EUR-Lex Access to European Union law

Back to EUR-Lex homepage

This document is an excerpt from the EUR-Lex website

Document 52006DC0643R(01)

Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo sull'applicazione della direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica

/* COM/2006/0643 def./2 */

52006DC0643R(01)

Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo sull'applicazione della direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica /* COM/2006/0643 def./2 */


[pic] | COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE |

Bruxelles, 15.12.2006

COM(2006) 643 definitivo/2

CORRIGENDUM:Annule et remplace le huitième paragraphe du point 2du document COM(2006) 643 final du 30.10.2006. Toutesles versions linguistiques sont concernées.

RELAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL PARLAMENTO EUROPEO

sull'applicazione della direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica

1. INTRODUZIONE

Sei anni fa è stata adottata una normativa CE destinata ad affrontare la discriminazione basata sull'origine razziale o etnica, la religione e le credenze, l'handicap, l'età e le tendenze sessuali. Essa ha avuto un impatto considerevole sull’aumento del livello di protezione contro la discriminazione per i cittadini dell’UE. In alcuni Stati membri si sono però verificati ritardi di recepimento di queste norme nella legislazione nazionale e sono necessari sforzi supplementari per garantire l’attuazione e l’applicazione efficaci di questa normativa.

La presente relazione concerne in particolare la direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica[1]. Si tratta della prima direttiva adottata dal Consiglio all'unanimità secondo il nuovo articolo 13 del trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° maggio 1999. Essa fa parte di una serie di proposte presentate dalla Commissione nel novembre 1999, tra cui la proposta di una seconda direttiva sulla discriminazione basata sulla religione e le credenze, l'età, l’handicap e le tendenze sessuali, e un programma di azione che offre un sostegno finanziario alle attività di lotta contro la discriminazione.

Piuttosto che fornire una descrizione dettagliata del recepimento delle disposizioni della direttiva 2000/43/CE negli Stati membri, la presente relazione mira a mettere in evidenza alcuni aspetti particolarmente problematici o importanti e a individuare buone prassi. Essa descrive soprattutto l’impatto della direttiva, i problemi legati al recepimento, la diffusione delle informazioni, la tutela dei diritti, il ruolo degli organi competenti in materia di parità, le parti sociali e ONG, azioni positive e raccomandazioni per il futuro.

In conformità all’articolo 17 della direttiva, gli Stati membri dovevano comunicare alla Commissione le informazioni necessarie per la presente relazione entro il 19 luglio 2005. Nonostante siano stati sollecitati nel maggio 2005, molti Stati membri non hanno rispettato la scadenza e alcuni non hanno risposto affatto. Nel dicembre 2005 l’Austria, la Polonia, il Regno Unito, la Francia, la Germania, la Lituania e il Portogallo non avevano ancora fornito alcuna informazione alla Commissione e lo stesso dicasi per le parti sociali, fuorché la CES. La Commissione ha consultato l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, le parti sociali[2] e società civile organizzata[3]. Hanno fornito informazioni anche alcuni organi nazionali competenti in materia di parità.

2. L’IMPATTO DELLA DIRETTIVA 2000/43/CE

Mentre la direttiva 2000/43/CE si fondava su alcuni concetti della normativa comunitaria che vietano la discriminazione basata sul sesso e sulla nazionalità, il testo finale adottato dal Consiglio era innovativo sotto molti aspetti. Oltre a coprire tutti i cittadini, la direttiva ha esteso la protezione contro la discriminazione ben oltre il tradizionale settore dell’occupazione coprendo ambiti come le prestazioni sociali, la sanità, l’istruzione e, soprattutto, l’accesso ai beni e ai servizi a disposizione del pubblico, tra cui gli alloggi. In alcuni Stati membri esistono problemi legati alla separazione tra la sfera pubblica e quella privata nonché percezioni di interferenza nella libertà di decisione o di conclusione dei contratti. Quando beni, servizi o impieghi sono oggetto di pubblicità, anche solo, ad esempio, mediante un avviso affisso su una finestra, essi sono a disposizione del pubblico e perciò rientrano nel campo d’applicazione della direttiva.

