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Document 61989CC0381

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 16 gennaio 1992.
Syndesmos Melon tis Eleftheras Evangelikis Ekklissias e altri contro Stato ellenico e altri.
Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Polymeles Protodikeio di Atene - Grecia.
Diritto societario - Efficacia diretta - Primato.
Causa C-381/89.

European Court Reports 1992 I-02111

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1992:8

61989C0381

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 16 gennaio 1992. - SYNDESMOS MELON TIS ELEFTHERAS EVANGELIKIS EKKLISSIAS E ALTRI CONTRO STATO GRECO E ALTRI. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: POLYMELES PROTODIKEIO ATHINON - GRECIA. - DIRITTO DELLE SOCIETA - EFFICACIA DIRETTA - SUPREMAZIA. - CAUSA C-381/89.

raccolta della giurisprudenza 1992 pagina I-02111


Conclusioni dell avvocato generale


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Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. Con ordinanza del 2 ottobre 1989, il Tribunale di grande istanza di Atene ha posto alla Corte due quesiti relativi all' interpretazione di talune disposizioni contenute nella direttiva del Consiglio 13 dicembre 1976, 77/91/CEE, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste negli Stati membri alle società di cui all' art. 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi quanto alla costituzione delle società per azioni nonché alla salvaguardia ed alle modificazioni del capitale sociale delle stesse (1) (nel prosieguo: la "seconda direttiva").

Al fine di una migliore comprensione della portata dei quesiti posti, riassumerò brevemente il contesto normativo nazionale e gli antefatti della controversia pendente dinanzi al giudice di rinvio.

La legge ellenica n. 1386/1983, del 5 agosto 1983 (2), ha istituito l' "Organismos Anasygkrotiseos Epicheiriseon" (Istituto per la ristrutturazione delle imprese, nel prosieguo: l' "Istituto"), una società per azioni il cui capitale è interamente sottoscritto dallo Stato ed il cui scopo è di contribuire allo sviluppo economico e sociale del Paese.

A tal fine l' Istituto può in particolare assumere l' amministrazione e la gestione corrente di imprese in corso di risanamento o nazionalizzate. Ai sensi dell' art. 8, n. 8, della legge, durante l' amministrazione provvisoria l' Istituto può tra l' altro decidere di aumentare il capitale della società di cui trattasi, in deroga alle disposizioni in vigore per le società per azioni che prevedono la competenza esclusiva dell' assemblea al riguardo. I vecchi azionisti conservano tuttavia un diritto d' opzione che deve essere esercitato entro un certo termine.

Anche l' art. 10 della legge verte sull' aumento del capitale sociale; tuttavia, a differenza dei provvedimenti di cui all' art. 8, n. 8, tale misura non si inserisce nel contesto dell' amministrazione provvisoria, ma rappresenta una misura di risanamento definitiva ed in tal caso non è previsto per gli ex azionisti un vero e proprio diritto d' opzione sulle nuove azioni, pur non essendo essi del tutto privi di tutela.

La legge n. 1386/1983 è stata oggetto della decisione della Commissione 7 ottobre 1987, 86/167/CEE (3), adottata nell' ambito della procedura di cui all' art. 93 del Trattato CEE. Con tale decisione l' esecutivo comunitario dichiarava di non avere obiezioni circa l' attuazione della legge, purché, tra l' altro, il governo ellenico modificasse le norme relative all' aumento di capitale al fine di renderle compatibili con gli artt. 25, 26, 29 e 30 della Seconda direttiva. In particolare, l' art. 1 della decisione imponeva al governo ellenico di modificare in tal senso ed entro il 31 dicembre 1987 le conferenti disposizioni della legge n. 1386/1983.

Il 7 marzo 1989 la Commissione dava poi inizio ad un procedimento ex art. 169 del Trattato CEE per violazione, da parte della Repubblica ellenica, degli obblighi ad essa derivanti dalla Seconda direttiva. Il 10 marzo 1990, il parlamento ellenico votava infine la legge n. 1882/1990 (4), che modificava la precedente normativa proprio nel punto controverso e nel senso voluto dalla Commissione.

