorava presso l'istituto in questione da soli 20 mesi.

( 4 ) Raccomandazione 1117 del 29 settembre 1989, «relative à la condition des transsexuels», con cui peraltro viene chiesto al comitato dei Ministri di invitare gli Stati membri a legiferare in materia.

( 5 ) Per un approndimento di tali aspetti, v. Reed: «Aspects psychiatriques et psychologiques du transsexualisme»; nonché Gooren: «Aspects biologiques du transsexualisme et leur importance pour la réglementation en ce domaine», entrambi in Transsexualisme, médecine et droit, citato, rispettivamente pag. 25 ss. e pag. 123 ss.

( 6 ) Secondo i dati forniti dalla stessa ricorrente, attualmente in Europa vi sarebbero una persona di sesso maschile su 30000 e una di sesso femminile su 100000 che intendono cambiare sesso con un intervento chirurgico.

( 7 ) È questo il caso, ad esempio, della commissione parlamentare del Consiglio d'Europa, i cui lavori in materia hanno alla fine portato all'adozione della già citata Raccomandazione 1117 sulla condizione dei transessuali.

( 8 ) Al riguardo, vale ribadire che nello stesso Regno Unito, dove ancora non è possibile ottenere la rettifica della menzione del sesso nei registri dello stato civile, non solo l'intervento chirurgico «transessuale» c ammesso senza alcuna formalità giuridica, ma in più esso è interamente posto a carico del servizio nazionale di sicurezza sociale.

( 9 ) Legge del 21 aprile 1972 (SFS 1972, pag. 119). V. ne la traduzione francese nella Revue trimestrelle de droit civil, 1976, pag. 295 ss.

( 10 ) Legge del 10 settembre 1980 (BGBl. 1980 I, pag. 1654 ss.). La legge in questione, è interessante sottolinearlo, prevede sia la c.d. «piccola soluzione», che consiste nel consentire il cambiamento del nome, sia la c.d. «grande soluzione», che prevede invece l'intervento chirurgico volto al cambiamento del sesso.

( 11 ) Legge del 14 aprile 1982, n. 164 (GURI n. 106 del 19 aprile 1982, pag. 2879 ss.). Al riguardo, va precisato che, con sentenza del 24 maggio 1985, n. 161, la Corte costituzionale italiana ha respinto l'eccezione di incostituzionalità delle norme in materia di rettificazione del sesso (Foro it., I, 1985, col. 2162 ss.).

( 12 ) Legge del 24 aprile 1985 (Staatsblad 1985, pag. 243 ss.).

( 13 ) È questo il caso, ad esempio, della Danimarca, in cui viene applicata per analogia la legge dell'11 maggio 1935 (sic!) sulla castrazione volontaria. Alle persone autorizzate a sottoporsi ad intervento chirurgico sulla base di tale legge è poi riconosciuto in modo automatico il diritto al cambiamento di stato civile.

( 14 ) È questo il caso della Francia, del Belgio, della Spagna, del Portogallo, del Lussemburgo e della Grecia (invero in quest'ultimo Stato il cambiamento di stato civile è stato finora ammesso solo in relazione agli ermafroditi).

( 15 ) È questo il caso dell'Austria, in cui è ormai prassi costante, a partire dal 1981, che l'ufficiale di stato civile completi l'atto di nascita con la menzione del cambiamento di sesso, alla sola condizione che la persona in questione abbia effettivamente subito un intervento chirurgico, ciò che deve risultare da una relazione redatta da esperti dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Vienna.

( 16 ) D. Van Oosterwijck e. Belgio (domanda n. 7654/76), Rapporto della Commissione del 1o marzo 1979, pubblicato nel Rapport européen sur les droits de l'homme, 1981, pag. 557 ss.

( 17 ) Rees c. Regno Unito (2/1985/88/135), sentenza del 17 ottobre 1986, par. 47, Serie A, voi. 106.

( 18 ) Cossey e. Regno Unito (16/1989/176/232), sentenza del 27 settembre 1990, par. 42, Serie A, voi. 184.