La direttiva 2000/43/CE contiene definizioni chiare e dettagliate della discriminazione. Mentre la definizione di discriminazione diretta indicata nella direttiva si ispira alla legislazione in materia di discriminazione basata sul sesso[4], la definizione di discriminazione indiretta si basa sulla giurisprudenza della Corte europea di giustizia relativa alla libera circolazione dei lavoratori[5]. Sia le molestie che l’ordine di praticare una discriminazione sono considerati forme di discriminazione. Va notato che l’obbligo di fornire protezione alle vittime, un elemento cruciale che consente alle persone di far valere i propri diritti, si applica a tutte le quattro forme di discriminazione: la discriminazione diretta o indiretta, le molestie e l’ordine di praticare una discriminazione.

Gli Stati membri dovevano introdurre le disposizioni dettagliate della direttiva sul rispetto dei diritti, tra cui la prescrizione che l’onere della prova spetta all’accusato se la presunta vittima presenta fatti che fanno supporre una discriminazione. Mentre gli Stati membri conoscevano quest’obbligo in materia di discriminazione tra donne e uomini nel campo dell’occupazione, la direttiva 2000/43/CE estende le norme relative all’onere della prova a nuovi campi come l’accesso ai beni e ai servizi.

La direttiva era innovativa per il fatto che ha obbligato gli Stati membri a creare un organismo per la promozione della parità di trattamento di tutti i cittadini, senza discriminazione basata sull'origine razziale o etnica (nel caso non ne avessero già uno). Alcuni Stati membri hanno preso l’iniziativa molto positiva di estendere il mandato dei loro organismi per la promozione della parità, in modo che possano occuparsi della discriminazione basata su motivi diversi dall’origine razziale o etnica (vedere sezione 3.2 sul ruolo degli organismi per la promozione della parità).

Tutti gli Stati membri, anche quelli che disponevano da molto tempo di una legislazione sulla discriminazione razziale, hanno dovuto apportare modifiche alle leggi nazionali per conformarsi alla direttiva (il Regno Unito, ad esempio, ha modificato le sue definizioni di discriminazione indiretta e di molestie). Alcuni Stati membri hanno introdotto una legislazione completamente nuova per la lotta contro la discriminazione, sebbene molti Stati membri dispongano di misure antidiscriminatorie nelle disposizioni costituzionali e nel codice civile e penale, il che può rendere difficile determinare la procedura da applicare.

Per alcuni dei 10 nuovi Stati membri il concetto di protezione delle persone contro la discriminazione basata “sull’origine razziale o etnica” era molto diverso dalle loro politiche volte a riconoscere e proteggere i diritti delle minoranze “nazionali”[6].

Fra gli altri problemi individuati figurano questioni fondamentali come le definizioni di discriminazione diretta e indiretta e di molestie nella legislazione nazionale, che in certi casi sono molto diverse da quelle contenute nella direttiva. Sembra che alcuni Stati membri autorizzino eccezioni al principio di non discriminazione più ampie di quelle permesse dalla direttiva. Esiste una serie di problemi legati al rispetto dei diritti delle vittime della discriminazione, come l’errato recepimento delle norme sull’onere della prova, il diritto delle associazioni di aiutare le vittime della discriminazione, le sanzioni e i mezzi di ricorso.

In alcuni casi, gli Stati membri hanno comunicato alla Commissione le misure di recepimento della direttiva 2000/43/CE nella legislazione nazionale con notevole ritardo o non hanno fornito alcuna informazione. La Commissione ha perciò avviato nei confronti di questi Stati procedure di infrazione a norma dell’articolo 226 del trattato CE, risolte per la maggior parte all’entrata in vigore della legislazione necessaria. Solo quattro Stati membri sono stati deferiti alla Corte di giustizia europea[7], che ha ritenuto abbiano violato gli obblighi previsti dal trattato per non aver recepito integralmente la direttiva nella legislazione nazionale. Tutti gli Stati membri hanno ora recepito la direttiva nella legislazione nazionale, ad eccezione del Lussemburgo, dove un progetto di legge è in via di adozione.