2. Le attrici nella causa principale sono azioniste della società "Elliniki Parketoviomichania Afoi Sotiropouloi AE" (in prosieguo: l' "EPAS") e controllavano 27 799 quote di un capitale sociale ammontante a 297 400 000 di DR e ripartito su 29 740 quote.

A seguito della domanda dell' EPAS, il ministro dell' Economia nazionale, con decisione 26 novembre 1984, sottoponeva detta società al regime contemplato dalla legge n. 1386/1983. L' Istituto rilevava allora l' amministrazione dell' EPAS ed il 26 marzo 1986 decideva di aumentare il capitale della società per un importo di 650 milioni di DR.

Non avendo gli ex azionisti esercitato il proprio diritto di opzione nel termine previsto, l' Istituto si dichiarava acquirente delle nuove azioni in modo da possedere il 68% circa del capitale sociale.

Sul finire del 1986, a seguito di trattative intercorse tra i creditori, l' Istituto e gli altri azionisti dell' EPAS, veniva decisa la sopravvivenza della società e si poneva termine all' amministrazione provvisoria così come alla sospensione del pagamento dei debiti dell' EPAS. L' oggetto dell' accordo consisteva nella riduzione del capitale della società da 947 000 000 di DR al minimo obbligatorio di 5 000 000 ed al contestuale aumento a 6 062 660 000 DR, imposto dal ministro conformemente all' art. 10 della legge n. 1386/1983 ed effettuato mediante la capitalizzazione di una parte dei debiti dell' EPAS nei confronti di taluni creditori pubblici e mediante l' apporto di nuovi fondi da parte dell' Istituto.

Le attrici nella causa principale, che detengono oramai solo una partecipazione minima nell' EPAS, ritenendo che gli aumenti così realizzati fossero in contrasto con gli artt. 25 e seguenti della Seconda direttiva, impugnavano dinanzi al Tribunale di grande istanza di Atene gli aumenti di capitale sopramenzionati, come anche la ripartizione delle azioni tra le imprese pubbliche. Il giudice adito decideva di sospendere il procedimento per chiedere alla Corte se gli artt. 25 e seguenti e 29 della Seconda direttiva siano direttamente applicabili in Grecia dal 1º gennaio 1981, nel senso che i giudici sono tenuti a fare applicazione di tali disposizioni nelle liti dinanzi ad essi pendenti, e se la normativa in questione prevalga sulle contrastanti previsioni della legge n. 1386/83.

3. Ricordo che quesiti sostanzialmente simili, posti dal Consiglio di Stato ellenico, hanno già trovato risposta nella recente sentenza Karella (5), ove la Corte, proprio in riferimento alla legislazione ellenica di cui alla presente causa, ha chiarito in primo luogo che l' art. 25 della Seconda direttiva è redatto in termini chiari e precisi e stabilisce in maniera incondizionata il principio della competenza dell' assemblea generale circa la decisione di aumento di capitale, cosicché la norma è suscettibile di essere invocata da un singolo nei confronti delle pubbliche autorità dinanzi ad un giudice nazionale. In secondo luogo, la Corte ha precisato che il combinato disposto dell' art. 25 e dell' art. 41, n. 1 (6), della Seconda direttiva deve essere interpretato nel senso che esso osta all' applicazione di una normativa nazionale che, al fine di assicurare la sopravvivenza e la continuazione dell' attività delle imprese che hanno un' importanza particolare dal punto di vista economico e sociale per la collettività e si trovano, a causa del loro indebitamento, in una situazione eccezionale, consente di decidere l' aumento del capitale sociale con atto amministrativo, pur conservando ai vecchi azionisti un diritto di opzione.

