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Document 62018CC0567

Conclusioni dell’avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona, presentate il 28 novembre 2019.

Court reports – general

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2019:1031

 CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA

presentate il 28 novembre 2019 ( 1 )

Causa C‑567/18

Coty Germany GmbH

contro

Amazon Services Europe Sàrl,

Amazon FC Graben GmbH,

Amazon Europe Core Sàrl,

Amazon EU Sàrl

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania)]

«Rinvio pregiudiziale – Marchio dell’Unione europea – Effetti del marchio – Diritti conferiti dal marchio – Diritto di vietare a terzi lo stoccaggio dei prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio – Stoccaggio dei prodotti da parte di un terzo che ignora la violazione del diritto di marchio»

1. 

Nella sentenza Coty Germany ( 2 ), la Corte ha affrontato uno dei problemi sollevati dalle «piattaforme terze per la vendita su Internet dei beni [di lusso]» nel contesto di un sistema di distribuzione selettiva. In quella causa era dirimente la validità del divieto di servirsi di tali piattaforme (o di imprese terze per la vendita su Internet), imposto ai distributori autorizzati di taluni prodotti cosmetici allo scopo di preservare la loro immagine di lusso.

2. 

La stessa società che era all’origine di quella controversia (la Coty Germany GmbH) ha proposto dinanzi ai giudici tedeschi un’altra domanda riguardante il comportamento delle piattaforme di commercio elettronico, in particolare di una delle più note, Amazon. A suo avviso, alcune imprese del gruppo Amazon hanno violato il diritto del titolare di un marchio dell’Unione di vietare a terzi l’uso del segno ( 3 ). La violazione sarebbe stata commessa da dette imprese intervenendo, senza il consenso del titolare, nella vendita di un profumo tutelato dal marchio di cui la Coty Germany è licenziataria.

3. 

Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania), che deve risolvere in ultima istanza la controversia dopo la sentenza di primo grado e quella di appello, sottopone alla Corte i propri dubbi relativi all’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 207/2009 ( 4 ), che delimita i diritti del titolare del marchio dell’Unione europea ( 5 ).

I. Contesto normativo. Regolamento (UE) 2017/1001 ( 6 )

4.

Il regolamento 2017/1001 ha codificato e sostituito il regolamento n. 207/2009, applicabile all’epoca dei fatti. Il giudice del rinvio fa riferimento ad entrambi, sottolineando tuttavia che, data la natura dell’azione proposta, deve applicarsi quello attualmente in vigore. In ogni caso, la disposizione rilevante ai fini del presente procedimento ( 7 ) non ha subito modifiche sostanziali da un regolamento all’altro.

5.

L’articolo 9 («Diritti conferiti dal marchio UE») così dispone:

«1.   La registrazione del marchio UE conferisce al titolare un diritto esclusivo.

2.   Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando:

a)

il segno è identico al marchio UE ed è usato in relazione a prodotti e servizi identici ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio UE è stato registrato;

(...)

3.   Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2:

(...)

b)

l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;

(...)».

II. Fatti, procedimento dinanzi ai giudici nazionali e questione pregiudiziale

6.

La Coty Germany, che commercializza prodotti cosmetici in Germania, è titolare di una licenza avente ad oggetto il marchio dell’Unione europea «DAVIDOFF» per «profumeria, oli essenziali e cosmetici». In qualità di licenziataria, essa ha la facoltà (conferita dall’impresa titolare del marchio registrato) di esercitare in nome proprio i diritti derivanti da tale marchio.

7.

La Amazon Services Europe S.à.r.l. (in prosieguo: la «Amazon Services»), con sede in Lussemburgo, consente ai venditori terzi di pubblicare offerte dei loro prodotti sul sito Internet amazon.de. I contratti di vendita aventi ad oggetto i prodotti in tal modo immessi in commercio sono stipulati tra i venditori terzi e gli acquirenti.

8.

I venditori possono aderire al programma «Logistica di Amazon» ( 8 ), il quale prevede tanto lo stoccaggio dei prodotti presso centri logistici di imprese del gruppo Amazon quanto la spedizione dei prodotti agli acquirenti e altri servizi complementari.

9.

L’8 maggio 2014 un «mystery shopper» della Coty Germany ordinava sul sito Internet amazon.de un profumo «Davidoff Hot Water EdT 60 ml», offerto dalla sig.ra OE (in prosieguo: la «venditrice») con l’indicazione «Versand durch Amazon» («Logistica di Amazon»), in quanto la venditrice aveva aderito a detto programma.

10.

La Amazon Services aveva incaricato la Amazon FC Graben GmbH (in prosieguo: la «Amazon FC»), impresa del medesimo gruppo che gestisce un deposito di merci, con sede a Graben (Germania), di immagazzinare i prodotti della venditrice.

11.

Dopo essere venuta a conoscenza della vendita di tali prodotti, la Coty Germany intimava alla venditrice di cessarne l’offerta, affermando che il diritto di marchio del profumo non si era esaurito. La venditrice rispondeva rilasciando una dichiarazione di astensione, corredata di clausola penale in caso di inadempimento.

12.

Con lettera del 2 giugno 2014 la Coty Germany intimava alla Amazon Services di consegnare tutti i profumi «Davidoff Hot Water EdT 60 ml» della venditrice. La Amazon Services le faceva recapitare un pacco con trenta flaconi di tale profumo. Poiché un’altra impresa del gruppo Amazon aveva comunicato che undici dei trenta esemplari provenivano dalle scorte di magazzino di un altro venditore, la Coty Germany chiedeva alla Amazon Services di fornirle il nome e l’indirizzo di tale altro venditore e aggiungeva che in relazione a ventinove profumi su trenta il diritto non si era esaurito. La Amazon Services la informava che non sarebbe più stato possibile risalire all’impresa dal cui magazzino provenivano gli undici flaconi in questione.

13.

La Coty Germany, ritenendo che il comportamento della Amazon Services e della Amazon FC violasse il suo diritto di marchio, proponeva un’azione per ottenere la condanna di entrambe ad astenersi dall’effettuare lo stoccaggio o la spedizione di profumi a marchio «Davidoff Hot Water» ai fini della loro immissione in commercio (eventualmente da parte di terzi) in Germania.

14.