La Commissione sta esaminando i provvedimenti legislativi nazionali notificati dagli Stati membri, per valutare la loro conformità alla direttiva e garantire che le vittime di discriminazioni possano esercitare i propri diritti. Essa adotterà quindi le azioni necessarie per garantire un recepimento integrale e corretto.

Ulteriori informazioni sul recepimento della direttiva 2000/43/CE in ciascuno Stato membro, nonché link con pubblicazioni, legislazioni nazionali e organismi per la promozione della parità di trattamento sono disponibili all’indirizzo (http://europa.eu.int/comm/antidiscrimination).

3. QUESTIONI CHIAVE

3.1 Diritto di riparazione

Le informazioni fornite dalle ONG e dai governi indicano chiaramente che molte vittime di discriminazioni non si rivolgono ai tribunali con le loro denunce a causa dei costi e per timore di subire conseguenze negative. Si rivolgono piuttosto alle ONG o agli organismi per la promozione della parità di trattamento , da cui in genere possono ottenere informazioni e consigli più rapidamente e gratuitamente.

L’articolo 7, paragrafo 2 della direttiva stabilisce che le associazioni devono poter aiutare le vittime di discriminazioni ad avviare un’azione legale, ma che gli Stati membri possono determinare quali associazioni abbiano un legittimo interesse ad avviare questo tipo di azioni. Nella maggior parte degli Stati membri le associazioni possono aiutare le vittime o rappresentarle in giudizio, ma alcuni paesi hanno introdotto regole severe riguardanti le attività delle associazioni in questo campo.

Dalle statistiche fornite dagli Stati membri e dagli organismi per la promozione della parità di trattamento emerge che la maggior parte delle denunce di discriminazione presentate ai tribunali nazionali e/o agli organismi per la parità di trattamento riguarda l’occupazione e in secondo luogo la fornitura di beni e servizi e gli alloggi. Secondo le statistiche, nella maggioranza dei dieci nuovi Stati membri i Rom sono il gruppo più rappresentato nelle denunce. Anche in Irlanda sono numerose le denuncie della comunità nomade. Il numero di cause presentate dai Rom indica che la direttiva è utilizzata efficacemente per affrontare la discriminazione contro questo gruppo.

3.2. Organismi per la promozione della parità di trattamento

Anche se vari Stati membri disponevano già di organismi per la promozione della parità di trattamento, la maggior parte di loro ha creato un nuovo organismo o ha aumentato i poteri dell’organismo esistente. Alcuni Stati membri (Belgio, Cipro, Svezia, Irlanda e Paesi Bassi) sono andati al di là delle prescrizioni della direttiva 2000/43/CE ed hanno istituito organismi per la promozione della parità di trattamento che si occupano di tutte le cause di discriminazione coperte dalla normativa europea antidiscriminazione e/o di strumenti più generali per la protezione dei diritti umani. La direttiva esige, come minimo, che l’organismo sia in grado di fornire un’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni, di svolgere inchieste indipendenti in materia di discriminazione, di pubblicare relazioni indipendenti e di formulare raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni.

Gli organismi per la promozione della parità di trattamento degli Stati membri sono costituiti da mediatori, commissioni e ispettorati del lavoro, che talvolta si dividono i compiti previsti dalla direttiva. Ad esempio, in Grecia l’ispettorato del lavoro è responsabile della promozione della parità di trattamento nel settore dell’occupazione, mentre il mediatore si occupa di questioni che non riguardano l’occupazione, redige relazioni e formula raccomandazioni. A Cipro, in Slovenia e in Austria il compito di assistere le persone vittime di discriminazioni è affidato a uno speciale rappresentante legale piuttosto che a un organismo per la promozione della parità.