Le parti convenute nella causa principale sostengono tuttavia che la legge n. 1386/1983 non interverrebbe in un settore disciplinato dalla Seconda direttiva, poiché la normativa nazionale in questione non rientrerebbe nel diritto societario ma nel diritto fallimentare; pertanto, tale normativa non riguarderebbe le relazioni tra gli azionisti, ma sarebbe intesa a soddisfare gli interessi dei creditori attraverso l' esecuzione forzata sui beni della società. In ogni caso, poi, la direttiva non sarebbe stata violata, giacché l' art. 25 non specifica come l' assemblea generale debba adottare la decisione di aumento del capitale; e nel caso di specie la stessa richiesta della società di essere sottoposta al regime della legge n. 1386/1983, nonché l' inerzia degli azionisti, consentono di dedurre un certo consenso di questi ultimi all' integrale applicazione della legge in questione ed al conseguente aumento del capitale. Inoltre la Commissione, con la citata decisione 86/167/CEE, avrebbe autorizzato le autorità elleniche ad applicare la legislazione contestata almeno fino al 31 dicembre 1987. Infine, la disposizione comunitaria non troverebbe comunque applicazione poiché le attrici nella causa principale starebbero abusando dei diritti che si pretende la norma conferisca loro.

4. Quanto al primo punto, vale a dire l' ambito di applicazione della Seconda direttiva in relazione alle procedure speciali di esecuzione forzata o di risanamento delle grandi imprese in crisi, ricordo che un tale problema è stato già espressamente affrontato nella citata sentenza Karella. In tale occasione, la Corte ha precisato che l' obiettivo di assicurare un livello minimo di protezione degli azionisti nell' insieme degli Stati membri, perseguito dalla Seconda direttiva, sarebbe seriamente compromesso se gli Stati fossero autorizzati a derogare alle disposizioni della direttiva mantenendo in vigore regolamentazioni, sia pure qualificate come speciali o eccezionali, che permettano di decidere, per via amministrativa ed indipendentemente da una decisione dell' assemblea, un aumento del capitale sociale che obbliga gli azionisti ad aumentare il loro apporto o a subire l' ingresso nella società di nuovi soci.

Tale constatazione non significa, secondo la Corte, che il diritto comunitario vieti agli Stati membri di derogare in qualsivoglia circostanza alle disposizioni della direttiva. Infatti, il legislatore comunitario ha specificamente previsto sia precise deroghe sia procedure suscettibili di consentire deroghe in situazioni eccezionali (v. artt. 19, nn. 2 e 3; 40, n. 2; 41, n. 2; 43, n. 3, della Seconda direttiva). Tuttavia, nessuna possibilità di deroga all' art. 25, n. 1, in caso di una situazione di crisi delle imprese, è prevista: né dal Trattato CEE né dalla direttiva stessa. Al contrario, l' art. 17, n. 1, prevede esplicitamente che, in caso di perdita grave del capitale sottoscritto, l' assemblea deve essere convocata nel termine previsto dalla legislazione nazionale, per esaminare se sia necessario sciogliere la società o adottare altri provvedimenti; e ciò conferma che il principio posto dall' art. 25, n. 1, vale anche nel caso di una società che si trovi confrontata a gravi difficoltà finanziarie.

Inoltre, la garanzia fornita dalla norma in questione, per essere effettiva, deve essere assicurata ai soci fintantoché la società continua ad esistere con le sue proprie strutture. Se dunque la direttiva non osta all' adozione di misure di esecuzione forzata ed in particolare a regimi di liquidazione che sottopongono la società ad amministrazione coatta al fine di salvaguardare i diritti dei creditori, essa continua nondimeno a trovare applicazione fino a quando permane l' assemblea degli azionisti e dunque, in particolare, in caso di semplice regime di risanamento che comporti l' intervento di organismi pubblici o di società di diritto privato.