L’azione inibitoria riguardava i prodotti non commercializzati dal titolare del marchio o da terzi con il suo consenso, nel territorio nazionale nonché in qualsiasi altro Stato membro dell’Unione o parte dell’Accordo sullo Spazio economico europeo ( 9 ). Tale azione era accompagnata da una domanda risarcitoria (il risarcimento richiesto ammontava a EUR 1973,90, più gli interessi del 5% a decorrere dal 24 ottobre 2014).

15.

Sia la sentenza di primo grado che quella di appello ( 10 ) respingevano le domande della Coty Germany. Il giudice di appello sosteneva, in particolare, quanto segue:

La Amazon FC non aveva utilizzato il marchio controverso né aveva effettuato lo stoccaggio dei profumi allo scopo di offrirli o di immetterli in commercio, bensì li aveva semplicemente immagazzinati per conto della venditrice. Di conseguenza, non si poteva considerare che avesse commesso alcuna infrazione né imporle alcuna astensione rispetto ai profumi di cui trattasi. Poiché non risulta che essa sapesse che i diritti di marchio sul prodotto non erano esauriti, non le si potevano neppure imputare responsabilità di coautrice o complice nella violazione di tali diritti.

La Amazon Services non aveva effettuato lo stoccaggio dei prodotti della venditrice né spedito i prodotti controversi agli acquirenti, cosicché se ne doveva escludere a maggior ragione la responsabilità.

16.

Adito con ricorso per cassazione («Revision») avverso detta sentenza, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) rileva che, avendo la Coty Germany proposto un’azione inibitoria, che presuppone un rischio di reiterazione, il ricorso è fondato solo se gli atti delle resistenti possono configurare una violazione sia al momento della loro realizzazione sia al momento della decisione sul ricorso per cassazione.

17.

Orbene, il giudice del rinvio domanda se, alla luce dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001, una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio, senza avere conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo un terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti.

18.

Ad avviso del giudice del rinvio, si deve rispondere a tale questione in senso negativo, per i seguenti motivi:

Secondo la sua giurisprudenza in materia di brevetti, la semplice conservazione o il semplice trasporto di merce lesiva di un brevetto da parte di un depositario, trasportatore o spedizioniere non avvengono, di regola, ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio ( 11 ).

Non è legittimo aggirare i limiti della responsabilità di chi effettua lo stoccaggio, ai sensi dell’articolo 9 della legge nazionale sui brevetti, tramite l’attribuzione al detentore diretto dell’intento del detentore indiretto.

Tale considerazione è trasferibile al diritto dei marchi. Si dilaterebbero eccessivamente i limiti della responsabilità del detentore ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001 qualora, per la mera detenzione della merce lesiva, si attribuisse tale responsabilità al depositario che non abbia conoscenza della violazione.

19.

In tale contesto, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) sottopone alla Corte la seguente questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 207/2009 e dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001:

«Se una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo, senza aver conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

III. Procedimento dinanzi alla Corte

20.

L’ordinanza di rinvio è pervenuta alla cancelleria della Corte il 7 settembre 2018. Hanno presentato osservazioni scritte la Coty Germany, la Amazon Services e la Commissione europea. Tutte le suddette parti sono comparse all’udienza tenutasi il 19 settembre 2019, cui ha partecipato anche il governo della Repubblica federale di Germania.

IV. Analisi

A.   Ricevibilità della questione pregiudiziale

21.

La Coty Germany sostiene che la decisione di rinvio non rispecchia correttamente la situazione oggetto della controversia, il che la induce a mettere in discussione la ricevibilità della questione pregiudiziale, in considerazione della sua natura ipotetica. Il comportamento delle imprese Amazon Services e Amazon FC non corrisponderebbe a quello di un mero depositario o trasportatore delle merci: il loro intervento nei contratti relativi ai prodotti offerti sulla piattaforma e nella riscossione del prezzo di vendita implicherebbe, tra l’altro, che esse sono informate con precisione in merito alle merci immagazzinate e spedite.

22.

Secondo la Coty Germany, le due imprese suddette non si limiterebbero rispettivamente a mettere a disposizione una piattaforma di commercio elettronico e ad immagazzinare le merci vendute dai loro clienti, bensì offrirebbero una serie di servizi che determinano un valore aggiunto per la distribuzione di tali prodotti (nel caso di specie, prodotti lesivi di diritti di marchio). Inoltre, il venditore avrebbe loro concesso il pieno ed effettivo possesso della merce.

23.

La Corte ha dichiarato ripetutamente che, nel procedimento di cui all’articolo 267 TFUE, non può né valutare gli elementi che costituiscono questioni di fatto ( 12 ), né accertare l’esattezza dei fatti stessi ( 13 ). Nell’ambito della ripartizione delle competenze tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, la prima deve tenere conto del contesto fattuale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali quale definito dal giudice del rinvio ( 14 ).

24.

Il fatto che una delle parti in causa non condivida la versione dei fatti esposta dal giudice del rinvio, o la consideri carente, non è sufficiente per respingere una questione pregiudiziale come irricevibile. Non spetta alla Corte verificare l’esattezza di tale versione e deve valere la presunzione di rilevanza di cui godono le questioni pregiudiziali ( 15 ). Queste ultime sono dichiarate irricevibili qualora, per esempio, risulti manifestamente che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia ( 16 ). Nel presente procedimento pregiudiziale non ricorre una tale circostanza.

25.

Tuttavia, è vero pure che, sebbene spetti al giudice nazionale valutare i fatti, la Corte deve sforzarsi di dargli risposte utili ( 17 ). Nulla osta a che la Corte fornisca al giudice nazionale indicazioni, basate sugli atti e sulle osservazioni presentate, in merito a questioni non trattate nella domanda di pronuncia pregiudiziale, qualora lo ritenga necessario per una migliore collaborazione con il giudice del rinvio ( 18 ).

26.

In udienza, la Corte ha invitato la Amazon Services e la Amazon FC a precisare «la portata dei servizi offerti da Amazon nell’ambito del suo programma “Logistica di Amazon”». In particolare, ha chiesto loro di «prendere posizione in merito alla descrizione fornita dalla Coty Germany nelle sue osservazioni scritte (...) sulle operazioni effettuate da Amazon nella controversia a qua per conto del venditore terzo». Tali quesiti rivelano, di per sé, un’iniziale predisposizione ad integrare le informazioni sui fatti, forse un po’ laconiche, fornite dal giudice del rinvio.