Dalle informazioni fornite risulta chiaramente che gli organismi per la promozione della parità di trattamento offrono consulenze legali alle persone vittime di discriminazioni, ma sostengono solo un numero limitato di cause in tribunale. Queste sono scelte in base all’importanza dell’aspetto legale in questione, alla disponibilità di altri aiuti per la vittima (di un sindacato o un’associazione, ad esempio) e naturalmente alle risorse finanziarie e umane dell’organismo. Vari organismi per la promozione della parità hanno lo scopo preciso di sostenere unicamente le controversie strategiche. Un’altra funzione svolta da alcuni organismi per la promozione della parità di trattamento è quella di fornire pareri, su richiesta delle persone fisiche o giuridiche, in merito alla conformità di una data pratica alla legislazione nazionale antidiscriminazione. Nella maggior parte dei paesi la decisione o il parere dell’organismo per la promozione della parità di trattamento non è giuridicamente vincolante, ma in generale pare venga seguito. I privati possono sempre adire un tribunale per ottenere una decisione vincolante giuridicamente. In Danimarca, se l’organismo per la promozione della parità di trattamento ritiene che sussista una discriminazione illegale, può raccomandare la concessione di un’assistenza legale, consentendo al denunziante di adire un tribunale senza dover sostenere l’onere finanziario.

In alcuni Stati membri si dà maggiore importanza alla promozione della parità di opportunità e alla prevenzione della discriminazione che al sostegno legale dei singoli denunzianti. In Finlandia, ad esempio, il mediatore per le minoranze è un organismo per la promozione della parità di trattamento impegnato in numerose attività di sensibilizzazione. In Belgio, a Cipro e nel Regno Unito il governo o gli organismi per la promozione della parità di trattamento pubblicano guide specifiche per i lavoratori, non solo per aiutarli ad adempiere obblighi giuridici, ma anche per renderli più coscienti del modo di affrontare i problemi di discriminazione.

Le modalità di finanziamento sono un aspetto importante della capacità di funzionare di un organismo per la promozione della parità di trattamento (le risorse finanziarie e umane di cui dispongono questi organismi variano considerevolmente da uno Stato membro all’altro). Un altro aspetto è specifico degli Stati membri che hanno una struttura governativa federale e regionale: se l'organismo per la promozione della parità di trattamento esiste su uno solo di questi livelli, può essere non essere in grado di agire in questioni che rientrano in altre sfere di competenza.

3.3. Diffusione dell’informazione

L’importanza dell’informazione sul diritto a non essere discriminati è stata una constatazione prioritaria della consultazione pubblica organizzata dalla Commissione nel 2004 nell’ambito del Libro verde sulla Uguaglianza e non discriminazione nell’Unione europea allargata[8]. Non ha senso proteggere i diritti legali se le persone non li conoscono, come rileva l’articolo 10 della direttiva, che stabilisce che gli Stati membri devono portare all’attenzione di tutte le persone interessate le disposizioni della legislazione nazionale adottate in applicazione della direttiva.

Non si hanno informazioni sufficienti sul modo in cui quest’obbligo è stato adempiuto. Varie iniziative interessanti sono però state realizzate, tra cui una linea telefonica di pronto intervento nei Paesi Bassi. In Portogallo deve essere affisso in tutti i posti di lavoro un avviso con i nuovi diritti. Nelle informazioni trasmesse alla Commissione, gli Stati membri hanno fatto riferimento al programma di azione comunitario per la lotta contro la discriminazione, in particolare alla relativa campagna d’informazione. Nel quadro di questo programma, in molti Stati membri sono state organizzate conferenze nazionali sulla lotta contro la discriminazione, sono stati pubblicati opuscoli, cd e pieghevoli, è girato un “camion antidiscriminazione” e sono state finanziate varie attività, come la maratona di Roma con lo slogan “Io corro contro il razzismo”. In Finlandia ha riscontrato grande successo il sito della campagna d’informazione, con 10.000 consultazioni al mese. La Commissione ha finanziato numerose iniziative di formazione di ONG, avvocati e giudici degli Stati membri (e dei paesi candidati) sulle direttive per la lotta contro la discriminazione.[9]

3.4. Il ruolo delle parti sociali e delle ONG

La direttiva sottolinea il ruolo delle parti sociali nella promozione della parità di trattamento. L’articolo 11 stabilisce che gli Stati membri devono incoraggiare il dialogo tra le parti dell’industria al fine di promuovere il principio della parità di trattamento, fra l'altro attraverso contratti collettivi, codici di condotta e scambi di buone pratiche. Dalle informazioni fornite dagli Stati membri risulta che quest’obbligo è stato assolto in diversi modi. Alcuni Stati membri (p.es. i Paesi Bassi) hanno sovvenzionato progetti realizzati dai sindacati in cooperazione con i membri delle minoranze etniche o con l’obiettivo di promuovere la diversità. In Belgio l’inclusione di clausole antidiscriminatorie nei contratti collettivi costituisce uno strumento efficace per la lotta contro la discriminazione. In Italia l’organismo per la promozione della parità di trattamento UNAR offre ai rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati formazioni volte a combattere la discriminazione e a incoraggiare la diversità.