D' altra parte, ha aggiunto la Corte, riconoscere l' esistenza di una riserva generale in caso di situazioni eccezionali, al di fuori delle specifiche previsioni del Trattato e della Seconda direttiva, significherebbe pregiudicare il carattere obbligatorio e l' uniforme applicazione del diritto comunitario.

5. Una tale impostazione, che condivido pienamente, come risulta peraltro dalle mie conclusioni relative alla citata causa, mi sembra pienamente coerente con la precedente giurisprudenza della Corte che, nella sentenza Abels (7), in riferimento alla direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti, o di parti di stabilimenti (8), ha statuito che tale atto è applicabile ad un procedimento come quello olandese di "surséance van betaling" (sospensione dei pagamenti) benché esso presenti talune caratteristiche comuni con la procedura di fallimento. La Corte ha infatti ritenuto che i motivi che possono giustificare la disapplicazione della direttiva, nell' ipotesi di procedure di fallimento, vengono meno qualora la procedura in questione comporti un controllo del giudice di portata più limitata rispetto all' ipotesi del fallimento e miri soprattutto a salvaguardare il patrimonio ed eventualmente la prosecuzione dell' attività dell' impresa, mediante la sospensione collettiva dei pagamenti, per giungere ad un assetto che consenta di garantire l' attività dell' impresa in futuro.

Del pari, nella recente sentenza d' Urso (9), la Corte ha chiarito che la citata direttiva 77/187/CEE si applica allorché, nell' ambito di un complesso di leggi come quelle che disciplinano in Italia l' amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, il proseguimento dell' attività dell' impresa è stato deciso e finché quest' ultima decisione rimane in vigore. A giudizio della Corte, infatti, quando il decreto che sancisce l' applicazione del procedimento amministrativo straordinario stabilisce nel contempo la continuazione dell' attività dell' impresa in regime commissariale, la finalità di questo procedimento stà anzitutto nel restituire all' impresa un equilibrio che consenta di garantire la sua attività futura; sì che l' obiettivo economico-sociale così perseguito non può spiegare né giustificare il fatto che, quando l' impresa interessata costituisce oggetto di trasferimento totale o parziale, i suoi lavoratori vengano privati dei diritti che la direttiva conferisce loro alle condizioni in essa precisate.

A ciò si aggiunga che appare quantomeno contraddittorio sostenere che si è deciso di aumentare il capitale di un' impresa al fine di procedere alla sua liquidazione. L' aumento di capitale viene infatti di norma effettuato non già allo scopo di liquidare un' impresa, ma proprio al fine del suo risanamento e della continuazione della sua attività.

6. Quanto poi all' argomento secondo cui nel caso di specie non vi sarebbe stata violazione dell' art. 25 della Seconda direttiva, giacché la norma in questione non specifica come l' assemblea debba decidere l' aumento di capitale, e gli azionisti, chiedendo l' assoggettamento della società alla legge n. 1386/1983, avrebbero espresso il proprio tacito consenso all' integrale applicazione della normativa in questione ed al conseguente aumento di capitale disposto con provvedimento amministrativo, mi sembra sin troppo evidente che una tale interpretazione della norma in discorso non trova alcuna base testuale e sarebbe suscettibile di compromettere seriamente il raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma, vale a dire assicurare un livello minimo di protezione degli azionisti.

L' art. 25 stabilisce infatti un principio di carattere generale relativo alle società per azioni, statuendo, al n. 1, che gli aumenti di capitale devono essere decisi dall' assemblea e prevedendo altresì, al paragrafo successivo, che lo statuto, l' atto costitutivo o l' assemblea stessa possano autorizzare un altro organo della società a decidere l' aumento del capitale sottoscritto, ma solo fino a concorrenza di un importo prestabilito e nel rispetto di un limite eventualmente previsto dalla legge.