27.

Per tale motivo, alla luce dell’evoluzione dell’incidente pregiudiziale, adotterò un duplice approccio, sostenuto da altrettante visioni – più che versioni – dei fatti:

Da un lato, farò riferimento solo all’esposizione dei fatti contenuta nell’ordinanza di rinvio. Secondo tale esposizione, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a una piattaforma di commercio elettronico, agiscono in qualità di gestore principale di tale piattaforma on line (la prima) e in qualità di prestatore, tra l’altro, di servizi di stoccaggio di merci (la seconda).

Dall’altro, in alternativa, valuterò le precisazioni risultanti dalle osservazioni delle parti e dalle loro risposte ad alcuni quesiti posti in udienza. Lo scenario così configurato è più complesso e impone di fare riferimento al modello di negozio integrato (in contrapposizione al modello autonomo) del gruppo Amazon, nonché alle caratteristiche dei suoi servizi ai terzi venditori che aderiscono al programma «Logistica di Amazon».

28.

Il primo approccio si basa, ripeto, sull’esposizione dei fatti fornita dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia), che coincide con quella della sentenza di appello. Detto giudice dovrà stabilire, in definitiva, se debba attenersi solo ai fatti quali presentati dai giudici di grado inferiore (ciò che è proprio di un giudice di cassazione) o possa invece andare oltre e valutare l’incidenza di altri elementi che esso stesso non ha incluso nella propria domanda di pronuncia pregiudiziale.

29.

Ad ogni modo, vi sono due elementi che nessuna delle parti contesta: a) è stato effettuato un uso commerciale del marchio senza l’autorizzazione del titolare (o del suo licenziatario); b) tale utilizzo violava il diritto inerente al marchio, che non si era esaurito ai sensi dell’articolo 15 del regolamento 2017/1001, in quanto non si trattava di «prodotti immessi in commercio nello Spazio economico europeo con tale marchio dal titolare stesso o con il suo consenso».

B.   Interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001

30.

La registrazione del marchio dell’Unione conferisce al titolare il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato. Così dispone l’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001.

31.

Soltanto qualora siano soddisfatte tali condizioni (ossia quelle di cui al menzionato paragrafo 2), il titolare del marchio può vietare ai terzi «l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno». Così prevede il paragrafo 3, lettera b), del medesimo articolo.

32.

Sebbene il giudice del rinvio non chieda indicazioni in merito ai requisiti previsti da tale paragrafo 2, ritengo opportuno soffermarmi su detta disposizione, tenuto conto dell’incidenza che essa potrebbe avere sulla risposta alla questione pregiudiziale. Inoltre, i problemi connessi all’uso si ripresentano al momento di analizzare l’interpretazione del paragrafo 3 del medesimo articolo.

1. Osservazioni preliminari: sull’eventuale uso del marchio nella propria attività commerciale

33.

La sentenza di appello ha dichiarato che il comportamento della Amazon FC non implicava un uso ai sensi del succitato articolo 9, paragrafo 2 ( 19 ), ma non ha sviluppato tale affermazione, risolvendo la controversia in base alla mancanza di stoccaggio della merce al fine di venderla e alla mancata conoscenza del fatto che si trattasse di prodotti rispetto ai quali il diritto di marchio non si era esaurito.

34.

Quanto al giudice del rinvio, esso sembra sussumere implicitamente nell’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), del regolamento 2017/1001 le circostanze nelle quali la Amazon Services e la Amazon FC utilizzano il marchio in questione.

35.

La Commissione osserva, tuttavia, che le imprese del gruppo Amazon probabilmente non utilizzavano il segno controverso come marchio, ragion per cui non sarebbero soddisfatte le condizioni di applicazione dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001. Poiché il paragrafo 2 è un presupposto indispensabile per l’applicazione del paragrafo 3, se si accogliesse la tesi della Commissione non sarebbe necessario esaminare quest’ultimo.

36.

Ad avviso della Commissione, dalla giurisprudenza della Corte si evince che gli intermediari ( 20 ), come i depositari di merci e i trasportatori, i quali prestano servizi per conto di terzi, non sono responsabili delle violazioni dei diritti di marchio che potrebbero commettere, in quanto non utilizzano il segno nella loro comunicazione commerciale né nelle loro attività economiche ( 21 ).

37.

Nella stessa ottica, la Commissione ricorda come la Corte ha esaminato una questione pregiudiziale relativa al comportamento di un operatore di un mercato elettronico (eBay), il cui sito Internet conteneva annunci di prodotti tutelati da marchi dell’Unione, posti in vendita da persone che a tal fine avevano fatto un’iscrizione e creato un conto venditore (e versavano alla eBay una percentuale sulle transazioni concluse). Secondo la Corte, detto operatore non utilizza il marchio per il solo fatto di esibirlo sulla sua piattaforma di commercio elettronico a vantaggio del venditore ( 22 ).

38.

La Corte ha infatti dichiarato che:

nel caso del depositario, «la fornitura da parte sua del servizio di deposito di merci recanti un marchio altrui non costituisce un uso [di un] segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici o simili a quelli per cui detto marchio è registrato» ( 23 ).

Nel caso del gestore di un mercato elettronico, «l’esistenza di un “uso” di un segno identico o simile al marchio del titolare da parte di un terzo, ai sensi dell’articolo 5 della [prima direttiva 89/104/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1998, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GU 1989, L 40, pag. 1)], e dell’articolo 9 del regolamento [(CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993 (GU 1994, L 11, pag. 1)], comporta, quanto meno, che quest’ultimo utilizzi il segno nell’ambito della propria comunicazione commerciale. Orbene, nei limiti in cui tale terzo fornisce un servizio consistente nel permettere ai propri clienti di far comparire, nell’ambito delle loro attività commerciali quali le loro offerte in vendita, segni corrispondenti a marchi sul proprio sito, non è lui stesso a fare, su tale sito, un uso dei detti segni nel senso indicato dalla summenzionata normativa dell’Unione» ( 24 ).

39.

La Corte opera quindi una distinzione tra gli operatori per stabilire se vi sia un uso da parte di un terzo di un segno identico al marchio. Tale uso non sussiste, ai fini dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001, quando il terzo semplicemente fornisca una soluzione tecnica necessaria per l’uso di un segno ( 25 ) o tenga un comportamento passivo, senza controllo diretto o indiretto dell’atto che costituisce l’uso ( 26 ).