Più in generale, il ruolo delle parti sociali nella negoziazione delle strategie e della legislazione antidiscriminazione è ben definito in alcuni Stati membri, con strutture di consultazione operanti da molto tempo, come i sistemi tripartito in Danimarca e in Lettonia. In altri paesi, anche se le parti sociali devono essere consultate in materia di legislazione sociale, esse non partecipano attivamente alla promozione della politica di lotta contro la discriminazione.

La Confederazione europea dei sindacati CES nota che i governi tendono a favorire il dialogo sui problemi di discriminazione con le ONG piuttosto che con le parti sociali, anche se dalle informazioni fornite dagli Stati membri emerge una situazione meno netta.

I sindacati svolgono anche un ruolo preciso nell'aiutare i loro membri che denunciano discriminazioni a norma dell’articolo 7, paragrafo 2 della direttiva. In Portogallo il diritto di rappresentare un lavoratore in una causa di discriminazione è limitato ai sindacati e in Svezia i sindacati sono i principali soggetti abilitati ad intraprendere un’azione legale.

3.5. Integrazione di genere e discriminazione multipla

Nonostante la Commissione abbia chiesto specificamente informazioni sull'integrazione di genere agli Stati membri (conformemente all’articolo 17, paragrafo 2, della direttiva), pochi hanno risposto. Il CES ha osservato che gli Stati membri non sembrano aver tenuto conto sistematicamente dell'integrazione di genere nel recepimento della direttiva 2000/43/CE. In Slovenia un esperto di discriminazione basata sul sesso ha partecipato all’elaborazione della legge sulla parità di trattamento e in Danimarca il ministro responsabile della parità fra donne e uomini ha incoraggiato nel 2005 l'uguaglianza tra le minoranze etniche.

La piattaforma AGE ha attirato l’attenzione sul rischio di una discriminazione multipla a cui sono esposte le donne anziane delle minoranza etniche e l’ILGA si è particolarmente preoccupata per la complessa sovrapposizione dell’identità religiosa e dell’orientamento sessuale. L’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia ha fatto notare che la tendenza a creare singoli organismi per la promozione della parità di trattamento che si occupano di tutte le cause di discriminazione ha il vantaggio di dare la possibilità di affrontare meglio la discriminazione multipla, ma presenta il rischio che alcune cause di discriminazione possano essere trascurate se non si aumentano le risorse. L’Osservatorio ha esaminato soprattutto l’impatto della direttiva sull’accesso all’assistenza sanitaria delle donne Rom.

La Commissione è a conoscenza del problema largamente irrisolto della discriminazione multipla e ha avviato uno studio su questo tema nell’ambito del suo programma di lavoro per il 2006, in cui saranno esaminate le azioni intraprese negli Stati membri in questo settore e saranno formulate raccomandazioni.

3.6. Azione positiva

Come la Commissione ha affermato nella sua comunicazione del 2005 sulla non discriminazione e le pari opportunità per tutti[10], gli svantaggi persistenti che affliggono da tempo determinate categorie di persone sono tali che non basta un diritto legale alla non discriminazione e può risultare necessario intraprendere un’azione positiva per migliorare la parità di opportunità.

L’articolo 5 della direttiva dispone che, allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o a compensare svantaggi connessi a una determinata razza o origine etnica. A tale riguardo occorre sottolineare la differenza tra le misure d’azione positiva, che sono autorizzate, e le cosiddette misure di “discriminazione positiva”, che non sono compatibili con la direttiva.