Ora, ammettere che l' assemblea possa delegare ad un organismo esterno alla società, e senza stabilire alcun limite, il potere di procedere ad aumenti del capitale, per di più senza delibera espressa, ma semplicemente deducendo una tale volontà dalla richiesta di assoggettamento ad una procedura che prevede solo in via eventuale il ricorso ad aumenti di capitale, significa non solo ricostruire una volontà che in realtà non è probabilmente mai esistita, ma soprattutto ammettere che l' assemblea abbia il potere di sottrarre completamente la società all' applicazione della conferente disposizione della direttiva.

7. Del pari privo di fondamento appare poi l' argomento secondo cui, con la citata decisione 88/167/CEE, che imponeva al governo greco di modificare entro il 31 dicembre 1987 la legge 1386/1983, al fine di renderla conforme agli artt. 25, 26, 29 e 30 della Seconda direttiva, la Commissione avrebbe autorizzato le autorità elleniche a non applicare fino a tale data le richiamate norme.

E' chiaro infatti che la Commissione, lungi dal voler avallare, sia pure per un periodo transitorio, una violazione del diritto comunitario, ha semplicemente inteso fissare un termine ultimativo acciocché le autorità competenti potessero adottare le misure necessarie per porre fine all' infrazione e, d' altra parte, la Commissione stessa non aveva alcun potere di sospendere provvisoriamente l' applicabilità di norme contenute in una direttiva del Consiglio ed aventi efficacia diretta.

8. Quanto poi alla tesi secondo cui l' invocazione della norma da parte delle ricorrenti nella causa principale costituirebbe un abuso di diritto e, di conseguenza, l' art. 25, n. 1, non troverebbe nella specie applicazione, mi limiterò ad osservare che a prima vista le ricorrenti, lungi dal perseguire un' utilizzazione abusiva della norma, hanno semplicemente cercato di ottenere il rispetto di quei diritti che costituiscono il fine principale della norma stessa, che è appunto quello di impedire che siano effettuati aumenti di capitale senza l' esplicito consenso dell' assemblea. D' altra parte, lo stesso giudice di rinvio, cui solo compete l' apprezzamento dei fatti che sono all' origine della controversia, non ha ritenuto di dover sottoporre alla Corte un quesito a tale proposito.

Ora, secondo una costante giurisprudenza della Corte, tenuto conto della suddivisione delle competenze effettuata dall' art. 177 del Trattato nell' ambito del procedimento pregiudiziale, spetta soltanto al giudice nazionale definire il contenuto dei quesiti che esso intende porre alla Corte, e quest' ultima non può, su domanda di una delle parti nella causa principale, esaminare questioni che non sono state poste dal giudice a quo (10).

In caso contrario, la Corte potrebbe essere infatti indotta ad esaminare quesiti la cui soluzione potrà rilevarsi anche del tutto irrilevante per il giudice di rinvio, con l' ulteriore inconveniente di privare di punti di riferimento precisi gli Stati membri che fondano sulla sola ordinanza di rinvio la propria decisione di presentare osservazioni nel corso di una procedura pregiudiziale.

Se il giudice nazionale, tenuto conto dell' evoluzione della causa dinanzi a lui pendente, dovesse poi ritenere necessario ottenere elementi supplementari d' interpretazione del diritto comunitario, egli potrebbe comunque adire di nuovo la Corte a tal fine.

9. Nella presente causa il giudice di rinvio ha poi interrogato la Corte anche sulla portata dell' art. 29 della Seconda direttiva, problema non esaminato nella precedente sentenza Karella. Prima di concludere, è quindi necessario verificare in particolare se, alla stregua di quanto asserito dalla Corte in relazione all' art. 25 della Seconda direttiva, anche l' art. 29 sia esente da condizioni lasciate alla valutazione degli Stati membri e sufficientemente preciso, cosicché il singolo possa invocarlo nei confronti dell' amministrazione dinanzi ad un giudice nazionale, facendo valere che è con esso incompatibile la disciplina contenuta in una norma di legge.