40.

Sempre al fine di esaminare se in tali ipotesi sussista un uso del segno, la Corte sviluppa la propria analisi del nesso tra il segno e il servizio del prestatore ( 27 ). In mancanza di un tale nesso, non sussiste uso del marchio da parte di quest’ultimo.

41.

Sotto il profilo dei fatti quali esposti nell’ordinanza di rinvio si potrebbe ritenere che la Amazon Services e la Amazon FC non utilizzino il marchio del profumo come proprio: esse si limiterebbero a fornire ai venditori e agli acquirenti i servizi tipici dell’intermediazione, senza utilizzare il segno Davidoff nella loro comunicazione commerciale e nelle loro attività economiche.

42.

Se si adottasse, invece, l’approccio alternativo ai fatti cui ho accennato in precedenza, si potrebbe ammettere che le imprese del gruppo Amazon abbiano utilizzato il segno Davidoff, nella misura in cui non si sarebbero limitate a mettere strumenti tecnici a disposizione dei venditori digitali, bensì avrebbero offerto un servizio con modalità tali da stabilire un nesso tra il segno e detto servizio.

43.

Mi sembra quindi corretta l’impostazione della Commissione, la quale, dopo avere messo in dubbio l’uso del marchio nel caso in cui le imprese del gruppo Amazon si limitino a creare le condizioni tecniche necessarie per l’uso del marchio da parte di terzi ( 28 ), non esclude che le medesime imprese utilizzino il marchio nel commercio. Ciò presupporrebbe che la prestazione dei loro servizi implichi un comportamento attivo e un controllo, diretto o indiretto, sull’atto costituente l’uso ( 29 ), circostanza il cui esame spetterebbe al giudice del rinvio. Me ne occuperò più avanti.

2. Il possesso dei beni ai fini della loro offerta o immissione in commercio

44.

Supponendo, a fini dialettici, che ricorrano le condizioni di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento 2017/1001, occorre poi delimitare l’ambito dello ius prohibendi disciplinato dal paragrafo 3, lettera b), dello stesso articolo.

45.

Tra gli atti che il titolare del marchio può vietare ai terzi che non hanno ricevuto il suo consenso rientrano «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Il giudice del rinvio chiede indicazioni, in concreto, sul significato del sintagma «stoccaggio (...) ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio» dei prodotti lesivi del marchio ( 30 ).

46.

Un termine come «stoccaggio», i cui profili specifici sono esaminati dal giudice del rinvio, non figura in tutte le versioni linguistiche dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento 2017/1001. Mentre versioni come quelle spagnola, portoghese, inglese e svedese ricorrono a verbi o sostantivi che denotano l’atto di stoccare beni ( 31 ), la versione francese («détenir») e la tedesca («besitzen») preferiscono vocaboli direttamente connessi all’istituto giuridico del possesso (possessio).

47.

Ritengo, ad ogni modo, che in tutte le versioni linguistiche traspaia l’idea del possedere a fini commerciali, dato che lo stoccaggio (o, nelle versioni che utilizzano questo termine, il possesso) si aggiunge al requisito che l’attività sia svolta «a tali fini», vale a dire per offrire o immettere in commercio i prodotti, e non risultano divergenze linguistiche su questa seconda parte della frase.

48.

Le condizioni di applicazione di tale profilo dello ius prohibendi del titolare del marchio sono quindi due e devono ricorrere entrambe affinché si configuri la violazione di detto diritto:

un elemento materiale, ossia il possesso delle merci lesive del diritto di marchio;

un elemento intenzionale, ossia la volontà del possesso al fine di immettere il prodotto sul mercato, mediante qualsiasi negozio giuridico, compresa l’offerta.

a) Sull’elemento materiale: il possesso

49.

Per quel che riguarda il possesso, occorre distinguere tra la situazione del depositario e quella del gestore del mercato elettronico.

Quanto al primo, secondo la giurisprudenza sopra citata ( 32 ), nel caso di un depositario che si limiti, nel normale esercizio della sua professione, a conservare le merci per conto di un terzo non ricorrono i necessari presupposti della violazione del diritto di marchio, sebbene egli abbia il possesso immediato dei beni, quando sia detto terzo, e non il depositario stesso, a perseguire i fini commerciali mediante i prodotti. I suoi atti non sembrano quindi implicare la creazione di un nesso tra il segno del prodotto e il servizio di stoccaggio ( 33 ).

Quanto ai meri gestori di un mercato elettronico, essi non possono neppure essere considerati possessori delle merci lesive del marchio, se la loro implicazione si limita a un’intermediazione analoga a quella esaminata nella sentenza L’Oréal.

50.

Applicando tali categorie ai fatti quali illustrati dal giudice del rinvio, né la Amazon Services né la Amazon FC possiederebbero prodotti lesivi del marchio ai fini dell’immissione in commercio o dell’offerta, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001. Concordo pertanto con la valutazione espressa da detto giudice in merito alla sussunzione della condotta di dette imprese nella disposizione sopra citata.

51.

Tuttavia, la valutazione potrebbe essere diversa se si adottasse l’approccio alternativo ai fatti al quale ho fatto riferimento in precedenza. In tale ottica, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a un modello integrato di negozio, tengono un comportamento attivo nel processo di vendita, che è per l’appunto ciò che la norma esemplifica là dove elenca atti quali «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Corollario di siffatto comportamento attivo sarebbe l’apparente controllo assoluto del processo di vendita.

52.

Nell’attività delle imprese del gruppo Amazon, analizzata in tale prospettiva, occorre distinguere gli elementi esterni (quelli percepiti dal consumatore medio che acquista un prodotto presso Amazon) da quelli interni (che si riferiscono al rapporto tra il venditore e Amazon, senza che siano percepiti esternamente) ( 34 ).

53.

Mi concentrerò sul punto di vista di un consumatore finale che acquista un bene presso un terzo attraverso un sito Internet quale amazon.de, con una transazione che rientra nel programma «Logistica di Amazon». Se l’acquirente potesse ritenere che sia la Amazon Service ad immettere in commercio i prodotti, vale a dire che sussista un «collegamento materiale nel commercio tra i prodotti del terzo e l’impresa di provenienza di tali prodotti» ( 35 ), se ne potrebbe trarre la medesima conseguenza che la Corte ha precisato nella sua giurisprudenza precedente secondo cui esiste un uso del marchio.