Le misure d’azione positiva sono volte ad assicurare l’effettiva e completa parità mediante la prevenzione o la compensazione degli svantaggi dovuti al fatto di avere una data origine razziale o etnica. Esse possono comprendere, ad esempio, formazioni specifiche per le persone appartenenti a gruppi che generalmente non hanno accesso a queste formazioni, oppure provvedimenti particolari per garantire che certi gruppi razziali o etnici siano pienamente informati delle offerte di lavoro, ad esempio con annunci su pubblicazioni destinate a questi gruppi.[11] Le misure di “discriminazione positiva”, invece, danno una preferenza automatica e assoluta (ad esempio nell’accesso all’occupazione) ai membri di un particolare gruppo, rispetto ad altre persone, unicamente perché appartengono a tale gruppo.

L’atteggiamento nei confronti dell’azione positiva varia considerevolmente da uno Stato membro all’altro. Nei Paesi Bassi è permessa solo in caso di una comprovata discriminazione strutturale basata su sesso, razza o handicap. In Slovacchia l’azione positiva è considerata un mezzo specifico per lottare contro l’esclusione sociale dei Rom, un approccio controverso che è stato sottoposto alla Corte costituzionale e giudicato incostituzionale[12]. Anche in Spagna esiste un programma d’azione positiva per i Rom. In Finlandia l’azione positiva è destinata specificamente ai Lapponi. La rete europea contro il razzismo ENAR ha invitato a rafforzare le disposizioni in materia di azioni positive, in modo da renderle obbligatorie per i gruppi più vulnerabili. In Ungheria si concedono borse di studio speciali per promuovere l’istruzione secondaria e superiore degli studenti Rom.

In vari Stati membri (Repubblica ceca, Finlandia, Irlanda e Cipro) sono in vigore misure speciali nel contesto particolare della formazione in materia di antidiscriminazione e diversità per la polizia. Il concetto di promozione positiva dell’uguaglianza è applicato in alcuni paesi. Nel Regno Unito e in Finlandia la autorità pubbliche hanno l'obbligo giuridico di promuovere attivamente l’uguaglianza. Secondo la giurisprudenza irlandese, i datori di lavoro possono essere tenuti a garantire di non esercitare alcuna discriminazione per motivi razziali contro particolari dipendenti, ad esempio se questi hanno difficoltà a comprendere i loro diritti per cause linguistiche o culturali[13].

CONCLUSIONE

La direttiva 2000/43/CE rappresenta un grande progresso nella lotta contro la discriminazione razziale in tutta l’UE. Anche se in tutti gli Stati membri esistevano già norme in materia di uguaglianza e non discriminazione, la maggior parte di loro ha dovuto modificare in modo sostanziale la legislazione esistente o emanare nuove leggi per recepire la direttiva 2000/43/CE. Ciò spiega il ritardo con cui molti Stati membri hanno proceduto al recepimento della direttiva, concluso ora nella maggioranza dei paesi.

Il nuovo quadro giuridico è in vigore da un po’ più di tre anni, un periodo non abbastanza lungo per poter valutare tutti i suoi effetti o il suo potenziale. Finora i tribunali nazionali non hanno rinviato alcuna causa a titolo pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, che è la sola a poter formulare orientamenti definitivi sull’interpretazione delle disposizioni della direttiva. Le sentenze future consentiranno agli Stati membri di fornire una protezione chiara e uniforme contro la discriminazione in tutta l’Unione europea.

L’articolo 17 della direttiva 2000/43/CE dispone che la relazione della Commissione europea sull’applicazione della direttiva "contiene all'occorrenza proposte volte a rivedere e aggiornare la direttiva". La Commissione non ritiene per il momento necessario presentare tali proposte, in considerazione dell’insufficiente esperienza nell’attuazione della direttiva dalla sua entrata in vigore e dell'assenza di una giurisprudenza della Corte di giustizia europea.

Nei prossimi anni si tratterà di garantire il recepimento e l’applicazione completi ed effettivi della direttiva. Ciò richiederà l’adozione di meccanismi e metodi di osservazione e descrizione dell’impatto delle misure di attuazione nazionali. In questo contesto è importante sviluppare una base statistica e altri indicatori. La scarsità dei dati etnici nella maggior parte degli Stati membri può però costituire un ostacolo per un adeguato controllo dell’applicazione della normativa comunitaria.