A tale riguardo si deve rilevare che l' art. 29, n. 1, è redatto in termini chiari e precisi e stabilisce in maniera incondizionata che, nel caso di aumento di capitale sottoscritto mediante conferimenti in denaro, le azioni devono essere offerte in opzione agli azionisti proporzionalmente alla quota di capitale rappresentata dalle loro azioni.

Un tale precetto non appare condizionato dalle previsioni del n. 4 della stessa norma, secondo cui l' esclusione o la limitazione del diritto di opzione possono essere decisi, a certe condizioni, dalla stessa assemblea. Si tratta infatti di una deroga puntuale e chiaramente delimitata al principio sopra affermato e che esclude per ciò stesso la possibilità che il legislatore nazionale deroghi ad un tale principio al di fuori di questa specifica ipotesi.

Lo stesso discorso vale per il n. 5, ai cui sensi la legislazione di uno Stato membro può prevedere che lo statuto, l' atto costitutivo o l' assemblea, che delibera secondo determinate regole in materia di numero legale, di maggioranza e di pubblicità, possono dare il potere di escludere o di limitare il diritto di opzione all' organo della società che può decidere l' aumento del capitale sottoscritto nei limiti del capitale autorizzato.

Anche il contenuto di tale paragrafo, nella misura in cui stabilisce una precisa e ben limitata possibilità di deroga, non è infatti tale da fare ostacolo all' effetto diretto del n. 1 dell' art. 29 della Seconda direttiva.

10. Alla luce delle osservazioni sopra svolte, propongo pertanto alla Corte di rispondere come segue ai quesiti posti dal Tribunale di grande istanza di Atene:

"1) L' art. 25, n. 1, e l' art. 29, n. 1, della direttiva del Consiglio 77/81/CEE possono essere invocati dal singolo dinanzi ad un giudice nazionale nei confronti delle pubbliche autorità.

2) L' art. 25, n. 1, e l' art. 29, n. 1, della direttiva del Consiglio 77/91/CEE devono essere interpretati nel senso che essi ostano all' applicazione di una normativa che, rivolta ad assicurare il risanamento e la continuazione dell' attività di imprese che hanno un' importanza particolare dal punto di vista economico e sociale e si trovano, a causa del loro indebitamento, in una situazione eccezionale, consente:

a) di decidere l' aumento del capitale sociale con atto amministrativo e senza deliberazione dell' assemblea;

b) di decidere con atto amministrativo l' attribuzione delle nuove azioni senza tener conto delle quote di capitale detenute dai vecchi azionisti".

(*) Lingua originale: l' italiano.

(1) GU L 26, pag. 1.

(2) Gazzetta ufficiale della Repubblica ellenica n. A 107 dell' 8 agosto 1983, pag. 1926.

(3) GU L 76, pag. 18.

(4) Gazzetta ufficiale della Repubblica ellenica n. A 43, del 23 marzo 1990.

(5) Sentenza 30 maggio 1991 (cause riunite C-19/90 e C-20/90, Racc. pag. I-2691).

(6) In base a tale norma, che non è stata richiamata dal giudice di rinvio nel presente procedimento, gli Stati membri possono derogare in particolare agli artt. 25 e 29 se tali deroghe sono necessarie all' adozione o all' applicazione di disposizioni tendenti a favorire la partecipazione dei lavoratori o di altre categorie di persone stabilite dalla legislazione nazionale al capitale delle imprese.

(7) Sentenza 7 febbraio 1985 (causa 135/83, Racc. pag. 469), punto 28 della motivazione.

(8) GU L 61, pag. 26.

(9) Sentenza 25 luglio 1991 (causa C-362/89, Racc. pag. I-4105), punti 32 e 34 della motivazione.

(10) Sentenza 14 novembre 1985, Neumann (causa 299/84, Racc. pag. 3663), punto 12 della motivazione; sentenza 3 ottobre 1985, CBEM (causa 311/84, Racc. pag. 3261), punto 10 della motivazione.

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