54.

All’acquirente che cerca un prodotto sul sito Internet di Amazon vengono mostrate diverse offerte del medesimo prodotto, che possono provenire sia da venditori che hanno stipulato un contratto con Amazon per la commercializzazione dei loro prodotti attraverso il suo mercato elettronico, sia dalla stessa Amazon, che li vende per proprio conto. Non è sempre agevole, neppure per un internauta normalmente informato e ragionevolmente avveduto, stabilire se i prodotti mostrati provengano dal titolare del marchio o da un’impresa alla quale esso è collegato economicamente oppure, al contrario, da un terzo ( 36 ). In tal modo viene arrecato pregiudizio alla funzione essenziale del marchio, vale a dire l’indicazione di origine del prodotto.

55.

Con il programma «Logistica di Amazon» le imprese di tale gruppo, che agiscono in modo coordinato, non si occupano soltanto dello stoccaggio e del trasporto «neutri» dei prodotti, bensì di una gamma di attività molto più ampia.

56.

Infatti, optando per detto programma, il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano (possono anche etichettarli, imballarli adeguatamente o confezionarli come regali) e li spediscono all’acquirente. Amazon può occuparsi anche della pubblicità ( 37 ) e della diffusione delle offerte sul proprio sito Internet. Inoltre, Amazon offre il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestisce i rimborsi dei prodotti difettosi ( 38 ). Sempre Amazon riceve dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario ( 39 ).

57.

Tale coinvolgimento attivo e coordinato delle imprese del gruppo Amazon nella commercializzazione dei prodotti comporta l’assunzione di buona parte dei compiti del venditore, del quale Amazon svolge il «lavoro pesante», come evidenziato sul suo sito Internet. Su tale pagina si può leggere, quale incentivo al venditore per aderire al programma «Logistica di Amazon», la seguente frase: «Inviaci la tua merce e noi penseremo a tutto il resto». In tali circostanze, le imprese del gruppo Amazon tengono «un comportamento attivo [ed esercitano] un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso [del marchio]» ( 40 ).

58.

Qualora nel caso di specie fosse confermato che le imprese del gruppo Amazon hanno prestato tali servizi (o quanto meno i più importanti) nell’ambito del programma «Logistica di Amazon» ( 41 ), si potrebbe ritenere che, in qualità vuoi di gestori del mercato elettronico vuoi di depositari, esse svolgano funzioni nell’immissione in commercio del prodotto che vanno oltre la mera creazione delle condizioni tecniche per l’uso del segno. Di conseguenza, dinanzi a un prodotto lesivo dei suoi diritti, il titolare del marchio potrebbe legittimamente reagire vietando a siffatte imprese l’uso del segno.

59.

Il ruolo rilevante delle imprese del gruppo Amazon nel processo di commercializzazione non può essere sminuito considerando separatamente le attività di ciascuna di esse. Sarebbe contrario alla realtà economica e al principio di uguaglianza trattare lo stoccaggio, la gestione degli ordini e gli altri servizi forniti da dette imprese allo stesso modo di quelli prestati da un semplice trasportatore o depositario autonomo, in un modello di negozio slegato da qualsiasi altra operazione della catena di distribuzione ( 42 ).

60.

Non osta a quanto sin qui esposto la circostanza che le imprese del gruppo Amazon affermino di agire come intermediari per conto del venditore. Da un lato, tale presunta intermediazione presenta le caratteristiche di coinvolgimento attivo nell’immissione in commercio sopra evidenziate. Dall’altro, secondo la Corte, «è (...) privo di rilievo che tale uso sia fatto dal terzo nel contesto della commercializzazione di prodotti per conto di un altro operatore che disponga egli solo di un titolo su di essi» ( 43 ).

61.

Infine, è irrilevante ai presenti fini che le imprese del gruppo Amazon non acquistino «alcun titolo [sui prodotti] nel corso dell’operazione in cui interv[engono»] ( 44 ).

62.

Atteso che, nel caso di specie, il ruolo dell’intermediario non è neutro, le deroghe alla responsabilità dei prestatori di servizi della società dell’informazione di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 non si applicano nella presente controversia. Tali deroghe si limitano al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi ( 45 ). Non sono quindi applicabili a un’attività come quella di stoccaggio fisico e consegna materiale dei prodotti.

63.

Inoltre, la Corte ha escluso che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 si applichi al gestore di un mercato elettronico che svolge un ruolo attivo, come quello di prestare un’«assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita (...) e nel promuovere tali offerte» ( 46 ).

b) Sull’elemento intenzionale: il fine di offrire o immettere in commercio i prodotti stoccati (o posseduti)

64.

L’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001 impone di collegare lo stoccaggio delle merci lesive del diritto di marchio agli obiettivi di offrirle al pubblico o di immetterle in commercio.

65.

La Amazon Services e la Amazon FC sostengono di non avere un nesso immediato con tali obiettivi, il loro apporto limitandosi alla fornitura di servizi agli effettivi venditori. Esse segnalano che, qualora si estendesse la responsabilità per violazione del diritto di marchio agli operatori commerciali che immagazzinano i prodotti senza avere intenzione di venderli (ciò che è comune a qualsiasi intermediario, depositario, trasportatore o spedizioniere), si determinerebbe una notevole incertezza del diritto per il commercio legittimo.

66.

Il giudice del rinvio sembra accogliere questa tesi, dato che la sua questione si riferisce a una «persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo (...) nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

67.

Pertanto, si potrebbe affermare che la questione formulata nei suddetti termini racchiuda in sé stessa la risposta: se solo il terzo (il venditore) tenta o ha intenzione di offrire o di immettere in commercio i prodotti, è escluso che intendano farlo anche le imprese del gruppo Amazon. Il comportamento di queste ultime, semplicemente, non sarebbe sussumibile nell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001, per difetto dell’elemento teleologico richiesto dalla disposizione.

68.

Anche in tal caso, però, la risposta potrebbe essere diversa qualora si adottasse un’interpretazione dei fatti che ponga l’accento sulla situazione specifica delle imprese di Amazon, in quanto ampiamente implicate nella commercializzazione dei prodotti in questione, nell’ambito del programma «Logistica di Amazon».

69.