È stato obiettato che la rilevazione di dati di questo tipo violerebbe le disposizioni della direttiva comunitaria sulla protezione dei dati[14]. Quest’argomentazione non corrisponde però alla realtà. La direttiva vieta in generale il trattamento di dati personali sensibili. Sono tuttavia previste alcune deroghe a questa regola, in particolare se “ la persona interessata abbia dato il proprio consenso esplicito a tale trattamento” [15] , oppure se “ il trattamento sia necessario, per assolvere gli obblighi e i diritti specifici del responsabile del trattamento in materia di diritto del lavoro” [16]. Inoltre, “purché siano previste le opportune garanzie, gli Stati membri possono, per motivi di interesse pubblico rilevante, stabilire ulteriori deroghe” [17]. Spetta quindi agli Stati membri decidere se i dati etnici devono essere raccolti per produrre statistiche destinate alla lotta contro la discriminazione, a condizione che siano rispettate le misure di salvaguardia stabilite nella direttiva sulla protezione dei dati.

La Commissione riconosce anche che la legislazione da sola non basta a prevenire la discriminazione e a promuovere l’uguaglianza. Essa ha presentato una serie di proposte di azioni supplementari in questo campo nella sua comunicazione intitolata " Una strategia quadro per la non discriminazione e le pari opportunità per tutti" adottata nel giugno 2005[18]. In particolare, il 2007 è stato proclamato “Anno europeo delle pari opportunità per tutti”, un modo molto efficace per sensibilizzare al diritto alla non discriminazione, che avrà un effetto catalizzatore per le azioni a livello nazionale. L’effettiva applicazione della legge, associata a misure strategiche complementari a livello nazionale e comunitario, costituisce la chiave per ridurre la discriminazione basata sull’origine razziale ed etnica.

[1] GU L 180 del 19.07.2000, pag. 22.

[2] La Confederazione europea dei sindacati (CES), l’Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea (UNICE), il Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica e delle imprese di interesse economico generale (CEEP), la Confederazione europea dei quadri (CEC), l’Unione europea dell'artigianato e delle piccole e medie imprese (UEAPMI) & EUROCADRES (che rappresenta il personale direttivo).

[3] La Piattaforma delle ONG del settore sociale, la Rete europea contro il razzismo (ENAR), il Forum europeo sulla disabilità (EDF), l’Associazione internazionale gay e lesbiche (ILGA), la Piattaforma per gli anziani (AGE Platform) e il Centro europeo per i diritti dei Rom.

[4] La direttiva 97/80/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 riguardante l'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (GU L 14 del 20/1/1998, pag. 6).

[5] Causa C-237/94, OFlynn, Racc. 1996 I-02617 – La direttiva 2002/73/CE ha ora inserito questa definizione nell’ambito della discriminazione sessuale (GU L 269 del 5.10.2002, pag. 15).

[6] Per esempio le minoranze ungheresi ed italiane in Slovenia.

[7] Sentenza contro il Lussemburgo nella causa C-320/04 e la Finlandia nella causa C-329/04 del 22.02.05, sentenza contro la Germania nella causa C-329/04 del 28.04.05, sentenza contro l’Austria nella causa C-335/04 del 4.05.05.

[8] COM(2004) 379 def.

[9] Vedasi p.es. www.era.int.

[10] COM(2005) 224.

[11] Vedasi, per analogia, la sentenza della Corte di giustizia europea del 29 marzo 2000 nella causa C-185/97, Coote.

[12] Sentenza del 18.10.2004 (PL.US.8/04).

[13] Campbell Catering Ltd v Rasaq.

[14] Direttiva 95/46/CE, GU L 281 del 23.11.1995, pag. 31.

[15] Idem, articolo 8, paragrafo 2, lettera a).

[16] Idem, articolo 8, paragrafo 2, lettera b). Vedasi anche articolo 8, paragrafo 4.

[17] Idem, articolo 8, paragrafo 4.

[18] COM(2005) 224 def. del 1° giugno 2005.

Top