( 19 ) B. e. Francia (57/1990/248/319), sentenza del 25 marzo 1992, par. 63, scric A, vol. 232-C.

( 20 ) In particolare, si è messo in luce che, a differenza del sistema vigente nel Regno Unito, in Francia il registro dello stato civile può essere modificato senza alcuna difficoltà. Al riguardo, v. inoltre quanto già precisato alla nota 2.

( 21 ) In questo senso dispone in termini generali, oltre all'art. 3, n. 1, della direttiva, anche l'art. 2, n. 1, della stessa.

( 22 ) Ricordo anzituto la sentenza White c. British Sugar Corporation del 1977 (IRLR, pag. 121), in cui un Industriai Tribunal inglese ha ritenuto inapplicabile il Sex Discrimination Act all'ipotesi di licenziamento di un transessuale donna, che non aveva subito alcun intervento per il mutamento di sesso ma che aveva ottenuto il posto di lavoro presentandosi come persona di sesso maschile. Numerose, poi, sono le sentenze di corti statunitensi al riguardo. Quasi tutte hanno ritenuto lecito il licenziamento di transessuali, argomentando che in tali casi non e rivenibile alcuna discriminazione basata sul sesso (v., ad esempio, Grossman c. Bernards Township Board of Education, 11 FEP Cases 1196, 1975; Kirkpatrick c. Scligman e Latz, 636 F 2d 1047, 1981; Sommers c. Budget Marketing, 667 F 2d 748, 1982; nonché Ulane c. Eastern Airlines, 35 FEP Cases 1348, 1984). Una menzione a parte merita il caso Holloway c. Arthur Andersen & Co. (566 F 2d 659, 1977), caso in tutto simile a quello che ci occupa, in cui si è ritenuto lecito il licenziamento di un transessuale per aver questi iniziato il trattamento per diventare donna.

( 23 ) In tal senso cito la sentenza di primo grado relativa al caso caso Ulane c. Eastern Airlines (35 FEP Cases 1332, 1984), in cui il tribunale ha ritenuto che il licenziamento di un'imfnegata a motivo del suo stato di transessuale equivale ad un icenziamento in ragione del sesso. Altra rilevante eccezione è costituita dal caso Richards c. United States Tennis Association (93 misc. 2d 713, 400 N.Y.S. 2d 267, 1977), relativo ad un tennista che, a seguito dell'intervento cui si era sottoposto per diventare (anche) fisicamente donna, chiedeva di gareggiare nei tornei femminili. La Corte suprema dello Stato di New York —nonostante l'opposizione dell'associazione tennistica, secondo cui la Richards, in quanto conservava una struttura muscolare maschile, sarebbe stata avvantaggiata — consentiva alla Richards di partecipare agli US Open femminili del 1977 (per completezza d'informazione rilevo che la Richards veniva battuta al primo turno dalla Wade per 6-1, 6-4).

( 24 ) Sentenza 17 ottobre 1995, causa C-450/93 (Race. pag. I-3051).

( 25 ) Bundesverfassungsgericht, 11 ottobre 1978, in NJW, 1979, pag. 595 ss..

( 26 ) V., in particolare, punti 10-13.

( 27 ) Sentenza 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrennc II (Race. pag. 1365, punto 27; il corsivo è mio). V. inoltre, da ultimo, sentenza 28 gennaio 1992, causa T-45/90, Speybrouck (Race. pag. II-33), in cui il Tribunale ha appunto riaffermato che «il principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne sul lavoro e, correlativamente, l'assenza di ogni discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso costituiscono parte integrante dei diritti fondamentali di cui la Corte e il Tribunale assicurano il rispetto in forza dell'art. 164 del Trattato CEE» (punto 47).

( 28 ) Terzo ‘considerando’; il corsivo è mio.

( 29 ) GU C 256, pag. 33; il corsivo è mio.

( 30 ) Conclusioni dell'avvocato generale Trabucchi nella causa 7/75, decisa con sentenza 15 giugno 1975, Coniugi F. (Race. 1975, pag. 691 ss., in particolare 696).

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