In tale prospettiva, che supera ampiamente quella di un mero assistente neutro del venditore, è difficile negare che dette imprese intendano anch’esse, insieme al venditore, offrire o immettere in commercio i prodotti controversi.

C.   La responsabilità delle imprese che effettuano lo stoccaggio dei prodotti lesivi dei diritti di marchio senza essere a conoscenza di tale violazione

70.

Il giudice del rinvio ha incluso un riferimento esplicito alla mancata conoscenza della violazione da parte delle imprese che effettuano lo stoccaggio dei prodotti (presupponendo che sia un terzo a volerli offrire o immettere in commercio), in quanto fattore che potrebbe incidere sulla responsabilità di tali imprese. Detto giudice si riferisce, logicamente, alle imprese di Amazon resistenti nel procedimento principale.

71.

Ai sensi dell’articolo 17 del regolamento 2017/1001, le contraffazioni di un marchio dell’Unione europea sono soggette alle norme nazionali riguardanti le contraffazioni di un marchio nazionale (paragrafo 1). Il medesimo regolamento «non esclude che si possano intentare azioni inerenti a un marchio UE fondate sul diritto degli Stati membri riguardante in particolare la responsabilità civile e la concorrenza sleale» (paragrafo 2). All’articolo 129, paragrafo 2, esso aggiunge che «per tutte le questioni sui marchi che non rientrano nell’ambito di applicazione del presente regolamento il tribunale dei marchi UE [competente] applica il pertinente diritto nazionale».

72.

Alla luce dell’articolo 1 della direttiva 2004/48 ( 47 ), il diritto nazionale applicabile sarà, da un lato, quello che recepisce detta direttiva. Dall’altro, ai sensi del suo considerando 15, la direttiva 2004/48 fa salva la direttiva 2000/31, ragion per cui sarà applicabile anche il diritto nazionale che recepisce quest’ultima.

73.

La conoscenza o meno della violazione del diritto di marchio è rilevante nel mercato elettronico: lo si evince dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, sulle deroghe alla responsabilità dei prestatori intermediari, e dall’interpretazione datane dalla Corte.

74.

La sentenza L’Oréal, come già rilevato, ha escluso dalla deroga l’operatore che svolge un ruolo attivo tale da conferirgli una conoscenza o un controllo di dati relativi alle offerte di vendita memorizzate sul suo server ( 48 ). Non sarà esentato neppure un operatore neutro, qualora fosse effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, qualora fosse al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione ( 49 ).

75.

La conoscenza (o meno) dell’illiceità può essere rilevante anche ai sensi della direttiva 2004/48, per quanto riguarda i danni. È quanto risulta dal disposto dell’articolo 13, paragrafo 1, di detta direttiva, relativo all’autore della violazione. In relazione agli intermediari, il medesimo articolo (paragrafo 2) lascia agli Stati membri la facoltà di decidere il regime applicabile a chi sia stato «implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole in un’attività di violazione».

76.

Questione diversa, ancorché connessa, da quella della rilevanza della conoscenza è quella della diligenza dell’intermediario nell’acquisirla. La giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 11, ultima frase, della direttiva 2004/48 (concernente i provvedimenti ingiuntivi nei confronti degli intermediari i cui servizi siano stati utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale) fornisce alcune indicazioni ( 50 ).

77.

Nella sentenza L’Oréal, la Corte ha esaminato le misure che, ai sensi di detta disposizione, possono essere richieste al prestatore di servizi online per prevenire qualsiasi violazione dei diritti di proprietà intellettuale di terzi. Ha ricordato, in primo luogo, l’articolo 15 della direttiva 2000/31, che esclude un obbligo generale di sorveglianza a carico dei prestatori di servizi. In secondo luogo, ha fatto riferimento all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/48, sottolineando che le misure volte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale devono essere applicate in modo tale da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo.

78.

In tale contesto, una proposta idonea a garantire il giusto equilibrio tra la tutela del diritto di marchio e l’assenza di ostacoli al commercio legittimo sarebbe, a mio avviso, distinguere tra gli intermediari in funzione della qualità dei servizi offerti all’autore diretto della violazione del marchio.

79.

Così, i meri depositari che svolgono soltanto attività ausiliarie sarebbero esenti da responsabilità qualora non siano intervenuti nell’attività di violazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevoli. In altre parole, qualora non avessero né potessero aver avuto cognizione della natura illecita della commercializzazione del prodotto immesso sul mercato da un venditore senza rispettare il diritto del titolare del marchio.

80.

Fatte salve alcune precisazioni che non occorre apportare ora, non si può imporre ai meri depositari un particolare obbligo di diligenza per accertarsi, in ciascun caso, del rispetto dei diritti del titolare del marchio che designa le merci loro affidate, a meno che l’illiceità della violazione sia palese. Un obbligo generalizzato in tal senso graverebbe eccessivamente sulle normali attività di simili imprese, in quanto prestatrici di servizi ausiliari al commercio ( 51 ).

81.

La situazione è diversa quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità.

82.

Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo ( 52 ), potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi» ( 53 ), esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore.

83.

La decisione, in ultima istanza, sulla responsabilità civile delle resistenti spetta al giudice del rinvio, in funzione delle circostanze di fatto che ritiene comprovate. Nella misura in cui quest’ultima parte della questione pregiudiziale è dedicata all’eventuale incidenza su tale decisione della mancata conoscenza, da parte loro, della violazione del diritto del titolare del marchio, considero che questa mancata conoscenza, di per sé, non esime le resistenti da responsabilità.

V. Conclusione

84.

Alla luce delle suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere come segue alla questione pregiudiziale sollevata dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania):

«L’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio comunitario, e l’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che:

una persona non effettua stoccaggio per conto di un (venditore) terzo di prodotti che violano i diritti di un marchio ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui non abbia conoscenza di tale violazione e solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio i prodotti;

tuttavia, se tale persona partecipa attivamente alla distribuzione di detti prodotti nell’ambito di un programma avente le caratteristiche del programma denominato “Logistica di Amazon”, al quale aderisca il venditore, si può ritenere che effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini della loro offerta o immissione in commercio;

il fatto che tale persona ignori che il terzo offre o mette in vendita i propri prodotti violando i diritti del titolare del marchio non la esime da responsabilità se ci si poteva ragionevolmente attendere che predisponesse misure per accorgersi di siffatta violazione».


( 1 ) Lingua originale: lo spagnolo.

( 2 ) Sentenza del 6 dicembre 2017 (C‑230/16, EU:C:2017:941).

( 3 ) Il contesto della questione pregiudiziale è il diritto dei marchi dell’Unione europea. Qualora si ritenesse infine che le resistenti non hanno utilizzato il marchio, si potrebbe ancora valutare la loro responsabilità ai sensi della direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») (GU 2000, L 178, pag. 1), nel caso in cui esse agiscano in qualità di intermediari nel commercio elettronico, o ai sensi della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (GU 2004, L 157, pag. 45).

( 4 ) Regolamento del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio comunitario (GU 2009, L 78, pag. 1).

( 5 ) A decorrere dal 23 marzo 2016 i «marchi comunitari» sono denominati «marchi dell’Unione europea» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, del regolamento (UE) 2015/2424 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, recante modifica del regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio sul marchio comunitario, che modifica il regolamento (CE) n. 2868/95 della Commissione, recante modalità di esecuzione del regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio sul marchio comunitario, e che abroga il regolamento (CE) n. 2869/95 della Commissione relativo alle tasse da pagare all’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno (marchi, disegni e modelli) (GU 2015, L 341, pag. 21).

( 6 ) Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea (GU 2017, L 154, pag. 1).

( 7 ) Vale a dire, l’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 207/2009 e l’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001.

( 8 ) Sui cinque siti Internet di Amazon nell’Unione europea il programma è denominato, rispettivamente, Versand durch Amazon (amazon.de), Logística de Amazon (amazon.es), Logistica di Amazon (amazon.it), Expedié par Amazon (amazon.fr) e Fulfilment by Amazon (amazon.co.uk).

( 9 ) In subordine, essa chiedeva la medesima condanna in relazione al marchio «Davidoff Hot Water EdT 60 ml» o per i lotti di tale profumo forniti dalla venditrice.

( 10 ) Sentenza dell’Oberlandesgericht München (Tribunale superiore del Land di Monaco, Germania) del 29 settembre 2017 (Az.: 29 U 745/16).

( 11 ) A tale proposito il giudice nazionale richiama l’articolo 9, seconda frase, punto 1, del Patentgesetz (legge tedesca sui brevetti).

( 12 ) Ordinanza del 7 ottobre 2013, Società cooperativa Madonna dei miracoli (C‑82/13, EU:C:2013:655, punto 13).

( 13 ) Sentenza del 26 aprile 2012, Balkan and Sea Properties e Provadinvest (C‑621/10 e C‑129/11, EU:C:2012:248, punto 41 e giurisprudenza citata).

( 14 ) Sentenza del 26 ottobre 2017, Argenta Spaarbank (C‑39/16, EU:C:2017:813, punto 38 e giurisprudenza citata).

( 15 ) Sentenza del 22 settembre 2016, Breitsamer und Ulrich (C‑113/15, EU:C:2016:718, punto 34 e giurisprudenza citata).

( 16 ) Sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet (C‑322/16, EU:C:2017:985, punto 17 e giurisprudenza citata).

( 17 ) Sentenza del 5 giugno 2014, I (C‑255/13, EU:C:2014:1291, punto 55 e giurisprudenza citata).

( 18 ) È quanto può accadere, in particolare, quando l’avvocato generale abbia esaminato la questione pregiudiziale sulla base di un’interpretazione dei fatti che diverge dall’esposizione degli stessi fornita dal giudice del rinvio. In alcuni casi [sentenza del 20 settembre 2001, Grzelczyk (C‑184/99, EU:C:2001:458, punti da 16 a 18)], la Corte ha ammesso che il giudice del rinvio valutasse, alla luce delle conclusioni dell’avvocato generale, se i fatti e le circostanze del procedimento principale consentissero un approccio diverso. Nella causa Grzelczyk l’avvocato generale Alber aveva ritenuto che il sig.Grzelczyk soddisfacesse i requisiti per essere considerato un lavoratore ai sensi del TFUE e non solo uno studente, come indicato invece dal giudice del rinvio. L’avvocato generale proponeva quindi una prospettiva diversa da quella del giudice nazionale; la Corte nondimeno si è rigorosamente attenuta ai fatti esposti nella decisione di rinvio. V. conclusioni del 28 settembre 2000 presentate nella medesima causa (EU:C:2000:518, paragrafi da 65 a 75).

( 19 ) Sentenza dell’Oberlandesgericht München (Tribunale superiore del Land di Monaco), cit., parte 2, B.I. 1. a) bb) (1).

( 20 ) È così che essa qualifica le due imprese del gruppo Amazon: nel caso della Amazon Services, alla luce della direttiva 2000/31, e, nel caso della Amazon FC, alla luce della direttiva 2004/48.

( 21 ) La Commissione richiama, in particolare, la sentenza del 16 luglio 2015, TOP Logistics BV e a. (C‑379/14, EU:C:2015:497, punto 45).

( 22 ) Sentenza del 12 luglio 2011, L’Oréal e a. (C‑324/09, EU:C:2011:474; in prosieguo: la «sentenza L’Oreal», punti da 102 a 104).

( 23 ) Sentenza del 16 luglio 2015, TOP Logistics e a. (C‑379/14, EU:C:2015:497, punto 45).

( 24 ) Sentenza L’Oréal (punti 102 e 103).

( 25 ) Sentenza del 15 dicembre 2011, Frisdranken Industrie Winters (C‑119/10, EU:C:2011:837; in prosieguo: la «sentenza Frisdranken Industrie Winters», punto 29).

( 26 ) Sentenza del 3 marzo 2016, Daimler (C‑179/15, EU:C:2016:134; in prosieguo: la «sentenza Daimler», punto 39).

( 27 ) Sentenze Frisdranken Industrie Winters (punto 32); del 23 marzo 2010, Google France e Google (da C‑236/08 a C‑238/08, EU:C:2010:159; in prosieguo: la «sentenza Google France e Google», punto 60), nonché L’Oréal (punto 92); ordinanza del 19 febbraio 2009, UDV North America (C‑62/08, EU:C:2009:111; in prosieguo: l’«ordinanza UDV North America», punto 47).

( 28 ) Sentenze Google France e Google (punto 57) nonché Frisdranken Industrie Winters (punto 29).

( 29 ) V. sentenze Daimler (punti 39 e 41) nonché del 25 luglio 2018, Mitsubishi Shoji Kaisha e Mitsubishi Caterpillar Forklift Europe (C‑129/17, EU:C:2018:594, punto 38).

( 30 ) Non ritengo necessario soffermarmi sulle nozioni di «offerta» e di «immissione in commercio» nella loro accezione comune in ambito commerciale. In sintesi, la prima implicherebbe la disponibilità a consegnare ad un terzo, singolo o gruppo, i prodotti recanti il marchio, tanto se l’offerta è ab initio giuridicamente vincolante per chi la formula quanto se costituisce una mera invitatio ad offerendum. Quanto alla seconda nozione, per immissione in commercio si intende l’attività che determina l’ingresso della merce nel traffico economico, di norma con il trasferimento a un terzo del potere dispositivo.

( 31 ) Rispettivamente «almacenarlos», «armazená‑los», «stocking» e «lagra».

( 32 ) V. paragrafi 35 e segg. delle presenti conclusioni e le note corrispondenti.

( 33 ) La sua situazione è quindi comparabile a quella dell’impresa che procedeva a riempire lattine recanti segni simili a un marchio registrato: v. sentenza Frisdranken Industrie Winters (punti 33 e 34).

( 34 ) In udienza, il rappresentante della Amazon Services ha risposto ai quesiti della Sezione facendo riferimento ai rapporti interni del venditore con Amazon, riflessi in un contratto‑tipo e nella creazione di un «conto venditore» mediante il quale quest’ultimo gestisce l’elenco di prodotti e seleziona i servizi di Amazon per i quali opta.

( 35 ) Ordinanza UDV North America (punto 49), che cita a sua volta il punto 60 della sentenza del 16 novembre 2004, Anheuser‑Busch (C‑245/02, EU:C:2004:717).

( 36 ) Sentenza L’Oréal (punto 94).

( 37 ) A determinate condizioni, Amazon fornisce ai venditori la promozione dei loro prodotti collocandoli in una posizione di favore nei risultati della pagina di ricerca.

( 38 ) In udienza, il rappresentante della Amazon Services ha insistito sulla separazione delle attività di Amazon dalla compravendita vera e propria, sostenendo che, sotto il profilo strettamente giuridico, è il venditore a procurare i beni, definire il prezzo e trasferire la proprietà; Amazon non offre i beni, ma si limita a presentarli. Tuttavia, ciò non rileva nella prospettiva della funzione essenziale del marchio.

( 39 ) A contrario sensu, sentenze Google France e Google (punto 57) nonché Frisdranken Industrie Winters (punto 29).

( 40 ) Sentenza Daimler (punto 39).

( 41 ) Spetterebbe eventualmente al giudice del rinvio accertarlo, sempre che le sue norme processuali gli consentano di assumere un’esposizione dei fatti che non coincide pienamente con quella ripresa dal giudice di appello (v. paragrafo 28 delle presenti conclusioni).

( 42 ) In udienza, il rappresentante del governo della Repubblica federale di Germania ha insistito sulla necessità di distinguere tra modelli di negozio diversi e di respingere, nel caso di una struttura integrata (come quella di Amazon), una segmentazione fittizia delle diverse fasi del processo di commercializzazione.

( 43 ) Ordinanza UDV North America (punto 51).

( 44 ) Ibidem (punto 48).

( 45 ) Considerando 42.

( 46 ) Sentenze L’Oréal (punto 116) nonché Google France e Google (punto 114).

( 47 ) «Ai fini della presente direttiva i termini “diritti di proprietà intellettuale” includono i diritti di proprietà industriale».

( 48 ) V. paragrafo 63 delle presenti conclusioni.

( 49 ) Sentenza L’Oréal (punti 116 e 119).

( 50 ) Anche se con cautela, data la differenza tra le situazioni, potrebbe trarsi ispirazione anche dalla giurisprudenza della Corte riguardante l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (GU 2001, L 167, pag. 10). In tale contesto, la Corte ha utilizzato l’elemento soggettivo (la conoscenza) nell’interpretazione della nozione di «comunicazione al pubblico». In particolare, ha fatto riferimento a situazioni nelle quali il soggetto che mette l’opera a disposizione del pubblico è tenuto a sapere che il collegamento ipertestuale da lui collocato dà accesso a un’opera pubblicata illegalmente su Internet. La Corte è anzi giunta a stabilire una presunzione iuris tantum nel caso in cui l’hyperlink sia collocato a fini lucrativi. V. sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media (C‑160/15, EU:C:2016:644).

( 51 ) Logicamente, esse non potrebbero pretendere alcuna mancata conoscenza qualora fossero state avvertite della violazione, da parte del titolare del marchio o di un suo rappresentante.

( 52 ) Tale controllo presuppone, ovviamente, che esse possano individuare, in qualsiasi momento, il soggetto che ha rimesso loro i beni ricompresi nel programma «Logistica di Amazon». In tal modo si eviterebbero situazioni come quella di specie, nella quale la Amazon Services non è stata in grado di precisare l’origine di undici flaconi di profumo «Davidoff Hot Water EdT 60 ml» (paragrafo 12 delle presenti conclusioni). In udienza, il rappresentante di Amazon ha parlato di eccezionalità della situazione, dovuta ad un errore umano.

( 53 ) Così riporta la relazione per il 2018 della Amazon.Con Inc. alla US Securities and Exchange Commission [organo federale statunitense di vigilanza dei mercati di borsa (Commissione per i titoli e gli scambi)], per quanto riguarda i rischi assunti: «We also may be unable to prevent sellers in our stores or through other stores from selling unlawful, counterfeit, pirated, or stolen goods, selling goods in an unlawful or unethical manner, violating the proprietary rights of others, or otherwise violating our policies (…). To the extent any of this occurs, it could harm our business or damage our reputation and we could face civil or criminal liability for unlawful activities by our sellers». Occorre inoltre richiamare la clausola 7 dell’Amazon Services Europe Business Solutions Agreement [Contratto di Business Solutions di Amazon Services Europe], nella recentissima versione di agosto 2019, dalla quale risulta che Amazon si assume nei termini ivi indicati la responsabilità diretta nei confronti di terzi, siano essi titolari di diritti di proprietà intellettuale o acquirenti di prodotti. In udienza è stato fatto riferimento a entrambi i documenti.

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